domenica 29 settembre 2013

28 settembre 2013

Lo so che il politichese non è il mio forte, oltretutto sto scrivendo a braccio con conseguenti scompensi di consecutio temporum, probabilmente, ma non me ne curo perché quello che voglio scrivere mi sale alla tastiera veramente dagli intestini.
Ieri, 28 settembre 2013 è successo qualcosa che non esito a definire mostruosamente idiota, se non fosse mostruosamente criminale.
Qualcuno si deve essere messo in testa di imitare i Plebei che, per protesta contro le angherie dei Patrizi al Senato, si ritirarono sul colle dell'Aventino nel 494 a.C.; oppure di imitare tutte le componenti antifasciste che, dopo il rapimento di Giacomo Matteotti, nel giugno del 1924 si ritirarono sull'Aventino chiedendo lo scioglimento della Milizia fascista e il ripristino della legalità.
Erano disperati tentativi che non produssero niente di buono in entrambi i casi, tanto che la definizione "andare sull'Aventino" è dagli scaramantici considerata fatalmente jettatoria. 
A Roma se gratteno si la senteno.
Qui siamo di fronte alla più becera decisione che un gruppo di ministri del Governo del paese, potesse prendere: dimettersi da ministri ufficialmente per protestare contro il PD, che a loro dire non bloccava l'aumento dell'IVA. Come se il popolo degli italiani fosse un popolo di cretini che non sia in grado di capire il vero motivo di quelle dimissioni: mandare tutto a puttane perché il Grande Capo è sprofondato nella merda.
Come italiano che vive all'estero mi sento sputtanato di fronte a tutti i tedeschi, che seguono con meraviglia e orrore ciò che succede in Italia. Alcuni giornali hanno profetizzato che la nuova crisi politica italiana promuoverà un nuovo tracollo finanziario e probabilmente anche commerciale in tutta Europa, e che a soffrirne maggiormente sarà la Germania. Apriti cielo! Qui già odiano a morte la Grecia, disprezzano la Spagna, l'Irlanda e il Portogallo. Noi eravamo
sulla cima della torre pronti ad essere scaraventati giù quando è arrivato questo governo delle grandi alleanze a salvare il salvabile, e adesso questo! 
Come elettore di Centro destra mi sento tradito e abbandonato tal quale un bastardino mollato sull'autostrada a crepare sotto un camion all'inizio delle vacanze.
Ho sempre avuto fieramente in sospetto Berlusconi per tutte le sue promesse che mai manteneva, ma era pur sempre il capo di quella coalizione di centro destra in cui mi riconoscevo. Cosa fare adesso? Cosa dire adesso?
È mai possibile che un capo di 77 anni appena compiuti si ostini a non capire -politicamente- quella che è l'unica soluzione ai suoi guai? A prescindere da tutte le accuse ai giudici, a prescindere dalla sua innocenza nella questione o meno, sta di fatto che ha avuto tre condanne per uno stesso delitto, nei tre diversi e successivi gradi di giudizio. Questi sono fatti, tutto il resto chiacchiere.
Doveva dimettersi immediatamente dopo l'ultima sentenza e basta.
Avrebbe fatto un figurone, sarebbe diventato vittima e martire e avrebbe portato al suo partito una camionata di voti. Invece non ha capito niente, come suo solito.
Delirio di potere, si chiama.
Adesso è lì in brache di tela, alla testa di un branco di pecore, di leccaculo, di parassiti che non hanno il coraggio di affrontare la realtà e si ammucchiano dietro la bandiera del partito.
Anche il PD ha le sue pecche, naturalmente. Non è stato unicamente Berlusconi a creare questo clima di guerra civile nel paese, con le conseguenze che nessuno dei due schieramenti si sentiva a suo agio nei panni dell'alleato momentaneo del mortale nemico.
Gloria ad entrambi, PdL e PD, che alle prossime elezioni consegneranno il paese in mano ai Grillini.
Allora sì che ci divertiremo gente!

Ho il fiele in bocca e non voglio finire con insensate invettive.
Leggo su Facebucche nella pagina di mio figlio Federico un raccontino di vita famigliare veramente gustoso e ve lo passo per riaddolcire il palato.
Scrive mio figlio -cito a memoria-: "Da tre anni tutte le mattine porto i miei due gemelli all'asilo. La madre, assistente sanitaria, alle sette è già via da casa. A quell'ora i bambini si svegliano e sanno che la mamma lavora. Fanno colazione poi io li porto all'asilo e poi vado al mio posto di lavoro (dirige un call center di una Compagnia di assicurazioni).
Adesso li porto a scuola, al loro primo anno. Stessa storia, la mamma è già al lavoro.
Ieri, sabato, la signora non lavora, ma riposa ancora in letto. I bambini fanno colazione, poi si vestono per andare a scuola e in macchina Fabio mi chiede: "La mamma è al lavoro?"
"No, gli rispondo, la mamma dorme".
"Meno male, papà, era ora che ti decidevi ad andare a lavorare e a portare soldi a casa anche tu".
Mio figlio conclude dicendo: "Non ho avuto il coraggio di dirgli niente"
Secondo il motto: come ci vedono i nostri figli.
Meditate genitori, meditate.  













