sabato 27 febbraio 2010

COME A VOLTE PUÒ ARRIVARE UNA IDEA FOLGORANTE

Metti che sia una bellissima giornata di fine febbraio, con un sole primaverile in un cielo color cobalto, con una temperatura di quasi 14° alle 15,45; metti che in un immenso prato dietro la nuova piscina comunale si sia data appuntamento la "meglio gioventù" della cittá; metti che questa città non sia Roma o Napoli o Palermo, ma Karlsruhe uggiosa di inverno come una vecchia balbuziente e sdentata; metti che tutti siano già con le maniche corte tranne tu e tua moglie, che siete gli unici insaccati nel vostro fedele cappottone, che potete solamente slacciare perché darebbe ancora più fastidio portarlo sul braccio; metti che tuo figlio e tua nuora abbiano colto l'occasione del vostro arrivo per andare a fare "quelle spese urgenti che tu sai, papà" e che quindi Alessia e Fabio, i gemelli terribili di ventinove mesi, siano in assoluta libertà affidati all'attenzione tua e di Annamaria, che poveretta ha i capelli dritti e il fiatone da quando è uscita dal portone della casa di nostro figlio; metti che i due pargoli abbiano annusato la debolezza dei guidatori, oppure la loro paura di non farcela a riportarli a casa entrambi e senza danni e avrai l'immagine di un pomeriggio di normale terrorismo.
Oltre a ciò metti ancora che sembra che tutti i cani, tutti dico proprio tutti i cani residenti in questa città, da alcuni formato pantegana ad altri formato mammut, siano stati concentrati dai loro padroni su quel magnifico prato a correre, latrare, spisciazzare su alberi e pali della luce e scagazzare fra l'erbetta, che mette tanta voglia mollarcene un po', per cui tu ti trovi questo campo minato davanti dove i tuoi nipoti potrebbero non certo saltare per aria, ma sprofondare nella merda di cane che in fondo è anche peggio, dato che la puzza non va più via e chi lo sentirebbe poi mio figlio.
Questa è la tipica situazione da pre-infarto del miocardio. C'è da stare attentissimi ad ogni dolorino intercostale e soprattutto a quel doloretto che ti viene al centro del petto, al centro gente, non a sinistra come credono tutti.
Proprio mentre stai con un occhio ai cani del malanno, l'altro occhio ai due bucanieri della tortuga, una guardata al pallore che si alterna al rossore sulle gote della fedele compagna della tua vita ed un orecchio al battito del "tuo" cuore, che ancora ti deve servire per un po', ecco che da non si sa dove un'idea bella, pazza e folgorante ti cade addosso, ma che dico, ti assale e ti travolge come uno tsunami.
Rimani come di sasso, mentre già Annamaria, che non si sa come ma vede sempre tutto e capisce sempre tutto una frazione di secondo prima che io sia riuscito a nasconderle qualcosa, qualsiasi cosa, ti chieda "Ti senti poco bene?"; "No, perché?"; "hai una faccia strana".
Sicuro che debba essere una faccia strana, perché adesso già ho cominciato a pensare che non può essere vero che un'idea così bella possa venirti addosso in un momento come questo. E allora comincio a tormentarmi, perché io non so vivere di vittorie, preferisco le sconfitte che devi accettare e basta, ma le vittorie, a volte, nascondono insidie; e allora non potrebbe darsi che questa roba sia cosa vecchia che io già ho scartato da tempo immemorabile e per questo adesso non me la ricordo più, e insomma sarebbe, potrebbe essere roba vecchia ricicciata, che allora non vale niente, anzi vale un attacco di fegato quando veramente si rivelerà per roba vecchia e insomma...dio mio, ma perché non sono come tanti altri che gioiscono e basta, che si sentono bravi e basta, ma perché io sono proprio io e non un altro più superficiale, che quelli campano meglio e campano di più, e anche se campassero di meno avrebbero sempre campato bene, e di sicuro meglio di me, che adesso sono tanto triste anche se questa idea è così bella che quasi mi metto a piangere, ma non so più perché; non so se piangerei dalla gioia o dal dolore, o magari dalla rabbia per essere come sono e non diverso.
Ho finito per rovinare il pomerriggio di Annamaria, che tra pargoli in delirio di distruzione, cani arrembanti e marito con faccia da frate trappista moribondo non sapeva più a che santo votarsi.
Siamo tornati a casa un'ora fa. Il tempo di mangiucchiare un boccone lei, di farmi una dose precotta di un cibo infernale indiano a base di curry, che mi ha dato il colpo di grazia, di scrivere un commento in romanesco per un post sul blog di una mia cara amica -chissà cosa sarà venuto fuori, povera anima- ed eccomi qui a ruminare la bella, bellissima, idea che mi ha folgorato nel verde prato.
Più tempo passa e più mi convinco: non è niente di vecchio ricicciato (non riciclato, termine troppo moderno, no, proprio ricicciato alla romana); è un'ideona grande così che mi permetterá di scriverci su un romanzo, credo. Che idea è? E no! Non se ne parla proprio, porta sfiga.

venerdì 26 febbraio 2010

COME QUANDO FUORI PIOVE

È linguaggio da pokeristi: indica la scala dei valori dei singoli colori. Una scala all'asso di cuori vale di più di una all'asso di picche. Che combinazione: nel gioco del poker i due rossi stanno davanti ai due neri.
Altra combinazione: sto scrivendo un romanzo dove alcuni personaggi per comunicare fra loro hanno una specie di blakberry dove al posto delle lettere dell'alfabeto compaiono immagini, come alla TV. Andavo in giro a petto in fuori pensando di aver inventato chissá che marchingegno, assolutamente di fantasia, perché io scrivo storie, non invento pezzi del futuro. Comunque me ne vantavo con me stesso.
Ieri, girando tra i canali col telecomando diventato incandescente. ho captato al volo una trasmissione dove si parlava di un nuovo telefonino che prossimamente sarà sul mercato internazionale, dove al posto delle lettere dell'alfabeto stanno una variegata serie di simboli, pupazzetti insomma, che permetteranno al colto (ormai in estinzione) e all'inclita (in enorme espansione) di comunicare ancor più rapidamente e senza bisogno di controllare doppie, accenti né tantomeno gli aborriti apostrofi.
Ma che bella scoperta!
Allora bella gente, se voglio scrivere a Mary Carpona "sto venendo da te" premo su un pupazzetto che cammina (più schematico di quello di Johnnie Walker, molto molto più semplificato), e quello sono io che svolazzo verso la bella, poi premo una faccina sorridente, e quella è Mary Carpona che mi aspetta giuliva e compiacente. E se invece fosse incazzata e non tanto compiacente? Niente paura: c'è il pupazzetto della bella incavolata, un musetto con la bocca piegata verso il basso e gli occhi piccoli piccoli.
E se abbiamo un avversario politico cui vogliamo fare i nostri complimenti per una sciocchezza (eufemismo) che ha detto ad "Annozero" o a "Porta a porta"? Tutto nei simboli: una faccia larga come una padella sarà il nostro politico poi una vacca che alza la coda e...plaff! ne molla una di quattro chili, sarà l'attributo che gli destiniamo.
Bellissimo! Mi prenoto.
Ma vi rendete conto, bella gente, di quel che stanno combinando? Già nelle scuole si vedono i risultati di questa mancanza totale di esercizio sulla lingua italiana, infatti oggi c'è il linguaggio dei telefonini e perché si scrive xke, e già una buona metà dei ragazzi comincia a confondersi, mentre l'altra metà è ben confusa da tempo. Provate ad immaginare adesso quello che succederebbe in pochi anni nella stragrande maggioranza dei nostri ragazzi. Parlerebbero usando l'alfabeto, chiaramente, ma non saprebbero tradurre i suoni emessi in parole scritte, mentre nella generazione futura forse qualcuno già potrebbe aver provveduto a mettere in mano ai ragazzini un qualcosa che gli consentirebbe anche di risparmiare il fiato: il blakberry che parla al posto tuo, basta premere i pupazzetti.
Questo è il progresso immaginato per noi da queste multinazionali dei miei coglioni: il ritorno all'età della pietra.
Dovrebbero vietare per legge la diffusione sul territorio nazionale di simile infernale aggeggio, dovrebbero. Ma se ci guadagnassero non lo vieterebbero di sicuro. Volete scommettere, bella gente?

giovedì 25 febbraio 2010

LA MIA PRIMA VOLTA

È un detto antico: c'è sempre una prima volta. Io quindi non sono sfuggito alla regola, e adesso racconterò come è stata la mia prima volta....la prima volta che ho fatto del male ad una persona cui volevo un gran bene.
Si trattava di mio padre; io non avevo più di tredici anni e con papà avevo un rapporto fantastico. Oggi si dice feeling, allora si diceva che eravamo molto attaccati l'uno all'altro, io a lui di più, credo. Da un po' di tempo mi portava sempre con sé, quando si prendeva un po' di svago, liberandosi dagli impegni della Banca dove lavorava. Mia madre ne era felicissima, un po' perché si liberava contemporaneamente di due rompiballe, un po' perché penso che fosse gelosa di papà, che insieme al figlio piccolo non poteva certo andare in gattaggio.
Papà era un fotografo dilettante molto bravo, un vero artista e ci teneva ad insegnarmi tecniche fotografiche che a me sembravano astruse; ma lui insisteva con calma, quasi rassegnato a ripetere cento volte le stesse cose, a mostrare gli stessi movimenti ad un figlio un pochettino gnoccolone.
Però non mi aveva mai portato con sé a pescare, la sua seconda passione. "Perché si pesca nelle ore tarde e qualche volta si fa notte, mi diceva; prova a chiedere a mamma se ti fa rimanere fuori fino all'ora dei lupi e vedi che ti risponde".
Manco a pensarci: nemmeno una parola avrebbe detto mia mamma, mi avrebbe mollato un manrovescio, garantito. Ma a giugno avevo l'esame di terza media e lei si gonfiava come una mongolfiera quando me ne parlava: "Bada che devi risultare il primo della classe, e comunque non accetto meno della media dell'otto. Guai a te se non ci riesci. Devi iscriverti al liceo classico con una pagella migliore di quella di tuo cugino Gabriele".
Sempre Gabriele come termine di paragone, ma Gabriellino aveva la testa come un uovo e gli occhiali da miope, e si sa che quelli un po' becalini sono più bravi degli altri; e poi Gabriellino era capace di stare sei, sette ore alla sua scrivania, e subito dopo pranzato faceva i compiti, mica come me che li facevo alla sera prima di andare a letto.
Un bel giorno mi venne il coraggio di interromperla mentre concionava e mi sentii dirle: "io prenderò come minimo otto e mezzo di media". Oddio, che cavolata ho detto? Adesso questa qui come me la scollo di dosso?
"Perfetto! -esclamò mia madre- aggiudicato", il che significava non meno di otto e mezzo.
"Però se ci riesco mi lasci andare con papà a pescare", insistetti
"Ora che lo hai detto, devi riuscirci. Poi...poi vedremo", che voleva dire sì.
Ho sudato sette volte sette camice, ma alla fine ho realizzato una media di 8,68, sorpassando Gabriellino di quasi mezzo punto.
Due sere dopo, marciando come soldati nazisti nel primo anno di guerra, io e papà arrivammo alla scogliera dell'antimurale del porto alle nove di sera, con due canne, un tascapane pieno di vettovaglie per noi ed un sacchetto contenente terra e lombrichi, le vettovaglie per adescare i pesci. Mio padre avvitò i tre pezzi della leggerissima canna di bambù cui era tanto affezionato e me la consegnò completa di filo di nylon, piombi, amo e sugheretto galleggiante. Un gioiellino di quattro metri e mezzo, che non pesava nemmeno tre chili.
"Sta attento a non farla finire in acqua, ché in mezzo a questi scogli e con questo mare mi va a pezzi e povero te", mi ammonì. Ma sorrideva mentre che minacciava ed io sapevo di che pasta fosse fatto il mio grande papà.
Mentre a lui andava buca, io tirai su un sarago di circa tre etti, due sarde e un Miccio di re, un pesce azzurro molto colorato.
"Ha' visto er tu fijo? -gli gridò uno dei tre o quattro vecchi pescatori che stavano lì nei pressi- tira su solo robba bbona"
"E de chi ha preso siconno te?" rispose papà, e io sentivo che era contento, anche se a lui non abboccavano.
Dopo un paio d'ore, però, non dico che mi veniva sonno, ma certo non mi sentivo proprio a mio agio. Devo fare pipì, pensai, poi mi passa. Guai a mostrare cenni di cedimento dopo aver fatto tutta la gran cagnara nel pomeriggio perché la signora madre mi lasciasse andare. Morto magari, ma dovevo rimanere sveglio. Però non volevo dire niente a papà, che cominciava a tirar giù moccoli perché in tutto quel tempo aveva pescato solo due vope piccole piccole.
Avevo visto che gli altri pescatori fissavano le canne al suolo tra gli spacchi degli scogli e si allontanavano. Così feci anch'io. Trovai una bella fessura dove infilare la canna e mi allontanai velocemente. Sentii che mi stava venendo di fare anche qualcosa di grosso, per cui scesi in mezzo ad un paio di scogli belli alti in modo da rimanere fuori dagli sguardi degli altri.
Non avevo nemmeno incominciato che sentii l'urlo di mio padre: "Enzaccio, che cavolo hai combinato?"
Schizzai fuori dalla buca e vidi con orrore che tutti, proprio tutti i pescatori con in testa mio padre, tentavano disperatamente di recuperare la mia preziosa canna di bambù, che però sembrava avesse un motorino perché si allontanava zigzagando sempre più velocemente.
"Ha abboccato uno bello grosso -strillò il più anziano- cià culo er regazzino stasera"
"Je lo fo io er culo prima de tornà a casa!" e questo era papà.
Il guaio era che io non avevo lo spirito di osservazione che, per fortuna, mi sarebbe venuto con gli anni. Le canne degli altri pescatori infatti, quelle che venivano lasciate negli spacchi degli scogli, avevano tutte il mulinello e se un pesce avesse abboccato avrebbe tirato il filo di nylon, lasciando la canna al suo posto; la mia era una canna per la pesca a traino, con imboccatura fissa. Appena quello squalo aveva abboccato s'era trascinato via amo, sugheretto, piombo e canna, lasciando sulla scogliera me desolato in balia dell'ira paterna.
Papà non mi fece niente; papà non mi faceva mai niente.
Cominciò a rimettere insieme tutte le nostre cose, senza proferir motto.
Mentre tornavamo indietro gli dissi:
"Mi dispiace tanto, papà; mi dispiace proprio tanto per quella canna"
Lui si fermò sul posto, mi guardò un attimo, poi rispose:
"Guarda che della canna non me ne frega niente. Io ti avevo dato una consegna e tu non sei stato capace di eseguirla. Mi hai dato una grande delusione stasera", e fino a casa non disse più una parola.
Quella notte non sono riuscito a dormire. Pensavo che è proprio brutta cosa fare del male alle persone cui si vuole tanto bene.
Quella è stata la prima volta. Ho continuato a fare del male alle persone che più amavo, e continuo di tanto in tanto a farlo ancora adesso. Cose piccole, certamente, ma -come dice una mia amica- che rendono infelici le persone colpite, quasi sempre donne: madre, moglie, figlie, amiche.
Il brutto è che non me ne rendo conto. Per fortuna siamo in tanti, guarda caso quasi tutti uomini.

