In nessun posto del mondo i pomeriggi d'estate sono così allucinanti come nel quartiere del "Ghetto" a Civitavecchia. Le mura scrostate delle case si spellano sotto il sole a picco e si mangiano l'ombra, che si fa stretta come una riga di tinta scura; gli alberi si prosciugano addosso al proprio scheletro; la luce rimbalza sul selciato polveroso e secco schizzando in mille forme aguzze, che ti spaccano gli occhi, e l'aria ti dà l'idea di essere una tela trasparente, tirata dalla terra verso il cielo con tale forza che tra poco si scollerà e tu creperai per mancanza di ossigeno.
Ininterrotto il canto malinconico delle cicale. Il resto dei viventi, animali o cristiani, se ne rimane in silenzio, rintanato in qualche buco dove non passa il sole.
Quel giorno c'ero soltanto io, al centro di una piazzetta, a lasciarmi trafiggere dal sole. Ritornavo nella mia città dopo sette anni di astinenza dai parenti più stretti, dagli amici, dalle cose che meglio conoscevo e dall'odore del mare. Ero partito una settimana dopo il mio esame di maturità, senza nemmeno aspettarne l'esito, tanto era andato tutto liscio, anzi in modo piuttosto brillante. Lo scopo dichiarato era di rimettermi un po' dopo le fatiche di quell'esame e conoscere qualche terra straniera.
Un viaggetto di un paio di mesi, dissi a Dario e a Paolo, due dei quattro inseparabili.
"Salutatemi Adolfo, quando torna da Cagliari".
Adolfo era il terzo inseparabile; il quarto ero io.
Di due mesi in due mesi s'erano fatti sette anni: il mondo lo avevo girato, ma non mi sentivo molto migliore. Adesso ritornavo per rimanere, almeno era quello che credevo.
"Per una rimpatriata solenne occorre una festa solenne, esclamò Adolfo pieno di entusiasmo: Occorrono ragazze, whisky, soda e un complessino rock di Viterbo che è uno sballo".
A Viterbo da sballo c'erano solo un paio di ragazze, ricordavo io, ma mi fidavo del mio miglior amico e del suo fiuto; poi lui conosceva le mie preferenze meglio di ogni altro.
"Sei capitato un po' in anticipo, però, aggiunse Dario; quest'oggi è il primo giovedì del mese, non so se ricordi, ma questa notte è la nottata della pesca".
E come se me lo ricordavo! Nottate tremende trascorse tra gli scogli dell'antemurale del porto, con gli inseparabili ai quattro punti cardinali per tirar su dall'acqua a volte solo qualche pescetto striminzito, dopo aver tirato giù un mare di bestemmie.
"Chi veniva la posto mio?".
"Roberto Ti, il figlio dell'orefice, te lo ricordi?". Mi fa Paolo.
"Quello che aveva quella sorella tutta una curva?" Chiesi mimando lo scultoreo corpo di una bonona. "E perché proprio lui? È sempre sbronzo".
"Per via della sorella, si capisce".
"Andate con lui stasera?"
"Devi venire anche tu, saltò su Adolfo. Ci mancherebbe che adesso che sei qui non venissi. Si va in cinque, punto e basta".
Dovetti convincere mia madre che dopo quella ci sarebbero state tante serate, che avrei potuto dedicarle per raccontare quello che avevo fatto in quei sette anni, e anche quello che non avevo fatto, si capisce. Non era molto felice, ma le bastava aver di nuovo il figlio sotto lo stesso tetto. Fu mio padre a tirar giù un bel carico da undici: "Ma lascialo andare! Chissà quante belle cose hanno da raccontarsi lui e i suoi amici". E quante porcate, pensai io.
Andai sparato su in soffitta a tirar fuori tutta la mia attrezzatura da pesca. Dio solo sapeva cosa era successo alla mia roba in quegli anni, pensai. Ma era tutto lì, bello impaccato come lo avevo lasciato io: e che mai avrebbe dovuto succedere se in soffitta metteva piede solamente mia madre, che conservava le mie cose come reliquie.