sabato 28 settembre 2013

25 PAROLE


Inseguo
l'illusione di un guizzo
di luce,
il crepitare caldo
della vampa di un fuoco
inesistente,
mi abbevero di ignoto
raccontandomi
fiabe
ogni notte.

giovedì 26 settembre 2013

LA FINESTRA ROSSA

Nella cornice lignea al centro della parete
un mio quadro a olio vecchio di venti anni.
Una finestra rossa, battenti chiusi,
mancano ante e persiane, non puoi sapere
se la stai guardando dall'interno della stanza
o dall'esterno della casa e questo inquieta,
credo, perché me lo chiedono tutti.
Si agitano perché non riescono a sapere
cosa c'è dietro quella finestra: un prato, un bosco,
una città dispersa nelle sue strade
oppure solamente l'intimità di una stanza
con un letto, un armadio, un attaccapanni nudo.
Io sono quella finestra: finestra di me,
chiusa dentro di me, sugli spazi di me,
le strade i boschi e le città di me,
chiusa sulle intimità di me
le suppellettili di me, le ombre di me, la vita di me.

mercoledì 25 settembre 2013

CONTRIBUTO DI ODIO

Odia il tuo dio come te stesso,
schiaccia il prossimo tuo
capestandolo come
merda di cane,
affoga la tua coscienza
e tira dritto.

Non cambierai mai il mondo
anche così, ma almeno
ti arriverà il rispetto
dovuto ai malvagi,
a coloro dei quali si ha paura
anche solo parlare.

Tanto dopo morto
c'è sempre una vecchietta
che dispensa fiori
sulle tombe abbandonate.

