Durante la notte non avevo quasi chiuso occhio. Erano successi due miracoli: mia madre si era rassegnata all'idea di lasciarmi andare a Civitavecchia da solo con papà, seduto sulla canna della sua Viscontea nera; un po' perché fino a metà settembre non sarei andato a scuola; un po' perché stufa di corrermi dietro per strapparmi da immaginari pericoli mortali, che vedeva solo lei; un po' -un po' tanto direi- perché ormai gli americani non sarebbero più venuti a bombardare una città deserta, con un porto reso inattivo dal primo bombardamento di maggio.
"Oramai è agosto, non vengono più", era la litania di tutti gli altri civitavecchiesi, una trentina di quelli buoni, che erano sfollati a Valentano. Dalla finestra della nostra camera da letto comune si vedeva il lago di Bolsena, coll'isola bella lunga distesa nel mezzo e la penisoletta di Capodimonte sulla destra. La cosa più bella che c'era a Valentano era quel quadro che si vedeva da casa nostra.
Ma era il paese originario di nonna Michelina e lì c'erano tutti i nostri più affezionati parenti di paese: i contadini, i vignaioli, gli stradini, i ciabattini e i trasportatori, cioè guidatori di ciuchi da soma e di micce da riproduzione. La miccia era l'asina e chi non ne aveva una era un poveraccio. Dove andavi senza la miccia? Che facevi senza la miccia?
E proprio a causa della miccia dello zio Tóto era venuto fuori il secondo miracolo, o forse era stato il primo che aveva generato quello di mia madre, diamo a nonna Michelina il diritto di priorità che se lo merita. Era stata lei a sognare dove s'era cacciato il puledro "giù nel fosso delle canne, in fondo alla grotta". Ed erano andati in processione in quel dirupo tutti i membri della famiglia Viti, con mezzo paese dietro perché il puledrino aveva si e no un mese e mezzo e non mangiava da due giorni. Così era andata nonna Michelina in testa a tutti, ma era scivolata nell'acqua gelida del torrente che scorreva nel canneto e s'era presa l'influenza e la tosse, che ad agosto e con quella callaccia ci voleva una bella faccia tosta a scatarrare e a misurar la febbre. Così mamma, che era sua figlia, non si poteva muovere perché non si fidava di sua sorella Giulia e non poteva tenermi tra i piedi.
Ecco fatto: questi erano stati i due miracoli, che poi erano uno solo ché mai un puledrino si stacca dalla madre e mai una madre non se ne accorge e si pianta sul posto e non la schiodi più finché non è tornato il puledro.
Papà mi tirò fuori dal letto che non erano ancora le sei. "Adesso facciamo colazione e poi via". "Quanto ci mettiamo, papà?". "Se non abbiamo fortuna che non passa nemmeno un camion occorrono una decina d'ore". "Sotto il sole non sarà uno scherzo -disse mamma- fagli tenere in testa sempre il suo cappello, mi raccomando".
Figurarsi se non ci trattava da principianti Maria Maddalena Malavisi, coniugata Giuliani, separata e convivente Iacoponi, che a quei tempi era un record ufficialmente riconosciuto ma non apprezzato da Santa Romana Chiesa, che le rifiutava tutti i sacramenti, ma io quella cosa lì non la sapevo ancora.
Sulla canna della Viscontea papà aveva montato un sellino per me e mi ci andai ad appollaiare sopra puntando i piedi sulla forcella della ruota anteriore. Nel mio cuore mi auguravo di non trovare camion strada facendo che ci potessero caricare perché mi sentivo più sicuro lì sopra e poi vuoi mettere dieci ore con papà? Non mi era mai capitato.
Fino a Canino fui fortunato: niente camion. Papà pedalava e cantava. Aveva una gran bella voce da tenore di grazia, come quella di Tito Schipa e conosceva arie di opere, di operette e tutte le canzoni napoletane. Vicino Cellere passammo accanto ad una apicultura e lui mi spiegò tutto sulla cera e sul miele e perché gli uomini indossavano quegli strani cappelli e tutti quei veli. "Perché le api difendono il loro lavoro", disse papà. Così mi spiegò la storia dela Regina che non fa niente e delle operaie che fanno tutto. Quante cose non sapevo, quante cose mia nonna Michelina e mia mamma mi avevano tenute nascoste.