Controllai e vidi che mancava il filo di nylon del 50 per le imboccature e anche una serie di ami. Pensai di fare immediatamente un salto dal mio fornitore in Piazza del Mercato, e di farmi consigliare da lui sul tipo di ami da acquistare.
Sulla porta di casa incrociai Adolfo, che aveva pensato potessi aver bisogno del suo aiuto. Sempre pronto lui e altruista; non era peggiorato col passare del tempo.
"Vado da Remo per ami e filo del 50", gli dissi.
"Non andiamo più da Remo, ci abbiamo litigato. C'è un negozio nuovo a Santa Marinella. Il proprietario si chiama Piero. Ha tutti gli ultimi urli della tecnica, e ti prepara tutte le imboccature che vuoi con nodi speciali che si inventa lui. Dopo devi solo attaccarle. Ti fa vedere Piero come si fa".
Pensai che ne avevo proprio bisogno, dato che in tutto quel tempo avevo dimenticato le tecniche dei nodi. Chissà che disastro avrei potuto combinare di notte alla luce di una pila elettrica.
Adolfo mi accompagnò con la sua macchina. Facemmo la nostra spesa e tornammo velocemente a casa mia.
"Passo a prenderti alle nove". E scappò via.
Preparai alcuni panini col formaggio e col salame, presi pure un paio di bottiglie di acqua minerale. Bevo sempre molto di notte se non dormo. Misi tutto in uno scomparto del mio vecchio zaino; il resto era pieno di tutta l'attrezzatura e di ciò di cui pensavo avrei avuto bisogno durante la notte, sufficiente per una pesca miracolosa. Scelsi la mia antica canna di resina in quattro pezzi avvitabili, per una lunghezza complessiva di sei metri; una buona lampada tascabile, alcune pile di riserva e incominciai ad aspettare Adolfo.
Arrivò spaccando il minuto, come sempre ricordavo io dei suoi appuntamenti.
"Paolo e Dario sono già in postazione, mi avvertì. Per Roberto dovremo aspettare qualche minuto, perché viene a piedi, facendo stradine solitarie".
"Scaramantico?"
"Teme che qualcuno lo veda e gli auguri buona pesca. In quel caso fa dietrofront e torna a casa".
"Ha ragione: se qualcuno te lo augura la serata è fottuta. Ma come fanno ad accorgersi che lui va a pescare? Non ce l'ha una macchina?"
"Non ci passano dentro le sue canne: ha una bestia da otto metri e una da dodici".
"Vuole tirare su balene?"
"Macché! Sono due mesi che non prende mai niente".
Mi misi a ridere.
"Se lo ricordo bene, sai che bestemmie!"
"Ne inventa sempre nuove. Questa sera ti farai una cultura".
Lasciata la macchina dovemmo marciare per un paio di chilometri, l'ultimo tratto saltabeccando tra scoglio e scoglio per raggiungere Paolo e Dario, che ci facevano segnali con la torcia elettrica. Paolo aveva portato un cestino di terra pieno di lombrichi; Dario aveva preparato il "pastone", un impasto di mollica di pane e cacio pecorino grattugiato. Le armi le avevamo, le munizioni pure, non restava che tirar su pesci. Ma dovevamo attendere che arrivasse Roberto Ti, perché si potesse fare il rito propiziatorio: i componenti della squadra dovevano lanciare in acqua le loro lenze contemporaneamente e non uno dopo l'altro, altrimenti si sarebbe potuto subito sbaraccare e tornarcene a casa.
Roberto Ti arrivò poco prima delle undici. Paolo si era addormentato con la testa sul suo cestino di lombrichi. Dario ci aveva nel frattempo aggiornato sulle abitudini sessuali della sua nuova vittima, io mi ero pappato due panini al formaggio e un uovo sodo fregato dalla sacca di Adolfo, che nemmeno se n'era accorto attentissimo com'era al rapporto di Dario.
Insomma ci stavamo ben bene rompendo i coglioni.
Quello stronzo di Roberto Ti non ci salutò neppure.
Dopo un po' comunque effettuammo insieme il primo lancio.
