8,3 La prima neve in alta montagna scende quando l'erba è tesa e aspetta, e nemmeno sembra smuoverla il vento, e la terra è secca e chiede di essere ricoperta da quella umida e gelida coltre. Chi c'è stato a metà ottobre, qualche volta anche prima, lo conosce quel senso di imminenza di un evento che magari è banale, sempre uguale, ma infinito. Il cielo si abbassa e manda le nuvole giù quasi a toccare il suolo, il colore dell'aria è grigio rosa e d'improvviso il silenzio diventa una voce assordante: alzi il viso e lo vedi il cielo ridotto in minuscoli coriandoli che ti viene in faccia dondolando. Allora chiudi gli occhi, perché tutti lo fanno: si chiudono gli occhi e si tira fuori la punta della lingua e si assaggia. La prima neve ha un gusto speciale e un po' ti scotta. Una decina di secondi dopo, quando riapri gli occhi, se non stai attento non ti orienti più perché è già tutto bianco e i coriandoli si sono così infittiti che tu sei in mezzo alle nuvole e cammini a dieci metri da terra, ché tanto il rumore dei passi nemmeno lo senti più.
Io, profano proveniente da una lingua di terra protesa nel mare, conobbi la neve da una postazione militare sul Monte Mia a quota 1.024. Centinaia di metri sotto di noi scorreva il nastro azzurro intenso del Natisone, fiume vagabondo che prima segna il confine con la Slovenia e poi se ne va a spasso un po' da noi e un po' da loro. Nemmeno un'ora dopo si era trasformato in una fascia blu scura cucita da un sarto fantasioso sopra un mantello bianco.
Ce ne stavamo tutti fuori dalla baita, ufficiali, sottufficiali, graduati e uomini di truppa a lasciarci ingoiare da questo immane silenzio, a goderci l'immobilità della vita dimentichi del ragazzo che era rimasto dentro la baita e che rischiava adesso di morire. Un marmittone, una burba, un microbo del terzo settantotto, che manco arrivato nei suoi scarponi duri e gialli di fabbrica se ne saliva in coda a tutti lemme lemme, o almeno aveva provato a salire perché a causa della suola troppo nuova dei suoi scarponi e della beata incoscienza di chi lo aveva mollato solo laggiù in fondo alla fila, era caduto senza un grido giù da una scarpata facendo un salto di una quindicina di metri tra le rocce e si era fracassato le gambe. Nemmeno si lamentava e chissà quando ci saremmo accorti che mancava, se tra le tante cose di cui lo avevano caricato non avesse portato anche l'antenna telescopica della nostra radio.
E allora giù bestemmie perché la radio senza antenna non funziona, e dov'è quel microbo maledetto, quello scansafatiche imbranato, se l'è squagliata perché qui non ci sta più quel figlio di puttana. Ma finalmente qualcuno lo aveva visto il microbo maledetto della provincia di Belluno, e tiratelo su perdio! e fate attenzione ragazzi ché è tutto a pezzi. E non abbiamo nemmeno un infermiere, tanto a che serve un infermiere son tutti ragazzi di venti anni che scoppiano di salute. Dategli una boccia di vino rosso, ché si prenda una sbornia almeno.
E dal Comando ordinano non lo muovete perché sta partendo la squadra soccorso, che il giorno dopo non è ancora arrivata, e allora cazzo! dov'è sta squadra soccorso? Arriva, fermi tutti e non lo muovete ordine del signor Colonnello Comandante perché stavolta qualcuno va sotto processo, ma questo qui ha più febbre di un mulo, e voi tenetelo al coperto, e tu vai a cagare.
Il microbo del terzo settantotto non morì. Ma io capii che la morte era un coriandolo di neve più leggero degli altri che cercava la lingua giusta dove andarsi a posare. Ho pensato che da quel momento non mi avrebbe fatto più paura; l'ho pensato fino a poco tempo fa, quando la morte si è portata via mia madre, che la lingua se la teneva dentro la bocca serrata fino allo spasimo.