mercoledì 24 febbraio 2010

"Warum war ich bloß ein Mädchen?"

È il titolo di un libro di Gabi Köpp, che ho finito di leggere ieri. Gabi è una donna di 80 anni, profuga di quella parte della Pomerania che oggi è Polonia ma un tempo era Germania. Gabi non è una scrittrice e se ne avvantaggia lo stile incredibilmente asciutto, a volte telegrafico ma che rende martellante il ritmo di vita che intende narrare. Non ha scritto un romanzo ma la cronaca dettagliata di 14 giorni della sua esistenza, quattordici giorni "lebenslänglich", che durano da una vita cioè. Gabi Köpp ha narrato in prima persona l'orrore che hanno conosciuto oltre due milioni di donne tedesche, ma il numero è per difetto, violentate dai soldati dell'Armata Rossa.
Il titolo si potrebbe tradurre così: perché maledizione sono nata donna? E perché proprio nel Nord della Pomerania, avrei aggiunto io, da dove arrivavano i sovietici?
Già, perché non è capitata questa disgrazia alle donne del Sud della Germania, dove l'esercito invasore era quello anglo americano? Perché inglesi e americani erano meno barbari, o non piuttosto perché le SS non avevano mai messo piede in Gran Bretagna o negli USA? Ma nei territori dell'Unione Sovietica c'erano stati per più di due anni commettendo stragi e orrori; e poi poco prima di entrare nei confini tedeschi l'Armata Rossa era entrata nel campo di sterminio di Auschwitz, venendo a prendere visione di una realtà mostruosa.
Gabi Köpp dice, alla fine del suo libro, che i russi usarono il metodo della violenza sulle donne, soprattutto sulle ragazzine come lei, che aveva solo quindici anni, per tre motivi: per umiliare la popolazione; per vendicare i soprusi subiti da parte delle SS a casa loro e per indicare a quello che sarebbe diventato il popolo della futura DDR, che chi comandava e avrebbe sempre comandato era l'esercito sovietico. Memento semper.
Gabi dice di non aver mai più avuto una relazione con un uomo. La sua psiche era stata sconvolta in quei quattordici giorni nei quali aveva subito anche sessanta violenze in una manciata di ore, giorno per giorno, finché era riuscita a nascondersi e a non farsi più trovare.
Una lettura sconcertante di eventi tragici raccontati con crudezza estrema. Gabi non descive mai gli atti sessuali subiti, ma minuziosamente gli stati d'animo che si succedevano dentro di lei di violenza in violenza, di ora in ora, di giorno in giorno.
È l'unico libro in cui chi ha subito racconta col proprio nome e cognome ciò che ha subito, senza pudori né vergogna. C'era stato solo un libro, circa trenta anni fà, scritto da una anonima vittima. Solo dopo la sua morte si seppe il suo nome; ma era una giornalista e rimane il dubbio che abbia narrato l'esperienza di qualcun'altra.
Gabi è la prima a rivelare al mondo: sono io, sono qui e non mi nascondo più.
Nel 1945 la condizione della donna in Europa era di sudditanza, e lo è rimasta per decenni ancora, finché il movimento delle femministe ha dato una prima scossa. Non è che oggi siano in paradiso, ma certamente non più in quell'inferno, anche se ancora oggi avvengano in mezzo alle strade aggressioni a donne a scopo sessuale.
Non credo che le donne da sole possano migliorare di molto il loro stato di vittime potenziali di un qualsiasi aggressore, laddove il più subdolo è sempre il bravo inquilino della porta accanto.
Siamo noi uomini che dobbiamo cominciare a vedere nelle altre donne, oltre a nostra madre e, ma non sempre, alle nostre sorelle, degli esseri simili a noi in tutto, soprattutto nel rispetto che è loro dovuto, lo stesso che pretendiamo da loro in casa, sul posto di lavoro e qualche volta anche per strada o al bar.

martedì 23 febbraio 2010

CAPELLI BIANCHI

Tredici anni orsono a Bibione, una spiaggia dirimpetto a Lignano un tantino meno boriosa e cara del centro balneare friulano, facevo un po' il cane da pastore per quattro nipotini cresciutelli ma non troppo, badando che non combinassero troppi guai. Lo facevo per consentire alle loro mamme, le mie figlie Monica e Stefania, e ai loro papà, i miei due generi, di tirare un sospiro di sollievo e divertirsi un pochettino. Annamaria leggeva una rivista sotto l'ombrellone e di tanto in tanto sonnecchiava. Il cielo era splendidamente blu, il mare calmissimo, la temperatura non eccessivamente afosa, la sabbia cuoceva i piedi, ma bastavano un paio di infradito a scongiurare scottature. Particolare non insignificante, io avevo sessantatrè anni e mi sentivo "nu lione".
Penso di essermi soffermato un attimo di troppo ad osservare un paio di belle natiche al sole, quel tanto che è bastato alla più piccola del gruppetto per andare ad inzaccherare di sabbia bagnata un asciugamano disteso sulla sabbia in attesa di accogliere un corpo, penso.
"Gesù! E che è 'sto schifo! E tu schifosona pussa via da lì sopra!"
È stato questo l'urlo che mi ha distolto dalla contemplazione delle belle chiappe.
S'eran tutti girati da quella parte: in quell'angolo di spiaggia sembrava che la gente trattenesse il fiato. Ma dopo un attimo era come un ronzio, un brontolio neanche troppo sommesso di domande e di esclamazioni nei più svariati dialetti:
"Oddio, che è stato?"
"Bedda matri co fu?"
"Chi cazzo rompe?"
"Urca...orco....ostrega....'rco zio"
Sofia, la mia nipote più piccola, era sola in mezzo a una selva di capocce e di torsi abbronzati e non sapeva più cosa fare. Il fratello e i due cugini se ne stavano a qualche metro con gli occhi sbarrati e non osavano intervenire. Un trippone tipo boa da ormeggio sovrastava Sofia con le mani ai fianchi e lo sguardo truce, mentre un donnone con cosce immense da far invidia ad un maialone romano di 15 mesi sembrava colto da convulsioni isteriche. Ne dedussi che l'asciugamano inzaccherato fosse destinato ad accogliere il suo enorme deretano. Solo quello, tutta intera non ci sarebbe mai entrata.
Mi feci avanti attraversando il mucchio e posi una mano sulla testa di Sofia, sfoderando il mio sorriso più accattivante, quello che uso nei casi disperati.
"Non è successo niente, provai a dire, è una bimbetta di tre anni"
"E allora se la tenga sua madre" strillò il donnone alzando le braccia al cielo e lasciando ballonzolare il lardo suo.
Io intanto provavo a portar via Sofia da lì in mezzo e con la coda dell'occhio cercavo di vedere se gli altri tre avessero capito l'antifona e si fossero già allontanati. Neanche a pensarci: avevano sgomitato per guadagnare la prima fila e adesso se ne stavano a bocca aperta in attesa dell'evento, chissá quale, ma comunque sempre una cosa nuova nuova e interessante. E poi c'è nonno, con lui ci si diverte sempre.
Evviva la faccia, gente! Mettete al mondo figli, che poi vi cacano questi nipoti e ve li lasciano "solo per una mezzoretta, papà; tanto sono buoni", ma dopo tre ore ancora non si vedono.
Intanto l'immondo batrace in mutande da bagno mi ha messo gli occhi addosso e li stringe come fa un miope quando non vede una mazza, oppure un serpente quando vuole ingoiare la preda, suppongo.
"Adesso come la mettiamo?"
"Lo mandi in lavanderia e mi porti il conto; noi siamo tutte le mattina sotto l'ombrellone numero 115"
"E se domattina partite?"
"Alle corte, gli dico,una sciocchezza del genere non può costare più di diecimila lire. Adesso gliele porto" e faccio l'atto di allontanarmi.
"OK! fa il rospo, ma prima porti via di qui quella fetente"
Che te possinammazzatte brutto stronzo, pensiero rapido; ma dove cavolo sta mio genero, il padre di Sofia, cintura nera di judo? pensiero rapidissimo.
Ma non si può rimanere zitti, non io, non Vincenzo Iacoponi. E no!
"Guarda che questa fetente ha un nome e un cognome e soprattutto un nonno, che sono io, che te fa un culo tanto se non chiudi quella fogna".
Cacchio, gente! Era il doppio del mio peso e come minimo trenta anni più giovane, ma io sono della vecchia scuola, di quelli sopravvissuti al secondo conflitto mondiale. Datevi una regolata.
Appena fa 'na mossa, pensai, je dò 'n carcio ne le palle e so cazzi sua.
Il trippone debordante deve aver pensato la stessa cosa, perché ebbe un attimo di esitazione, quel tanto che bastò ad un giovanotto aitante e premuroso per mettersi in mezzo.
"Nonnetto, mi disse con un sorrisone, vada nonnetto, vada con la bimba, non è successo niente. Vada pure senza preoccupazioni, nonnetto"
E daje co 'sto nonnetto; mo sta a vedè che lo devo pure da ringrazzià 'sto stronzo de merda.
Basta. Me ne sono andato con la piccola per mano, seguito dal resto del branco ed ho pure risparmiato le diecimila lire.
Ho ripensato a questo fatto ieri mattina. Sono andato a Wörth per spedire un pacchetto. Ho parcheggiato la macchina nel piazzale -piazzale ho detto, non vicolo, ricordatevelo- antistante l'ufficio postale, e col mio pacchetto sottobraccio ho fatto l'atto di avviarmi. In quel momento ho visto un'ombra alla mia destra; mi sono girato: un uomo sui trenta anni si era fermato e mi faceva cenno di passare. "Guten Morgen" mi ha detto, portandosi due dita alla falda del suo cappello. Ho risposto e sono passato. Lui avrebbe potuto attraversare obliquamente il piazzale passandomi dietro oppure davanti, c'era spazio sufficiente per entrambi, ma aveva preferito non intralciarmi il passo. Non lo avevo mai visto, né lui aveva mai visto me. Aveva lasciato la precedenza ai miei capelli bianchi. Questa è una delle tante cose che amo nei tedeschi: il rispetto per le persone anziane. Non siamo a Sparta né a Roma antica, qui non ci sono tabelle con su scritto "Senatus populusque wörthenses oppure germanicus", ma hanno il massimo rispetto per chi sta su questa terra da qualche decennio prima di loro. E poi il rispetto per gli animali, domestici e no. E infine il totale rispetto della cosa pubblica, perché se è pubblica è di tutti, cioè anche nostra. Vallo a dire a un italiano in Italia.

lunedì 22 febbraio 2010

COSTANZO MAURIZIO SHOW OPPURE COSTANZO MAURIZIO SCHEISE?

