martedì 26 aprile 2016

ALCUNI INCIPIT DI ROMANZI MIEI

Visto che è diventato una moda, a quanto mi dicono fruttuosa, spiattellare su blog i propri capolavori mi sono detto che potevo umilmente mettere sotto il naso dei miei pochi ma buoni followers gli incipit di alcuni miei romanzi, editi od inediti oppure addirittura non ancora terminati. Un vezzo? Una becerata? Lo stabiliscano coloro che mi leggeranno.


1) Incipit di MARTEDÌ DOPO L'AUTUNNO, pubblicato da Baku Editore a Milano nel 2008

Erano tronchi d'albero ben sagomati, infilati nel suolo uno accanto all'altro, ad altezze leggermente diverse, come una palizzata sotterranea. li aveva osservati attentamente. Spiccò un salto e planò coi due piedi uniti sopra uno dei più larghi, malgrado l'età, l'uomo anziano era rimasto abbastanza agile. Spiccò un secondo salto e atterrò sopra una robusta cassa. "Questa però non l'ho inchiodata io", pensò e gli venne da ridere. La giovane femmina di elefante cominciò ad inquadrarlo meglio dentro la sua grossa pupilla sinistra. Se non fosse stata incatenata per una zampa si sarebbe già tirata indietro. Era inquieta perché il vento tirava al contrario e non riusciva a fiutarlo. Volse la testa per inquadrarlo anche con l'occhio destro.
Fatto come Uomo, non pensò, ma seppe, cattivo forse.
Nessuno era mai arrivato così vicino al fossato di sicurezza.
Troppo vicino, non pensò, ma temette.
La femmina di elefante volse la testa di qua e di là per vedere se arrivava Uomo buono, come tutti i giorni, ma lo stomaco sazio le fece capire che era ancora troppo presto. Con la proboscide aspirò con forza l'aria, ma le arrivarono solo odori vicini, il vento tirava ancora al contrario.
L'uomo anziano non si curava dell'elefante. Stava in bilico sulla cassa e pensava a come tutto era potuto accadere, a quando tutto era incominciato. Ma gli venivano in mente solo un paio di flashback che riguardavano quel posto e le due donne più importanti della sua vita, Ima e Christine.
C'era voluto il suo matrimonio in Germania per far spostare sua madre da Santa Marinella, ma la gente, i suoi amici di laggiù, chissà cosa avrebbero pensato se lei non avesse partecipato, quindi si era regalmente mossa. Non conosceva la sposa; c'erano stati abbracci e baci ed esclamazioni di meraviglia quando Ima aveva iniziato a fare sfoggio del suo hochdeutsch, del suo tedesco perfetto, anche se un po' duretto, retaggio della sua infatuazione per il Duce e quindi, di riflesso, anche per il Führer. Non c'era mai stato feeling tra le due donne. Il giorno prima delle nozze l'uomo anziano aveva portato sua madre in quello zoo, che era molto bello, prima di andare a pranzare in un ristorante italiano vicino al Teatro.
-Ti piace? -le aveva chiesto in modo brusco.
-Bello qui -gli aveva risposto sorniona lei. -Hanno più animali qui a Karlsruhe che noi a Roma.
-Intendevo Christine.
Non poteva rispondere "è bella quanto me, solo più giovane", questo mai. Disse, invece:
-Carina. Una linguetta veloce. Bella voce. Però....
Qui fece la solita pausa cattiva, perché sapeva di dare sempre tanto fastidio al figlio.
-Però che cosa? -sbottò lui, infatti.
-Sculetta troppo la tua somarella; io non avevo bisogno di farmi venire la scoliosi per attirare sguardi. -Il che era un avvertimento e una minaccia.