L'ora era forse la più propizia, quella in cui i pesci vanno in cerca di cibo; una splendida luna di tre quarti illuminava la superficie del mare solo leggermente increspata permettendoci di tenere d'occhio il vibrare dei nostri sugheretti: se un pesciolino avesse incominciato a sbocconcellare le nostre esche ce ne saremmo immediatamente accorti.
Dopo un po' riuscivo a seguire le evoluzioni del mio sugheretto sulla cresta delle onde con gli occhi che si incrociavano e incominciavano a lacrimare. Pensavo fosse la desuetudine, ma si lamentavano anche gli altri.
Alle due di notte arrivarono i primi vaffanculo confezionati in vario modo. Mezzora dopo avevamo sprecato la metà del pastone di Dario e cominciavamo ad affidarci alla forza adescatrice dei lombrichi di Paolo.
"Dove hanno già mangiato 'sti figlia di puttana?"
Proruppe Adolfo.
In effetti non mi era mai capitato di vedere che cinque lenze a quell'ora non subissero nemmeno una strattonata di un pesce vagabondo.
Dopo pochi minuti Roberto incagliò il suo amo in uno scoglio e dovette tagliare il filo, condendo la manovra con una cascata di bestemmie.
Fu allora che mia accorsi di non avere più niente da mangiare né da bere.
"Ci sono i due fiaschi di vino che ha portato Roberto", disse Paolo.
Quando arrivai vicino alla sua sacca Roberto mi guardò torvo.
"Solo un goccio e fila via", sibilò.
Uno dei due fiaschi era vuoto, l'altro conteneva forse un paio di sorsate.
"Quale goccio devo bere, ché ti sei già scolato tutto?"
"Il vino è mio e me lo bevo io, stronzo!"
"Stronzo sarai tu e tutti i tuoi morti!" Gli risposi infuriato.
Non mi era mai stato simpatico: era un cafone sempre pieno di vino e di scoregge puzzolenti, che ammorbavano l'aria. Ne mollò una pestifera. Perfino Dario, che stava a più di venti metri dovette allontanarsi.
Cominciavo ad avere i coglioni pieni di quella nottata. Il cielo si andava schiarendo. Guardai l'ora: mancava poco alle cinque, una quindicina di minuti all'alba.
"Non sono più in forma. La pianto qui per questa volta, dissi ad Adolfo. Tu che fai?"
"Provo ancora per un po'. Aspettami, ché debbo riaccompagnarti a casa".
"Credevi che me ne fossi dimenticato".
Cominciai a svitare i pezzi della mia canna.
"Vado fino alla stazione a prendermi un caffè".
Li piantai lì ricominciando mestamente a saltellare di scoglio in scoglio. Ne avevo per più di due chilometri prima di arrivare in stazione, quasi la metà sul dorso di scogli umidi e scivolosi per la salsedine.
Non sarebbe stato facile reinserirmi nella vecchia vita, pensavo mentre appoggiavo i piedi con cautela; loro non conoscono i miei problemi, come io non conosco i loro.
Finalmente la scogliera terminava e io potei camminare più in fretta sulla terra ferma.
La stazione era deserta e il bar chiuso fino alle sei. Ancora mezzora prima di bere un cappuccino. M'incamminai lungo un binario. La luce gialla dei lampioni notturni ancora accesi, mescolandosi a quella del giorno incipiente, rivestiva le grige pietre dei marciapiedi di un velo spettrale. Il segnale acustico, che avverte dell'arrivo di un treno, entrò in funzione.
Per chi diavolo suona 'sta campana? Non c'è nessuno che parta, pensai. Nemmeno un manovratore tra i binari. In quel momento dalla grande curva spuntò un treno e come d'incanto si materializzò sotto la pensilina un tizio allampanato vestito di nero con un berretto rosso con visiera. L'altoparlante annunciò l'arrivo del direttissimo Torino-Roma sul secondo binario. Lo annunciò al tizio con visiera e a me.
Il treno fermò con enorme stridore di freni. Nessuno doveva salire. Nessuno scese. Finestrini tutti appannati, scompartimenti al buio.