Per quanto mi riguarda poteva rimanere a Mediaset. La sua trasmissione risentiva di un po' della stanchezza di tutte le cose vecchie, ma era ancora dignitosa.
Appena è arrivato alla RAI, oppure in RAI come dicono certe checche snob, lo hanno messo a dirigere il traffico tutte le mattine da martedì a venerdì nella tribuna stampa del Festival di San Remo. L'ho veduto un paio di volte e non mi è sembrato malvagio; insomma se la cavava tirando fuori dalla gavetta tutta la sua routine. Sempre meglio che esibirsi da Milly Carlucci in una improponibile e inguardabile veste di danseur. In fondo caracollava lentamente, molto lentamente, spostando la sua trippa ed il suo girocollo da ippopotamo senza provocare giri d'aria dietro le quinte; si sa, i cantanti hanno la gola delicata e aborrono gli spifferi.
Ma poi è arrivata la serata finale. Una serata agitata per via di una votazione popolare bislacca, che aveva portato ai piedi del podio, quindi a medaglia, quella mielosa litania del principe Prezzemolino, quello che da un po' di tempo ti ritrovi sempre tra i piedi, che si canti o che si balli, che si rida o che si pianga. E proprio in quel momento di tensione è entrato in scena Trippa.
Appena lo si è visto arrivare, così misurato e attento a dove metteva i piedi, si è avuta la sensazione dell'imminenza del fatidico colpo di teatro, quello che gli antichi chiamavano l'intervento del "deus ex machina", il tocco finale, che tutto aggiusta e risolve, che Trippa ha però trasformato nella cagata aggiunta, anche detta "cagata finale".
Malgrado il rispetto per quei tre poveri diavoli maltrattati dalla sorte trascinati sul proscenio, malgrado la sacrosanta umana solidarietà per chi sta peggio di noi, turlupinato da un becero capitalismo che se ne frega dei problemi della gente ma pensa solamente ai propri interessi; malgrado tutto mi vuoi spiegare Trippa, che c'entravano quei tre con una trasmissione di intrattenimento, canora e leggera che più leggera non si può?
Sostiene Trippa che in quel momento c'era un ascolto di oltre venti milioni di telespettatori. Cacchio, è vero Trippa, c'ero anche io che di solito mi astengo. Proprio per questo mi incavolo, Trippa, perché, cacchio e controcacchio, tu mi hai imbrogliato, tu mi hai costretto ad ascoltare la voce del cagnolino di D'Alema e di quel ministro del patrio governo più antipatico del morbillo, mentre io volevo ascoltare solamente il nome del vincitore del festival. E non credere che ti sia andata meglio con gli altri 19.999.999 spettatori televisivi, perché erano tutti lì con la stessa mia intenzione.
Mi sembra chiaro che devi aver dimenticato che un nuovo dio governa il mondo, un dio piccolo piccolo, quindici centimetri per quattro, piatto, con tanti bottoncini numerati e un piccolo tasto, il più importante, triangolare che di solito sta a destra in posizione centrale. Basta premere quel tasto con un ditino e zac! la tua facia di merda scompare. D'accordo Trippa, ce ne sono tante anche negli altri canali; vabbè, non si può avere tutto dalla vita, ma almeno la tua faccia scompare di sicuro.

domenica 21 febbraio 2010

DIFENDO MOU CONTRO TUTTO E TUTTI

Oggi è domenica, quindi cazzeggiamo felici e contenti svolazzando insieme ai venti con la "e" aperta.
Ieri sera avevo invitato i miei due maschi a vedere la partita della beneamata contro quei pescatori della Samp, ma chi con una scusa "Fa freddo" Federico-scusatio, chi con un'altra "Non mi va di lasciare troppo a lungo sola Edyta" Alessandro-scusatio, mi hanno lasciato solo a combattere contro il Festivalle, che sicuramente Annamaria avrebbe voluto seguire, pensavo. Invece mi sbagliavo, perché anche lei aveva le biglie piene di Antonella Cicciona cicciò ed il suo caravanserraglio, e poi perché anche lei è della stessa fede dei suoi uomini.
Ebbene sí: siamo una famiglia interista e ce ne vantiamo; e che nessuno pensi che oggi sia fin troppo facile chiamarsi tifosi nerazzurri e che quindi anche noi, come tanti, eccetera eccetera, il solito piagnisteo italiota. No, egregi amici, no! Io sono diventato interista nel 1946, quando Massimo Moratti era nato forse da un paio di anni; quando Benito Lorenzi guadagnava 40.000 lire al mese, che sono circa 10.000 euro di oggi, non un milione di euro o poco meno di certi campioni odierni.
Ho fatto tutta la trafila: ho visto i tanti insuccessi ed i pochi successi di questa squadra, ma ero a San Siro con Annamaria, Doddi, Vannuccio e Antonio Coates il 12 maggio del 1965 quando battemmo il Liverpool 3-0 con il fatidico terzo gol di Giacinto Facchetti.
Quindi ho il diritto di parlare e di dire che, malgrado certi suoi atteggiamenti troppo da guascone, io rimango dalla parte di Mou, anche quando scimmiotta un carcerato portato via in manette come ieri sera.
Ha dato la sua impronta a questa squadra e il suo carattere; ha fatto lucidare ai suoi giocatori le due palle che hanno per poter in dieci battere il Milan del Berlusca (che soddisfazione, ragazzi, ma che soddisfazione!), e per sfiorare di vincere in NOVE contro undici ieri sera. L'unica palla gol l'ha avuta davanti al suo piedino Samuel Eto' o: l'ha sparata giusta, ma è stato bravo Storari a prendergliela.
Che poi il Mou dica peste e corna di Mazzarri (ma chi è?), di Bettega (è ricicciato, e Moggi dove sta nascosto?) della Sensi e di Ranieri a noi interisti va benissimo. Abbiamo già un presidente troppo signore, se il nostro allenatore sparla di qualcuno ha la nostra totale solidarietà.
Mou, sei tutti noi.

venerdì 19 febbraio 2010

AMOKLÄUFER

Sembra che Amok fosse una divinità errabonda, chi dice nordica, chi slava, di origine assai lontana nel tempo. Un dio randagio, insomma, che non aveva mai pace. Aggiungendo al nome di questa divinità il sostantivo Läufer, che significa camminatore, i tedeschi hanno tirato fuori un termine che è una intera espressione: indica qualcuno che non trova mai riposo, che è sempre in ansia, sempre in cerca di guai. A Civitavecchia si dice "uno che nun trova palo dove allegà la cavezza der somaro".
Da qualche anno però Amokläufer indica un assassino giovanissimo, che parte da casa una triste mattina per fare una strage: teatro del dramma, "tatort" nella lingua originale, una scuola. Sembra trattarsi di un tentativo di pareggiare i conti con quei ragazzi americani, un paio negli ultimi anni, che hanno ammazzato qua e là in alcune cittadine degli U.S.A. una trentina di colleghi e di insegnanti, sparandosi poi l'ultima cartuccia nel cervello. Una specie di campionato mondiale della pazzia furiosa.
Tre anni orsono ad Erfurt, bella città della Turingia, un diciannovenne all'ultimo anno di liceo è arrivato a scuola con un paio d'ore di ritardo. A tracolla aveva un tascapane pieno di caricatori di pistola, quattrocento colpi in tutto, e due pistole di grosso calibro in tasca. Al bidello che gli chiedeva ragione del ritardo rispose con due colpi nell'addome. Primo morto.
Al rumore dei colpi dalla segreteria due insegnanti uscirono fuori nel corridoio. Non ebbero nemmeno il tempo di rendersi conto di quanto stesse accadendo. Secondo e terzo cadavere. Salendo le scale che portavano alle aule l'Amokläufer fece il quarto morto, un professore qualunque, che stava andando per i fatti propri.
Due ore dopo la polizia riuscì a fare finalmente irruzione nell'edificio scolastico: c'erano altri quattordici morti, compreso lo sparatore, che si era tirato un colpo in bocca. Si trattava di tre insegnanti e dieci ragazzi dai sedici ai diciannove anni. Oltre a sedici feriti, naturalmente.
L'assassino era un ragazzo normalissimo, disse il portavoce della polizia alla TV. Ottimo nel rendimento scolastico; nessun motivo apparente per una simile carneficina. Ancor oggi nulla è emerso che possa far capire il movente di tanta follia.
L'anno scorso in una tranquilla cittadina finlandese un altro ragazzo modello di diciassette anni ha portato con sè all'altro mondo sei compagni di scuola. Anche qui nessun motivo chiaro, nessun preavviso, niente. Una mattina, arriva puntuale a scuola insieme agli altri camerati, entra in classe e "bum! bum! bum!" ammazza i primi sei che si trova davanti, poi tranquillamente si spara in testa. Bingo!
Questa mattina a Ludwigshafen, città della Renania Palatinato, un ragazzo fino a ieri assolutamente normale, si è presentato a scuola con un coltello in tasca. Aveva un movente: odiava il professore di matematica, che gli dava voti troppo bassi, secondo lui. Appena il Prof è entrato in classe il giovane normalissimo gli ha rifilato sei coltellate e lo ha steso morto.
Più tardi all'ispettore di polizia che lo interrogava ha risposto: "ti dico come è andata se mi passi una coca cola".
Bene gente, questa è la normalità.
Non normale quello che la TV ha riferito che sia avvenuto negli Stati Uniti. Uno studente di dodici anni, colpevole di avere scritto col pennarello il proprio nome sul banco, è stato condotto in carcere dai poliziotti ammanettato, mani e piedi come quei poveracci di Guantalamo.
Dodici anni, gente, l'età dei primi peli di barba, della scoperta del proprio sesso, l'età dei giochi, della prima ragazzina, e ti portano via ammanettato come un pluriomicida per un paio di segni sul banco col pennarello nero.
All'Amokläufer di Ludwigshafen è stata portata la coca cola che aveva richiesto. Lui se l'è scolata e poi ha raccontato tutto, buono buono. Avrà un processo regolare, e gli daranno 25 anni, il massimo qui. Fra quindici anni sarà fuori, forse migliorato, certamente senza gli incubi di un arresto violento.
Dove sarà fra quindici anni il dodicenne americano?