Dopo Canino passò un camion mezzo vuoto. Si fermò subito. Il cassone era pieno di gente, tutti seduti sul fondo. Sedemmo anche noi accanto alla Viscontea. Nessuno ci salutò e nessuno parlava. Scendemmo tutti a Montalto di Castro perché il camion andava verso Grosseto, dalla parte opposta alla nostra.
Di nuovo sul sellino e di nuovo canzoni. Ma la strada era in salita e dopo un po' papà mi fece scendere e continuammo a piedi. Il sole era bello alto e scaldava di brutto. Papà aveva messo un fazzoletto in testa facendo i nodi ai quattro angoli. Io avevo il mio cappelleto di tela bianca ma sudavo forte.
Vicino Tarquinia c'era un'osteria dove papà comprò pane e prosciutto: fette di pane paesano buonissimo e fettone di prosciutto. Mangiava prima tutto con gli occhi, come gli avevo sempre visto fare. Io sbocconcellavo, come al solito, ma era tutto più buono sotto quell'albero. C'era una fontanella che buttava acqua freddissima. "Bevi piano", mi disse papà. "Non la faccio più da quasi un anno la cacca brutta". "Comunque bevi piano, a sorsetti". "La devo tenere un po' in bocca come dice mamma?". "Sì, meglio se fai piccoli sorsi e te li scaldi in bocca". Un po' li scaldavo un po' li buttavo giù di corsa, non va bene col sole forte bere acqua calda.
"Quando finisce la guerra, papà?" Mi era proprio venuta su spontanea la domanda.
"Non credo tanto presto". "La vinciamo noi, vero?" . "Speriamo", ma aveva una faccia strana.
"Il Duce ha detto che dobbiamo vincere". "Il duce non c'è più". "Ma noi dobbiamo vincere lo stesso, così dopo lui torna". "Tu vuoi che torni?". "Il prossimo anno divento balilla moschettiere" ."Forse il prossimo anno è finito tutto". "E noi avremo vinto, vero?". "Non lo so, figlio mio. Tutti questi bombardamenti stanno cambiando le cose". "Ma tu una guerra già l'hai vinta". "Erano altri tempi ed era un'altra guerra. La popolazione lontano dal fronte nemmeno se ne accorgeva, mentre adesso ti vengono ad ammazzare mentre dormi a casa tua".
Era la prima volta che parlava di queste cose serie con me. Sentivo dalla voce che era triste e mi fece tanta pena, ma non glielo dissi perché volevo fargli credere che ero forte e coraggioso.
Arrivammo a Civitavecchia che era pomeriggio inoltrato. Non mi aspettavo di incontrare tanta gente per strada. Non fosse stato per le macerie e per tante case sventrate si sarebbe potuto credere che non fosse successo mai niente. Papà doveva comperare roba da mangiare per noi due e qualcosa da portare a casa a Valentano, pesce per esempio.
In pescheria al Mercato Centrale non era rimasto più niente, così andammo al porto, alla Darsena dove stavano rientrando i pescherecci. Fu quella la prima volta che andai al porto dopo il bombardamento. C'erano ancora gli scafi di quattro navi affondate.
"Qui non entra nessuna nave se non portano via quei relitti, disse papà. Il porto di Civitavecchia è bello che morto". Comprò gamberi, cozze, un paio di merluzzi per me e un dentice per lui.
"Questa sera ce li mangiamo", mi disse. "E dove andiamo?" ."A casa nostra". "In Viale Baccelli?" . "Abbiamo solo quella casa".
La notizia mi rese felicissimo, ma poi pensai che affacciandomi alla finestra della camera da letto avrei visto il vuoto dove prima stava la casa di Marcellino, il mio amico, con lui dentro, i suoi genitori e la sua sorellina di tre anni. Come una bocca senza un dente davanti. Non ci dovevo pensare sennò mi rimettevo a piangere come in quella sera di maggio quando lo vidi tirare fuori dalle macerie morto stecchito.