9,1 Il giorno che mio padre morì frinivano le cicale sotto il sole, nascoste tra le foglie degli alberi di gelso. Cessarono di colpo un attimo prima che l'urlo di mia madre facesse alzare in volo tutti i colombi del nostro cortile.
Due giorni dopo in chiesa, seduto sul banco in prima fila accanto a mia madre più ingobbita del solito e vestita tutta di nero fin dentro l'anima, tendevo gli orecchi agli spifferi che venivano dai banchi dietro il nostro dalle pie comari e dai devotissimi amici del padre mio: gli è venuto un colpo secco; una febbre da cavallo gli ha fatto crepare un'arteria del collo e lui è morto affogato; macché gli è scoppiata una vena nel cervello ed è rimasto stecchito senza nemmeno dire un'Avemaria. Qualcuno ci avrà pure azzeccato, perché nessuno mi ha mai saputo spiegare come era morto mio padre.
Mi sono dovuto scansare tre volte, perché tre volte mia madre stava quasi per svenire e la dovevano portare fuori a braccia, ma poi tornava.
E quando il fumo dell'incenso era così denso che ci impediva di vedere la bara dissero che era finita la funzione funebre; allora tutte le donne uscirono e io con esse, perché ero troppo giovane per portare la bara con gli altri uomini, e perché dovevo sorreggere mia madre da bravo figlio.
Là fuori in semicerchio, sorrette ognuna da due robusti giovanotti, c'erano le corone di fiori. Le contai: undici corone, la maggior parte di fiori bianchi; il Comune, la Cassa di Risparmio, il Dopolavoro portuale, il Coro salesiano, l'Associazione Polisportiva e poi le altre in fondo che non riuscii a leggere, ma la prima di tutte, che mi sembrò la più grande, con rose rosse in mezzo ai fiori bianchi con scritto a caratteri d'oro sul nastro blu la moglie e i figli inconsolabili, quella era la nostra: la moglie era mia madre in gramaglie sorretta da tutti, e dei figli inconsolabili uno insieme ad amici e parenti sorreggeva sulle spalle la cassa del padre, l'altro ero io, che nessuno teneva in conto in quel momento.
Eppure dentro di me io stavo urlando.
Poi mentre camminavamo tutti dietro il carro funebre mi venne fatto di pensare che la vita era una cosa tanto buffa: finché arrivavamo al cimitero eravamo la moglie e i figli da consolare, ma dopo averlo lasciato là ce ne saremmo tornati a casa lei da vedova e noi due da orfani, che a nessuno sarebbe interessato se da consolare o meno.
Per mio padre undici corone, pensavo, ma tre settimane prima dall'alto di una finestra di casa mia avevo contato quarantasette corone per quel nuotatore di ventitré anni, che doveva partecipare a un'Olimpiade e che era morto annegato mentre salvava tre bambini. Un'embolia polmonare, dissero, perché gli avevano fatto subito l'autopsia dato che era stata una disgrazia.
Per mio padre non era prevista autopsia, perché era morto in poltrona mentre dormiva col giornale spalancato sulla pancia, non aveva salvato nessun bambino lui, ma ne aveva abbandonato uno che non si sarebbe ripreso più da quella mazzata in mezzo alla schiena.
Basta! È passata una vita ormai, una vita senza padre, appunto.
11,1 Immaginate una popolazione immobile, ferma di fronte a un paesaggio surreale: muri di case bianche senza finestre, senza porte (inabitate? inabitabili?), scale che partono da terra e portano fin contro un muro, fin quasi dentro un muro; scale ripidissime, come posticce e muri assolutamente bianchi , accecanti.
La gente è ferma, la gente è muta; niente auto, niente tram, niente moto né biciclette. Folla immobile e muta. Il suolo è incolore come una lastra di vetro poggiata sul nulla; il cielo è incolore come trasparente, come un contenitore immerso nel vuoto assoluto, immane capsula di vetro.
COLORATE IL CIELO
È uno striscione di panno bianco con le lettere tracciate da un esile gessetto rosso. Compare all'improvviso. Lo danno ai bambini, che lo sorreggano standosene fermi e zitti.
Stanno fermi e zitti e sorreggono lo striscione.
