-Posso avere un orario di partenza e un programma di viaggio?
-Non ce ne sono. Parte tutti i lunedì alle 8,31 in punto da uno dei binari centrali.
-Mai lo stesso?
-No, ma non si può sbagliare: locomotore e vagoni sono di un bel verde smeraldo. C'è solo quel treno colorato così.
Mentre torno alla macchina mi vibra il cellulare nella tasca dei pantaloni. È Gustavo. Vuole sapere se ho preso i biglietti.
-Li ho, ma non c'è un programma.
-Non fa niente. Mi ha raccontato tutto Gianni che c'è stato due settimane fa. Ha detto che è una cosa allucinante.
Perché non fanno un po' di pubblicità? Nessun annuncio sui giornali, nessuna notizia per radio o per TV, solo un passaparola quasi sottovoce. Non capisco poi tutte quelle storie alla biglietteria: mi hanno chiesto il passaporto e hanno computerizzato i miei dati; ho dovuto dare nome e indirizzo di Gustavo. Tutto scritto sul PC.
"Si tratta soltanto di una scampagnata", gli ho detto.
"Dobbiamo registrare i dati anagrafici di tutti i viaggiatori; ordine del ministero della sicurezza".
Di questi tempi meglio non replicare, non dare nell'occhio se non si vuole finire nei libri neri. Però mi è venuto il mal di pancia e sono dovuto correre al cesso appena a casa.
Ancora due giorni di tempo prima della partenza, che passo togliendo erbacce nel giardino di mia madre e cercando di dare una ripulita nella mia soffitta, che fa schifo tante sono le tele di ragno. Una pittrice tedesca ha realizzato collage stupendi incollando tele di ragno su cartone. Fosse venuta nella mia soffitta avrebbe messo su un'intera esposizione.
Tutto questo lavoro sporco per non pensare al viaggio, e nemmeno una telefonata o un SMS a Gustavo, né lui a me, sempre allo scopo di non fare danni. Ma la notte della domenica non chiudo occhio, continuando a ribaltarmi dentro le lenzuola fino all'alba, e quattro volte alzarmi per pisciare dolorosamente goccia a goccia come un vecchio. Per colazione una tazza di caffè nero senza zucchero.
Inutile tentare di nasconderlo: ho una tensione fortissima e un'ansia che se fossi più coraggioso chiamerei paura.
Alle 7 una chiamata di Gustavo.
-Lascia la macchina in garage, vai col tram.
-E tu?
-Io vengo in bicicletta.
Così scendo di corsa giù per le scale. Tre chilometri da casa mia alla stazione me li faccio a piedi.
C'è già Gustavo, che incatena la sua bici a un palo della luce. Gli do il suo biglietto perché lo annulli all'ingresso e lo mostri al poliziotto che ci controlla uno per uno.
Il treno verde è sul quarto binario; i nostri posti sono il 61 e il 62. Gustavo mi cede quello vicino al finestrino nella direzione di marcia. Lui siede davanti a me.
Mancano tre minuti alle 8 e ci sono più della metà dei posti non occupati. Non arriveranno tutti adesso, sarebbero troppi anche per un calcolo della probabilità molto ottimistico.
Sul marciapiedi solo il personale di servizio. Alle 8 arriva il capostazione per dare la partenza. Nessun altro viaggiatore. Siamo al completo così. Senza la pubblicità non fai il pieno, non fai più niente ai giorni d'oggi.
Cominciano subito a camminare su e giù per il corridoio da un vagone all'altro: personale di servizio, controllori, polizia ferroviaria e tre o quattro individui in borghese che mettono gli occhi dappertutto.
Chiederei volentieri qualcosa a Gustavo, ma lui appiccica il naso al finestrino e guarda fuori i pali della linea elettrica che vanno via veloci. Un chiaro invito a tenere il becco chiuso fatto da chi ha il vizio di chiacchierare anche a bocca piena di cibo, forse anche mentre dorme.