lunedì 23 settembre 2013

VERENA E LA RANA

Verena Montrasio dipingeva cavalli a encausto, usando un ferro da stiro a vapore per fare sciogliere la cera. Dunque Verena dipingeva cavalli, poi li stirava col ferro a vapore, i dipinti naturalmente. Aveva una faccia di bronzo e fumava mezzi sigari toscani, sbavando bava color marroncino sul davanti della camicetta.
E poi? Ah sì: Verena non ne azzeccava mai una.
Da piccola aveva sbagliato scuola: invece di iscriversi all'Istituto d'Arte, lei che era una creativa, andò a finire sui banchi di un liceo scientifico, lei che odiava la matematica. Ne risultò un disastro con due classi ripetute e il definitivo abbandono dei banchi a terza non conclusa.
Fece un corso da parrucchiera. Tempo e quattrini buttati al vento perché risultò allergica alle soluzioni che scioglievano le tinture.
Allergica anche ai maschi coi quali si accoppiava, perché sistematicamente inadatti a lei, anche se quella gallina di Rosalba insinuava che fosse lei indatta al maschio medio latino. Fu per questo che Verena si adattò con un maschio massimo, un bovo di una ventina di chili sopra il quintale, dove attraverso la ciccia delle guance si intravedeva una fisionomia anche piacevole, che scompariva immediatamente ad ogni contrazione della muscolatura facciale, contrazione che avveniva di continuo perché il bovo masticava copiosamente ogni sorta di cibo e di leccornia.
Verena l'aveva battezzato la rana, per lo strano gorgoglio che emetteva il suo gargarozzo mentre inghiottiva.
Ugo era il nome del batrace. Di buono aveva che era unico figlio e quindi unico erede di Evi Perugini, la stilista che aveva creato un calzaturificio per uomo, donna e bambino imponendo a suo marito, il padre di Ugo, di lasciare la sua professione forense per dirigere il centinaio di negozi in tutta Italia di "Evi, la scarpa per te".
Lo sfarzo della villa della scarpara, dove Ugo aveva il suo appartamento sotto il tetto e dove Verena passava oramai la maggior parte delle sue notti, l'aveva convinta a passare sopra la naturale bruttezza del fortunato prescelto. Verena si costringeva a lunghe camminate lentissime per i boschi che circondavano il maniero fatte a passo di lumaca mano nella mano insieme a Ugo. Una tortura per lei che aveva partecipato ai campionati juniores di atletica leggera nei 100 metri, dove era straordinariamente veloce, così veloce da produrre un effetto stroboscopico, perché se ti passava davanti vedevi le sue gambe muoversi all'indietro con un lento ruotare, mentre lei schizzava rapidissima nella direzione opposta.
Era arrivato il matrimonio e il cambio totale della condizione della sua vita, ma non erano arrivati figli per fortuna di entrambi, come Ugo e Verena riconoscevano senza mezzi termini.
Matrimonio felice? Dopo quattro anni si poteva parlare di matrimonio soddisfacente, forse solo tranquillo, senza scosse, forse un po' monotono, forse un po' troppo monotono. In una parola una lagna senza fine.
Soldi tanti, viaggi, gioielli, acquisti senza limite di spesa, tempo a disposizione per la sua amata pittura a encausto.
E la vita intima? Insomma trombavano sti due? E come riuscivano nell'impresa a prima vista da Oscar per l'audacia?
Da quattro anni l'ora di sesso avveniva con la regolarità dei certosini arabi, ogni terzo giovedì del mese e consisteva in due parti: la seconda il tempo perché la rana raggiungesse l'orgasmo, circa diciotto secondi; la prima di cinquantanove minuti e quarantadue secondi, perché Verena riuscisse a fare sì che l'asta o meglio il periscopio penetrasse là dove era scritto nei testi dei profeti che dovesse penetrare, cioè la sua vagina. Lo aveva chiamato periscopio perché emergeva appena dalle onde ruotanti e avvolgenti delle molteplici trippe, di Ugo, contrastanti caparbiamente qualsiasi tentativo di pesca miracolosa che Verena metteva in atto. La maggior parte del tempo veniva impiegata nell'ossessiva ricerca della posizione iniziale di attacco delle forze che partecipavano alla pugna. Era durato mesi di tentativi frustranti prima di arrivare alla grande X, costituita in basso dalle gambe della rana divaricate in senso antero-posteriore a mò di quelle del pupazzetto dalla giacca rossa sull'etichetta del Johnnie Walker, rovesciato per la bisogna a testa in giù; in alto dalle gambe di Verena che tentava così di battere ogni record di scosciamento forzato che l'avrebbe, se lei lo avesse voluto, potuta far entrare a vele spiegate nello sparuto gruppo delle acrobati e contorsioniste del mondo circense, premiate nel Principato di Monaco con la medaglia d'oro.
Fluttuando in alto con veloci colpi di natica l'intero busto a Verena, che non si poteva aspettare dalla rana altro contributo che una passiva immobilità, e giovandosi della provvidenziale caduta verso il basso, verso il centro della terra o verso l'inferno, della moltitudine di pieghe, di anse, di volte e di trabeazioni della ciccia inerente le molteplici trippe della rana, caduta che liberava finalmente l'ultima parte, e la più importante, del periscopio, a Verena dicevo non rimaneva altro che sperare che il suddetto periscopio rimanesse rigidamente eretto, e reiterare i colpi di natica finché non avvenisse il miracolo dell'intubazione del periscopio stesso tra le pareti vaginali, traguardo che poi Verena difendeva con la baionetta fra i denti per almeno venti secondi, permettendo il flusso seminale, o quel che cavolo fosse, il passaggio insomma delle migliori cellule del ciccione tra gli antri più umidi e nascosti del suo bassissimo ventre, dove probabili ventose se ne impossessavano, facendone l'uso che potevano. Fisiologico, pensava Verena, perché altro non usciva fuori che una caparbia lubrificazione, mai purtroppo un concepimento, cosa questa che ogni volta lasciava Verena nell'atroce dubbio se tale incapacità di riproduzione fosse da attribuire a lei piuttosto che alla rana.
Ma, come ho già detto, il non concepimento di figli era stato accolto non come il male minore, ma come un evento favorevole. E nessuno dei due aveva ben capito il significato di quell'assioma.
Ma i figli fanno casino e riempiono la giornata e qualche volta avvicinano i coniugi.
Pian piano Ugo e Verena erano andati alla deriva della noia, ognuno una rotta diversa. Così giorno dopo giorno era maturata in Verena la voglia di disfarsi di Ugo. Così giorno dopo giorno, mentre dipingeva cavalli, lei pensava a come fare scoppiare la rana, senza doverla pagare naturalmente.
Così, tra cavallo e cavallo, tra un rosso e un blu e tanta tanta cera Verena arrivò ad escludere ogni forma di omicidio violenta, con botti di revolver, o lama di coltello, o veleni raffinati e fulminanti, perché era il dopo che la metteva in ansia.
Doveva riuscire a spingere Ugo in soffitta, dove si apriva un balcone abbastanza capace per contenerlo tutto, e poi spingerlo di sotto perché la ringhiera era molto bassa e sarebbe bastata una spintarella. Il resto lo avrebbe fatto il peso da pachiderma di Ugo.
Ma far salire alla rana quei cinque scalini si rivelò una missione impossibile: non gli andava l'idea, non gli passava proprio per la testa di fare quello sforzo.
Finché una sera, chissà come chissà perché, Ugo entrò nella stanza dove Verena dipingeva e le disse: "Vieni, andiamo in terrazza". Lei lo seguì così come stava, col grembiule e la spatola per spalmare la cera impugnata.
Arrivato al terzo gradino Ugo inciampò e cadde all'indietro. Verena alzò le braccia d'istinto per proteggersi da quella valanga e la spatola si infilò completamente nella schiena di suo marito. Riuscì a evitare di rimanere sepolta dal corpaccio dell'uomo. Scartò di fianco e si voltò a guardarlo: lo vide immobile con gli occhi sbarrati e lo battezzò morto.
E adesso, come sfuggire all'accusa di omicidio? Come salvare il culo?
Sentì il vomito salirle su dallo stomaco e corse verso il bagno.
La porta era sbarrata da Ugo con la spatola stretta in una mano.
"Fortuna che ho chili di lardo sulla groppa, sennò si infilava dentro, ma non mi ha nemmeno scalfito".
Verena sbarrò gli occhi tappandosi la bocca con una mano. Il vomito le riempì la gola e, dato che lei presa dal terrore respirò, le invase i polmoni.
Si contorse, si piegò in due, mentre Ugo si preoccupava di controllare il buso sulla sua giacca nuova infilandoci dentro due dita e non si accorse di quello che stava capitando a sua moglie.
Così Verena Montrasio morì, inopinatamente soffocandosi col proprio vomito. L'ultimo pensiero da vivente fu: "Che culo che hai, rana", e il dispetto e la rabbia le sopravvissero a lungo.