E gli alberi? All'apparenza come incartati con carta bianca. Forse anche le case, come empaquetages di Jaracheff Christo. E il cielo? Inesistente.
Sembra un palcoscenico a guardare bene, e quella popolazione immobile forse è fatta da figure di John Davies, se cercate ne troverete qualcuna che rassomiglia alla woman with a shopping cart di Duane Hanson. È possibile, non è sicuro, ma voi cercate ugualmente.
Se fosse un palcoscenico allora questa sarebbe una scena. Bene. È possibile in una scena simile mettere un letto d'ospedale in un angolo? Meglio al centro, con un uomo ferito sdraiato dentro, la gamba sollevata. È anche questa una figura di John Davies? È il protagonista di una commedia nuova nuova? Si può credere a una finzione scenica? È ciò che immagina la mente di J.M.?
Contate le persone, compresi i bambini che sorreggono lo striscione, perché per J.M. è ben chiaro che la memoria è individuale. Quindi: tante persone uguale tante memoria di uno stesso evento. È proprio quello di cui ha bisogno per appagare la sua presunzione. E pensare che forse all'inizio gli sarebbe bastato essere una persona normale per avere una vita come tutti gli altri. Gli bastava, perché non aspirava a essere un SUPER, ma poi hanno incominciato a eleggerlo super e adesso J.M. si trascina in questo deserto
13,2 OK! Vivere intensamente col blocco dello scrittore si può. Penso che potrebbe essere interessante per la gente comune provare a immaginare che si possa vivere intensamente col blocco dello scrittore, non credo però che potrebbe interessare a un avvocato, a un impiegato di concetto e nemmeno a un arrotino sapere cosa significa questa cosa.
Ma che cavolo è veramente il blocco dello scrittore? Io penso che sia lo stesso che per un chirurgo non riuscire più a mettere piede in sala operatoria, per un macellaio non poter più annusare una fetta di carne, per un muratore non riuscire a mescolare calce per mettere pietra su pietra. È come quando tutto sembra che ti si fermi accanto e che se ne resti fermo, mentre invece ti gira tutto intorno come fosse un carosello.
A me è successo una volta che stavo uscendo da un supermercato francese in Alsazia.
Vedo la porta e c'è scritto in grande "Sortie" e disegnata accanto una freccetta.
Sortie vuol dire uscita, Ausgang in tedesco, ok! La freccetta si dice fléche in francese, e in tedesco? Non mi viene su questa stupida parola, nemmeno se mi metto a pensare in versi o a colori.
E me ne sto lì immobile col mio carrello mezzo pieno davanti che non mi muovo e sto con gli occhi chiusi a pensare come diavolo si dice in tedesco 'sta freccia del cazzo. e qualcuno di quei compassionevoli benpensanti che non si fanno mai i cavoli loro sento che mi chiede (non lo vedo, non apro nemmeno gli occhi) scusi si sente male vuole che chiami qualcuno no grazie sto pensando non è niente sto pensando ho dimenticato una cosa ho dimenticato qualcosa forse non mi ricordo nemmeno che cosa, e intanto lui se ne va e io rimango piantato lì.
Ma è così importante adesso ricordare come i crucchi chiamano la freccia? Certo che è importante! È importantissimo, fondamentale, esiziale, porca troia! Non mi muovo di qui se non salta fuori questa freccia del cazzo, che è quella cosa che teneva in mano o ti tirava addosso, non so più bene, quel dio piccolo piccolo con le alucce figlio di Afrodite, come si chiamava pure lui, Amore, Eros, eccolo lì: Eros appunto, Liebe dicono i crucchi die Liebe und die Pfeil.
Sgrano gli occhi.
Cazzo!
P F E I L!!! maledetta! Pfeil dicono i crucchi.
Me ne sono andato via con la gente che mi guardava e avranno pensato: "poveraccio, guarda cosa ha combinato la crisi dell'Euro".
15,1 Si può conoscere l'infinita società umana con tutte le sue miserie alzandosi prestissimo al mattino, prima dell'alba è il mio consiglio, andandosene poi a piedi per il centro di una qualsiasi città di almeno duecentomila abitanti.