Là dentro la gente dorme ancora a fondo, pensai.
D'un tratto uno di quei finestrini fu abbassato. Comparve nel riquadro una esile figura di donna, molto giovane. Mi avvicinai fino ad arrivarle sotto. Un viso meraviglioso, un ovale perfetto. Occhi azzurrissimi che mi guardavano intensamente, come la stavo guardando io.
"Come ti chiami?" Le chiesi.
"Giovanna". Rispose.
Continuammo a guardarci, poi lei mi sorrise. Fu un attimo. Il capostazione emise un fischio breve e lacerante e subito il treno si mosse. Feci due passi verso il vagone. Lei mi sorrise di nuovo e alzò una mano in un lieve saluto. Mi fermai. Il treno acquistava velocità. Il direttissimo Torino-Roma si portava via per sempre la donna di cui mi ero perdutamente innamorato.
Nelle cento contrade in cui la vita mi ha trascinato ho spesso incontrato donne esili e fragili con occhi azzurri e volto perfetto. Ogni volta ho sussultato. Invano: quel grande amore era andato perduto per sempre.
Alcuni mesi fa, in una libreria di Firenze per la presentazione del nuovo libro di un mio amico, si parlava di amori giovanili.
"Lei ricorda il suo primo amore?" Mi chiese un'elegante signora.
"Certamente, le ho risposto. Si chiamava Giovanna; veniva da Torino".
i migliori amori sono quelli che non sono vissuti..pieni e traboccanti di "se" e di "ma"...non ci sono le miserie della vita nell'immaginare i baci, gli abbracci, le lacrime e le carezze. Fatti solo di cose belle e emozioni che pare di aver vissuto. Rifugiarsi in quello che non abbiamo vissuto, quindi candido e innocente senza difetti, fa bene. Ogni tanto almeno...
RispondiEliminaI migliori amori sono quelli che hai sfiorato e che ti sono rimasti nell'immaginario come "quello che avrebbe potuto essere il grande amore". Forse meglio: "quello che sicuramente sarebbe stato il grande amore" Il racconto è basato sulla cognizione di una debolezza umana: non volersi mai accontentare del bello e del buono che hai, sottovalutandolo, per poter aspirare a quello che non hai avuto, ma che sicuramente sarebbe stato migliore, più bello, più profondo, più tutto.
EliminaPensaci bene, e vedrai -tu che purtroppo puoi fare un bilancio ancora così giovane- che ciò che hai avuto, una volta perduto, era infinitamente migliore di quello che avresti potuto immaginare di avere.
Una carezza, Mariagrà.
La vita è un treno che parte lento, come fosse un accelerato, talvolta una tradotta, per la vita iniziale di merda (questa ormai l'hai sdoganata con quel post, arioso e scoppiettante) che talvolta ti riserva. Mano a mano che gli anni passano, la velocità di questo treno aumenta, fino a diventare un freccia rossa e anche più.
RispondiEliminaQuando questo avviene, manca il tempo per visualizzare, fotografare e memorizzare i ricordi.
Invece l'accelerato (o la tradotta, e non ci insisto a caso) hanno dato tutto il tempo di farlo, restano stampati in una lastra fotografica indelebile, da visitare soprattutto ogni volta che la melanconia ci assale. E sul 'freccia rossa' succede sovente.
Di Giovanna, ma non solo, sono pieni tutti i treni in transito lento o in fermata, e i vetri che si abbassano sembrano obiettivi di una macchina fotografica mentale, un clic e via; avanti un altro treno, avanti un'altra Giovanna.
Il vantaggio, se così si può chiamare, è che, avanti con gli anni, hai la possibilità di rivedere quell'immagine, senza la necessità di aggiornarla, ferma nel tempo e immutata nelle sue caratteristiche.
Basta, c'è il rischio di scivolare nel patetico.
Un par di noterelle però le voglio aggiungere.