giovedì 19 settembre 2013

ASCOLTO


Ascolto il vento che fascia la notte,
ascolto l'ansimare del mio respiro,
mi accorgo di tendere le orecchie
ma di non sentire più altro;
forse no, aspetta, forse l'eco di un passo
che si allontana, ma potrebbe
essere solamente un ricordo filtrato
di soppiatto attraverso la notte.

martedì 17 settembre 2013

UN UOMO ANZIANO


L'uomo era anziano,
aveva male alle ossa,
in bocca i pochi denti gli ballavano
insicuri, mangiava
pane vecchio
bagnato d'acqua con olio
e sale, un pomodoro fresco,
succhiava la frutta
attraverso le gengive;
ma il cuore aveva giovane e audace.

La ragazza che spuntò all'improvviso
nemmeno si accorse di lui,
ma l'uomo anziano
la guardò nell'incedere,
la guardò a lungo e se ne innamorò.

Gli esplose un fiore nel petto
e lui lo custodì gelosamente
da quell'istante.
Ma i fiori vanno bagnati ogni giorno
e quel fiore non aveva bisogno
di acqua ma di parole,
parole della ragazza.

E l'uomo anziano scrisse
alla ragazza e le telefonò.
Lei rise senza mandarlo all'inferno
come lui aveva temuto.
E la ragazza chiese
all'uomo anziano:
"Perché mi vuoi bene?"
"Perché se non ti volessi bene ti amerei"
le rispose in un soffio
e lei capì
e lo lasciò sopravvivere.


domenica 15 settembre 2013

TANGO MAIALATO

Le prime parole che mi sono venute in bocca ieri mattina: "Questo è un tango maialato", alludendo ad un nostro modo di dire per certi balli stretti di una volta quando lei ti faceva pensare a chissà quale finale per mollarti poi in brache di tela alla fine della serata.
Comincia con un gran casino di prima mattina. Devo andare in Slovenia per fare il pieno e risparmiare 20 euro. Arrivo alla macchina e scopro una gomma un po' giù, quella sinistra davanti. Via di corsa dal gommista per fargli dare un'occhiata. C'è un chiodo dentro, bello grosso. Cazzo! Chi ce l'ha infilato? Comunque in cinque minuti chiodo fuori, buco bien tapado, aria dentro e 20 euro fuori. Così siamo appena in pareggio con la benza.
Volata dagli Sloveni, pieno e ritorno.
Caffé veloce ma qui succede qualcosa, chissà cosa, ma mi fa male la panza. Niente di arretrato, io vado come un treno ogni mattina con gran dispetto di Anna Maria, che fatica, fatica e non fa niente, mentre io cago come un deo.
Allora? Allora niente. Sono 20 giorni che siamo in patria e io sto sempre benone e stamattina che si riparte mi sento male. Mi gira la testa, mi girano le palle, mi gira tutto ma proprio tutto e devo fare 400 chilometri fino a Bernau al Chiemsee.
Cazzo, fratelli!
Azzanno una pesca perché penso che da ieri sera non ho mangiato e chissà come la mordo perché di botto mi viene una nevralgia agli incisivi superiori e sbavo tutto.
Mio figlio Federico a questo punto avrebbe rimandato la partenza e sarebbe andato a letto.
Mio figlio, ma non suo padre, cazzo di un controcazzo!
Non dico niente alla gente per non allarmare e parto.
15 chilometri dopo Anna Maria mi fa: "Ma cosa ha questo specchietto che balla tutto?"
Lo specchietto di destra traballa. Mi fermo in una piazzola, lo tocco appena e mi precipita in mano esausto! Si è staccato di netto dal suo sostegno, mai vista una cosa simile in 50 anni.
Federico a sto punto tornerebbe indietro pianissimo. Suo padre smoccola, si incazza come una bestia, sputazza veleno ma riparte. Avete mai capito a cosa serve lo specchietto di destra? No? Allora levatelo e vedrete come vi mancherà il maledetto. Tutte le volte che dopo un sorpasso rientrate e quando cambiate corsia. Io lo sapevo ché li uso entrambi, mentre Anna Maria ci guarda le macchine che arrivano da dietro più veloci della nostra.
Insomma altro giramento di bocce da andare in delirio mentre il mal di panza non passa e la nevralgia tanto meno. Bello no?
Magari pure una colonna di mezzora per via di un incidente di merda.
Basta arriviamo, ceniamo e andiamo a letto.
Questa mattina alle 7 faccio le mie cose "da deo" come sempre, poi vado sotto la doccia e vedo arrivare Anna Maria. Vuota nel lavandino una bottiglia di acqua minerale e la riempie di acqua naturale e se ne va. È matta questa?
Quando rientro in stanza si tiene la bottiglia sullo stomaco.
"È acqua calda. Posso morire che nemmeno te ne accorgi. Solo ronfi come una sega elettrica e fai apnee di 30 e anche 40 secondi. Domani vai dall'otorino."
"Domani vado dal dentista e basta."
Colazione scarsissima, giusto perché compresa nel prezzo, ma la nevralgia non è scomparsa e non mi azzardo a masticare troppo.
Viaggio di ritorno allucinante con tutta la Germania per strada ad aspettare noi senza specchietto di destra. Tutti che arrivano da ogni parte, e anche da destra, dove mi arrangio allungando il collo che dopo un paio d'ore mi fa male da cani. Poi attacca a piovere a dirotto, cinque minuti, poi sole accecante, poi di nuovo pioggia schifosamente violenta con gente che non sa guidare con la pioggia e decelera da 140 a 60 in cento metri.
I miei figli mi mandano messaggi ogni cinque minuti e la madre risponde a tutto spiano, dando le coordinate della nostra posizione.
"Ci sparano un missile?", chiedo.
"No, sono tanto carini"
Alle 17 sono a casa con tre inviti a cena, che non accettiamo ringraziando commossi, ma ci fosse un cane randagio che mi dia una mano a trasportare tutto di nuovo a casa.
Alla fine sono esausto e anche un pochino triste. Sempre così alla fine delle vacanze.