2) Incipit di FRANCOFORTE SUL MENO ANDATA E RITORNO pubblicato da Arduino Sacco Editore a Roma nel 2011

Sapeva di sognare. Tentava di svegliarsi senza mai riuscirci. Quel sogno era il suo tormento sin da quando era giovane: c'era qualcuno che lo inseguiva, lo sentiva ansimare sempre più da presso, ma non riusciva a vederlo. Le gambe gli diventavano pesanti e poteva muoverle molto lentamente, come se fossero impantanate nella mota.
Ogni volta gli sembrava di ripetere la stessa scena al rallentatore: sentiva l'inseguitore ormai vicinissimo, ma per quanti sforzi disperati facesse non riusciva a muovere le gambe velocemente. Alla fine crollava esausto a terra e la bocca gli si riempiva di terriccio e di qualcos'altro che cercava di strappare subito fuori, senza riuscirci: erano capelli, oppure erba o crini di cavallo. Più ne tirava fuori più la bocca ne era di nuovo piena. Dovevano essere proprio crini di cavallo, perché da piccolo lo facevano sempre dormire sopra un materasso di crini di cavallo per via della sua schiena, che era allora un po' debole, e ogni tanto se ne trovava un paio in bocca, duri come quelli del suo sogno.
Tentava di svegliarsi, ma nella bocca sentiva quella terra e quei crini moltiplicarsi. Cercava di aprire gli occhi, di tirar fuori le gambe dal letto, di buttare via le coperte, ma l'inseguitore era ormai su di lui. Oltre a quello dei suoi passi sentiva adesso anche un altro rumore, monotono, continuo, sempre più distinto.
Aprì gli occhi di colpo, zuppo di sudore. Un attimo dopo riprese coscienza della realtà: il rumore monotono del treno, che lo aveva aiutato ad addormentarsi, gli aveva anche permesso di uscir fuori dal suo incubo.


3) Incipit da SEBASTIANA CAMBIA PELLE, inedito, finito di scrivere nel febbraio 2014

Continuava a guardare le schegge di vetro di un'anta della cristalliera, che suo marito aveva spaccato con un cazzotto prima di uscire. Guardava quelle schegge sparpagliate sul pavimento ai suoi piedi e si chiedeva quando, come e perché le si fosse incominciata ad incasinare la vita.
Con uno spazzolone e la pattumiera Sebastiana aveva raccolto i vetri. Su qualche frammento c'erano tracce di sangue. Ancora sangue, come quattro anni prima a Bibione.
Tutto per colpa di un maledetto giornale sportivo. I quindici giorni di vacanza finivano alle dieci di quel sabato mattina; le due macchine erano ormai cariche a dovere di valige e pachi assortiti, quella di Sebastiana in pole position davanti al cancello della villetta dove avevano soggiornato due settimane, quando suo padre aveva deciso di andare a comprare il suo giornalaccio color rosa.
-Un minuto e torno.
Era sparito veloce dietro l'angolo del bar più vicino: l'edicola era proprio di fronte, dall'altro lato della strada. Sebastiana aveva allargato le braccia fissando sua madre, già seduta all'interno della seconda macchina accanto al posto di guida vuoto.
Uno stridore di freni e di ruote che si aggrappano all'asfalto, un botto e un silenzio innaturale. Poi tutti che accorrevano, certamente per curiosare. Si era mossa anche Sebastiana per portarsi via suo padre, che di sicuro stava in prima fila.
In primissima, si poteva dire al centro della scena, disteso in terra in modo scomposto e a ginocchia incrociate. Quello aveva visto Sebastiana: un mucchio di gente sgomenta e suo padre demolito, con la faccia contro un marciapiedi di travertino.
Raccogliendo i frammenti di vetro Sebastiana decise di datare l'inizio di tutte le sue disgrazie da quel lontano sabato mattina di Bibione. Ma non poteva adesso infilare tutta la colpa nelle scarpe di suo marito. Samuele era stato l'unico a sostenerla in quei primi giorni durissimi, l'unico dopo il funerale a difenderla dagli attacchi di suo fratello, che l'accusava di tutto, mentre sua madre sotto sotto gli dava ragione, come sempre.
Quel pomeriggio, appena finito di tumulare il padre nella tomba di famiglia, Joachim aveva messo su una gran cagnara, temendo che il vecchio avesse lasciato a Sebastiana la maggior parte di quel poco che ormai restava del loro patrimonio. Ancora una questione di precedenza, di primato, che Joachim pretendeva di vantare sulla sorella, anche se lei era venuta al mondo due ore prima. Ma il professore di latino e greco Pietro Grünewald non aveva ancora messo in conto di crepare, per questo non aveva mai fatto un testamento. Arrabbiatura inutile quella di Joachim: avrebbero diviso tutto a metà.


