giovedì 29 luglio 2010

VITA DA BOVERI NEGRI; TRENI E VACANZE

Questa mattina Annamaria ed io eravamo invitati a casa di nostra nipote Cristina per la prima colazione.
Che carina! Chissà quanto ha lavorato: deve aver pensato che volevamo abbuffarci. Perfino dei microbignè con la crema preparati con le sue manine. E poi due uova a testa e panini con burro e marmellata di ciliege, e tartine con affettati di qualità.
Per finire frutta fresca, povera anima.
Alla terza tazza di caffè mi ha chiesto se ero sazio.
"Fino alla prossima settimana", le ho risposto sdraiato sul divano come un pascià.
Alla TV intanto, sul programma della RTL davano un servizio su una regione africana, una delle tante dove la gente muore di fame. Un bel contrasto con la mia pancia piena vedere bambini neri macilenti contendere ad un cane un mezzo pesce pescato da chissà quanto tempo.
"Si possono visitare quei posti, ma non si può bere la loro acqua", ha detto Cristina.
"Quale acqua?" ho chiesto.
"La loro. Riescono a berla perché hanno gli anticorpi giusti per ammazzare i miliardi di microbi che ci nuotano dentro" , mi ha spiegato Cristina.
"Può darsi; ma mi risulta che ne abbiano ben poca", le ho risposto.
E ho pensato alle tonnellate d'acqua che noi sprechiamo ogni giorno, tanto basta aprire un rubinetto per averne d'avanzo.
Vedi come i nostri problemi del cavolo diventano niente se pensi ai loro, mi sono detto; e d'improvviso mi sono sentito un verme.
Qualche minuto più tardi un treno correva al piccolo trotto inseguito da una torma di ragazzini e di straccioni.
Fermava infine in una pianura dove c'era una marea di gente carica di fagotti e di mocciosi. Quella era una stazione per un treno che passava una volta alla settimana in una direzione, e la settimana successiva tornava indietro verso la direzione opposta.
Ritardi di giorni e nessuno protestava.

A proposito di treni: chi mi sa dire cosa significa sognare un treno merci che ferma in mezzo ad una piazza di una città vuota e aspetta viaggiatori?
Solo vagoni merci, senza tetto e con panche di legno per sedili piantate a più di un metro di altezza: quando ti ci sei seduto non arrivi a toccare coi piedi le tavole del pavimento del vagone.
Da un po' di anni sogno questo treno.
Mi si approssima un lungo viaggio verso il mistero?

A proposito di viaggi: l'autore di questo post intende accomiatarsi per qualche settimana dai suoi lettori.
Si stacca, finalmente. Si torna nella terra dei padri ad annusare di nuovo gli antichi odori: quello della terra cotta dal sole e quello salmastro del mare.
A risentirci amici per la fine di agosto, e felici vacanze a tutti.