Mi si ingobbisce il naso a tenerlo attaccato al finestrino, ma quei tizi in borghese non la piantano di fare su e giù per tutto il corridoio.
Due ore dopo ho gli occhi storti per colpa dei pali che corrono via, ma finalmente, di botto, non ci sono più pali dell'elettricità dal nostro lato, ma una distesa d'acqua di un grande lago. Il treno corre lungo la sponda e adesso rallenta, va a passo d'uomo perché stiamo sopra un lungo ponte molto stretto. Non mi alzo per controllare dall'altro lato, ma scommetto che ci sia un unico binario, perché c'è solo il nostro treno sia all'andata che al ritorno.
Non dura tanto che vediamo l'isola.
Sbuca dal niente. Guardiamo l'acqua, vediamo un'ombra e invece è l'isola come non te l'aspetti: gli alberi li puoi contare sulle dita tanto sono pochi e striminziti, la vegetazione è quasi inesistente e un muro sta nel mezzo per tutta la lunghezza dell'isola, anzi una muraglia, perché mi somiglia subito a quella cinese: infatti si tratta di una strada sollevata dal suolo, interamente distesa su un terrapieno murato sui due lati, come quello che salvava la Cina dalle invasioni mongole.
Il treno si ferma senza far rumore, come scorrendo su cuscinetti a sfera gommati, in una stazione bianca, bassa e lunga. All'uscita una squadra di poliziotti controlla dei fogli che ogni viaggiatore tiene in mano. Io non ho niente e mi sento all'improvviso molto a disagio. Mi volto verso Gustavo. Mi sorride. Ha le mani piene di fogli stampati.
-Questi sono i tuoi.
C'è il mio nome, i miei dati, il numero del mio passaporto, il mio indirizzo, telefono fisso e cellulare.
-Che roba è?
-Il permesso di accesso all'isola, mi spiega Gustavo. L'ho chiesto due mesi fa via internet.
-Perché non mi hai detto niente?
-Certe cose non devi dirle e nemmeno pensarle a bassa voce mentre sei seduto sul cesso.
Passato il controllo siamo fuori dalla stazione, ai piedi di una scalinata che immette alla muraglia.
Siamo in fila come soldati; nessuno parla, non sembra regni tanto entusiasmo; mi dà l'aria di un pellegrinaggio di anziani, non dico di un funerale ma ci siamo quasi.
-Mi sento triste, Gus.
-Taci. Guarda là.
Seguo con lo sguardo la direzione che mi indica con un cenno del capo e vedo bella in alto una telecamera mobile che osserva e filma tutto quello che avviene a 360°.
Anche dalla parte dell'acqua? Mi sembra un errore, poi rifletto: è piuttosto una precauzione o un timore esagerato di qualcosa, qualunque cosa che non sia l'ordine di questa marcia silenziosa in fila indiana.
La scalinata è finita abbastanza presto. Gustavo è dietro di me, ne sento il respiro pesante ma non mi volto a guardarlo in faccia. Adesso sono sulla muraglia, larga circa due metri, e posso guardare su entrambi i lati allungando il collo ora qua ora là; per ora niente altro da notare se non le telecamere mobili poste a distanze regolari e l'acqua del lago, in fondo a destra e in fondo a sinistra. Non lo vedo, ma di sicuro anche in fondo davanti a me e in fondo dietro di me. Non mi giro per controllare o per dare un'occhiata, insomma non mi giro affatto, l'ho già detto, e nemmeno mi alzo in punta di piedi per vedere oltre i primi della fila. Non lo faccio certamente per via delle telecamere, non c'è dubbio per quieto vivere. Non vedo altra ragione.
Eppure non c'è niente di strano o di anormale da vedere e mi chiedo il perché di tanti controlli, di tutto quel silenzio. Vado avanti per inerzia. Anzi no: perché se mi fermo sicuramente la telecamera si bloccherà su di me. Dico la verità: vorrei non essere mai salito su quel treno; ho le budella ristrette in uno spazio la metà della mia pancia.