Intanto sulla pesca: sono andato qualche volta a pesca di fiume, unici pesci in programma i cavedani (pesci consistenti, nerastri, con un sapore non molto ben definito); chi mi convinceva a partecipare ne pescava a bizzeffe, e si permetteva pure di ributtare in acqua quelli adolescenti. Io mai uno, fossi riuscito lo avrei fatto imbalsamare a futura memoria.
Questo fino a che tre colleghi, pescatori accaniti, in un giorno di sciopero, andati a un fiume torrentizio fuori città, non erano più tornati. O meglio, erano tornati giorni dopo, raccolti alla foce, straziati dalle rocce.
Da allora, qualche pesca di beneficenza, anche quelle a vuoto.
Giovanna: non voglio infrangere ricordi così poetici, ma al calar del finestrino alla vista di questa madonna (che come ben sai, anch'ella ha gli occhi azzurri, ovale perfetto, capelli biondi, sorriso colgate e manina in saluto perenne) il mio primo pensiero, una volta dipartita, sarebbe stato "chissà con chi sta scopando la porcellona". E forse sarei andato anche oltre: mentre mi sorrideva e salutava con la manina, nello stesso mentre, dietro c'era un bastardo che le faceva una pecorina.
Porca Giovanna.
La possibilità di aggiornare quel quadretto: oggi sarà diventata una balena, ha avuto quindici figli da quindici padri diversi, che avevano pagato di più per farlo "senza", e lei, ingenua, si limitava al do ut des, senza pensare alle conseguenze. Comunque i figli sono stati tutti sistemati, guarda i casi della vita, tutti in ferrovia.
Ecco, forse tu avresti potuto essere uno di quei padri, se invece che sul marciapiede ti fossi trovato su quel treno.
A parte il fatto che se avessi saputo che era partita da Carmagnola invece che da Torino, avresti buttato il suo ricordo nel cestino e in questo post ti saresti limitato alla partita di pesca, senza la poesia della madonna in finale.
Ciao, buona settimana.
Hai mangiato peperoncino rosso?:DD
EliminaQuesto raccontino, scritto qualche anno fa, è stato il mio primo racconto messo sul blog nel 2009.
Nessun commento.
Mi sembrava perverso lasciarlo lì, letto da nessuno e così l'ho riproposto. Non so nemmeno perché. Non volevo commuovere con una storia melensa, ma forse dopo l'odore della merda copiosa mi occorreva un altro odore, un po'meno pregnante, quello del pesce non ancora pescato, perché il pesce da tempo pescato, e magari dimenticato fuori dal frigo, puzza più della merda.
Per quanto io sia notoriamente un aborrito e abominevole parolacciaro, spesso un dissacratore di dolci sentimenti, non mi sarei mai fatto venire in mente il pensiero che mentre lei mi salutava con la manina uno sbavante amante occultato dall'ombra se la stava allegramente schioppando dal di dietro.
Che una donna leggiadra e desiderabile a 18 anni te la possa ritrovare davanti a 40 larga come una tinozza è fatto risaputo e purtroppo reiterato/reiterabile.
Nella mia classe di liceo c'era una venere, taccio il nome per rispetto essendo già da anni defunta. Era una gnocca imperiale. Ne eravamo tutti più o meno innamorati, ma come suoi coetanei nessuna probabilità di riuscita. Infatti aveva un fidanzato dentista di 26 anni.
Dopo la maturità l'avevo persa di vista, sapendola sposata al dentista e madre già di un paio di figli. Me lo aveva raccontato la sua migliore amica. Un bel giorno -o dovrei dire il giorno in cui crollò un mito- andando per una via mi sento chiamare: "Enzo! Enzo!". Mi giro e non vedo nessuna faccia conosciuta, nessuna silouette nota. Faccio per andarmene e una cicciona orrenda, sbracciandosi, attira la mia attenzione.
"Non mi riconosci?"
Era lei.
Dalla mia faccia ha capito.
"Sai, io ho due bambini con la gastrite e devo cucinare a parte per loro; così mangiucchio insieme a loro. Poi viene Dani e mangiamo insieme. Insomma, è andata così".
Capito?