4) Incipit di LA STANZA SOSPESA  ancora incompiuto

Rallentò il passo solo quando fu arrivato in Piazza della Repubblica. Gli era venuto il fiatone: tutta la salita di via IV Novembre e poi Via Nazionale a passi da leone, con la gente che si fermava a guardarlo  poi girava la testa intorno pensando a una telecamera nascosta, facevano almeno quattro chilometri con un cappuccino e due brioche prese alla stazione tre ore prima.
"Adesso ho bisogno di un po' d'aria fresca", pensò e lì sul marciapiedi non ce n'era. Per questo attraversò il traffico a quattro colonne in quel punto della rotonda, schivando a pelo macchine e motorini, e sedette sul bordo della fontana sotto una delle quattro Naiadi bronzee di Mario Rutelli.
Lo scroscio dell'acqua copriva in parte il ronzio dei motori, ma il puzzo che usciva dai tubi di scappamento dopo qualche minuto era diventato intollerabile. Riattraversò la marea di macchine, che, pur procedendo a passo d'uomo, davano la sensazione della mandria di bisonti che tutto travolgeva di un film tridimensionale, che aveva visto qualche anno prima.
Cercò un bar e si infilò nel primo che incontrò. Gli era venuta una fame boia. Ordinò due tramezzini e una birra. A metà birra si fece altri tre tramezzini: se ne sarebbe pappati una diecina, ma non aveva abbastanza soldi in tasca. Si era seduto ad un tavolo d'angolo. Di fronte aveva una specchiera alta e stretta. Ci vide riflessa la mimica della sua faccia mentre che masticava. Finì la birra e si deterse la bocca con un tovagliolo. Riguardò nello specchio. Gli apparve il viso di un precario licenziato di fresco e incazzato nero.
"Bel lunedì dei cazzi e dei controcazzi", pensò. "Il degno inizio di una meravigliosa settimana di merda".
Non lo avevano nemmeno lasciato entrare nel suo ufficio.
-Ti vuole il capo.
"Mi vorrà dare del lavoro speciale per tutta la settimana", aveva pensato, "e farmi le sue solite mille raccomandazioni del cavolo". Così era avvenuto all'inizio di ogni settimana da ormai tre anni e mezzo.
Invece si era sbagliato. Lo aveva chiamato per dirgli che il contratto non gli sarebbe stato più rinnovato.
-Ma come? Ho fatto un culo grande così per laurearmi! Mi avevate promesso di assumermi fisso.
-Gradi, io dirigo solo l'Ufficio legale della Compagnia. Per quanto mi riguarda lei sarebbe potuto arrivare alla pensione qui dentro. Ma non decido io, e nemmeno il presidente qui a Roma. Le Assicurazioni Generali sono ormai un mostro a quattro o cinque teste e chi decide sta in un'altra nazione.
-Io ci facevo affidamento però: Mio padre ha fatto un credito per restaurare casa: come lo aiuto adesso?
-Gradi, mi dispiace tanto. Si prenda da adesso le sue ferie e si cerchi subito un altro lavoro.
"Un altro lavoro con la crisi che c'è in giro! Stanno tutti ad aspettare me a braccia spalancate. Adesso che cazzo racconto a mio padre?" aveva pensato mentre scendeva lo scalone.