giovedì 18 febbraio 2010

PERCHÉ SANREMO È SANREMO

Da due giorni il mondo per gli italiani non gira più, sta fermo a qualche chilometro da Genova, nella città dei fiori. È in corso il 60° Festival della canzone italiana. Che poi è anche il festival del gossip, del cattivo gusto e delle scosciate in primissima fila. Chissà perché proprio davanti a tutti piazzano sempre una figa imperiale, che, tra una canzone e l'altra viene nobilmente inquadrata dal basso, sempre con una coscia appoggiata sopra l'altra. Boh! Ma ogni anno ne trovano una nuova, e si tratta della RAI, non di Mediaset.
Fino all'altro ieri si è parlato soltanto di Morgan e del gran rifiuto della direzione RAI di farlo partecipare. Colpa sua, di Morgan cioè: che ci azzeccava andare a raccontare al giornalista di MAX in una intervista non solo che si drogava, ma che lui poverino lo faceva per curarsi la depressione. Qualche decennio fà un medico svizzero, Jungans o qualcosa di simile, aveva iniziato in una clinica una serie di esperimenti in cui per l'appunto usava cocaina per migliorare il morale dei malati di depressione. Smise dopo qualche mese per le terribili conseguenze: la cocaina dà sul momento uno stato di euforia che risolleva il morale del depresso, ma poi lo lascia nella merda più a fondo di prima, e provoca assuefazione, parola maledetta, che significa schiavitù, impossibilità di liberarsi della droga.
Questo probabilmente il povero Morgan non lo aveva mai letto, si era fermato alle prime tre righe, che sono sempre le migliori di un racconto; poi vengono le altre righe, ma lui si era fatto e non le ha lette.
Ma non voglio raccontarvi di questo, bensì della caciarona che si è fatta di pareri a favore e contrari, come sempre a casa nostra. C'era chi sosteneva, a ragione secondo me, che la RAI ha non solo la funzione informativa ma anche quella educativa trattandosi di mezzo di comunicazione pubblico, per cui giudicava legittimo il comportamento della direzione che aveva escluso Morgan, non essendoci altro da fare. C'erano invece i tantissimi bastian contrari che volevano la beatificazione del cantante direttamente sul fatidico palco dell'Ariston. Perchè mai, malgrado la confessione? Perché lo fanno tutti. Ma questo è da provare e poi se tutti lo fanno solo a Morgan è venuto in mente di farne propaganda. Allora? Allora perché si tratta di un grande artista.
Con quel nome lì, abbinato all'aggettivo grande io conosco solamente un pirata del XVII secolo, su cui sono stati scritti libri, storie vere o inventate importa poco, e girati films ai tempi d'oro della pirateria hollywoodiana. Altri grandi Morgan non conosco e non mi si venga a dire che per aver cantato due o tre canzoni buone, forse, ma conosciute dai soliti quattro addetti ai lavori, e per aver partecipato e concionato a X Factor insieme alla vampiressa nazionale Simona I° la grande, lei sì almeno a tirar su audience, abbia acquisito un colossale bonus da poterci poi campare nei secoli prossimi futuri, perché mi ribello e con me tutti coloro, che di questo Morgan conoscono solamente il ciuffo grigiastro e la barbetta caprina.
Evitata, perché a un certo punto me ne sono fregato, la mina galleggiante Morgan, sono arrivato alla prima serata dello spettacolo più atteso dagli italiani, quasi più dei prossimi mondiali di calcio in Sudafrica.
E finalmente è entrata in scena lei, Antonella Clerici, la cicciona della porta accanto, vestita come un'insalata di pomodori freschi, con le tettone che quasi le toccavano il mento ed i tacchi della scarpe come trampoli nel circo; infatti poverella saltabeccava su quell'immenso proscenio come fosse stata ingessata per una fresca caduta sul ghiaccio.
Non ho niente contro la Clerici, che mi sta anzi simpatica. Ha la mia solidarietà per il modo incivile, assai poco corretto con cui le han tolto quella che era la trasmissione che più le si adattava, La prova del cuoco, per darla a una stacchiona più giovane, più fresca, più...tutto. Al punto da far sembrare la conduzione del Festival un compenso ad Antonella per il posto soffiatole. Allora ditelo, e soprattutto trovate uno stilista che riesca, sempre che sia possibile, a ricoprire degnamente con drappeggi ed abiti più consoni, tutto il lardo debordante della fresca mamma.
Sulle canzoni nessun commento: non sono un critico musicale e per me va bene tutto, perché San Remo resti sempre San Remo.

mercoledì 17 febbraio 2010

L'ERBA DEL VICINO É SEMPRE PIÙ VERDE

Parafrasando questo titolo di un film famoso di Stanley Donen del 1960 (The Grass is Greener), mio figlio Federico, detto Chicco perché è alto solo 202 centimetri sul livello del mare, dovrebbe dire "i figli degli altri sono sempre migliori, più buoni, più educati e più qui e più lì e più su e più giù, e soprattutto più zitti". Povero Chicco, gli sono capitati due gemelli scatenati cha adesso hanno nemmeno trenta mesi, ma che promettono fuoco e fiamme almeno per i prossimi cento. Alcuni giorni fà hanno ribellato un ristorante cinese, correndo tra i tavoli, in mezzo a commensali increduli e sbalorditi. I bambini tedeschi infatti non sono così vivaci e difronte alle occhiatacce dei genitori fanno come i topini davanti ad un serpente: rimangono immobili e silenziosi. Fabio e Alessia gli occhi dei genitori nemmeno li guardano, e se li guardano se ne fregano. Come pure i bambini turchi, e quelli portoghesi e spagnoli. Forse che i piccoli tedeschini vengono allevati a sonnifero e camomilla e i nostri a Barbera e caffè nero? Certamente no, ma un motivo c'è, valido, se i crucchetti sono così composti da sembrare zollette di zucchero addormentate: l'archetipo educativo che ricevono, stavo per scrivere subiscono, fin dalla tenerissima età. Totalmente all'opposto di come vengono allevati i nostri ed i figli di quasi tutte le coppie non tedesche.
Qualche settimana addietro mia nuora ha portato i due bimbi dalla pediatra. La dottoressa li ha osservati in silenzio per qualche minuto, mentre mia nuora cercava di dar loro una calmata, invitandoli a star buoni. Quando la pediatra ha aperto bocca ha detto, testualmente: "Frau Iacoponi, sprechen Sie mit den Kindern deutlicher, langsamer und überhaupt nicht so laut", cioè a dire "parli coi bambini in modo più chiaro, più lentamente e soprattutto a voce bassa". Capito? Tutta lì la differenza. I genitori tedeschi, i nonni tedeschi, i parenti tedeschi e tutti i tedeschi in genere quando si rivolgono ai bambini, parlano in perfetto tedesco (senza usare la cosiddetta lingua dei bambini, cosa che tanto piace alle nostrane genti), molto lentamente e chiaramente senza mai alzare il tono della voce. I bambini apprendono a parlare in quel modo per imitazione e si comportano di conseguenza. Se strilli corri, se parli sottovoce cammini e ti fermi quando la Mutter ti dice "sei ruhig", stai calmo. Federico nel locale cinese non ha nemmeno potuto mangiare in pace, poverino, costretto a correr dietro alla sua tribù di gente tosta, senza spesso cavare un ragnetto dal buco. Ma più che altro si disperava per la figuraccia assassina che lui e sua moglie stavano facendo davanti ai teutoni; la figura degli incapaci, dei genitori succubi dei figli, che poi da grandi troveremo nelle nostre strade a far schiamazzi e schifezze.
Lo capisco e lo giustifico: anche io più di trenta anni fà, quando lui e i suoi fratelli erano ancora piccoli, mi mangiavo la ratta nel vederli fare il comodaccio loro. Vedevo solo occhi puntati su di me, pieni di disgusto, di attoniti spettatori che accusavano tacitamente me e Annamaria di essere degli incapaci, che non sapevano esigere da quattro stronzetti disciplina e un po' di silenzio; e più casino facevano loro -laddove Chicco era un vero capobanda-più mi sarei nascosto sottoterra, mentre Annamaria quasi sempre allungava il passo guardando vetrine e paesaggio, come se fosse capitata lì per caso e non fosse stata lei ad aver partorito quelle carogne.
Sono dovuto diventare nonno, e nonna lei, per capire una cosa elementare: i bambini fanno casino, perché fanno i bambini, che altro potrebbero? Almeno i non Barbari. E che lo facciano, vivaddio, ché poi la vita è uno schifo e questa ingenuità così bella non torna più.
E i grandi si facciano quattro risate, quattro sane risate alla faccia degli schifatissimi crucchi.

lunedì 15 febbraio 2010

FAVOLE IN VIAGGIO CON LA VECCHIA, CARA POSTA

Oggi ho spedito a Cristina G.B. alcuni miei racconti inediti. Si tratta di favole tra il surreale e il metafisico, che non piacerebbero a Fuma -me lo ha detto lei stessa, commentando il primo capitolo del romanzo che sto scrivendo e che le avevo allegato ad una mail-, ma sono pronto a scommettere che piaceranno a Cristina. Intanto Ornella ha iniziato la lettura di "Martedì dopo l'autunno" e che Dio me la mandi buona, perché Ornella non ha peli sulla lingua e le cose non le manda a dire. Mi sono circondato volutamente di lettrici, perché dell'intuito femminile mi fido di più; ma non solo. Ho notato una non definibile reticenza da parte di lettori uomini, amici e parenti strettissimi, nell'esprimere un giudizio chiaro e illuminante su quanto abbiano letto. Mi hanno dato sensazioni diverse, a volte addirettura contrastanti, tipo "mi è piaciuto, ma non ci ho capito mica tanto"; oppure "belli entrambi i due romanzi", ed alla replica che si trattava di uno solo sentirmi dire "sì, può darsi; ma a me sembravano due di seguito, come al cinema". "Vuoi dire primo e secondo tempo?" (anche io ho bisogno di qualche attimo per afferrare un concetto contorto); "no, no, proprio come due film di una saga, tipo il signore degli anelli, o Henry Potter, una cosa così".
Beh, dopo ti senti meglio, vuoi mettere!
Invece con le ragazze è tutto più limpido, tutto più semplice: ti dicono non mi è piaciuto, fine. Oppure capiscono tutto, ma proprio tutto, anche le cose che tu credevi appartenessero solo al tuo mondo nascosto, invalicabile ad altri. Come ha fatto Cristina G.B., come farà certamente Ornella, come farà Fuma, quando toccherà a lei.
In fondo la mia prima esaminatrice, giudice e critico è stata mia madre, una donna che scriveva extra benissimo e che pretendeva dal figlio già dalle prime classi delle elementari "un modo di esprimersi elevato, e non mi rimanere ai pensierini tipo il mare è blu, il mare è agitato e il mare è grande assai, che ti sollevo da terra a schiaffoni". "Il mare è bagnato, mamma", dissi per provocarla e indurii i muscoli del collo aspettando la sberla.
"Se sei capace di approfondire questa definizione vuol dire che hai fatto un passo avanti, e che io non ho sprecato il mio tempo con te. Ma se non ci riesci, sai quello che ti succederà", concluse mimando uno schiaffo. Mi piantò lì nella disperazione più nera, perché la testa nel buco l'avevo infilata da solo, per fare il furbetto. Non temevo lo schiaffo, ci ero abituato, ma la figura di merda che avrei fatto, che stavo sicuramente per fare.
Sono uscito dal buco tirandomi per le orecchie con un ragionamento pseudo didascalico sul perché un liquido che bagna qualsiasi cosa vi si immerga è poi in fondo capace di bagnare se stesso, per l'inverso motivo secondo il quale chi ne resta fuori rimane asciutto, come l'aria che arriva a sfiorare il pelo dell'acqua o i piedi nudi di un ragazzo che pesca seduto sul pontile. E mi sono adesso incartato, come m'ero incartato allora, con le mie stesse parole; in fondo devo aver incartato anche mia madre quella volta, perché non mi ha dato quello sganassone che mi aveva promesso.