venerdì 13 settembre 2013

IL LINGUAGGIO DEI BAMBINI


Qualcuno sta cercando di mettermi in bocca
parole dal doppio significato, 
equivoche, nemiche,
per colpire me attraverso le tue ferite.

Io sceglierò da adesso il linguaggio
dei bambini, che non fa
mai male,
che sempre stupisce, 
che sempre 
incanta. Vuoi scommettere?

giovedì 12 settembre 2013

SOLTANTO PAROLE


Posso offrirti soltanto parole
che non turbano nemmeno più me,
ma sono tutto quello che ho.

Non pensare che siano
uscite fuori con facilità:
le ho ruminate a lungo, forse troppo,
perché temevo che tu potessi
pensare che davo fiato ai miei sogni.

Esplodevano dentro,
chiedevano solo di uscire
e io le lascio libere di arrivare fino a te.

Non hanno il tuo indirizzo
ma sapranno come raggiungerti.

mercoledì 11 settembre 2013

ALBA FRIULANA


Dalla nebbia di un'alba friulana
emergono forme
indefinibili.

Soltanto l'acuminarsi di ricordi
e un profondo silenzio.

L'attesa è un predatore notturno.

lunedì 9 settembre 2013

UNA CORTECCIA INCISA


Ciò che resterà di me
è facile da intuire:
una corteccia d'albero incisa
con poche parole e alcune date
di tanto tempo addietro.

Mi chiedo dov'eri tu
quando cadeva il giorno e l'ombra
mieteva le mie sembianze.