*****



giovedì 14 aprile 2016

LETTERA FAMILIARE

PAGINA  PRIMA

Appena il sole ha girato l'angolo della siepe
dell'orto, riaccende il triste faggio
di nuovo verde e la rossa corteccia di nuovo
rosso più duro. Speditamente
scendono siepi da dietro il vecchio
muro del pollaio, l'intonaco azzurro della casa
è quasi bianco. Il vecchio pino di mare, il fosso
delle rane già buio, la ciminiera dei cementi spenta
fin d'allora, mia madre assai giovane e bionda
che ci chiamava nascosti, cogli occhi alla città
che scoloriva il suo giorno nel rosso
schiumare dell'acqua fuori il porto, Freschi di vita
era uno sguardo, il silenzio, già tutto; e le parole
pensate, mai dette. E tu fratello già chinavi il capo
seppellendoti in cuore ogni piega dell'erba
ed ogni sguardo di quell'ultimo giorno.

Quando venne la sera
eravamo ancora uniti noi due.
Poi la notte, zigzagando tra le betulle, venne 
a giacere ai nostri piedi,
e noi parlammo a lungo, senza vederci,
perché tutto di noi sapevamo.
Giunse il momento di parlare di morte e di come
tu avresti voluto andare, guardando il cielo.
Ma niente di nuovo tu mi dicevi, fratello.
Qui, nel mio arido Nord, dove ho trasferito
la mia anima scabra, schiva delle
confortevoli carezze che mani ignude,
amiche, vorrebbero donarle,
qui di antico ho portato le tue parole di sempre,
aperte dentro il mio cuore.
Il colore dei capelli e degli occhi è mutato: 
abbiamo entrambi una mano
sul cuore e la vecchiezza non è più una promessa.

Chiesero a me
come mi vedo, passati tanti anni da allora.
Io, credo,
sono rimasto quello
dagli occhi stanchi,
fissi
fuori dal balcone,
sui tetti grigi, sull'asfalto nudo,
nella sera ascendente dalla piazza.



PAGINA  SECONDA

Il gallo ha cantato ancora tre volte;
era il giorno del pentimento
e nessuno ha chiesto di me,
ma era scarna la mia valle, e il pane e il vino
pietrificati, il sole ignoto
e il vento una palude.
Soltanto a te, tenerissima madre, era rimasto
uno sguardo pietoso per il figlio fuggente,
esule, vagabondo e insicuro
tra i violentati formicai,
timoroso delle erbe e delle pietre.

Aggrappavi i tuoi occhi alla schiena del figlio
fuggitivo, tenerissima madre, senza una croce,
una parola santa, un pane biondo 
nelle tasche,
e il vecchio quaderno lì sul tavolo
della cucina, con la dedica a te
di pochi versi scritti in fretta a matita.

Sulla mia vecchia strada hanno spalmato nuovo asfalto.
Non chiedere di me, madre.
Dovrà cantare ancora mille volte il gallo
perché il vento notturno ti porti
la mia voce mutata. Adesso
il mio silenzio dà germogli di sale
alla tua porta; cresce di notte il granoturco
nel tuo giovane campo in fretta, ti taglia l'aria
dell'alba il fischio
del marinaio che va all'imbarco.



PAGINA  TERZA

Soffia bruma e lacrime notturne
il vento di levante sui nostri scogli marciti;
tu lo ricordi, padre, io e te soli tra il fischio cieco
del vento, nel fremito dei lampioni arancione
le nostre ombre giganti, una manciata di salsedine sul
collo e il petto ignudi, gli occhi pieni di spazio.

E si sentiva
modulato
il colloquio dei morti,
un lamento per chi non sapeva:
per me, per te un'attesa, o meglio
un vaticinio, 
e tu coglievi di spuma in spuma lo sbalzo di quelle
alternanze di silenzi e di voci.