sabato 13 febbraio 2010

CI FATE SENTIRE TUTTI DENTRO UN PUZZOLENTE SACCHETTO DI IMMONDIZIE

Iniziando a scrivere questo blog mi ero riproposto di non fare nessun post di politica o di politichese. Finora ci sono riuscito, ma questa ultima storia di Bertolaso mi ha fatto venire la nausea.
Cominciamo col dire che nessuno è intangibile, ma diciamo pure che nessuno può essere buttato in pasto al ludibrio delle genti se non venga prima provata la sua colpa, cioè se non ci sia stato un rinvio a giudizio, un primo giudizio, un secondo e un terzo, tutti di condanna.
Ieri Sansonetti, che non è certamente di destra, ma un giornalista di sinistra serio, onesto ed equilibrato, ha detto in TV che "...non ci sono le prove, ma certo legittimi sospetti di una magistratura ad orologeria. Ma poi, diciamolo chiaro -continua Sansonetti- la colpa non è dei magistrati, ma dei giornalisti, che montano subito un processo mediatico ed emettono la sentenza quando ancora non è iniziato l'iter giudiziario".
Allora, signori della stampa parlata e scritta, mettetevi d'accordo: fino a poche ore fà il dottor Bertolaso era un eroe nazionale, la ciliegina sulla torta, il fiore all'occhiello dei governi di destra e di sinistra, l'uomo della Provvidenza; e l'Organizzazione che dirige, La Protezione Civile, il vanto della nazione italica e degli italici governi. A ragione, dico io, che vivo all'estero: qui in Germania, ad esempio, di Bertolaso si dice bene benissimo, con quello stupore tipicamente tedesco quando si accorgono che in "Italien" qualcosa funziona ottimamente.
Dall'altro ieri Bertolaso è precipitato impietosamente dagli altari alla polvere delle macerie di uno dei tanti terremoti in cui è stato protagonista. Senza che a qualcuno venisse un dubbio, senza che qualcuno per pudore prendesse le distanze e dicesse: fino a prova contraria, oppure vediamo un po' come si mette 'sta faccenda. No. È un traditore, un corrotto, da abbattere.
Il PD, tanto per non perdere il treno dell'IdV, grida alle dimissioni. "Che si dimetta da solo, dice Bersani, altrimenti lo chiederemo noi". Ma Bertolaso si era immediatamente dimesso chiedendo di essere ascoltato subito dal giudice. Il Governo ha respinto le sue dimissioni. Dov'era però il giudice che lo avrebbe dovuto ascoltare? Chi è costui? Ha un nome e un cognome? Stanno forse tutti a lezione da Di Pietro? O piuttosto da De Magistris, che l'altra sera a "Porta a porta" ha dato un saggio di assoluta intelligenza e capacitá indagativa avanzando dubbi feroci sull'autenticità dell'incidente a Berlusconi, come se il tizio colla miniatura del duomo di Milano fosse stato prezzolato e ingaggiato da Mediaset per lo scoop dell'anno, del secolo e del millennio. Al pensiero di capitare accusati da un simile genio della magistratura c'è da farsi venire il tremore alle vene e ai polsi, signori miei.
In fin dei conti di che cosa è colpevole Bertolaso? Di corruzione. Allora se è un corrotto vuol dire che si è arricchito, intascando denari per favorire amici suoi o comunque ditte e imprenditori che pagavano meglio di altri. Ma qui cade l'asino, anzi il somaro: Bertolaso, secondo una certa stampa nazionale ha favorito determinate imprese ed Enti in cambio di prestazioni sessuali con una certa Francesca.
Gesù! Ma che mi dite!
Insomma, voi volete che io creda che un uomo nella sua posizione, che potrebbe veramente fare soldi a palate, se fosse un corrotto come dite voi, si accontenta di quattro scopate con una bella gnocca?
I miei amici tedeschi, ai quali l'ho raccontata, stanno ancora scompisciandosi dalle risate.
"Voi italiani siete dei gran burloni", mi ha detto Frau Kunts.
Fosse vero, Frau Kunts; purtroppo c'è chi di queste cose campa e fa proseliti.
L'ho detto e lo ribadisco: non faccio il politicante e non scrivo politichese; ma non potevo tacere di fronte a questa enorme buffonata. Venga controllata attentamente e a fondo, da chi di dovere, la posizione di Bertolaso, ma si faccia a meno di volerlo far passare per un imbecille assatanato di sesso. È ignobile nei confronti di ciascuna persona per bene che legge una simile notizia.
E questa sia l'ultima parola che scrivo su tali argomenti.

giovedì 11 febbraio 2010

RICORDI CONGELATI

Ieri, in quello che è stato il giorno più freddo di questo inverno qui a Maximiliansau -9° a mezzogiorno, seguito da una notte dove il termometro è sceso a -16°, in casa mia non avevamo più acqua calda nè riscaldamento! Mentre la colonnina della cisterna del gasolio giù in cantina segnava la presenza di 2500 litri abbondanti in realtà non ce n'erano nemmeno 200. Risultato: il bruciatore ha succhiato aria e melma e si è miseramente fermato.
Di solito, quando succedono incidenti del genere, c'è un servizio di amergenza; ma non è casa mia e siamo soggetti alle lune, quasi sempre storte, di una padrona di casa acida e rinsecchita. Al telefono se l'è presa con me che non avevo controllato.
-Mi tuffavo nella cisterna, Frau Ferrer?
Non si è calmata, ma ha continuato a borbottare.
-Devo provvedere io stesso qui in loco?
-Provvedo io, oggi in giornata deve essere tutto a posto.
Quello che volevo sentirle dire. Ed è cominciata l'attesa del pronto intervento. Rincantucciati in un angolo del nostro enorme appartamento, che diventava di minuto in minuto più gelido, io e Annamaria abbiamo iniziato a tirar fuori il nostro equipaggiamento da giovani esploratori dei ghiacci polari: prima un maglione girocollo, poi un pullover sopra al girocollo, poi una sciarpa di lana, poi aspetta che mi sembra che le mutande felpate siano ancora nel baule. Quali? Le tue e le mie. Allora che aspetti ad andar di sotto a prenderle? Ma non sarà troppo? Tu valle a prendere poi vediamo.
Allora io volo giù nel vestibolo, dove sta il maledetto baule. Tiro fuori i mutandoni miei e le calze maglie felpate sue. Ci andavamo nelle nostre escursioni invernali in Cadore. Chissà se mi entrano più; a lei di sicuro, è rimasta come era allora, accidenti a lei, mentre a me guarda quà che bozzo mi è cresciuto sullo stomaco. Chi se ne frega, si tratta di due o tre ore e poi le buttiamo; stavolta li buttiamo 'sti stracci.
Ma dopo due minuti già volano via i pantaloni e gli stracci maledetti ancora riesco ad infilarli. Infilarli solamente, perché non si può chiudere il bottone che sta in vita. E dai! Basta stringere bene i pantaloni, non cascano mica le mutande se stanno dentro i calzoni. Ma poi dura poco.
E intanto l'intero pomeriggio se ne è andato. Mio figlio non c'è. Dovevano andare a Varsavia proprio oggi? Ieri era il tuo compleanno. Ho capito! Intendevo che potevano aspettare ancora un paio di giorni. Loro hanno un appartamento grande e ci hanno invitato così tante volte...Ma tu non sei voluto mai andare. E invece stavolta ci sarei andato, vedi un po`. Abbiamo altri due figli.
Ferma lì! A casa di Stefania non metto più piede, dopo l'ultima volta che pretendeva mi togliessi le scarpe fuori della porta. Sai quanto è pignola, e tu eri tutto inzaccherato di neve. Non ho le propelle sul sedere e quando cammino nella neve io mi inzacchero.
Non replica. Sa che è inutile.
Potremmo...
No! A casa di Federico, no! Ieri già hanno litigato per una stronzata lui e Sara; non voglio dargli un altro motivo di fare polemica con me, con te, con Sara, coi bambini, col suo dio...insomma non andiamo da loro e basta. E che facciamo, moriamo di freddo?
Già, alle diciannove e venti il servizio urgente te lo puoi scordare.
Andiamo in albergo. Io e te? Ci devo portare un'altra? Oppure lo vuoi tu un altro partner? Basta dirlo. Deficiente! E se ne va con l'andatura che aveva a venti anni. Solo per cinque metri però, perché le fa male un'anca. Visto?
In albergo non ci vengo. Ultime parole di Annamaria prima di cadere in una specie di catalessi. Prendo una coperta, gliela metto sulle spalle, infilo il giaccone e parto sparato. Garage...macchina in moto...macchina veloce sulla neve fresca e via a casa di Metin. Lui è turco, buon amico mio, anzi il mio miglior amico in Germany, lui risolve tutto.
Mezzora dopo rientro in casa con una stufa elettrica grande quanto una barca.
E quella che è? Stufa elettrica. Così grande? Stufa elettrica turca, per famiglie turche, numerose. Attacco la stufa, due minuti dopo si brucia. Abbassa quell'aggeggio, fa troppo caldo adesso.
La portiamo in salotto. Apro il divano letto. Dormiamo qui? Certo, rispondo, questa è la stanza più calda, anzi meno fredda della casa, perché è la più interna e riparata.
Un pochetto di TV tedesca su ARD; un pochetto di "Porta a porta" e s'è fatta l'ora di dormire.
Lei dorme. Io non ci riesco. Il mio lettone è più grande e più morbido. Questo è stretto e duro duro. Ma lei dorme. Allora mi riviene in mente una volta insieme io e lei in una baita nella zona delle Tre Cime. Come adesso sopra un letto che non era né il mio né il suo, già perché non eravamo ancora sposati e lei era ancora illibata. E ci rimase, perché io da bravo ragazzo non volevo distruggerle il sogno che faceva fin da piccola: mi aveva rivelato che sognava di sposare con un abito bianco. E allora? Allora l'abito bianco si porta da illibata. Pensa tu che idee. Ma come puoi distruggere un sogno alla donna che ami? Così quella notte non avevo dormito. Avevo cercato di pensare a tante cose per non pensare a quella cosa. E non potevo mostrarle il sedere, perché mi sembrava brutto, ma nemmeno potevo mostrarle la faccia perché si muoveva tutta e mi avrebbe fatto star malissimo. Così rimasi supino, come un vescovo panciuto. Come rimango supino adesso perché il divano è troppo duro e come mi muovo mi faccio male, e poi forse lei si sveglia.
Sono arrivati tutti insieme questa mattina alle 7,30 il servizio di urgenza!! e i due tecnici della caldaia. A mezzogiorno era tutto a posto. Solo alle quattro l'appartamento era sufficientemente caldo da poter riprendere possesso del mio PC. E l'ho fatto.

mercoledì 10 febbraio 2010

MIO NIPOTE ALESSANDRO FA IL TERZINO

Mio nipote ha un fisico bestiale: ha fregato i suoi due zii e sorpassato in curva suo nonno edizione anno 1954. Alessandro fa sport attivo da quando aveva sette anni. Un bravo ragazzo: calcio e studio, studio e calcio. Niente altro in testa. Arrivato oramai ai fatidici venti anni, che chissà perché per un uomo sono un traguardo tanto importante e ambito, può fare un bilancio positivo della sua giovane vita. Promessa, quasi certezza del pallone; abitur ottenuta regolarmente allo scadere del tredicesimo anno scolastico (mai ripetuto, mai portato debiti), svolge attualmente il suo obbligatorio servizio militare, perché di cittadinanza tedesca essendo suo padre tedesco. A giugno finisce e decide se tentare la vita militare come ufficiale, oppure provare in una Università. Sarà una decisione sua e tutti in famiglia siamo convinti che sarà una decisione ben motivata e argomentata.
Fa fitness come tutti i giovani per bene che conosciamo, non ha mai fumato, non beve birra, non beve vino, ma solamente aranciata ed acqua minerale. E guarda le donne come fossero veleno. E questo aveva preoccupato tutti, non poco.
"Ma che ha? -chiedeva Annamaria- Non gli piacciono le donne? Non sarà mica..."
"Ma che diavolo vai a pensare? -rispondevo sistematicamente io- Succedeva anche a me quando ero molto più giovane di lui di vergognarmi con i miei genitori di farmi vedere assatanato. Vedrai che sotto sotto ci sta pensando da un pezzo e prima o poi la trova quella giusta".
Poi ha fatto l'incidente sul ghiaccio con la macchina. Quando me l'hanno detto ho chiesto dove fosse successo.
"All'uscita dell'autostrada che da Stoccarda porta a Tübingen"
"E che cavolo ci faceva a quell'ora in una notte da lupi su quella autostrada?"
"Avrà un amico laggiù"
"No, carini; non vai a cento all'ora sul ghiacchio per andare da un amico. Deve avere i tacchi a spillo 'sto amico"
L'amico si chiama Sara, occhi neri un po' a mandorla, diciotto anni. Studia all'Uni di Tübingen e lui ci andava da oltre due mesi, senza che nessuno sapesse niente. Un tipo Alessandro che si fa gli affari suoi senza fare pubblicità. Zitto, zitto. Hai visto che roba!
Per questo ragazzo siamo stati in ansia quando aveva dodici anni. In quel periodo della sua vita così importante per la sua formazione gli si è infranto un sogno: la sua famiglia si è sfasciata e suo padre, che adorava, se ne è andato con un'altra. Più che infrangersi un sogno, è naufragato il suo mondo. Ricordo di avergli sentito sussurrare una frase che mi ha agghiacciato: mormorò a se stesso "Ist diese Frau für ihm wichtiger als wir?" Cioè: è questa donna per lui più importante di noi?
In quel momento gli deve essere crollato tutto intorno e lui si è sentito solo e abbandonato.
Noi facemmo quadrato intorno a nostra figlia, l'abbandonata numero uno, a Cristina che aveva quattordici anni e al ragazzo. Pensavamo che da quel momemto in poi sarebbe successo di tutto per i due piccoli; pensavamo all'alcool alla droga e a chissà cosa. Si leggono cose gravi sul conto dei figli di genitori divorziati. Cosa è successo? Cristina ha perso un anno scolastico, perché ha preso in mano la situazione, dato che sua madre era KO. Ha trascurato la scuola per rimettere in piedi sua madre. L'anno successivo ha ripreso brillantemente fino all'abitur e adesso sta all'Università. Ad Alessandro non è successo assolutamente niente. Ha studiato di più, migliorando il suo rendimento e la sua media; si è allenato con più caparbia migliorandosi nel suo amatissimo sport.
Adesso gioca in una squadra di lega regionale, equivalente alla nostra C2 di una volta. Gioca in difesa ma corre anche in attacco e fa dei cross al bacio.
L'ultima partita sulla neve c'eravamo anche noi, Annamaria ed io, i miei due figli e le loro mogli.
Hanno vinto 2-1 e lui ha difeso come al solito benissimo ed ha fatto la Flanke -il traversone- per il secondo gol.
"Ma che fa lui in questa squadra?" mi ha chiesto Annamaria.
"Che domanda è? Che vuoi sapere?" le ho risposto.
"Dove gioca, davanti o di dietro?"
"Di dietro: fa il terzino"
"E allora perché sta anche davanti?"
"Perché è un difensore moderno. Si gioca così oggi"
Non sapevamo ancora niente di Sara, altrimenti avrei detto ad Annamaria che lui giocava così perché la partita finisse prima, in modo di squagliarsela dalla sua pischella.