lunedì 19 luglio 2010

CHE PACCHIA STO REGGIMENTO, SIGNOR TENENTE

Da un po' di tempo mi rivolgo al mio blog con una certa riluttanza. Il fatto è che io mi sento uno scrittore e non un blogger.
Presunzione? Prosopopea? "Daseinsgefühl"? Cioè sensazione dell'essere, o come invece diceva Kundera "leggerezza dell'essere"?
Qualcosa di questo sarà di sicuro: magari mi sento poca cosa difronte a un blog troppo intelligente; ovvero sono io troppo intelligente nei confronti di un blog dei miei coglioni.
"Gli estremi si toccano". Era uno dei miei motti giovanili, uno dei più apprezzati; come fare un confronto tra se stessi e Dio, dove Lui è Dio e tu solamente una merda. Ovvero il contrario se Lui non arriva ad aiutarti a valorizzare e far conoscere a tutti il tuo madornale macroscopico potenziale.
Ecco, una cosa così -ci siamo capiti-: quello che il mio Prof di filosofia era solito chiamare "incomprensione coassiale bilaterale", che nell'aulico linguaggio filosofico significa "lo pigli nel c. da ambo i lati, comunque tu ti ponga".
Il mio Prof era il mitico Tullio Vecchietti, allora non ancora a capo di una corrente di estrema sinistra al Parlamento, fondatore più tardi del partito più a sinistra che allora ci fosse, con la sigla più impronunciabile, PSDUP cioè a dire Partito socialista democratico di unità popolare.
Soffriva anche lui di "incomprensione coassiale bilaterale" in quei tempi. Glielo ricordai a Roma nel 1963.
Mi rispose: "Caro Iacoponi, qui ce lo mettono in c. da sopra, da sotto, dal davanti, dal didietro e da destra; ma da sinistra no, perché finiscono i banchi e dietro c'è il muro".
Ma qualcuno stava già murato nel muro a pene eretto, pronto a inchiappettare: i maoisti. E fu così che Tullio Vecchietti cadde. Ma non si fece troppo male: ricominciò a scrivere libri, arte dove era magistralmente abile.
Non c'entrava proprio niente, obietterà qualcuno bontà sua; ma questa è la differenza tra blogger e scrittore: il blogger cava dal cilindro un argomento, si fissa su quello e ci lavora sopra, dentro e in periferia; lo scrittore svolazza dove lo porta la sua fantasia.
Con questa afa la mia fantasia mi porterebbe a fare un salto in una isoletta della Polinesia, a controllare se la sabbia delle spiagge è color rosa, se gli alberi danno un'ombra violacea e se le donne sono così belle come nei quadri di Gauguin.
Ci salto e ci resto.
Sì, gente! La sabbia è color rosa, l'ombra degli alberi è color violetto acceso e le donne sono tutte giovani e variopinte.
Ti offrono tanto e non ti chiedono niente.
Che pacchia sto reggimento, signor Tenente.

giovedì 15 luglio 2010

ALESSIA E FABIO

A settembre faranno tre anni che sono venuti al mondo Alessia e Fabio, i due gemellini di mio figlio Federico.
In tutto questo tempo non ho fatto altro che tenerli d'occhio e compararne le diverse personalità, i diversi comportamenti.
Io ho avuto quattro figli, prima due femmine poi due maschi, ma uno alla volta, a distanza di due o tre anni gli uni dagli altri.
I paragoni si fanno sempre, continuamente. Credo che sia l'occupazione preferita di tutti i genitori, che ricordano tutto, ma proprio tutto del figlio nato prima e fanno confronti. Ma alcuni particolari sfumano e si confondono. Così padre e madre finiscono col litigare, magari per una scemenza, come quasi tutti i litigi in fondo.
Per esempio dice lui: "Guarda come tiene il bicchiere mentre beve. Tutto sua sorella. Ricordi?"
"Ma no; lei lo teneva inclinato a sinistra. Non mi dire che già lo hai dimenticato." Risponde lei.
Oppure: "Guarda come strappa il giornale di papà dall'alto al basso -dice lui- come faceva sua sorella, tale e quale."
"Proprio il contrario -risponde lei- l'altra li strappava a metà. Vedi che non la stavi nemmeno a guardare perché era una bambina!"
Ogni giorno una scoperta; ogni giorno un paragone; ogni giorno una lite. E meno male che di notte si dorme.
Alessia e Fabio sono nati insieme. Crescono insieme, si muovono quasi sempre insieme; all'unisono se si tratta di arrivare per primi ad appropriarsi di un giocattolo, a impossessarsi di qualsiasi cosa potrebbe cadere nelle mani dell'altra o dell'altro.
È facile distinguere le differenze fondamentali: Alessia è femmina, sicura di sé, autonoma; non chiede mai aiuto perché fa tutto da sola. Insomma è assolutamente indipendente.
Fabio è maschio, incerto, insicuro e pavido, poverino. Con un eterno sorriso stampato sul musetto per condizionare gli altri, che non gliene vogliano, che non gli chiedano di dare il massimo.
Insomma tra i due si possono rilevare le enormi differenze che esistono oggi tra maschi adulti e femmine adulte. Nei due gemellini di mio figlio Federico vedi la miseria del mondo di adesso.