Un antico messaggio sta sospeso nell'aria,
è una piuma incolore
e tu già ridi:
è il paradigma segreto della nostra vita in comune
che costudiamo in cuore. 
È quando tornasti dalla guerra:
in disperato silenzio
stringevi al petto mia madre, ma era me che cercavi
nascosto nell'ombra della stanza.
Eri risorto
e a me scioglievi dal seno
frammenti di lacrime, a lei l'ultimo
lembo della sua giovinezza. 

Ora che lentamente hai disceso la strada 
del tuo colle, quale
dei miei messaggi porti via con te, ripiegato
tra vecchie foto ingiallite?
Quali dei nostri giorni passati insieme?
Quali parole e quali gesti e quali immutabili dolori?

Cosa sai tu ora di me?

Mi saluti alla voce da lontano, e il gesto stanco del
tuo braccio levato che ridiscende al fianco
mi ricorda
quando lasciavi scorrere la mano tra i miei capelli,
bambino sporco, che scarta la stagnola
del tuo dono del giorno.

Io, che me ne resto qui
nella patria degli altri
naufrago nella mia pigra indolente paura,
non posso dirti niente.

A cavallo di un muro ai margini della tua collina
ormai ti vedo, e non hai ali,
né uccelli migratori né rami freschi
in viso.



PAGINA  QUARTA

Dal sole e dall'aria,
da una parete vuota pende
il mio silenzio vecchio.

Devastate le aree del mio pensiero
in ricerca d'oro e di memorie,
di acque lacustri e di biade; evaso
dai sedimenti più bassi dello zolfo, dei carbonati,
scivolando in umide cantine
simili a cimiteri deserti, saltellando come un bimbo
che ha marinato la scuola, tra concimi,
tegole di marmo, specchi rotti, auto usate,
pianti di orfane e sonno di portieri dei formicai,
ho veduto la strada grigio-oro da dove son venuto.
Ho ritrovato le mie orme parallele come pietre mummificate
da me scolpite nel pianto e nella pioggia:
adesso che sono solo
le mie mani sono aperte sotto le nuvole,
larghe come vele cariche di vento.

Un sapore di occhi e di palpebre di terra
lambito dall'asfalto; un rumore di legni spostati, di alte
testate di letti duri, di quadri abbattuti, di formiche
crepitanti al sole sulle finestre al mattino. Un vuoto
di gatti bastardi accosciati sui tetti, di asciugamani puliti,
e scarpe rotte allineate nei comodini, e pezzi di candela
nel cassetto del tavolino della cucina verde sempre vecchia.

Il grano e il riso,
impasto acido nell'ora della sera
sul fumo antico, tra muro e muro;
e me, viandante solitario e astratto, nelle mani
di chi già sapendo da tempo, ecco il segreto,
riuniva il fango all'acqua, l'aria alla notte,
le foglie alle radici della mia vita.

Per un tempo lungo quanto una morte autunnale
ho vissuto in vita di fiume scorrendo tra le mie rive verdi.
Dentro di me s'abbeveravano i canneti,
e i miei paesi mutavano dall'intestino della notte
gialle capre morte in vive colombe dai ventri candidi,
e il vento rendeva liquidi i vetri e i fumi
sulle vie della luna.
Così ogni notte, così ogni giorno.

Per un tempo lungo quanto una morte autunnale
la mia anima-ruscello ha dragato il fondo piatto
del ventre della terra, senza aprire pozzi né strade,
senza agitare il suo vento sulle madri in attesa,
limitandosi a scorrere sui seni d'argilla delle donne in fiore,
sotto i miei verdi paesi, sotto i miei teneri morti.
Così ogni giorno, così ogni notte.
Ora la mia anima-fiume
(anima-terra, anima-vento)
vive sospesa per necessità e si tramanda di campo in campo
mentre io l'inseguo ogni notte.