martedì 9 febbraio 2010

DUE DONNE NELLA NOTTE-TANTI ANNI FÀ

Tanti anni fà due donne, Maria Maddalerna Malavisi e Assunta Guidi, combatterono durante una nottata una battaglia disperata.
Ma la storia incomincia circa otto mesi prima, quando Maria Maddalena, mia madre, ebbe la certezza di essere incinta per la terza volta. Seppe in quel momento di rischiare la vita: glielo avevano detto in modo chiaro i medici dopo il secondo parto: "Lei, signora, ha una malformazione congenita. Non potrà avere più figli. Non dovrà, perché potrebbe essere fatale e nefasto per lei."
Forse se la bambina fosse rimasta in vita, mia madre non avrebbe più fatto alcun tentativo; ma Roberta morì a soli otto mesi per una meningite purulenta. Mia madre voleva una figlia, mia madre rivoleva Roberta e si tenne il grembo occupato e "speriamo che sia femmina".
Assunta Guidi, "la Sora Tina", era una donna energica ed assai credente; era la levatrice comunale ed aveva aiutato a venire al mondo un barcone di ragazzini, quasi mezza Civitavecchia, da sola, senza mai chiamare il chirurgo. A quei tempi i figli nascevano nel lettone di casa, con tutte le donne della famiglia indaffarate a correre avanti e indietro per portare acqua caldissima e panni asciutti e puliti alla Sora Tina, mentre gli uomini andavano a fumare fuori della porta di casa, per salire poi di corsa le scale col mozzicone ancora in bocca, bussare alla porta e venire subito cacciati via.
La Sora Tina era arrivata alle quattro e mezza del pomeriggio dell'otto di febbraio. Fuori si gelava, ma dentro casa la temperatura era altissima.
Mia madre aveva già le doglie, quelle buone, "Ma vi devono arrivare quelle buone buone, Sora Marì" la rassicurò la Sora Tina. Il parto non era ancora aperto.
Alle venti arrivarono le doglie buone buone, che buone non erano proprio, visto che mia madre si torceva dagli spasimi. Il tempo passava, le doglie andavano e venivano con sempre maggiore frequenza, ma quel fagotto di ciccia là dentro non si lasciava vedere, solo toccare dalle punta delle dita delle lunghissime mani della Sora Tina.
Alle ventitrè mia madre era stremata e la Sora Tina in un bagno di sudore. Non c'erano più panni puliti in casa e arrivarono i panni puliti delle vicine. In quella palazzina nessuno andò a letto quella notte. Ma il fagotto di ciccia sembrava essersi ritirato verso l'interno: probabilmente non aveva proprio il coraggio di venir fuori.
A mezzanotte a mia madre cadde un velo nero davanti agli occhi. Non sentiva più alcun dolore. Disse solo due parole alla levatrice: "Sora Tì, mi raccomando la bambina" e svenne.
Continuò a riprendersi e svenire per un paio di volte, ma le doglie espulsive erano andate via e la donna collassava.
"Chiamate il padre." ordinò la Sora Tina. "Amleto, gli disse quando arrivò, correte subito dal chirurgo, ché sennò vostra moglie muore" e mio padre partì a razzo.
Maria Maddalena Malavisi aveva sentito tutto e capito tutto. Con le poche forze che le restavano si drizzò sui gomiti e disse imperiosamente: "La bambina deve nascere, la sento che si muove, è viva e deve nascere." Non vedeva più nemmeno ombre, una cappa scurissima se l'era ingoiata, ma il cervello era ancora attivo e la volontà sempre ferrea, come tutti i Malavisi della terra.
Mio padre entrò nella stanza una ventina di minuti dopo insieme al dottor Siligato. Questi si rese subito conto che la situazione era disperata.
-Bisogna trapanare subito, fra cinque minuti sarà troppo tardi.
E guardò mio padre, che assentì ingoiando saliva. E che altro doveva fare, poveraccio?
Il dottore andò nella cucina a far bollire i ferri, soprattutto il trapano. Avrebbe trapanato la testa del bambino, facendone uscire fuori il cervello. Svuotata la testa il resto sarebbe uscito in un baleno.
Nessuno si è mai riuscito a spiegare come una donna ormai prossima al collasso, che non vedeva più nulla si sia potuta accorgere dell'ingresso nella stanza del chirurgo, che avanzava in punta di piedi. Ma Maria Maddalena lo sentì.
Cacciò un urlo e disse alla levatrice: "Salvatela!" Non disse salvatemi, pensò solamente alla vita della bambina, perché quella era una bambina, doveva essere così.
E la Sora Tina fu percorsa da un fremito di orgoglio e di pietà per quella donna. Scansò il dottore, tuffò una delle sue lunghissime mani nel corpo di mia madre, afferrò quell'essere recalcitrante per la testa, torse il polso e tirò fuori ...me.
Era l'una e dodici del nove di febbraio.
"Sora Marì, è proprio bello assai, ma mi dispiace tanto dovervelo dire: è un maschio".
Devo la vita a quelle due donne. La più eroica certamente mia madre, ma solo la tenacia e l'abilità di Assunta Guidi hanno permesso che io vedessi la luce.
Questi che ho raccontato sono i ricordi di mia madre, di mia nonna, della signora Guidi e naturalmente di mio padre.
-Ho tenuto il culo stretto per tutta la notte, mi disse; non sapevo più a quale santo rivolgermi.
Ho capito cosa intendesse dire soltanto tanti anni dopo, quando è nato Federico. Annamaria stava per morire e io con lei. Fosse successo sarei morto dentro, non sarei stato più lo stesso. Tu, uomo, ti senti vittima e carnefice, ma soprattutto carnefice. Una gran brutta sensazione.

domenica 7 febbraio 2010

CHINA RESTAURANT YANGTSE di LIN JIAN KUAN

A Francoforte trentotto anni fà andavo spesso a mangiare al "Mandarin", perché un paio di camerieri erano italiani, amici miei. Loro mi hanno insegnato a distrigarmi tra le pietanze cinesi, dandomi un paio di buone dritte. Innanzitutto se ti siedi e ordini una porzione di pechinese e te la portano puoi star tranquillo che ti hanno servito un vecchio gallinaccio morto di dissenteria: la pechinese la devi ordinare almeno una settimana prima, perché deve essere preparata. E poi costa carissima per la quantità di carne che mangi. Spesso, uscendo fuori devi andarti a fare un panino perché hai ancora fame. Primo accorgimento quindi: mai ordinare una pechinese.
Secondo: tra i menù da 6, 10, 12 e 15 euro mai scegliere il "ciun cian cion" da 15 euro, perché loro ti portano il "cian cin ciao" da 6 euro e te lo fanno pagare 15 euro, come hai ordinato tu.
Terzo: se hai invitato una bella gnocca non fare la gran figata di tentare di mangiare coi bastoncini "perché io qui son di casa". Alla fine non avrai mangiato un cazzo e una volta a casa scoprirai di avere chicchi di riso anche dentro le mutande.
Quarto: se è un ristorante col self service non prendere mai la verdura fumante. Non si capisce se fuma per l'effetto serra, ma la verdura è poi difficilissima da evacuare, perché tende a riuscire così come è entrata, cioè durissima e cruda. Assolutamente vietato il bambus per noi europei: non riesce più e nessuno sa dove vada a finire.
Memorizzate tutte le istruzioni per il corretto uso di un ristorante cinese ho educato la mia truppa con le stesse preziose nozioni.
Da oltre un anno hanno aperto nel centro commerciale di Wörth l'ASIA, un immenso ristorante, grande quanto due campi di pallacanestro paralleli. Arredato con legni e materiali, che vengono dalla Cina, compreso il favoloso soffitto fatto di una intrecciatissima trabeazione in legno dorato, contiene un centinaio di tavoli di legno intarsiato e cristallo. Dentro, tra cuochi e personale di servizio non meno di sessanta persone visibili, oltre naturalmente le diecine di invisibili dentro la cucina.
Io e Annamaria siamo andati a mangiare lì dentro una sola volta. Ho contato i clienti seduti ai tavoli: sessantadue. Il locale sembrava vuoto, come una delle sale d'aspetto della stazione centrale di Milano. È allucinante mangiare mentre una ventina di cinesini vestiti da cinesini come nei loro film sono pronti a scattare per toglierti da sotto il muso il piatto appena hai ingozzato la pietanza. Abbiamo finito in fretta e furia, abbiamo pagato il conto e siamo scappati via.
Mai più qui dentro.
Ma oggi eravamo tutti invitati da mio figlio Alessandro e dalla sua compagna in un nuovo ristorante in Eggenstein. Non potevo trovare una scusa, non volevo: no di certo se mi invita mio figlio, è chiaro. Così alle 14 di oggi, siamo entrati tutti in fila come fanti, in questo nuovo ristorante. Ho capito subito il perché dell'insolito orario. Lì dentro si mangia a tutte le ore, continuativamente. Paghi una tariffa fissa 13,50 per un menù, ti siedi e fai self service. Nessuno controlla, puoi mangiare quanto vuoi. Solamente le bevande sono a parte. La gente si abbuffa fino allo spasimo. Io che sono parco ho preso due menù e mezzo con TUTTO quello che c'era. Ho spazzolato via ogni pietanza con tutte le salse che conoscevo e quelle che ignoravo. Perfino Annamaria ha raddoppiato, il che dice tutto.
Gli unici che hanno fatto solo casino sono stati quei due birbaccioni dei figli di Federico. Hanno solo mangiato frutta e gelato. Ma il loro pasto solito lo avevano già consumato a casa a mezzogiorno.
La cosa che diversificava il China Restaurant Yangtse dall'Asia era che qui in sessanta, settanta metri quadrati c'erano una cinquantina di tavoli, tutti occupati; solo cuochi al lavoro e due cinesine vestite alla loro maniera, come si conviene, che portavano le bevande e liberavano i tavoli dei piatti ormai vuoti. Eravamo assolutamente liberi di muoverci senza che qualcuno della servitù ci assillasse coi suoi inchini. Anzi, adesso che ci penso, non ne hanno proprio fatti.
Soltanto una piccola e breve discussione per il menù dei bambini, condotta in modo molto civile, alla cinese, con ampi sorrisi.
Sostenevano che i bambini occupavano due poltroncine, e loro per ogni posto vendevano un menù. Federico aveva spiegato che i piccoli avevano già mangiato.
-No, no, signole; piccoli bambini piccolo menù, solo tle eulo.
-Non è per i soldi, replicava Federico, ma questi non mangiano più, ci giocano con il cibo e sai poi che succede.
-Fa niente, signole; due piccoli bambini uguale due piccoli menù; solo tle eulo.
Ha portato i due piccoli menù, che sono rimasti intonsi sulla tavola, ma l'onore del popolo cinese era salvo.