sabato 7 settembre 2013

BIBIONE ATTO QUINTO E PRECEDENTI

Questa è la quinta volta che soggiorno a Bibione durante le vacanze estive. 
Anche questa volta abbiamo preso alloggio nell'Hotel "Alla Pergola", gestito da una coppia di simpaticissimi fratelli, con un personale molto garbato e competente. La ragazza che ci serve i pasti è un'albanese di ventiquattro anni, che vive da diciotto anni in Italia e che frequenta il quinto anno di giurisprudenza a Padova. Ha fatto il liceo classico e mi cita Omero e Archiloco, mentre io butto là quel che ricordo di Pindaro, Alceo, Bacchilide e Saffo. Tutto questo mentre mi porge i piatti colmi di insalata o il quartino di vino rosso, che non devo più ordinare, tanto pronta e sveglia è la sua memoria. Mi dice che è un piacere conversare con me. È anche molto carina, osservazione di Anna Maria non mia pertanto non partigiana, e ogni tanto mi parla del suo ragazzo, uno studente di ingegneria elettronica che fa il barista in un altro dei cento locali di Bibione.
Siamo tornati in questo albergo perché l'anno scorso siamo stati divinamente. Siamo nella stessa stanza, la 106, ed abbiamo quasi l'ombrellone dell'anno scorso il numero 86 al posto del 85 dello scorso anno. Da giocarseli al lotto.
Lo scorso anno eravamo un po' sorpresi da tanto garbo. Pensate che alla fine non potemmo pagare perché io non avevo con me alcuna carta di credito -la lascio a casa per non avere sorprese, dato che ho le mani bucate e se mi dai una carta in libertà sai che casini ti combino- e non potevano accettare contanti per via di quella iniqua e stupidissima legge italiota entrata in vigore a maggio 2012. Così aspettarono che noi facessimo un bonifico dalla Germania.
Quest'anno abbiamo trovato un escamotage: ho inviato un bonifico in anticipo di oltre la metà dell'importo e alla fine abbiamo saldato in contanti. Non ho portato la carta di credito, naturalmente, perché io con gli anni non miglioro affatto, tuttaltro.
L'anno scorso si trattava della mia quarta Bibione, è chiaro, sempre io ed Anna Maria da soli. Ottima scelta, fuori dei confini casarecci non litighiamo mai, anche perché non ci sono figli a rompere le balle.
La terza era stata un anno prima, in una villetta situata a poche decine di metri da questo albergo, dove avevamo mangiato un paio di volte e notato che si mangiava benonon come si dice in dialetto furlano.
Due anni fa eravamo insieme con Monica e Federico, mio genero Nicola, mia nuora Sara e le due tigri del Bengala, Fabio e Alessia. Era stato un soggiorno bello ma stressante. Alla fine avevamo concluso con mia moglie di farci le vacanze da soli e non insieme coi figli. Melius est deficere quam abundare concludemmo capovolgendo il famoso proverbio dei miei antenati.
C'era già stata una volta con figli, quattordici anni prima: eravamo andati per la prima volta nella villa che poi ci avrebbe di nuovo accolto molti anni dopo. Noi due insieme con Monica, Nicola, i loro bambini Ivan e Sofia, mia figlia Stefania, Manfred suo marito e i loro due bambini Cristina ed Alessandro. Mancavano i nostri due maschi che se ne erano strafottuti di venire insieme coi genitori.
Quello era stato per me Bibione atto secondo ed era andato bene, malgrado la presenza di Stefania notoria guastafeste della mia famiglia (che non mi legga per carità).
I quattro bambini, oggi adulti -si fa per dire- dai 25 di Cristina ai 18 di Sofia, passando per i 23 di Alessandro e i 22 di Ivan (maledettamente belli tutti e quattro lo mi si lasci dire, tanto non li ho impastati io), da piccoli erano uno sballo e facevano morir dal ridere ogni momento.
Ma è della Bibione atto primo che oggi voglio parlare.
Merita gente, state a sentire.