Un passo dietro l'altro e dietro gli altri e non c'è niente da guardare.
E all'improvviso sia a sinistra che a destra li vedo.
Operai che spalmano cemento liquido sul bitume secco di una strada, anzi di due, una alla destra, l'altra alla sinistra della muraglia dove marciamo tutti in fila. Sono più o meno alla stessa altezza le due squadre, e vanno entrambe nella direzione di marcia inversa rispetto alla nostra. Alla fine noi saremo in un'estremità dell'isola, loro in quella opposta, nei paraggi della stazione.
Questa gente sembra disinteressarsi di noi, come se non esistessimo, come se non ci fosse nemmeno la muraglia. Lavorano lenti ma con metodo: una coppia spalma cemento tenendosi ai due lati della strada, uno di fronte all'altro; poi si fermano e restano accucciati. Fanno qualcosa che ancora non riesco a vedere. Intanto altri due procedono per un paio di metri. Con calma mollano palate di cemento, che poi spalmano con della cazzuole piatte. Anche questi rimangono accucciati sul posto, accudendo a qualche lavoro misterioso. Mi sembra che vadano con le mani sul cemento, ma sono ancora lontani per poter distinguere cosa facciano.
E già un'altra coppia si fa sotto, mentre altri operai avanzano in fila da entrambi i lati in attesa del loro turno. Adesso che mi avvicino vedo che anche più indietro c'è gente accucciata che armeggia col cemento fresco. Ma vedo pure che in testa alla nostra colonna i primi si agitano, perché sono ormai sopra agli operai e riescono a vedere quello che stanno facendo. Nessuno parla, ma si guardano l'un l'altro con facce strane.
Una voce imperiosa, proveniente da uno o più altoparlanti postati chissà dove, ci ordina di fermarci. Eseguiamo all'istante.
"Questi che vedete in basso sono la feccia del nostro popolo laborioso e onesto. Costoro hanno creduto di poter ingannare il regime e voi tutti; lo hanno fatto per anni, nascosti nelle fogne come topi. Hanno imparato a scrivere, hanno imparato a leggere, hanno professato queste ignobili arti per offendere voi e il governo del nostro popolo, sperando di aggredire le istituzioni e di ribaltare il sistema più utile e onesto nella storia della nostra nazione. Non lasceranno mai l'isola. Questo serva di monito per tutti coloro che volessero tramare contro il nostro popolo".
La voce tace. L'altoparlante finisce di gracchiare e rimane solo il rumore degli operai giù in basso che spalmano il cemento.
Riprendiamo la marcia. Ho lo stomaco chiuso in un pugno.
Adesso riesco a vedere cosa fanno mentre sono accosciati: scrivono con un dito nel cemento. In un primo istante avevo pensato che ci facessero dei disegni, ma adesso mi è chiaro e vedo che tutti sopra la muraglia hanno capito.
Scrivono. Non hanno carta, non hanno penne, ma scrivono sul cemento appena spalmato, cosicché la scrittura rimanga sulla strada una volta rassodato il cemento. Nessuno dei visitatori può leggere perché tanti non sanno cosa sia, non lo hanno mai imparato; altri invece che lo avevano imparato sono col disuso tornati all'analfabetismo. Costoro fanno facce strane, schifate. Qualcuno azzarda a dire qualcosa. Sono frasi di sdegno peggio che se avessero visto appestati in un lazzaretto. Altri si coprono gli occhi e tirano dritto senza guardare più gli spalmatori, gli scrittori, la feccia del nostro popolo.
Arriviamo fino alla fine della muraglia, alla fine dell'isola. Non guardo più da un pezzo, da quando mi sono accorto di essere il solo a guardare in basso, e ho sentito la telecamera puntata su di me.