Prima di tutto infilarsi nei vicoli, guardando in tutti i portoni, in tutte le insenature, gli angoli, i gomiti, ovunque sia possibile un riparo, specie se ci sono portici o comunque gallerie coperte. Si scopre il mondo dei senzatetto, il mondo dei pidocchi alla conquista del paradiso.
Nella città che conosco io c'è una stradina senza uscita, chiamata il vicolo cieco dei vagabondi. C'è di tutto e turatevi il naso prima di entrarvi, altrimenti vomitate addosso a quei poveracci. Ma attenzione: sono visibili fino alle cinque e mezza, perché alle sei sono spariti tutti. Dove diavolo vanno costoro?
Spariscono e basta.
Spostiamoci adesso al centro, al crocicchio tra due vie principali, la Kaiser Strasse e la Karl Strasse, il cuore della città dopo le otto, ma adesso sono le sei passate da poco. Non bisogna avere fretta, basta essere ben coperti, un giubbotto di nappa leggera va sempre bene perché qui è umido e freddo a quest'ora fino a giugno inoltrato; avere un thermos con caffè bollente d'inverno o una limonata fresca d'estate e tanta pazienza.
Prima o poi escono fuori, dapprima tímorosi poi sempre più audaci, sicuri di sé, sprezzanti: è il popolo delle mezze tacche, dei reietti, degli storpi, dei nani, che saltabeccando, ruzzolando con andature a sghimbescio, correndo ognuno come la natura ingrata gli permette, in pochi minuti brulicano per strada come rivoli di pus e di acqua lercia.
Scompaiono come topi e non lasciano alcuna traccia del loro passaggio.
Poco prima delle sette le strade sono a disposizione dei normali, dei monotoni, dei senza difetti apparenti, della noia.
Nessuno sa come i nani gli storpi i reietti tornino a casa, attraverso quale strada, quale percorso, perché neanche a rimanerci ventiquattro ore su quell'incrocio non li si vedrà più tornare, ma solo poco dopo le sei di nuovo uscire e invadere per pochi minuti quel territorio proibito come figurine animate di un caricaturista sadico e un poco pazzo.
Sono andato una mattina dietro l'altra per tre giorni ad aspettarli e per un'ora per un minuto per un attimo sono stato uno di loro, un poco barbone, un poco storpio, un miserabile qualunque, e ho vissuto una pompata di sangue di vita strappata al nulla di chi niente chiede e niente dà, per poi tornarmene al mio ricovero ben protetto con tanta nostalgia per quel minuto rubato di pienezza umana.
Tratti da "RIMASTI A SUAREZ", romanzo di futura pubblicazione.
Sono bellissimi.
RispondiEliminaLa tua scrittura mi sorprende, non è mai uguale a se stessa.
Il primo e il secondo brano si sono trascinati dietro una tristezza straziante, che forse ha contaminato anche gli altri brani ed è rimasta viva.
Veramente belli, complimenti.
Ciao Vincenzo.
Teresa
Teresa, sei una lettrice attenta; mi accorgo, non con dispiacere, di variare la mia scrittura anche all'interno dello stesso racconto, se lungo, o romanzo.
EliminaNel primi due brani c'è tristezza, è vero; ma tutto il romanzo ne è invaso, solo che -rileggendolo- ho trovato, non con dispiacere, una buona dose di autoironia, che ammorbidisce la tristezza e fa fare qualche risata a piena gola. Non mi dispiace proprio.
Ciao.
La parte finale mi ha fatto venire i brividi, perché questo è un mondo in cui ogni buon Artista rischia di diventare un clochard, mentre i potenti distribuiscono soldi e incarichi di prestigio a mogli e cugini di altri potenti, in un ribaltamento di valori che rivolta le budella, perché a saper guardare la gente negli occhi non è difficile vedere in quelli del barbone l'Intelligenza, e in quelli del parente dell'uomo potente l'inettitudine a fare, non dico il dirigente, ma l'aiuto fruttivendolo...