PS. Questa mattina, per la prima volta, ho fatto una cosa che ogni donna sposata amerebbe che il proprio marito facesse.
Questa mattina alle 7,30 ho pisciato seduto.
Sono definitivamente disceso dal mio piedistallo di uomo dominante dove mi ero barricato, arrivando al punto più basso, più infimo della mia carriera di uomo, identificabile nella tazza di un cesso.
Volevo provare il brivido della perdizione, di quando non c'è più niente da salvare e l'ho provato.
Adesso so che non lo farò mai più.
Mantenere la posizione eretta in quell'atto quotidiano, pluriquotidiano, significa manifestare e testimoniare a se stessi di esistere, di vivere da uomini liberi.
Non si può scendere a patti con la tazza del cesso, non si deve.
Morire pisciando in piedi questo sarebbe il massimo.
Mai accucciarsi come fanno le cagne, le gatte o le coniglie selvatiche.
Mai più.

venerdì 9 luglio 2010

DIECI ANNI PRIMA

Ho fatto caso che quasi tutti i racconti e anche alcuni romanzi hanno per argomento e titolo quel che avviene cinque, dieci, venti anni DOPO. Non mi ricordo un titolo come quello che ho messo io a questo post.
Lo faccio io, mi sono detto.
Perché dieci anni prima? Innanzi tutto perché ero più giovane, e anche chi mi legge. Mi sembra un buon inizio.
Un bambino in dieci anni da ciuffo di peli frignante finisce le scuole elementari.
Un ragazzo che aveva finito le elementari è matricola universitaria.
Una matricola universitaria è diventato padre, consapevole o meno.
Tirando questo elastico va a finire che un baldo sessantaseienne sta per diventare un decrepito stronzo buono a niente; e allora smettiamola di tirare l'elastico. Dieci anni prima e buona notte.
Per quel che mi riguarda dipingevo ancora quadri assiduamente -leggi quotidianamente- ed ero lieto di farlo. Avevo appena finito di scrivere lo zibaldone di "Martedì dopo l'autunno", che allora aveva un altro titolo, "Il colore dell'acqua", sostituito poi su segnalazione della mia Editor, che mi faceva notare la presenza in libreria di un certo numero di titoli a base acquosa.
Lo zibaldone era finito e mi accingevo a dare al tutto la forma di un libro leggibile.
Bei tempi.
Annamaria era dieci anni più giovane, anche se oggi lo è ancora e sembra che il tempo non passi sul suo viso. Pesa gli stessi chili di quando ci siamo sposati, quattro figli dopo, beata lei. Anche io ho gli stessi chiletti di dieci anni fa, ma tredici di più di quando ci sposammo.
Allora continuiamolo 'sto giochetto.

Dieci anni prima della fine della guerra di Troia le belle troiane stavano sulla spiaggia a prendere il sole -Elena no, perché Paride era geloso- e salutavano con la manina tutte quelle belle navi greche che arrivavano portando sicuramente villeggianti carichi di soldi.

Dieci anni prima Michelangelo, passeggiando in Piazza San Pietro -dove c'erano solo prati pieni di zanzare tutto intorno e non il colonnato, perché il nonno di Giovan Battista Bernini ancora non era nato- guardava la facciata della Basilica e mormorava tra sé: "Sembra un enorme mattone che un gigante ha lasciato lì. C'è bisogno di qualcosa che la slanci verso l'alto."
Tornò a casa in fretta e furia perché era l'ora di cena, e dopo mangiato, al lume di un candelabro, cominciò a disegnare e progettare la Cupola di Michelangelo, tale e quale a quella che tutti possono ammirare adesso a naso in su.