Di Carmagnola conosco solo la tragedia del Manzoni, non so nulla delle loro donne, ma se si dovesse dar retta alle dicerie noi uomini dovremmo ritornare alle origini -quelle sì che erano belle- di quando giravamo in branchi, inseminandole tutte e non sposandone nessuna.
Quaranta o cinquantamila anni fa.
Ciao, buona settimana anche a te.
Un paio di cosine, poi ti lascio in pace. Tanto qui spazio ce n'è a iosa.
EliminaPeperoncino: dove ho lavorato per una decina d'anni il peperoncino semplice non esiste. Esiste Dio Peperoncino, ed è quasi bestemmia nominarlo in minuscolo. In questi luoghi sono generalmente timorati di dio (lo metto minuscolo per non confonderlo con l'altro), hanno frequentato il catechismo da migliaia di secoli (non come te, miscredente, che l'hai scampato), e si sono convinti che il loro Dio sia in cielo, in terra e in ogni luogo, esattamente come l'altro. Odio il peperoncino, lo dico subito. E là, ne sono convinto, le flebo di glucosio negli ospedali non esistono; le fanno di peperoncino e i malati si sentono subito recrià. Sono sopravvissuto, salvando stomaco, fegato, appendice ed emorroidi.
La moglie del dentista: ho già detto che mi commuovo facilmente; altrettanto rabbrividisco, talvolta senza ragione. Quell'incontro mi ha fatto rabbrividire, e il fatto che lei sia defunta non ha avuto peso in quel brivido. Devo curarmi.
I gatti, che tu ami senza se e senza ma, lo sai sono curiosi; basta dar loro lo stimolo giusto. E così, talvolta, vanno a sbattere su concetti più grandi di loro, e fanno domande, solitamente senza risposta.
La domanda che oggi fa un gatto curioso è: come se la cavano le mucche svizzere appena munte alle prese con un computer?
Ciao.
Ho premuto su "rispondi": è na parola!
EliminaCi provo.
Peperoncino o peperoncino minuscolo per dire che insomma eri piccante al punto giusto, come piace a me. dio peperoncino -minuscolo per non far confusione- l'avevo già sentita da militare.
A proposito, nel primo tuo intervento citavi per ben due volte la "tradotta". Non so se esista ancora ma una volta era un treno che trasportava solamente puzzapiedi, cioè soldati.
Eri o sei un militare?
Chi ti ha detto che io abbia scampato il catechismo? Mio padre non era un miscredente, figurarsi mia madre. Se avessi espresso il desiderio di non fare la prima comunione mi avrebbero spellato vivo.
Comunioni ne ho fatte ben poche, l'ultima il 5 maggio 1963, quando mi sono sposato. Era un omaggio alla sposa, che mi ha supplicato di farla. Era ventenne e carinissima, come dirle di no?
Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo? L'ho già sentita, ma non è vero: nel mio portafogli non ha messo mai il naso.
La moglie del dentista era una fica imperiale, nemmeno fanatica, proprio non gliene fregava niente di essere così bella e attraente, il guaio era che a me non la dava.
La tua domanda finale mi ha intrigato non poco, perché, da buon romano, mi sono chiesto: ndò sta la fregatura?
Non ho trovato la risposta alla mia domanda.
Allora azzardo una risposta alla tua.
Secondo me fanno le vacche: cagano nei secchi di latte appena munto e lo fanno quagliare.
Adesso rivelami la ricetta.
Ciao.
Le "tradotte" erano in effetti i treni che portavano i soldati al fronte, in trincea, carne inviata al macello. Non le hanno buttate: con qualche modifica le hanno destinate ai pendolari, lavoratori portati in città, sul fronte del lavoro, altra carne destinata al macello.