Il linguaggio del vento e del fiume non è mutato per questo:
l'urlo del gabbiano annuncia la nuova estate,
e i passi paralleli del tempo si schiacciano sui vetri
delle risaie, sui tetti dei concimi, sul sangue
degli ultimi germogli scoppiati.
Sul mio petto adesso
grava una nera pietra di dolore, ora che la mia gente
abbandona il mio vestibolo: io vivo infatti
nella dimora di gesso dipinto che l'inverno ha costruito
sotto un tetto. Ha vesti assai succinte.
Ma per giungere sotto questo
scomodo riparo ho corso intere notti mangiando fango
e pianto di colombe.

No, non mi lascerò morire all'inizio
della nuova estate sui prati dei formicai.

Ubicati sulle mie pareti più grige e incoltivate
vacillano ragni e mordono la polvere
i miei soli consunti, le mie speranze isquallidite
e gialle.
Ombre filtrano dai teschi abbandonati nei prati
dei formicai e balzano in avanti.
Le cornici vengono deposte,
e i nuovi stucchi fusi ai vecchi intonaci:
furono altari di reliquie, di escrementi di insetti,
furono ossa e carne della mia vita distrutta sulla strada
del vecchio campo;
e la rovina bassa, a zigzagare
tra gli stinchi degli impuri e i monumenti eretti
a ricordo di ambasce.
Qui si mescola vino e pietra pomice,
s'impastano case lignee e cadaveri giovani di donne,
e mestizia e tenebre sedute nello spazio.

Sangue rattrappito dai tetti dei miei occhi
si raggruma su strade secche e butterate;
butto la mia anima-ricovero alle finestre sospese,
al gruppo di donne ulcerate in calzamaglia nera,
allo sterco dei passeri, ai nuovi pollini che s'annodano ai venti.
Bevo vino e disperazione, gocce di sale e di sabbia,
mordo la rossa cancrena che unifica acqua e sale
ai manifesti murali della mia vita diroccata e priva d'ombra,
e vado tra i vagiti e i rantoli di fiori inesplosi
e di uve acerbe; ma vado.

Quando mi scoppiarono le estati dei rossi limoni accesi
e il corpo del cielo mi prese forma dall'acqua
sgorgò il mio vagito di pioggia, di vino, di calcestruzzo,
il mio gemito ligneo,
e l'anima mi si dondolò sui prati
tra fiumi e fanghi incensurata.
Da allora, di giorno in giorno,
io mi tramando verso silenzi impalpabili,
silenzi illiberabili dai segreti dell'anima meno toccati,
incolti, come notti cupe e senza sonno.
Silenzi inviolabili
e ne trapelano a volte parole scandite
da megafoni all'orizzonte,
significati muti
che sfumano appena coniati, sofferenze dei sensi
nel tempo incolmabile.

Lentamente, liquefatte le pietre di ogni morte,
tra volute di fumi e rami acerbi, alla ricerca sempre
di vita e di sfondi, abbandonai la riva
e solo un'eco di pianto mi rimase in cuore; ignoro ancora
chi pianse sul mio abbandono d'acque e di vigneti,
sul mio pendio deserto di sassi e crepe,
di immaturabili frumenti.

Qui, nell'incolore città calcificata, non guizza l'umido
sangue della terra tra le rotaie dei tram
e gli umori morti dei cementi.
Sui torpedoni marciano i viventi
incolonnati verso i cimiteri. Fango di piombo
fuso e di verdure marce le loro vite si abbarbicano
al fusto dei lampioni.
La scelta è nell'orario dei treni,
nei films dei locali del centro, la televisione nel bar,
la marca di una birra,
una donna per una carta da cento.
Oppure accettare il silenzio più nero nell'urlo
dei motori e dei ferri e dei cementi in corsa,
e gettare la spugna nel mezzo del quadrato,
così, tanto per vivere.

Qui le vite si susseguono. I misteri bevono i misteri
e si annullano. L'inchiesta si protrae in un monotono suono
di albe bagnate di grigio, senza silenzi appaganti,
duraturi. Ah, poter passare di vita in vita scalciando lontano
scorie di pelle consumata e d'anima! Vedere sempre
più triste il nido del sole, e l'anima del fiume
farsi di latte e di pianto tra terra e terra, e smuoversi
i sepolcri sulla crosta dei monti,
discendere tra gli alberi
e dormire aperti alle piogge, ai suoni di campana
pomeridiani.