Dieci anni prima, nel 1930, Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini disse a Starace, segretario del Partito fascista: "Basta guerre per un bel pezzo. Questi italiani non hanno voglia di soffrire. Dobbiamo aspettare la nuova generazione, la generazione fascista, quando i Figli della lupa saranno uomini e quelli che li seguiranno ancora più uomini. Garibaldi ha fatto l'Italia, ma noi faremo gli italiani."
Starace, come sempre sull'attenti, salutò col braccio alzato.
"Sì, mio Duce!" gli urlò che quasi lo assordiva.

Dieci anni prima, nel 1928, una procace milanese di buona famiglia conobbe un bel maschio lombardo di buona famiglia e timorato di Dio, come si doveva.
"Se mi vuoi bene -gli disse- mi devi promettere che mi darai un figlio eccezionale, bello e intelligente, che sarà amato da tutti e diventerà importante come quel maestro romagnolo che adesso sta a Roma. Lo chiameremo Silvio, un nome che mi piace tantissimo."

Dieci anni prima, nel 1996, i delegati tedeschi al Congresso annuale della F.I.F.A., dopo essersi congratulati, abbracciati e sbaciucchiati per l'assegnazione del XVIII mondiale di calcio alla Germania, da alacri crucchi di Cruccolandia quali erano si misero subito al lavoro per fare arrivare lo squadrone teutonico in finale costruendo Gruppi e Calendario ad hoc, come avevano già fatto con successo nel 1974.
"Dobbiamo evitare l'Olanda e il Brasile, ma soprattutto l'Italia che è la nostra bestia nera. Se però per disgrazia ci dovessero capitare tra i piedi gli Itaca, non in finale per l'amor di Dio, ma in semifinale, che gli faremo disputare a Dortmund, la nostra roccaforte. Qui vinciamo sempre noi, undici partite undici vittorie."
Erano felici e soddisfatti. Si diedero pacche teutoniche sulle teutoniche spalle. Gli odiati Itaca a Dortmund non avrebbero mai vinto.

Dieci anni prima -oggi- sto pensando che è bello essere arrivato all'ultima cinquina che mi porterà agli 80 senza malattie e col cervello di un giovanotto, che pensa e agisce qualche volta anche troppo come un giovanotto.
"Mi piacerebbe arrivare ai 90 con la testa funzionante e attiva così."
Poi mi sono tappato la bocca e ho azzerato il pensiero.
Tabula oscura.
Non vedere, non sentire, non capire, non lasciarsi sentire, né capire.

Taci, il nemico ti ascolta.
Qualcuno me lo ha ricordato che non è molto.
Ringrazio Qualcuno e taccio.