EliminaQui ne ho fatto metafora della vita: alla nascita si è designati a salire su un treno che porterà alla stazione finale. Il tipo di treno su cui salire per il viaggio non è casuale: c'è chi sale sulla littorina, chi sugli intercity, chi sulle frecce dai tanti colori. La tradotta (non solo in metafora) era solo un gradino sopra i carri bestiame. Nella vita, salire su una tradotta significa tribolare da subito, arrancando in salita, per riuscire a sopravvivere. Può succedere, con l'andar del tempo, che si riesca a saltare su un altro treno, nel qual caso quantomeno si viaggia su sedili più comodi e in pianura. Poi un giorno qualunque, senza preavviso, entra nello scompartimento un controllore, non chiede neanche il biglietto, ti dà una botta in testa e ti scaraventa di nuovo in tradotta. E sai che ormai su quella tradotta finirai il tuo viaggio.
Va da sé che questa metafora rispecchia alla perfezione quanto è successo a me.
Passando alla seconda parte del tuo commento: pensavo con l'accenno alla curiosità felina di avere risvegliato tuoi ricordi, invece, da buon romano, hai subito pensato alla possibile fregatura.
Ti aggiorno, brevemente: l'accenno al copia-incolla del racconto del 2009 è stato un invito ad andare colà a curiosare. Il 6 luglio di quell'anno hai partorito il tuo primo post, che era una specie di promo all'uscita del tuo libro (che cercherò di procurarmi); alla fine, proprio in chiusura, parlavi delle tue capacità di dialogo con il web, paragonandoti a una vacca svizzera che, appena munta, affrontasse questo marchingegno con la stessa tua dimestichezza.
Ovviamente mentivi, poiché da "imbranati" (nel senso buono, affettuoso, del termine) non si batte un post in maniera così pulita, piacevole e grammaticamente perfetta. Ripetendo, tre anni dopo, identica imbranataggine.
Li leggerò tutti, con calma, anche se uno sguardo veloce l'ho già dato.
Ad esempio, ti posso già dire che i nemici del mio nemico sono miei amici; e un post trionfale mi dimostra che mi sei amico (non è il caso che ti indirizzi sul calcio, poiché sarebbe offensivo per la tua fede).
Ancora una cosa: mi piace leggere, mi piace poco commentare (e la brevità dei miei innocui interventi ne fa fede), quindi credimi quando ti dico che li leggerò tutti.
Ciao, a presto.
Punto primo: metafora della tradotta. Non fa una grinza. Io non ho fatto il soldato, ma l'allievo ufficiale nell'anno 1959. Sono arrivato a Lecce su un vagone di I classe, imposto dalla prenotazione arrivatami con la cedola di presentazione alla scuola allievi ufficiali. Le tradotte non esistevano "ufficialmente" più. Ma ho viaggiato per anni in III classe, da studente universitario, da comune mortale sempre in bolletta, e non credo che ci fosse tanta differenza tra una puzzolente terza e una tradotta militare.
EliminaPunto secondo: le vacche svizzere e la mia curiosità felina non vanno necessariamente sottobraccio. Sai perché? Perché avrei dovuto ricordare quello che avevo scritto tre anni addietro. Cosa assolutamente proibitiva per me. A stento ricordo quello che ho scritto tre mesi fa.
Per quanto riguarda la mia menzogna, beh effettivamente ho esagerato un po'. Ho fatto finta -mica tanto, ancora oggi ho problemi con questo coso- di essere proprio imbranato e scarso. Sapevo di parlare al deserto allora, infatti ho iniziato il mio post per fare un po' di pubblicità al mio primo romanzo. Ma io sono fatto così, non mi lodo così non mi sbrodo.
Ci sono però delle cose che so fare benissimo e di cui mi vanto: guido la macchina quasi da fuoriclasse, anche in condizioni di assoluta invisibilità. C'è un post in merito. Lo troverai.
Con una matita, un carboncino, una sanguigna, un pennello in mano so quello che produco.
Con una penna so quel che scrivo
Con le carte napoletane in mano sono un campione di tressette.
Qualcuno potrà dire che guido come un cane sbronzo.
Passi.
Qualcuno potrà obiettare sulla qualità dei miei quadri. De gustibus non est disputandum, passi anche questo.
Qualcun altro potrà trovare la mia prosa prolissa, cattiva, pessima.
Passi pure.
Ma se qualcuno si azzardasse a dire che non so giocare a tressette me lo mangio vivo!!!