Torno indietro insieme agli altri guardando il suolo sotto le mie scarpe. Prima di scendere per la breve scalinata mi volto e lancio un'occhiata indietro: gli operai continuano a spalmare, ad accosciarsi, a scrivere con le dita sul cemento fresco.
Questo è il posto dove Gustavo ed io e gli altri pochi amici fidati rimasti finiremo se scopriranno il covo, dove teniamo i pochi libri che abbiamo salvati e le riserve di carta,le penne, le matite, insomma quello che occorre per scrivere ancora.
L'altra notte siamo rimasti inchiodati al muro nel buio pieni di paura: c'era qualcuno fuori che cercava una porta, che batteva sul muro per provocare un rimbombo che svelasse il vuoto di un ambiente. Eravamo certi di essere arrivati alla fine di tutto.
Ma se ne sono andati.
vincè è bellissimo sto racconto..è il terrore di tutti coloro che amano scrivere e leggere quello che tu hai appena descritto, la lotta per la conoscenza propria e altrui, ed è una lotta che per certi versi si deve combattere anche ora in questo nostro, tanto bello, ma bistrattato Paese. Dove l'informazione è delegata spesso a coloro che vengono pagati per leccare i culi...
RispondiElimina...e de culi da leccà ce ne so tanti, troppi, troppi assai. Nun te crede ch'o scritto un racconto de fantascienza...è de domani, ar massimo dopodomani. Ma nun lo vedi che sti regazzini scriveno solo l'esse emme esse e nun so boni nemmeno a tené na penna in mano? Nun je parlà de congiuntivi...e che d'è, quanno che te vengono le lacrime dall'occhi? Er mi nipote che è mezzo todesco l'italiano l'ha imparato da me e quanno viè giù in Italia parla cor cuggino, n'antro nipote mio e nun se capischeno, e quello tutto italiano je fa "ma tu sei mezzo todesco, pe quello nun la parli bbene sta lingua, invece è lui che nun la parla pe gnente.
EliminaDovemo da allottà pe mantenella viva sta bella lingua nostra, parlata e scritta, magara ne sto dialetto Mariagrà, che è tanto bello e appagante, ecco me piace a dillo: è appagante, te riempe la panza e doppo devi da annà a letto.
Ciao, Mariagrà, su co la vita, bella:)))
ehh nun me lo staa dì a me...c'ho i fji mia che oramai quanno scriveno li esse emme esse me stanno lontani, li correggevo puro li...e c'ho da ditte che pure io mica ho studiato! E pe questo me incazzo co chi c'avrebbe li mezzi, la conoscenza, la responsabilità de fa conosce le cose come stanno e nun lo fa! E sta scola che c'avemo più sta più declina..non è corpa solo dello stato che taja taja taja, ma puro de certi professori e maestri che hanno perso de vista l'obbiettivi...e quarcheduno manco c'aveva sti obbiettivi, magari solo quello de arrivà ar ventisette der mese..va bè lassamo perde che sinnò stamattina manco er sugo preparo! se sentimo vincè...bona domenica.
RispondiEliminaCiai messo puro er deto su la piaga: la scola. Ma che me venghi a dì? Quanno ciannavo io guai a fasse trovà nun preparati bbene! Te faceveno rivenì er giorno doppo accompagnati dar tu padre, che se stava a sentì tutti li lamenti der preside e der professore e doppo quanno tornavi a casa, perché ce dovevi da tornà sinnò ndo ivi, allora er tu padre te sonava l'aida sur culo co la cigna, e quelle nun ereno botte ereno mazzate, Mariagrà, ce potevi puro annà a l'ospedale e lì manco te staveno a sentì, te diceveno ha fatto bbene er tu padre, chi sa ch'ai combinato brutto lazzarone.