giovedì 8 luglio 2010

PER UN RITRATTO ALLA GUSTAV KLIMT

Per anni ho odiato il "Bauhaus", la "Secessione viennese", il "Cavaliere blu" e tutto quel che aveva a che fare con lo "Jugendstil" o Liberty, che dir si voglia.
Lezioso, raffinato, raffinatamente e leziosamente artificiale, ho pensato e giudicato per anni.
Poi una piccola crisi economica -un maledetto bisogno di pecunia, di grana, di lattuga, tasche vuote insomma- mi ha costretto ad accettare un orrendo contratto: dipingere quattro quadri di grande formato TOTALMENTE e INDECOROSAMENTE Jugendstil.
La mia committente, Frau Annalise B., aveva idee chiarissime. Sborsò tanti bei soldoni, ma dopo aver spremuto da me tutta la mia capacità di artista.
Eh, sì! Perché bisogna essere bravi artisti ed eccellenti trasformisti per azzeccare quattro quadri su temi fino allora detestati con uno stile aborrito.
Li dipinsi e Frau Annalise B. li espose permanentemente nelle sale del suo bel locale a Monaco di Baviera.
Erano firmati e datati e a qualcuno venne voglia di tenerne uno simile in casa sua. Non nego che le telefonate che ricevetti con richiesta di quadri simili a quei quattro mi sollecitassero uno strano prurito al mio orgoglio professionale, ma tenni duro e mi liberai degli scocciatori sparando cifre astronomiche come compenso.
Se accettano almeno ci guadagno un bel po' di soldi, devo aver pensato; ma tutti riattaccavano il telefono in gran fretta e piano piano il pericolo cessò, e nessuno mi telefonò più.
Ma un pomeriggio, a mia insaputa, AM è entrata in quel locale insieme ad una amica.
"C'era un pianista che suonava bellissima musica. La mia amica c'era già stata e voleva tornarci."
Così va la vita: l'amica guardava il pianista, lei guardava i quadri alle pareti e ha scoperto i miei quattro nudi di donna in Jugendstil.
Così mi ha costretto a dipingergliene uno a mezzo busto.
"Studia bene il soggetto, poi fammi il ritratto. Però usa una mia foto: voglio essere sorpresa a lavoro ultimato; non faccio pose."
Studiare bene il soggetto! Ma dai!
Ho spudoratamente copiato "Giuditta" di Gustav Klimt, che ha appena accoppato Oloferne e ne regge la testa che ha staccata dal tronco. Al posto della testa io ho dipinto fra le mani di AM un vaso con radici pendule di una orchidea.
Ho usato una tecnica antica: velature successive per raggiungere un intenso colore ambrato per la pelle nuda del busto. Una volta asciugata l'ultima velatura ho ricoperto il busto con una veste trasparente -altre velature- usando Terra di Siena bruciata e molto, moltissimo olio di noce.
Per esprimere l'intensità del suo volto ho usato la foto di un suo sorriso radioso.
I capelli sono i suoi -come erano quando la vidi la prima volta- rosso bruno mahagoni. Tanti, tantissimi capelli lasciati liberi di volare verso l'alto, per metà fuori dalla tela.
Un effettone su AM, un trionfo per l'artista.
"Vedi che se vuoi!" Il suo pacato commento.
Firmato, datato maggio 2003. Dietro, sulla tela ruvida, ancora firmato e datato, con una nota: "Unicum". Cioè a dire: non ti fare venire idee strane; non ce ne saranno altri.
Da allora sta appeso alla parete nord della nostra camera da letto. Quando litighiamo lei lo stacca dalla parete e lo appoggia sul pavimento rivolto verso il muro.
Appena il quadro è di nuovo al suo posto e mi guarda so che la buriana è passata.
Di salite e discese ne ha fatte diverse in questi anni e io aspetto sempre la prossima.
Sono testardo io, maledettamente testardo se mi ci metto di impegno.

sabato 3 luglio 2010

IL COMANDANTE DELLA "AGATA"