RispondiEliminaVedere l'intelligenza negli occhi di un barbone, dici? E una profonda umanità, aggiungo io. Ti racconto un fatto accadutomi quando facevo il tassista ogni sabato e domenica per far quadrare per bene il bilancio famigliare. Ogni sera verso le 19, quando terminavo il turno, passavo per una stradetta periferica, e lì incontravo un Penner, come qui chiamano i clochard. Anziano, sofferente e claudicante, con un cappottone nero e i sandali -eravamo a giugno-, trascinava a fatica una specie di carretta con dentro uno zaino e un borsone. Una sera, dopo aver dato via radio alla centrale l'avviso di fine turno, lo incontrai di nuovo. Rallentai e gli dissi: "Dai, sali, ti porto dove vuoi; dai che non ti costa niente".
EliminaA quella parola d'ordine si avvicinò immediatamente.
"E questa dove la metti?" mi chiese, indicandomi la carretta.
"Dentro, nel portabagagli, non ti fare problemi".
Andava in un boschetto, lontano di lì una decina di chilometri, dove aveva montato una tenda canadese piccola. Era la sua casa. "Tu non sei tedesco, mi disse; quelli non si sarebbero mai fermati". "Sono italiano". "Di dove?". "Di Roma".
Mi guarda e non mi si mette a recitare Orazio?
Mi face vedere un suo documento universitario: era stato per anni docente di filologia classica, latino e greco, all'Università di Colonia, una delle più prestigiose in materia in questa terra.
"E che ci fai da Penner?". "Punisco mia moglie, che ha voluto il divorzio per andare con un altro. Così non prende da me un solo Pfennige".
"Mi pare che punisci solo te", gli dissi. "Io ho i miei libri lì dentro, e mi indicò la carriola; li leggo ogni notte". "E come sbarchi il lunario?". "Ogni tanto scrivo note e faccio traduzioni. Le mando al mio editore, che le pubblica e mi paga".
Hai capito? Parlammo per circa un'ora, finché la centrale non mi chiamò alla radio perché avevano paura che mi fosse capitato un guaio.
Sproloquiai con lui in latino e un po' in greco, dopo secoli che non lo facevo.
Aveva un hobby, la fisica nucleare, pensa tu.
"Mi mancano i miei due figli, mi disse accomiatandoci; ma non voglio che sappiano come vivo".
Quando ho smesso quel lavoro coi tassì sono tornato in quel boschetto per cercarlo. La tenda non c'era più.
Questa più che una risposta è un formidabile racconto, quasi perfetto! Due limatine e avrai un gioiello in più nel tuo corpus artistico di scrittore!
EliminaSai che mentre lo scrivevo lo stavo pensando anche io?
EliminaDai! Fai le due limatine, editor, e vediamo che ne esce fuori.
no, no, le limatine saranno roba tua, se e quando ne avrai voglia: rispetto per l'Autore... :-))))
EliminaBello! Le farò in tuo onore. Sai, se non ci si rispetta tra noi...:)))
EliminaMi piace pure quella -venuta su spontanea- delle pance che strisciano a terra e dei culi pelosi in aria che dondolano oscenamente qua e là, come da commento a "La favola di Orfeo". Mi stuzzica l'immagine di questa gente mediocrissima.
Ho letto con attenzione solo il primo, agli altri ho dato una scorsa veloce. Molto bello, e poetica la conclusione con la metafora del fiocco di neve. E' storia vissuta, vero?
RispondiEliminaSui barboni, ritornando anche ai tuoi commenti nel post precedente a questo, non sono d'accordo con la tua visione romantica del barbonismo come scelta di vita: quella inciderà per lo zero virgola zero uno per cento.
Fortunato te ad averlo incontrato, ma la realtà non è così.
I penner sono per la stragrande maggioranza alcolizzati, drogati, disadattati, malati di mente, e non certo dei liberi pensatori che discertano di lingue antiche col taxista italiano.
Senza nulla togliere alla qualità del tuo raccontino sopra, riguardo al quale concordo con Nik.
Bingo! Storia assolutamente vissuta. Si sentiva?
EliminaVisione romantica, dici? Non so se sia romantica, ma io credo che, oltre ai drogati, ai disadattati, agli alcolizzati -ma non ai malati di mente, almeno non qui in cruccolandia, dove esistono ancora ospedali psichiatrici eccellentemente organizzati- e perché no ai fannulloni e scansafatiche cronici, tra i barboni ci siano anche persone normali e per bene, costrette da un giudice poco attento a fare questa scelta di vita.