Non mi affacciai proprio, nemmeno un volta. Quendo fui a letto dissi una preghiera per lui e per la sua famiglia, mentre aspettavo che papà venisse a letto. Mi vide nel mio lettino.
"Vieni qui in quello grande, vicino a papà". Mi sembrò tanto bello da parte sua e di sicuro dormii meglio.
L'indomani mattina alle otto eravamo già in giro. Papà doveva andare in Banca a prendere i soldi dello stipendio e poi si tornava a Valentano. Ma i soldi non erano arrivati e rimanemmo in Banca fino quasi alle undici e mezza. Quando uscimmo lui mi portò in bici al Viale Garibaldi. Voleva dare un'altra guardata al mare e poi ce ne saremmo andati. Ma proprio allora suonò l'allarme.
Corremmo al rifugio più vicino, ma dopo una ventina di minuti suonò il cessate allarme.
Mentre eravamo tutti fuori cominciarono a piovere bombe come i botti di Capodanno.
Questa storia l''ho già raccontata e non lo rifarò adesso. In quel giorno morirono il doppio dei cristiani morti a maggio, quasi cinquemila. Il mio papà mi salvò la vita buttando via la bicicletta e caricandomi sulle spalle e correndo con quanto fiato aveva in corpo fino al rifugio. Io vidi e sentii tutto Quel giorno vidi il mio primo morto morire davanti a me, un giovanotto che correva disperatamente verso il rifugio.
Prima di partire papà passò all'Ufficio postale per fare un telegramma per mia mamma.
"Stasera la radio dà il bollettino di guerra e a mamma viene il terrore che siamo morti".
Dormimmo all'addiaccio insieme ai tanti, tantissimi che non si fidavano di rimanere dentro le case, come la prima volta. Casa nostra era ancora intatta. Papà prese solo una coperta e ci bastò per la notte. Non riuscivo a dormire e lui mi parlò per tutto il tempo finché crollai esausto.
Al mattino, prestissimo, ripartimmo con la Viscontea. Fu dura. Ci dovemmo nascondere più di una volta perché c'erano caccia americani a bassa quota che sparavano su tutto quello che si muoveva.
Arrivammo a Valentano sul far della sera. Mamma c'era venuta incontro insiema alla cugina Antonietta, che faceva la sarta. Il telegramma lo aveva ricevuto ma piangeva come se avesse visto il diavolo. Mi abbracciò strettissimo che quasi non respiravo più e sentii ch tremava come una foglia.
Questo post mi è stato ispirato da un bel post di Mia Euridice di qualche giorno fa e dal commento altrettanto bello di Silvia. Parlavano di padri che insegnano ai figli le cose della vita. A me in quei due giorni papà ha insegnato tutto.
Le emozioni che rievocano questo racconto, sono tutte in bianco e nero.
RispondiEliminaCristiana
Ignoro se ti sia venuta spontanea e se tu ti renda conto della profondità di quel che hai scritto.
Elimina"Emozioni in bianco e nero"
Te la copio sta battutona.
che storie straordinarie hai da raccontare...
RispondiEliminapiù intense di quelle che ti inventi!
te l'ho già detto, a mio parere ci potresti scrivere un gran bel libro.
Questo che è un grosso complimento e un bel rimprovero mi piace. Spesso ho sentito dire (da mia madre, tanto per cominciare) "la mia vita è un romanzo", ma ci sono tante storie nella mia, mie e di gente a me vicinissima, che andrebbero scritte e coniugate insieme.
EliminaIn privato potrei chiederti un favore. Fammici pensare.
Però, anche quelle che mi invento non sono mosceria....non ti preoccupare si tratta del mio smisurato ego che scalcia e fa breccia.
emozionante davvero...
RispondiEliminami hai fatto ricordare le cose che papà, che era del '31, mi raccontava...
Riccardì è proprio così. Ascoltare i papà con quattro orecchie quando raccontano le cose passate, che tu per fortuna non hai mai visto. Tuo papà sì, invece, le ha vissute sulla pelle, come il mio, come io stesso che pure ero un bambino appena svezzato.
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