Le tapparelle le tenevano tutte abbassate e le finestre socchiuse da tre giorni, da quando il vecchio si era aggravato. Lo avevano trasferito con tutto il letto di degenza in quella stanza da solo. La stanza dei moribondi, pensavano tutti, ma non lo diceva nessuno per rispetto di quella ragazza dalla faccia tirata e sgomenta, che non si muoveva da lì dentro nemmeno per andare a mangiare un boccone.
Veniva ogni mattina alle sette e se ne andava tutte le sere alle dieci.
Suor Carmela le portava ogni tanto un caffè con qualche biscotto, e una tazza di brodo nel pomeriggio. Lei lo lasciava raffreddare, poi ne sorbiva lentamente due o tre sorsi.
Si chiamava Agata; aveva 22 anni; era la figlia dell'uomo che stava per morire, la sua unica figlia.
Portava il nome della nave mercantile che suo padre aveva comandato per quasi quaranta anni in giro per tutti i mari, ormeggiato in quasi tutti i porti: un vecchio Liberty della marina militare americana, un cargo che aveva trasportato in Europa truppe e cannoni per la seconda guerra mondiale.
A guerra finita gli americani li avevano venduti tutti a buon prezzo per disfarsene. Gli scafi erano stati tutti ribattezzati perché non portavano un nome, bensì una sigla. Al padre di Agata era toccato lo LX 411, ribattezzato "Agata", appunto. Il suo primo comando. Aveva soltanto 27 anni ed era pieno di entusiasmo.
Dopo venti anni a Santo Domingo aveva conosciuto Rosaria Fernandez, trenta anni più giovane di lui. Rosaria voleva abbandonare la miseria e il Comandante l'aveva fatta imbarcare come clandestina sull'Agata, tenendosela nella sua cabina.
Sei mesi dopo, quando erano sbarcati a Napoli, Rosaria Fernandez aveva un pancione bello rotondo. Qualche settimana dopo era nata Agata, napoletana e con la pelle leggermente più scura degli altri bambini.
Il Comandante tornava a fare scalo a Napoli tre e anche quattro volte all'anno. Mangiava e dormiva a casa di Rosaria Fernandez e stava tutto il tempo insieme con Agata. Poi un giorno la prese con sé sulla nave e la portò in giro per il mondo per un anno o forse due.
Quando tornarono nella bella casa di Napoli Rosaria Fernandez se ne era andata via per sempre e non la videro più.
Il Comandante lasciò Agata figlia in un collegio e continuò a solcare mari con Agata nave. Fino a quando andò in pensione, sei anni prima di quei giorni.
Poi l'infermità galoppante e il ricovero nella clinica specializzata.
Si riduce tutto a una storia di poche righe, pensava Agata osservando il torpore in cui era caduto suo padre.

Il vecchio Comandante non vedeva quasi più nulla attraverso le palpebre semichiuse. Non udiva quasi più nulla. Non parlava più.
Sentì un'infermiera avvicinarsi, tastargli il polso, le vene del collo.
-Portate qui quel gattino -sentì che qualcuno diceva- quello che abbiamo trovato stamattina, venuto non si sa da dove.
"Un gattino? -riuscì a pensare il Comandante- Dove?"
-Lui adora i gatti -riprese a dire qualcuno- ne ha sempre avuti. Chissà che non lo aiuti a riprendersi.
Il Comandante intuì che era entrata un'altra persona. Gli poggiò qualcosa sul letto, qualcosa che si muoveva, che emanava calore.
Aprì un po' di più le palpebre e vide il gattino, che si avvicinava al suo viso.
"Mi riconosci?" gli chiese il gattino.
"No. Chi sei?" gli rispose il Comandante.
"Sono Picci."
"Picci è morto, tanto tempo fa."
"Sono tornato; sono Picci. Guardami, non la vedi la stella tra i miei occhi?"
Una stellina bianca, caudata, come una cometa.
"È vero! -esclamò il Comandante- Sono contento che tu sia qui, perché volevo dirti quanto mi è dispiaciuto aver causato la tua morte. Tutto per colpa mia. Colpa di una manovra sbagliata."
"Non hai sbagliato niente -rispose Picci- Nella tempesta non c'era altro da fare che arenare la nave. Hai salvato la tua nave, il tuo equipaggio e il carico. Sei un grande marinaio tu, Comandante."
Il vecchio Comandante voleva accarezzare il gattino, il suo Picci ritornato in vita, ma gli mancavano le forze.
"Che si fa adesso?" chiese il Comandante al suo gatto.
"Si va via insieme da qui. Io conosco la strada."
Il Comandante si sentì rassicurato.

Suor Carmela vide il gattino acciambellarsi accanto al cuore del moribondo. Diede un'occhiata al monitor a fianco del letto. Le due linee blu sussultarono brevemente, poi si udì un sibilo prolungato, e le due linee blu non ebbero più sussulti.
La suora abbracciò forte Agata, che singhiozzava sommessamente.