Seppi dell'esistenza di Bibione un giorno di aprile del 1960 a Udine. Il sottotente di complemento Vincenzo Iacoponi era stato convocato insieme col Capitano in Spe (servizio permanente effettivo) Giorgio Momigliano a colloquio dal Colonnello comandante Silvio Sinopoli e il suo Aiutante Maggiore, Tenente Colonnello Filippo Maiorana.
Dentro la campagnola Momigliano mi fa: "Che cazzo vorranno sti rompicoglioni?".
Ve le dico senza traduttore per non privarvi della gioia del contatto con il cosiddetto "alto eloquio militare"; me ne vorrete bene, immagino.
Volevano comunicarci di avere stabilito la durata del campo estivo:
"Un mèse -Maiorana era catanèse, cerco di renderne la larghèzza delle è con accenti gravi, gravissimi, minghia- dal primo di luglio al trentuno, signori mièi. A voi l'ingarico di organizzare per bène tutta la besogna, me spiegai?"
Stavo per domandare qualcosa, ma mi fermò la pedata datami dal mio capitano.
Intanto il Colonnello Sinopoli ci stava spiegando perché proprio noi due. Quello che volevo chiedere io per l'appunto.
"Lei Momigliano è un giovane capitano comandante di Batteria da appena un anno e merita questo incarico, e lei tenente è un ragazzo brillante e intraprendente e sarà capace di fare quello che le si richiede".
Mi venivano le lacrime agli occhi dalla commozione. Lo avrei abbracciato, anche Maiorana si intende.
Al ritorno dentro il chiuso della campagnola Momigliano mi smontò immediatamente:
"Ce l'hanno messo in culo, Iacopò".
"Sarebbe?"
"Ci hanno trombato, Pippo mio. L'allestimento del campo è una fregatura, io capitano e tu tenente gli scemi del villaggio. Ogni sbaglio che facciamo ce lo rinfacciano fino a Natale"
"E se noi non sbagliassimo?"
"Sbagliare si deve, non hai capito, Pippo mio?"
No, non avevo capito.
Ma mi fu tutto chiaro il primo lunedì successivo, quando andammo a sta Bibione.
Allora era zona militare: solo spiaggia incolta, un minuscolo agglomerato di casette di pescatori, e un impero di zanzare di ogni tipologia. Un campo dove i Reggimenti di fanteria e artiglieria andavano a fare "i tiri". Una specie di Pian di Spilli a Civitavecchia, dove ci avevano portato a "fare i tiri" quando eravamo alla Scuola di Artiglieria di Bracciano.
Ci eravamo portati un paio di rinforzi -si fa per dire- due caporalmaggiori che nella vita facevano i muratori e un sergentino di prima nomina, tanto per fottere anche lui.
Misurammo, discutemmo, sacramentammo, ci incazzammo e nulla concludemmo se non procurarmi un feroce mal di stomaco al pensiero della mole di lavoro che ci aspettava. Si trattava di tracciare un percorso che poi quelli del Genio pionieri avrebbero scavato con le loro macchine e dietro nostra responsabilità; la suddivisione di un'area di oltre quattromila metri quadrati come deposito degli automezzi e dei nostri carri armati -sei per ogni batteria, per le dodici batterie del reggimento, facevano settantadue carri armati- altri seimila metri quadrati per la disposizione delle tende per i 920 artiglieri del reggimento, disposizione naturalmente a carico nostro; la definizione dell'area delle officine del Reparto Comando; le tende degli ufficiali, quelle dei sottofficiali, la tende del Comando del Reggimento, le quattro tende dei Comandi dei quattro Gruppi (in artiglieria chiamansi Gruppi i Battaglioni); la tende della Mensa Ufficiali, quella della Mensa Sottufficiali; la tenda della Cappella di quel rompicoglioni del Capitano Giuseppe Bormioli il nostro Cappellano, e poi i cessi per tutti, ufficiali, sottufficiali graduati e uomini di truppa. 
A disposizione una settimana, poi tutto passava al Genio pionieri, e che se lo prendessero in culo loro sto bel pisellone colorato. 
Vi risparmio la mole di bestemmioni che in quella circostanza ho imparato e messo da parte per momenti migliori, e dire che pensavo di essere laureato in bestemmiologia, mentre invece dovetti rendermi conto che non avevo ancora concluso la scuola d'obbligo. 
Al ritorno ci dissero anche "bravi, complimenti", ma oramai avevo capito che ci stavano prendendo per il culo.
Il 30 di giugno mi fu ufficialmente comunicato che ero stato prescelto per essere io il "primo ufficiale di picchetto al campo". Incontrai Giorgio Momigliano che schizzava veleno.
"Scommetto che sarai tu il primo ufficiale di picchetto." Mi fa.
"Mi hanno detto che tanto valeva perché io sapevo tutto e gli altri no."
"Te lo hanno rinfilato nel culo, Pippo mio, e a me con te, perché io sono il primo capitano di ispezione."
"Ma noi sappiamo tutto", provai.
"Non capisci proprio un cazzo! Per te e per me sono già pronte le lettere degli arresti. Non può funzionare niente il primo giorno, vedrai che casino".
In effetti fu un gran casino, mai visto un casino così.
Sorvolando su mille cazzate, pensate solo che ogni artigliere aveva con se una specie di sacco che andava riempito con 25 chili di paglia, che uno speciale reparto del Genio ci avrebbe procurato. Quello sarebbe stato il pagliericcio dove avrebbero dovuto dormire per un mese. Quindi una balla da un quintale serviva per quattro uomini. Il Genio scaricò 238 balle da un quintale, quindi otto quintali in più. Io incominciai la distribuzione dal primo Gruppo, il 101 e dalla Prima Batteria. Rimasi presente fino a che arrivarono gli altri tre Gruppi, 102, 113 e 114, che si misero ordinatamente in fila. Lasciai lì il mio sergente Biggera e un paio di caporalmaggiori, pensando che quei morti di sonno dei miei colleghi tenenti e sottotenenti avrebbero dato un'occhiata per controllare.
Manco pu cazze!
Mentre io stavo da tutt'altra parte per controllare l'inizio delle operazioni nelle cucine -anche questo naturalmente compito mio- arrivò uno dei miei colleghi stronzi a dirmi che il "signor Maggiore Daneri" comandante del 102 mi stava cercando con la bava alla bocca. 
"A Iacopò che cazzo hai combinato? Daneri cià già l'ucello in mano"
Era piantato in mezzo a una strada di scorrimento dei carri, a gambe larghe e mani sui fianchi.
"Le faccio dare 10 giorni di rigore, da scontare a casa e non qui, bello mio"
"Comandi. Se mi volesse spiegare..." fu il mio esordio.
"Quaranta dei miei uomini sono senza paglia e non ci sono più balle"
"Non posseggo il dono dell'ubiquità, se sto qui non sto lì e avevo messo un paio di sottufficiali..."
"Li è il primo responsabile, cazzo e stracazzo!!!"
"Ma i suoi ufficiali dove stavano signor maggiore?"
"Per questa sua impertinenza gliene faccio avere 15 di rigore".
"Comandi. Si accomodi, adesso vedo cosa è successo"
Continuò a strillare al vento dell'Adriatico, ma io me ne ero andato via.
In quel momento mi raggiunse il capitano Giuseppe Bormioli, il cappellano che noi subalterni chiamavamo Don Giuseppe, mandandolo spesso affanculo.
"Iacopò"
"Nun me rompe er cazzo don Giusè"
"Ti volevo dire miscredente che la paglia se la sono fregata quelli del 114 e che Bertola lo sa ma fa finta di niente."
Bertola era il Maggiore comandante del 114 e del Distaccamento di Cervignano. Mi vedeva come il fumo agli occhi, assolutamente ricambiato dal sottoscritto.
Piombai al 102 come un falco. Vidi il tenente Navetta, che sbuffava come un toro incazzato.
"Aspettavo giusto te!"
"Invece de sta a aspettamme potevi move er culo e annà a la distribbuzzione de la paja, rompicazzo"
Eravamo amici io e lui. Ero l'unico sottotenente che gli dava del tu.
"Piglia sti 40 ladroni e portamoli da la paja, de corza Navè"
Andammo nell'area del 114. Chiamai l'ufficiale di servizio al Gruppo, altro candidato agli arresti, altro sottotente di prima nomina, De Julio, er più bello romano de Roma.
"Fa sonà l'attenti al Gruppo"
"De che?"
"Fatte li cazzi tua e sona st'attenti. Li vojo immobbili come le statue de li Fori imperiali."
Appena furono tutti immobili, dissi:
"Io nun ve faccio rapporto, nun ve fo sbatte drento, ma er primo che protesta je sfonno er culo a forza de zampate, due pe vorta finché diventeno dispari".
Dissi poi a Navetta:
"Guarda li sacchi, minimo 50 chili l'uno, fai lavorare i tuoi uomini mentre quelli stanno sull'attenti"
Finì in gloria, ma il puzzone del Comandante del 102 aveva già mandato al Colonnello il biglietto di punizione per me.
Sinopoli mi mandò a chiamare.
"Gliene do solamente cinque, semplici e non di rigore e li sconterà qui al campo. Non se la prenda: è tradizione che l'ufficiale di picchetto vada dentro il primo giorno."
Tornai alla cucine.
Il Maresciallo capo Di Quattro, palermetano, sghignazzava. Lui era del 113, il mio gruppo e ci facevamo sempre delle matte risate. 
"Quanti?"
"Cinque"
"Derrigòre?"
"Semplici"
"Li scontasse qui?"
"E se capisce"
"Miiiiiiinghia, che cculo signòr tenende. Ce lo dissi tandissime vòrte: che pacchia stu reggimendo!"
Mi fece mangiare una bistecchina caura caura.
"Quellautri se la devono mangiare fredda stasera, e lei se la magna caura"
"Grazzie marescià"
"Ce lo dissi: che pacchia stu reggimendo, signor tenende!!!"
