Dominano di lontano luci che piovono dal ventre
ripieno della terra, e in mezzo vi navigano paesi:
e l'odor di cucine nel muschio della notte è concime
di speranze che già soccombono vinte.
Il rumore della pioggia
è lontano e non ha nulla del ritmo pulsante
dei treni e delle mille botteghe
di fabbro che picchiano cupe.

Ma adesso potremmo fermarci un istante,
potremmo adesso metterci una mano sul cuore,
e senza più rinviare
porre tutte le nostre domande con ferma insistenza
e lasciare agli eredi una sillaba
anche impietosa come risposta.

E si potrebbe allora anche morire.

Tanto a noi poco importa credere in qualcosa
purché la vita si trascini come adesso:
una serpe nutrita ogni giorno con molta cura
da mani piene di crimini.

Per quel che mi riguarda,
da quando io ho disceso la mia scala
ho camminato tra genti barbare che si coprono la testa al sole,
che non si segnano al suono di campane; ho bestemmiato
e calpestato le fosse dei miei morti che ancora parlano
e sentono la mia voce.

È stato allora che ho scritto col dito nella polvere:
lasciate pure che di me facciano strade,
e fontane in mezzo alle piazze,
e giardini sotto il sole,
e balconi
umidi di umidi tramonti.



Scritta in luoghi ed in epoche diverse.
Riassemblata, rigenerata e completata
in Maximiliansau
nei mesi di marzo e aprile 2016

*** 














martedì 5 aprile 2016

BAMBINI COME VUOTI A PERDERE


***

Io li ho sentiti con le mie orecchie
i vagiti dei bambini rubati 
alle madri: muggivano vitelli
da latte espurgando dalle narici
dove il carnefice infilava 
due dita e li teneva fermi pel naso
mentre l'affilatissimo coltello
li decapitava in un attimo,
la testa scagliata al suolo
vermiglio, schiumoso e caldo
il resto del vitello appeso a un gancio
per una zampa a ballonzolare
oscenamente, e il sangue violento
che schizza perché la carne
esangue è più pregiata e più cara.

Così sgozzarono duecento vitelli
maschi, solo maschi, tutti maschi
quella mattina d'ottobre gelido
a Padova, città del Santo, nel mattatoio
comunale. Li tirano per i capelli
dopo averli fatti inginocchiare
insaccati in una veste vermiglia
mentre li sgozzano tutti in fila
in riva al mare, che il murmure
si sente anche nei video ufficiali,
i tagliagole di Allah, senza
infilargli le dita nel naso, questo
va detto, sempre con un solo
taglio circolare: dura un attimo
e il sangue zampilla feroce.


***

Io li ho visti coi miei occhi
allineati a terra, mutilati, dilaniati,
svuotati del loro sangue i ventitrè
bambini di Grosseto, mitragliati
dal pilota più pazzo dell'aviazione americana
mentre facevano girare una giostra.
Sui volti solo stupore, non paura,
non dolore, come sul viso di Marcellino
appena lo estrassero dalle macerie
di casa sua, quel maledetto mercoledì
di aprile, il mio primo amico, il mio
compagno di banco, di giochi, di puzze
fatte ridendo fino alle lacrime, tappandoci
il naso. Quel giorno insieme fino all'una
come tutti i giorni della settimana,
poi la strada percorsa insieme, breve assai
ma lunga più di mezzora perché
ci scambiammo le figurine della Perugina
per vedere se trovavamo quella
del feroce Saladino,
che non trovava mai nessuno, e che nessuno
aveva mai visto, con lo sguardo truce
e la scimitarra sguainata stretta in pugno.
Poi frettolosi, ciao Marcellì, ciao Enzarè
e via di corsa
ché la minestra ormai s'era freddata.