Non ho incontrato solo il prof universitario, ma so di un ingegnere che, a causa di un divorzio, ha mandato tutto afc e se ne sta tra i Penner. Ignoro se sia felice, ma lui è sparito dalla circolazione.
Grazie per l'apprezzamento sul raccontino, ma era una pagina della mia vita anche quello.
Tra una decina di anni potresti trovare anche me, nelle tue strade con le kappa.
RispondiEliminaUna zingara mi ha predetto il futuro: 600 euro al mese di pensione.
Non credo che potrò mantenerci la mia casetta e oltretutto mettermi qualcosa in pancia, con quella cifra.
Sai? La zingara era perfetta nel suo ruolo di predittrice (?) di sventura: mi fissava con pupille di ghiaccio, le luccicavano i polsi e il collo di gioielli e al posto della palla di cristallo aveva un tabellario sul quale faceva scendere l'unghia dell'indice, perfettamente curata e smaltata.
Mi è stata subito sulle palle, quella direttrice di ufficio postale. :)
Il vantaggio di essere nato uomo e lo svantaggio di essere nata donna.
EliminaSulle palle non avresti dovuto avere lei, come dici, bensì entrambe le mani e a pelle essertele grattate bene bene, come facciamo tutti noi maschietti da una vita.
Di che ti lamenti? La casa ce l'hai, avrai qualche cosa di più di pensione che non 600 euro, aggiungi quella di tuo marito, aggiungi un aiutino dai tuoi figli (!!!), aggiungi che potresti sempre dare ripetizioni finché non sbavi bava dalla bocca e sei a posto:)))
Su con la vita! Non cominciare a piangere prima di esserti fatta male, come fa Alessia.:)))
Ma come faceva la direttrice dell'Ufficio postale a formulare tali ipotesi? Vatti ad informare direttamente all'INPS. Sei sempre in tempo a fare una polizza assicurativa e magari a devolvere alla Compagnia di assicurazioni tutti i contributi che hai già versati. Fatti furba e vacci prima che puoi. Sei ancora giovane e sei ancora in tempo, quindi.
Non ti fare fregare come mi sono fatto fregare io, ma io stavo lontano, in cruccolandia e poi erano altri tempi e questi problemi non erano ancora emersi.
Datti una mossa, bella:))
Che dici?
RispondiEliminaAiutino dai figli? Forse non hai presente come sono messi i giovani oggi in Italia!!
Ripetizioni a chi? Sono già rinco adesso, figurati tra dieci anni!
Tu ti fidi delle assicurazioni? io penso che siano ladri legalizzati!
Ho stipulato una polizza pensionistica integrativa in posta, ma riesco a versare mensilmente un'inezia, quindi non mi servirà a niente.
Non piango, ma penso con rabbia ai governanti che hanno scialacquato il futuro della nostra generazione e delle prossime con scelte assassine, e pochi giorni fa in parlamento si sono rifiutati di rivedere la loro, di pensione.
Onorevolmente Bastardi dentro e fuori.
Dopo aiutino dai figli c'erano, tra parentesi, tre punti esclamativi, ma non pensavo alla loro attuale situazione, che forse col tempo migliorerà, piuttosto al fatto che i figli un bel giorno si girano da un'altra parte quando vedono un genitore che arriva.
EliminaSei rinco adesso? Lo ammetti?:)))
Scegliti una compagnia buona come le Generali oppure la Ras o ILloyd triestino, che non ti fregheranno, ma se versi un'inezia non becchi che due lire.
Fidarsi solo di se stessi e non di governanti di merda come i nostri, Silvia. Quelli che verranno, destra o sinistra, saranno sempre bastardi come quelli che li hanno preceduti, compreso questo governo tecnico che ci sta inguaiando.
Buona fortuna, italiani che continuate a vivere in Italia, e se domani vi doveste svegliare senza l'ombrello dell'Euro non voglio pensare a come stareste messi.