sabato 6 febbraio 2010

L'ULTIMO MURALE EGIZIO

Ogni volta che mi trovo dalle parti della Baumeisterstrasse a Karlsruhe entro nel parcheggio sotterraneo del Badisches Staatstheater; mollo la macchina e salgo attraverso le scale interne del Teatro Statale del Baden, l'ingresso delle maestranze, dove sono entrato tutti i giorni per oltre dieci anni.
Non salgo più da tanto tempo nella Malersaal, la sala di pittura; ormai i vecchi colleghi sono tutti andati in pensione e dei nuovi non mi piacciono le facce.
Vado nel foyer, quasi sempre deserto se non c'è lo spettacolo. Sempre lo stesso percorso ogni volta: salgo due scalinate e arrivo alla grande loggia che immette all'ultima scalinata, quella che porta al loggione. Per me è diventato un rito, infatti so di trovarlo lì, appeso al centro della parete più larga ormai da ventidue anni, il mio ultimo Prospekt. Si tratta dell'ultimo fondale che ho dipinto, nemmeno tanto grande, dodici metri per cinque che nemmeno ricordo per quale opera dovesse servire: un murale egiziano, di quelli che di tanto in tanto vengono alla luce attraverso gli scavi di una tomba. Sembra semplice: una figura di donna -di profilo, come quei pittori sempre dipingevano- che emerge da un giardino. Ho detto che sembra semplice all'osservatore odierno, ma ventidue anni fa si trattava di accontentare un presuntuoso ed antipaticissimo scenografo della DDR agli ultimi guizzi del regime.
-Ha visto i colori, Iacoponi? Smorti i verdi, mi raccomando, pallidi e spenti. Pensi che sono stati al buio duemila, forse tremila anni, Iacoponi. Ha idea di cosa significhi? Ma non mi faccia il verde pisello sbiancato dalla biacca, por favor, che già mi ci sono imbufalito a Berlino con quei gaglioffi. Da lei, che è italiano, pretendo un capolavoro.
Mi accorgo di aver dimenticato di dire che lo scenografo, Herr Wolfgang Junghaus, era una formidabile checca di campagna. Sono quelli peggiori per chi come me, viaggiava già verso i cinquantacinque.
-E poi la veste della danzatrice, Iacoponi, guardi che rosso: qua e là di un'intensità da far venire il capogiro, ma poi, guardi guardi bene, Iacoponi, vede i graffi? Li vede? Sa cosa sono? L'usura dei secoli, Iacoponi. Lei mi deve riuscire a dipingere l'usura di due o tre millenni.
Se ne andò lasciando una scia di profumo al suo posto.
Ricordo che rimasi a guardare la grossa foto che mi aveva portato come bozzetto, mentre tutti i miei colleghi se ne stavano alla larga per paura di contaminarsene.
Pensavo: e adesso come cavolo lo sbianco 'sto verde, se non posso mescolarlo con la biacca? E questo rosso "da capogiro" come lo graffio? Ma perché doveva capitarmi proprio questa, adesso che ho dato le dimissioni e alla fine della stagione me ne vado?
Qualcuno mi toccò un braccio, era Herr Flaigg, il direttore tecnico. Un uomo mite, tranquillo, piccolo di statura. Mi sembrò diventato ancora più piccolo.
-È entrato nel mio ufficio gridando che nel nostro teatro abbiamo solo incapaci. "Quell'italiano di sopra non ha capito sicuramente un cacchio. Se fosse stato buono se ne sarebbe rimasto in Italia"
-Ha detto così?-gli chiesi.
-Ha detto proprio così; ma io sono sicuro che lei ce la farà a far star zitto quel comunista. La prego, Iacoponi, ce la metta tutta, ma gli chiuda la bocca ...(e qui disse una parola, che mai avrei pensato di sentirgli dire, e non la sussurrò, la gridò tanto che tutti sgranarono gli occhi dallo stupore)...chiuda la bocca a quell'Arschloch.
Non c'é nulla di più spregiativo per i tedeschi che definire qualcuno un orifizio da cui passa la cacca. Il mite Herr Flaigg, il purista Herr Flaigg, doveva aver superato ogni limite di sopportazione.
Io ce l'ho fatta, da buon italiano, che quando non sa spreme le meningi e inventa. Ho spalmato sulla tela una mano di gesso; poi l'ho grattata via, e di nuovo l'ho spalmata, badando bene di non coprire completamente i graffi. Su quel tessuto così trattato ho cominciato a lavorare a secco, cioè adoperando pigmenti e colla, senza acqua, lasciando che la colla seccasse un pochetto, così tirava, per così dire. Invece del verde pisellino, ho preso un feroce verde di Russia, verde bottiglia per intenderci, che a contatto della colla e trascinato sul gesso grattato perde il suo splendore e "sbiadisce", come fosse usurato dal tempo. Per il rosso della veste della danzatrice, ho raggiunto il massimo risultato lavorando con un pennello vecchio e consumato. In pratica con la metà delle setole, tirando pigmenti e colla già mezzo essiccata con forza sul gesso graffiato.
Ho impiegato una sola giornata di lavoro, laddove di norma occorre una settimana: i colori infatti non avevano bisogno di asciugare, mancando completamente l'acqua. Avevo tutta la squadra intorno, undici uomini e quattro donne, più Herr Flaigg, che ogni mezzora veniva su a vedere come procedeva l'operazione "tappatura della bocca di un cesso".
Junghaus rimase senza parole. Guardò e riguardò il fondale appeso; volle che lo si tirasse giù e lo riguardò da vicino, palmo a palmo. Poi venne da me e mi strinse la mano, senza proferir parola.
Flaigg, mi si accostò e mi disse:
-Firmi in basso col suo nome e metta la data.
-Devo firmare il Prospekt?
Ero sbalordito: nessuno in teatro firma un fondale.
-Questa è un'opera d'arte; va firmata, Iacoponi.
Così gliela firmai, ma non immaginavo che l'avrebbero messa dentro un telaio come un vero e proprio quadro e appesa nel foyer.
Ecco il motivo per cui salgo fin quassù quando capito da queste parti. È bello leggere in basso a destra a lettere maiuscole "Vincenzo Iacoponi - 1988".
Sono così poche le soddisfazioni che ti dà la vita, meglio goderne finchè si può.

venerdì 5 febbraio 2010

CRONACA DI UNA SERATA TRANQUILLA, O QUASI

Ieri sera, dopo che la marmaglia aveva sgomberato il campo, ho dato ad Annamaria il mio regalino. Scarta, apre il cofanetto da me preteso anonimo, mette le labbra a culo di gallina dopo aver espulso l'uovo quotidiano e fa: "ohohohohohohoh!!!!"
Prova il braccialetto, lo gira, lo rigira, se lo rimira, poi:
-Te lo ha detto Stefania.
Non è una domanda, è un'affermazione categorica.
-Cosa? (in volo planato dalle nuvole)
-Ti ha detto quello che mi auguravo tu comperassi.
-Figurati! L'ho comperato perché mi è piaciuto.
-Però te lo ha detto Stefania.
-Ma no, ti dico.
-E dai! In cinquanta anni non ci hai mai preso.
-Può darsi che abbia scritto un capitolo nuovo della serie "Qualche volta ci azzeccano".
-Titolo del libro?
Ci penso un po'. Poi scandisco sillabando.
-Come riuscire a vivere 50 anni con una donna senza che lei ti pianti.
-Dovrei scriverlo io, allora.
E se ne va sculettando.
Vado in cucina per lavare le stoviglie e le posate usate, di cui è pieno il lavello. Mamma mia quante! Gli antichi mangiavano con le mani da un unico piatto comune. Gente saggia: risparmiavano acqua e Palmolive.
-Lascia perdere -mi fa da un'altra stanza- Faccio io domattina.
Pianto lì le buone intenzioni. Mi ritiro in salotto; spengo la TV e tiro fuori gli album fotografici, che già ho preparato da ieri, di nascosto da lei.
-Che fai, rievochi? -dice entrando e sedendomi accanto- Lo sai che quando si rivanga il passato vuol dire che la senilità avanza.
Ma poi si ammansisce e si adagia tra le cento e cento foto dei tempi andati, quando tutto sembrava semplice e infallibilmente raggiungibile.
All'una di notte abbiamo finito di vedere, di commentare, di fare risolini scemi. Ma è stato tanto carino.
-Adesso, se ci fossero ancora le nostre lettere, ne potremmo leggere qualcuna per concludere in bellezza -le dico- ma tu le hai distrutte. Sai che ancora non l'ho digerita?
-Te l'ho già spiegato più di una volta: non voglio che figli e nipoti facciano i loro commenti sui miei sentimenti, e sui tuoi.
-Che sciocchezza! Quando morì nostra madre mio fratello ed io trovammo un pacchettino di lettere che lei aveva scritte a papà. Io le lessi e Lito ascoltava tenendo gli occhi chiusi. Alla fine non potevamo più parlare, tanto grosso era il groppo nella gola.
Sta zitta e forse rimugina una brillante risposta. Invece è una domanda, semplice semplice:
-Solo lettere di vostra madre? E quelle di vostro padre?
-Papà non le scriveva mai. Le regalava le foto che scattava con la dedica scritta sul di dietro. Ma io ho trovato una reliquia: un piccolo album con foto che papà scattò a mamma in tutte le pose. Ogni foto una piccola poesia. Bellissimo, molto romantico.
-Vedere, vedere!
-L'ho nascosto in qualche posto.
-Vallo a prendere.
-Se mi ricordassi dove l'ho nascosto.
Mi guarda brutto e poi mi fa nel suo dialetto: "Ciala che roba chi!" Che detto in quel tono e con quel muso equivale nel mio dialetto, paro paro, ad un "ma guarda 'sto stronzo!"
Va in bagno e poi, mosca, si infila nel lettone.
Così finiamo la festa nella posizione della serie "chiappe a chiappe".

giovedì 4 febbraio 2010

LA SESTA DOZZINA DI ANNAMARIA

Oggi è il compleanno di Annamaria. Dato che non si dicono mai in chiaro gli anni di una bella signora, userò questo vecchio metodo: ha compiuto la sua sesta dozzina e da domani inizia gloriosamente la settima.
Stiamo aspettando l'arrivo di figli e nipoti. Intanto lei, la festeggiata, lavora. È da ieri che ha iniziato: prima la crostata, poi altri dolcetti, ieri sera il sugo alla bolognese con la ciccia comperata da me. Adesso sta preparando le lasagne per tutti quelli che verranno. Ne avanzeranno ancora per domani e me le pappo io.
Già, io. Io che faccio? Ieri sono andato a comperare alcune cose che le servivano, col suo biglietto dove aveva trascritto tutto. Più tardi l'ho accompagnata perché non tanto soddisfatta dell'insalata che avevo preso. Dico: come deve essere questa insalata, a pois? Se tu scrivi "insalata" senza specificare io compero insalata senza tanto guardare. Ma è la sua festa, meglio non discutere troppo altrimenti si arrabbia e dopo sta male.
Oggi sono andato ad acquistare un regalino. Sul sicuro: avevo sentito che diceva a nostra figlia cosa aveva visto e dove lo aveva visto. Io ho captato tutto da lontano senza dare a vedere di stare ad ascoltare, così, facendo le mie cose con nonchalance. Qualche volta sono capace di sorprenderla piacevolmente anche io, nel mio piccolo. Questa mattina volevo andare a comprare delle rose. L'ho sempre fatto, da una vita: undici rose rosse. "Vengo anch'io -dice- le voglio gialle". "Allora te le compri da sola e te le paghi. Io non offro rose gialle". Se le è pagate.
Questa sera laverò i piatti e metterò tutto a posto quello che la tribù avrà scomposto. Ma per questa sera sul tardi ho in mente un bellissimo regalo per lei.
Non quello che state pensando, amici, tranquilli.
Tirerò fuori delle vecchie foto, di quando ancora eravamo fidanzati, e ripercorrerò insieme a lei tutti gli anni che potrò della nostra vita comune, prima che uno di noi due crolli morto di sonno.
Ascoltate bene, maschietti: sono queste piccole attenzioni che fanno felici le vostre donne, molto più di un dono sfarzoso e costoso, anche più dei fiori. Io ho fatto la mia esperienza a sufficienza: i bacetti bavosi dei nipotini, la presenza premurosa dei figli e questi microscopici vecchi palpiti del loro uomo, quando ancora si era ragazzi. Basta poco, e poi ci si addormenta accoccolati, vicini l'uno all'altra.