Ciao.:DDD
Al tempo! I nemici dei tuoi nemici sono i tuoi amici?
EliminaSei anti juventino convinto anche tu? Se è così qua la zampa. Non importa di che fede, basta questa inimicizia per qualificarti OK!:DDD
A caso: granata dal 1949, maggio. Prima non avevo l'età né la possibilità di sapere cosa fosse il calcio. Hai fatto un piccolo errore: avevo detto: i nemici del mio nemico (singolare) sono miei amici, e mi pare sia più che giustificato. Però ho esagerato un pochino, in realtà alcuni sono solo conoscenti, un po' tipo né carne né pesce.
EliminaCiao ancora.
Eureka! Temevo tu fossi un milanista!!!
EliminaAltra peste!
Nel 1949 c'è stata Superga, a maggio. Ti hanno esaltato dopo morti. B E L L I S S I M O!
Sai perché sono diventato interista?
In quegli anni erano tutti granata, capirai il "grande Torino" le suonava a tutti. Ma io sono sempre stato un bastian contrario, uno che va controcorrente, ma non volevo far il tifo per la Juve, che mi è sempre stata all'interno -basso- delle mutande. Così mi sono messo ad aspettare. Facevo il tifo contro, che non è una bella cosa.
Poi nel 1947, nel torneo a otto squadre, 4 del nord e 4 del sud, dove si decideva il campionato italiano (non dimenticare che era appena finita la guerra e che per andare da Napoli a Torino a volte ci voleva una settimana) si incontravano Torino, Juventus, Milan, Internazionale, Roma, Bari, Salernitana e Pescara. Alla quarta o quinta giornata c'era Inter-Torino a Milano. Vinse l'INTER per 6 a 2! Da non credere! Quell'Inter di scalcagnati ne diede sei al grande Torino!
Quella era la mia squadra, e quella è rimasta.
Di nuovo ciao.
Ciao Vincenzo.
RispondiEliminaSembra quasi che tu sia stato via sette anni solo per ritornare la notte giusta e poter vedere la tua Giovanna sul treno.....è molto bello questo.
Buona settimana
Teresa
Ciao Teresa.
EliminaHai un animo poetico. Già sembra quasi, a raccontarla adesso che la sorte mi abbia consentito di tornare giusto in tempo per vedere la mia Giovanna.
Io penso che nei ricordi di ognuno di noi ci sia, assai ben nascosta, una Giovanna o un Giovanni nel caso siano i ricordi di una donna, che rappresenta in fin dei conti solamente un sorta di insoddisfazione generale, come a dire: "ecco, questa qui poteva essere la donna della mia vita". Così come certi pensano: "questa qui poteva essere la Ferrari della mia vita, la villa della mia vita, il panfilo della mia vita". O più modestamente: "questo poteva essere il lavoro, che mi avrebbe permesso di non avere problemi nella mia vecchiaia", che di questi tempi penso possa essere il rammarico di tanti, di troppi.
Buona settimana anche a te, Teresa.
Come dici tu c'è una Giovanna in ognuno di noi.
RispondiEliminaMolto bello, racconto o ricordo che sia
Racconto e ricordo. Ci ho perfino scritto una poesia, tanto tempo fa, ma non l'ho ancora pubblicata.
EliminaSì, c'è una Giovanna in ciascuno di noi. Il guaio è quando cominciano ad essere due o tre: significa che si è fatta un po' troppa confusione nella vita.
Basta che si chiamino tutte Giovanna, così non ci sono rischi :D
Eliminaottimo racconto essendo appassionato di pesca che in questo momento non sto praticando lo seguito con molto interesse bravo..
RispondiEliminaBen arrivato Luis.
EliminaSei appassionato di pesca? Ottimo esercizio per i nervi dei buoni mortali e per far venire i sorci verdi agli abitanti del paradiso.
Io ho praticato la pesca con assiduità fino a che sono rimasto a Civitavecchia, in pratica fin che mi sono sposato. Poi, avendo abboccato io, ho smesso senza dibattermi come fa un pesce fuor d'acqua.
Ciao.