giovedì 5 settembre 2013

GIULLARE DI DIO


Je suis seulement un histrion
sfuggito alle guardie di Dio
dopo che gli avevo sottratto una minuscola
cellula divina, eliminando
le mie tracce strada facendo in modo che
tutti gli intercettatori saliti dall'Inferno
mi perdessero di vista.

Danzavo e ballavo lassù, giullare di Dio,
al suono di magica musica
e facevo esercizi acrobatici
per il divertimento degli amici del Creatore
e delle loro donne zelanti.

Mi faceva cercare Lucifero per nuovi spettacoli osceni
insieme alle baldracche dei suoi ufficiali;
insomma tutti volevano avere il contributo
delle mie arti a disposizione durante
i loro banchetti. Per questo adesso
sono costretto a celare la mia identità
ricorrendo a trucchi pietosi: inganno vergini
pudibonde, mi infilo dentro le tonache
dei frati, sotto le gonne delle suore di clausura,
dentro le vesti da notte delle spose in attesa,
ma quanto a lungo durerà la mia fuga?

lunedì 2 settembre 2013

2 settembre 1900

Il 2 di settembre 1900 a Santa Marinella, vicino Civitavecchia, nasceva Maria Malavisi, che trentatrè anni e centosessanta giorni dopo sarebbe diventata mia madre.


Grazie mamma,
grazie mamma di essere nata,
di essere nata così come eri;
grazie di essere vissuta come sei vissuta,
grazie di avermi dato la vita,
grazie di avermi fatto così come sono,
così tanto simile a te,
col tuo profilo e i tuoi occhi,
col tuo gran cuore e con la tua anima,
con grande parte del tuo carattere,
con la tua enorme sensibilità,
con la tua voglia di vivere,
con la tua voglia di amare
senza chiedere mai nulla in cambio
solo per il piacere di dare,
solo per il piacere di sentirti utile,
solo per la gioia di vedere gli altri felici,
senza mai lamentarti.
Grazie mamma per avermi fatto
quasi con lo stampino
anche se così si soffre di più
anche per cose da nulla, 
anche per le cose per le quali
gli altri sorridono e fanno spallucce,
ma a me va bene così
e non ti renderò grazie mai abbastanza.
E grazie anche a te, papà,
per averla scelta,
per aver deciso di costruirci me,
per averla amata fino alla tua fine,
mentre lei ti ha amato ancora
per diciotto anni dopo che eri morto
come si conviene ad una buona moglie,
e ti è stata fedele durante tutta la vita
e per diciotto anni dopo che eri morto
come dovrebbe fare ogni donna
per amore e per rispetto del proprio uomo.