mercoledì 3 febbraio 2010

AHI, DIDO, CHE DOLOR CHE DÁ L'AMOR

Ieri ho letto sul blog di Fuma62 un bellissimo post, dove parlava di un cane che le scodinzolava intorno tra una pisciatina e una cacatina nel bosco dove lei e suo marito stavano passeggiando. Campeggiava in alto una bella foto che il bravo G. aveva scattato al cane.
Somigliava a Dido.
Cinque anni fà mi regalarono un minuscolo cucciolo. "Che razza è?", chiesi al donatore. "È un bastardino. Sua madre è una femmina di Labrador. Suo padre un intruso". Doveva essere piccolo, molto piccolo, perché Dido -lo avevamo chiamato così- aveva il manto e il muso della madre, ma non la stazza. Nemmeno 40 cm da terra, assai poco per un Labrador. Lo osservavo crescere a rilento e ripensavo alle parole di quel signore: bastardino, lo aveva chiamato. Che pessima espressione! I tedeschi chiamano Bastard un figlio di buona donna, mentre un animale lo chiamano Mischling, da mischen che significa mescolare; quindi miscuglio. A me sembra più bello, a prescindere dal suono dolcissimo di Mischling -provare per credere a pronunciare all'italiana così: miscling, non col suono della c indurito dalla h-. È molto più carino di bastardo, ammettiamolo.
E poi era affettuosissimo e premuroso, proprio un bravo ragazzo: ogni volta che Annamaria doveva andare in cortile lui le rimaneva a fianco, non lasciandola mai sola un momento. Usciva tranquillamente al guinzaglio, solo con lei, voltandosi continuamente a guardarla e fermandosi subito se la vedeva indugiare o fermarsi. Non la strattonava mai, come fanno certi cani prepotenti.
Due anni dopo l'amore è finito, perché Annamaria è diventata allergica quasi a tutto, ma soprattutto ai peli degli animali: niente più cani o gatti, niente più Dido.
Lo abbiamo portato in Italia, da nostra figlia Monica, perché ha una casa con un grande giardino ed un ampio cortile dietro; molto spazio insomma, ma soprattutto ha una figlia, Sofia, che adora i cani come tutti i bambini.
Quando siamo partiti Dido c'è rimasto malissimo. Noi più di lui.
Sono tre anni che sta laggiù. Si trova benissimo, è proprio un gran signore, trattato come un figlio, ma non si è dimenticato di noi, soprattutto non ha dimenticato Annamaria. Quando arriviamo d'estate lui inizia ad abbaiare prima che la mia macchina arrivi davanti al cancello, quando ancora non è in vista. Dai suoi ululati altissimi mia figlia capisce che siamo in dirittura d'arrivo. Come farà? Boh! Ci sente e basta.
Nemmeno abbiamo messo le gambe fuori dalla macchina che Dido inizia a galoppare per tutto il giardino e tutto il cortile: scale di casa, cinque gradini, giardino in largo, giardino in lungo fino al cancello, indietro per la lunghezza del giardino, cortile in tondo, scalini cinque, giardino in largo e giardino in lungo fino al cancello e via da capo. Tutto per una diecina di volte, senza fare una pausa e senza che nessuno riesca a fermarlo o almeno a sbarrargli la strada. Quindi salta in braccio ad Annamaria con la coda che vibra come un rotore di un elicottero. Quando che ha scaricato un'ondata di affetto e di bava sulle mani, le gambe e le braccia di Annamaria, viene a dare una leccatina anche a me. Toh, prendi anche tu e accontentati.
In Italia è diventato quasi impossibile portarlo al guinzaglio. Tira e strattona come un forsennato. Si è adeguato ai cani italici: non se ne vede uno tranquillo, morbidamente condiscendere al passo della persona che regge il guinzaglio. A meno che non si tratti di una bestia molto avanti cogli anni fanno tutti come Dido, trascinandosi dietro la padrona o il malcapitato vecchietto. Chissà perché solo i vecchi vanno a spasso coi cani.
Dido tira e tira, schizzando da uno spigolo di una casa all'altro: annusatina dall'alto in basso e pisciatina fugace; altro angolo altra annusatina, altra pisciatina. Uno spasso.
L'anno scorso ci ha festeggiati, ma senza la consueta foga. Cioè, ha abbaiato furiosamente prima che arrivassimo davanti al cancello, ma poi ha corricchiato. Abbiamo visto subito che zoppicava piuttosto vistosamente. Monica ci ha raccontato come era andata.
Nei primi mesi dell'anno era arrivata nella villetta di fronte alla loro una famiglia nuova. Possedevano una cagnetta, molto carina e provocante. Tutto il tempo rimaneva davanti al suo cancello, di fronte al loro guardando ostentatamente in tutte le direzioni, tranne che di fronte, dove Dido. tutto teso e ingrifato, attendeva l'elemosina di uno sguardo. Le orecchie allargate come un elefante africano, spalancate come vele a carpire forse il respiro della bella, la coda tesa e ferma a mo' d'antenna per captare feroni lasciati in libertà, Dido teneva botta ed aspettava paziente che la nuova arrivata lo notasse.
Lei, niente.
Così, dopo un paio di settimane Dido aveva fuso, cotto come un wurstel del suo paese.
Una notte -perché certe avventure avvengono di notte, come nei filmoni di cappa e spada- Dido ha rotto gli indugi: ha scavalcato il muro, non troppo alto a dire il vero, e si è catapultato dalla parte opposta della strada, col suo piccolo cuore in tumulto.
È probabile che il rumore dei battiti del suo cuore gli abbiano impedito di sentire il ringhio di un ospite inatteso e sconosciuto a lui, povero cane casalingo: un randagio, rotto a tutte le intemperie del tempo ed a tutte le disavventure quotidiane. Forse Dido lo ha guardato dimenando la coda in segno di pace, non so. Di certo il randagio non ha accettato la sua amicizia e lo ha addentato ferocemente ad una coscia. Un morso cattivo, alla "Fuori di qui, ché alla prossima ti ammazzo". Dido, pazzo dal dolore, si è trascinato guaendo disperatamente lontano di lì, ma è stato sfortunato andando a capitare nei paraggi di Gustavo, un gattone che staziona sempre in una piazzetta, che è notoriamente molto lunatico e aggressivo. Gustavo ha visto arrivare un cane ululante e ha scambiato i suoi lamenti in grida di guerra. S'è drizzato sulle quattro zampe. ha gonfiato tutti i peli tarsformandosi in una grossa palla ed ha aggredito Dido, gonfiandogli il muso: graffi dolorosissimi dati con le zampe davanti e con quelle posteriori a scalciare, che sono quelle più robuste e che fanno più danno.
Dido è rientrato al volo inseguito da Gustavo furibondo mentre il randagio osservava la scena da lontano. Da bravo cane esperto di tutto sapeva bene che i gatti friulani attaccano e mettono in fuga i cani e non viceversa, come capita nel resto della nazione.
Così è miseramente naufragato quello che poteva essere il grande amore dell'estate. La cagnetta sosta ancora davanti al suo cancello, e adesso osserva sempre quello che succede nel giardino dove gironzola Dido, ma questi non la degna di uno sguardo. Si è proprio offeso e poi la coscia gli fa sempre un male boia.

lunedì 1 febbraio 2010

RECENSIONE PRIVATA

Se una bella recensione sopra un quotidiano o su Internet può dare soddisfazione, il commento privato di un tuo testo ti riempie di gioia. Soprattutto quando chi lo scrive non è un critico di professione, ma una giovane donna che hai incontrato sulle onde del web.
Cristina G.B. si definisce uno scricciolo pieno di energia. Scrive benissimo, come un uomo (me ne sono capitate un paio così capaci in questi ultimi tempi, sono proprio fortunato); ha una sensibilità particolare nel cogliere tutti gli aspetti di una situazione, positivi o negativi, e di esaminarli con lucidità priva di freddezza. Riesce ad immedesimarsi nei problemi altrui, offrendone spesso la soluzione con garbo tutto femminile, senza cioè mai oltrepassare i limiti della discrezione, in modo che il suo interlocutore non provi sofferenza o dispetto per lo smacco di non esserci arrivato da solo.
È molto riservata Cristina. Attraverso il web mi sembra di ascoltarne la voce, ben modulata, mai alta di tono, come sussurrata.
Voglio a questa ragazza bene come a una figlia. Pur avendone già due, più o meno della sua età, ho sentito per lei un istintivo senso paterno, di cui mi compiaccio.
Ha finito di leggere "Martedì dopo l'autunno" e mi ha immediatamente inviato una mail con un lungo allegato dal titolo: "Analisi e commento personale del testo".
Questo scricciolo di donna ha centrato incredibilmente i significati, anche i più nascosti, del mio libro. Tutti, nessuno le è sfuggito.
Quando un libro riesce bene, e questo mi è riuscito proprio bene, le parole vengono una dopo l'altra e vanno a comporre un mosaico di sensazioni, di sentimenti, di fatti, di figurazioni, che esulano da qualsiasi traccia prefissata, da qualsiasi trama prestabilita. Voglio dire che a volte sembra di scrivere in trance, ma quando vai a rileggere vedi che hai scritto esattamente quello che volevi scrivere da sempre. Lei è entrata in questa mia trance, con gli occhi bene aperti ed i sensi tutti tesi.
Io sono anche un pittore ed il protagonista del romanzo è un pittore. Come pittore ho sempre pensato che quanto sosteneva Paul Klee fosse una dogmatica verità. Diceva Klee che il pittore é "l'occhio e il braccio del mondo". Intendeva dire che attraverso gli occhi ed i gesti di un pittore si realizzano segni, forme, oggetti, movimenti cromatici attraverso i quali tutti possono vedere, rilevare i propri oggetti, le proprie privatissime forme, i propri sogni, i propri entusiasmi. Quel quadro sarà un albero, una nuvola, un aeroplano, un gatto addormentato una donna sdraiata al sole, una notte di luna riflessa su un lago. Tutto questo potrà essere lo stesso quadro per quanti avranno il piacere e l'opportunità di guardarlo, per ognuno di loro, appunto, qualcosa di diverso, di personale, di intimo.
Parafrasando Klee io mi permetto di dire che lo scrittore è la voce del mondo. Costruisce immagini, personaggi, paesaggi, situazioni, che rimangono chiuse tra le pagine finché il libro rimane sopra una scansia di una libreria; ma appena un lettore lo apre e lo legge queste cose prendono voce, si animano e vivono insieme al lettore. Con una sostanziale diversità rispetto alla pittura: un quadro appeso ad una parete di una stanza al buio non può dare nessuna sensazione. Anche se si resta seduti per delle ore di fronte a quella parete non illuminata non si avrà niente, non si vedrà niente, né si udrà niente. Se invece si legge in una pagina ben scritta una bella immagine, che salti fuori dalle righe irrompendo nella propria mente e poi si chiudono gli occhi, si continuerà a vedere l'immagine e a sentire il suono delle parole che si è lette poco prima.
Ma non solo di immagini si deve parlare ma di sensazioni, di impressioni di riflessioni che un testo induce a fare. Qui Cristina G.B. sorpassa in curva ogni mia intenzione, ogni mio più roseo desiderio di riuscire in questo. La cito testualmente perché meglio di un critico esprime ciò che voglio dire, e in modo estremamente chiaro. Dice Cristina:
"Una lettura che ti costringe a rivedere anche delle cose di te stessa, che ti porta all'introspezione di te stessa chiedendoti ...se anche tu ti sei comportata così, se anche tu non hai voluto ammettere delle cose, se anche tu hai sofferto di qualcosa che poi hai cercato di occultare alla tua anima per non star più male del necessario, se anche tu espii delle colpe che non hai e le espii anche per chi dovrebbe farlo e non lo fa, se anche tu vuoi farti del male appositamente per poter soffrire e quindi sentirti in pace finalmente perchè hai sofferto...è come una specie di seduta dallo psicologo, anzi direi molto meglio...".
Questa è musica per le orecchie di uno scrittore: se anche uno solo dei suoi lettori riesce ad immedesimarsi nella storia fino a questo punto la sua grande fatica ha raggiunto lo scopo. Toccare le corde più intime dell'anima dei propri lettori è il sogno di ogni scrittore.
Io mi sento appagato oggi.