EliminaLi professori de na vorta ce credeveno. Er mio era un rigazzotto de 22 anni t6utto duro e ncazzato. Ce nsegnava latino e greco, li mortacci sua, ma tu a da vede come: dovevimo da sapè tutto quello ch'aveva detto lui, puro le virgole. Embè pe me è stato un maestro de vita. Doppo è ito a fa er professore all'Università de la Sapienza, ha scritto libbri, e ancora è vivo e dirigge er teatro de Siracusa quanno fanno le tragedie greche. Insomma è na potenza mondiale. Quelli ereno professori, non questi che ce vanno perché nun so boni a fa gnente antro...
M'hai fatto venì er magone brutto e er mar de panza, ma nun è corpa tua è corpa de sti infami che ce stanno a governà, tutti de destra e de sinistra, de sopra e de sotto, tutti magna magna, Mariagrà.
Prepara er sugo e bon appetito a te e a tutta la famija tua.
Bel racconto, nemmeno tanto futuristico: la persecuzione degli intellettuali - uomini che pensano, ancora prima di scrivere e di leggere- è roba vecchia, chiamata in modi diversi a seconda della latitudine: confino fascista, lager nazista, gulag sovietico, epurazione maoista, distruzione della cultura tibetana, e via e via.
RispondiEliminaPer assurdità, le prime a subire la violenza sono state proprio le parole con cui si sono proclamate queste dittature del pensiero unico: pensa solo al termine "rivoluzione CULTURALE", o "esercito di LIBERAZIONE", o ....
Per arrivare ai giorni nostri, partito della libertà.
Libertà di stare tutti davanti al biscione, ad auto-castrarsi i neuroni, per la felicità del Dio denaro impersonato nella persona di quell'abominevole essere.
Ho raccolto una quasi enorme quantità di materiale per un romanzo, che nei miei desiderata dovrebbe essere pubblicato postumo. Non è la storia della mia vita, ma una specie di riedizione della Divina Commedia, senza alcun Dante e alcun Virgilio. Un progetto assai ambizioso. L'ho originariamente diviso in tre o quattro parti: una aveva per titolo "Martedì dopo l'autunno", poi soppresso e usato altrove; un'altra "L'isola del treno verde", ma nel romanzo non ci sono scrittori solamente, ma c'è Gesù e i suoi seguaci.
EliminaHo sottratto solamente il titolo, mettendo solamente una parte dei seguaci di Gesù, gli intellettuali.
Hai ragione quando dici che a subire le prima violenza siano state le parole, tipo CULTURALE e LIBERAZIONE et similia, ma cosa vuoi questi prevaricatori delle menti, oppure meglio questi "möchte gerne sein aber kann ich nicht", cioè desidererei volentieri essere ma non posso, sottinteso essere un forzatore del pensiero altrui, usano la parola "LIBERTÀ", come fosse un optional, un giocattolo per bambini piccolissimi -che poi sono intelligentissimi anche quelli e non li freghi tanto facilmente, anzi-, come fosse loro dovere far uso di questa violenza intellettuale "per il bene delle masse", e qui i primi sono stati i bolscevichi a coniare questa amena espressione.
Per quel che riguarda l'omuncolo che copia lo Stephen King di "A volte ritornano", ciò che fa inorridire -e parla un elettore di centro destra nota bene, che però si asterrà questa volta dal votare- è non il fatto che entri in pista per risollevare le sorti del PdL, che sarebbe forse anche legittimo dal suo punto di vista dato che ne è stato il fondatore, ma che in effetti SEMBRI che così stiano le cose, e che cioè un popolo di trinariciuti, di melensi ed idioti aspetti l'arrivo del contaballe di Arcore per votarlo ancora.
Questo mi deprime, come normale abitante di questo pianeta, come intellettuale, come uomo di centro destra, come uomo dotato di una intelligenza reputata al di sopra della media.
È proprio vero: non si arriva mai a toccare il fondo del marciume dell'animo umano. Che tristezza, Silvia, che tristezza.
Sto andando a ritroso; magari questo commento manco lo vedi, poiché è acqua passata. Lo lascio per i posteri, ammesso che sapranno ancora leggere.
