Ebbene sì, lo ammetto, non vedevo l'ora di arrivarci: Maria Rosaria Gangi mi ha preso il cuore. È stato un amore alla prima frase, al primo aggettivo, alla prima riga, insomma immediato.
Volevo narrare la storia di una ragazza un po' particolare, che rendesse il passato di Terenzio Mauteri ancora più simile e parallelo a quello del protagonista, ma dopo poche frasi mi sono trovato fra le mani un personaggio femminile di grande spessore, che ho cominciato a dosare in punta di penna. Insomma Marò mi è uscita di getto dalla penna così com'è nel libro: non ho dovuto più aggiungere né togliere una parola (né l'ha fatto la correttrice di bozze. Grazie Giulia).
Sento già arrivare una domanda: rassomiglia a qualcuna che hai conosciuto, che magari ti ha lasciato in asso?
Assolutamente no. Me la sono inventata io dalla cima dei capelli alla pianta dei piedi.
Marò è la mia donna ideale, e rassomiglia alla donna ideale di ogni uomo, la donna che esiste solo nei sogni, che più la cerchi più ti accorgi che non c'è. Marò è la donna madre e la donna amante, la donna sorella e la donna amica.
Nel libro è una donna giovane, bella e intelligente, capace quando serve di rimbrottare e di spellare vivo Terenzio, il suo uomo, e di metterlo in ginocchio davanti a lei; ma anche capace di amarlo al punto di sacrificare per lui le due cose più preziose che ha: la sua dignità e la sua vita. E questo dopo avergli dato la gioia di sentirsi padre, anche se in fieri.
Mentre la storia di Marò mi usciva fuori dall'anima e si materializzava su alcuni fogli di carta, sentivo crescermi dentro il magone, perché capivo che la fine che avevo deciso di farle fare era ingiusta. Marò doveva morire per via dell'economia del romanzo: Terenzio non poteva che rimanere solo, e non magari sposato con un paio di figli, perché sarebbe diventata un'altra storia, assai diversa da quella che oramai avevo tracciato.
L'economia letteraria ha i suoi diritti, OK! Ma il cuore?
Ricordo che era un sabato sera, faceva un freddo schifoso ed io ero arrivato alla fuga finale di Marò, Terenzio e Nunzio Sciuto, soli contro il mondo.
Quando ho incominciato a scrivere della Giulietta in fuga sulle pendici dell'Etna braccata dai mafiosi mi sono fermato: ho posato la penna, ho appoggiato la schiena allo schienale della poltrona e mi sono sentito dire a voce alta "SALVALA!".
Sono rimasto un attimo col fiato sospeso. "Sì -ho continuato a dirmi- salvala, perdio! Devi salvarla, non farla morire lì, sola come una cagna col suo minuscolo bambino in grembo. Magari più tardi -sempre per via della stramaledetta economia letteraria- non so, falla affogare in mare, falla morire di parto in una casupola sperduta del "continente". Insomma che non muoia adesso, in questa maledetta serata gelida".
Allora ho tirato indietro il filo e rifatto il gomitolo; di nuovo l'ho lanciato sperando che mi portasse lontano dalla notte dell'Etna. Invece sempre lì mi riportava. Ho pensato di andarmene a letto e di dormirci sopra, ma non potevo abbandonarla lì, in mezzo alla strada. Mi sono dopo un estenuante esitare convinto che la fine più bella perché proseguisse il romanzo era la morte di Marò sulle falde del vulcano, col ventre squarciato da uno spuntone di roccia.
Quando ho concluso il capitolo, vi giuro gente, avevo gli occhi pieni di lacrime.
Ancora oggi, quando lo rileggo, mi emoziono.
La sera della presentazione della casa editrice Baku a Milano, il 26 gennaio di quest'anno, un bravo attore ha incominciato a leggere proprio un brano di Marò. Ho tanto sperato che si fermasse in tempo e non andasse alla fine. Qualcuno si sarebbe potuto stupire nel vedere l'autore con le lacrime agli occhi, e avrebbe potuto fraintendere e dedurne che Marò fosse stato il mio grande amore andato in qualche modo perduto.
Ma in un certo senso è così, come ho già detto prima: anche se frutto della mia fantasia questa donna ideale continua a vivere e a morire dentro di me.
Il mio desiderio più grande è che coloro i quali hanno letto il mio libro abbiano provato un po' di questa emozione, e altrettanto accada a quelli che lo leggeranno.
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