Poi due ore dopo la bomba, sganciata dalla
fortezza volante da sopra il Colle dei Cappuccini
che vola in diagonale, e scende giù, bassa
tra le case, passa a non più di dieci metri
sopra il terrazzo di casa mia, e centra
casa sua con mille chili di tritolo.
Volarono in pezzi tutti i vetri
di casa mia, da Marcellino non solo i vetri: 
i mobili, le mura, ma pure le persone,
tutto quello che c'era in quella casa, meno lui,
schiattato dentro ma illeso fuori, come
l'ho visto io che avevo aiutato a scavare
e lui fu l'ultimo a uscirne fuori
dopo papà, mamma e sorellina,
tutti a pezzi, ma lui no, miracolosamente
intatto che sembrava dormisse
bianco come la cera, come il bambino del Presepio.
Ma non me lo fecero toccare e l'ufficiale
dei carabinieri se lo portò via, perché
un bambino queste cose non le deve vedere.
E che cosa deve vedere allora, signor Capitano?

E che cosa pensavi di poterci nascondere,
tu poliziotto turco, dietro lo scoglio all'ombra
di occhi impudichi? Lo avevamo
già visto tutti Aylan Kurdi, tre anni
da compiere, col musetto abbandonato
nelle acque dell'Egeo. E chi ci ha nascosto
i mille e mille Aylan -nessuno
sa dirmi quanti siano- risucchiati
dal Mar greco, da quello di Sicilia, da tutti
i mari ghiotti di bambini che ci circondano
da ogni lato e latitudine? Chi ne ha
distrutto le madri, una ad una, anche quelle
rimaste in vita nell'urlo nero della notte?
Quelli erano tutti miei figli.

***

E se parlare di muri e di filo spinato
a qualcuno sollecita brutti ricordi
parlate pure di democrazia, voi che questa parola
spalmate su tutti i minestroni
come una salsa che cambia tutti i sapori,
anche quelli acidi, anche quelli schifosi
da far vomitare pure i morti.

Pomodoro rosso,
zucchino verde,
scarafaggio nero,
uccello rampante multicolore,
pidocchio trasparente.
Questo è il messaggio
della vostra democrazia
che ognuno di noi vuole 
interpretare, 
che ognuno di noi vuole
cantare.

de-de-de-de-de
mo-mo-mo-mo-mo
cra-cra-cra-cra-cra
zi-zi-zi-zi-zi
a-a-a-a-a

E adesso cantiamocela tutti insieme
pestando i piedi al suolo
con ritmo afrocubano
e voglia nippocanadese
di ammazzare conigli
e cuocerli a fuoco lento,
sempre più lento,
leccandone il sugo che cola, 
e questo è tutto quello che noi
possiamo fare della vostra
democrazia del controcazzo.

Ostinatamente
controcorrente guardo
me,
cavallo
di me,
pensiero,
singhiozzo ingannevole
dall'alba 
radiosa
al tramonto
infuocato,
ombra avvolgente,
me, 
che ancora non mollo
che ancora
credo
che abbattere crocifissi
sia diventato un hobby 
divertente
un po' vecchiotto,
e che invece uccidere i tiranni
sia un obbligo, una necessità,
conditio sine qua non
per vivere da uomini
e non da pezzi di merda, 
e voi che potreste farlo
ma girate la faccia 
da un'altra parte
con ostinazione
e mentre il tiranno passeggia
nessuno imbraccia
il Kalaschnikov,
introduce nella camera di scoppio
la 7,5 corazzata
mira e spara
per vigliaccheria, per ignavia,
perché tenere il culo al caldo
è più comodo,
perché si tiene famiglia,
per tutte queste ragioni insomma,
ma soprattutto
perché è un coglione, membro emerito
di un grande popolo di coglioni,
a lui e a tutti gli altri io dico
e concludo:

Fatti VOI foste a viver come bruti,
NON per seguir virtute e canoscenza.


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Maximiliansau, 5 aprile 2016