RispondiEliminaNon ci crederai, ma dalle prime righe, quel clima carbonaro mi ha portato alla mente "Fahrenhait 451"; impressione confermata dal proseguimento della lettura, nonostante la diversa ambientazione e l'assenza di fiamme a bruciare montagne di libri.
L'ho visto alla sua prima uscita sugli schermi, e non lo dimentico più.
La differenza tra quello e questo tuo racconto, secondo me, sta nel fatto che Fahrenhait, allora, era un racconto di fantascienza, mentre il tuo scritto è descrizione di fanta-realtà.
Magari non nella muraglia o nel lago o nel cemento steso, ma in una ignoranza crassa dilagante, che mette tristezza tanto è sbandierata senza pudore.
Il gusto, il piacere della lettura vanno scomparendo; lo storpiamento dei termini a favore di brevità richieste dalla tecnologia; l'ignoranza, quella da ignorare, di un minimo di storia del passato, almeno di quella prossima che ci ha visto protagonisti ancorché negativi...
Non per il solo piacere di conoscere: è dal passato tutto che è possibile trarre indicazioni per il futuro. L'arte, la letteratura, la politica stessa, la storia: senza queste basi si va allo sbaraglio; il futuro è nel passato, del doman non v'è certezza senza di esse.
Le invenzioni tecnologiche: se mai dovesse avvenire un blackout totale, imprevisto e imprevedibile, sarebbe la fine del mondo, se i libri e le memorie fossero stati cancellati.
(E' suonata la campana della cena, devo andare. A malincuore, temo che l'argomento sarà ancora toccato. Non ho tempo di rileggere, se trovi qualche cassata passaci sopra, per stavolta).
Ciao.
Guarda che sono venuto indietro intuendo qualcosa, o forse sperando in qualcosa (dicono che io sia egocentrico, boh!); quindi ho trovato il tuo commento, che non rimarrà soltanto per i posteri, perché io al passato ci credo, come credo al futuro. È il presente che mi fa schifo.
EliminaChi è della mia generazione culturale non può non aver visto Fahrenhait 451 ed esserne rimasto colpito.
Non erano anni tanto bui come questi, perché c'era ancora, e tanta, la speranza, che adesso vedo temo noto che sta scomparendo. Erano anni difficili -ma dove sono i facili?- eppure ci si sentiva in un certo modo al sicuro da certe situazioni, da certi atteggiamenti consumistici e basta. Oggi è tutt'altra cosa ed è così degradato il concetto di vivere da fare sperare a un miscredente come me il ritorno della religiosità, del bisogno di rivolgersi a Dio come "deus ex machina", dato che uno imparziale in questo momento non se ne vede.
Mi sto rincoglionendo? Sto assaggiando già il sapore dell'erba dei cimiteri? No, ho paura per i miei figli e per i figli dei miei figli. Ne ho due adesso in casa, una coppia di gemelli di non ancora cinque anni, che mi stanno facendo un casino, ma vivaddio così deve essere. Mi chiedo per quanto tempo ancora i bambini potranno essere così sereni e gloriosamente casinisti.
Il mio racconto non voleva essere una imitazione o peggio un proselitismo di Fahrenhait, ma veniva da una sensazione di allarme per la fine incipiente della cultura, intesa come voglia di apprendere, di conoscenza e voglia di diffondere un messaggio culturale appunto.
Ma vedo che lo hai capito benissimo, anche se avevi sicuramente fame. Sei una bella intelligenza, amico mio.
Come vedi ho usato la nostra bella bellissima madre lingua, perché l'argomento è serio e questa bella lingua sta procedendo zoppa e tumefatta in una strada assai pericolosa.
Però adesso nun te mette a piagne: ce la famo, ce la famo, ma dovemo da lavorà quelli come noiartri che ne ste cose ce credemo.
Ciao gattonero, e grazie del tuo contributo.