La luce nel bagno era di nuovo rimasta accesa tutta la notte e l'ultimo ad uscirne era stato lui, come sempre. Una fortuna che Norma dormiva ancora, così poteva chiudere la finestra, ché s'era cambiata abbastanza aria a quell'ora.
La pendola nel corridoio segnava le cinque e tre quarti. Per farsi la doccia gli conveniva aspettare che sua moglie e sua figlia fossero già sveglie, non ci teneva proprio ad ascoltare i soliti piagnistei sullo scroscio dell'acqua che rovinava il sonno.
Si mise davanti allo specchio e guardò la sua faccia.
"Tu hai un nuovo problema, amico -si disse- veramente grosso stavolta".
Tastò con la punta di un dito un minuscolo foruncolo sotto il mento; tese la pelle del collo per vedere se ce ne fossero altri. Stava facendosi le boccacce quando sentì la porta del bagno aprirsi e vide Norma che entrava. Dalla faccia capì che aveva la luna storta.
"C'era bisogno di accendere tutte le luci per guardarti allo specchio? -fu la risposta della donna al suo saluto-. Sbrigati a farti la doccia e a uscire da sto bagno: deve entrarci tua figlia, che è già in ritardo.
"Certo" -le rispose, e aprì i rubinetti della doccia, ma continuò a pensare al suo nuovo problema, i cinque giorni che aveva davanti.
Uscì dal parcheggio sotterraneo del suo palazzo. Usando le marce più basse trotterellò per circa un chilometro, poi si inserì nell'autostrada. Rimase sulla corsia interna, perché alla prima uscita doveva lasciare l'autostrada. Riuscì a mettersi in fila e si immise nel traffico assai intenso al mattino di una delle arterie cittadine. Dopo un po' percorreva a passo d'uomo la Erbertstrasse. Lesse l'ora sul cruscotto: le 6,45. Per un paio di chilometri quella sarebbe stata l'andatura. Calcolò che poteva arrivare qualche minuto prima delle sette nel quartiere della Europahalle dove era l'edificio della sua Compagnia di assicurazioni. Da quasi ventun anni lavorava nell'archivio del reparto liquidazione sinistri, ma non sarebbe salito in ufficio, perché quello era il primo di cinque giorni di un seminario di aggiornamento organizzato per certi reparti dell'azienda, tra cui il suo.
"Saremo in tutto cinquanta o sessanta persone -gli aveva comunicato il suo capoufficio-; ci trasportano con un paio di autobus in qualche buon albergo nel Taunus, in mezzo ai boschi". In fondo avrebbe dovuto essere contento, ma non si era sentito mai tanto infelice come in quella mattina.
Entrò nel parcheggio sotterraneo della Compagnia e si avviò al suo box. Aveva visto fuori dell'ingresso principale che molti dei suoi colleghi erano già arrivati, tutti vestiti a festa.
Spense il motore, tirò in basso lo schienale del sedile e si mise a contemplare il soffitto della sua Opel. Subito i soliti tristi pensieri lo assalirono e cominciarono a tormentarlo. Stava di nuovo totalmente immerso in quello che oramai era il suo grave problema quotidiano, che stava per trasformarsi in dramma in occasione di quel maledetto seminario.
Da circa due anni gli era franata addosso una pestilenza che non avrebbe augurato al peggior nemico. Il suo intestino, da sempre perfetto come un cronometro, lo aveva piantato in asso e non funzionava più. Dapprima una stitichezza durata alcuni mesi, che lo aveva costretto a cure e rimedi angosciosi e al cambio di alimentazione. Una tortura per lui, abituato a sedersi ogni mattina alle sei sulla tazza e definire le sue cose in pochi minuti, stare qualche volta più di mezzora per produrre, dopo sforzi debilitanti, un paio di miserabili stronzucoli duri come pietre.
Ma il peggio arrivò quando la stitichezza di colpo si risolse in una serie di scariche diarroiche, che lo costrinsero a darsi ammalato per più di due settimane.
Per lui non era tanto orribile la serie di rumori osceni che produceva, quanto il fetore insopportabile che sembrava penetrare nelle pareti del cesso, e di lì dappertutto, tanto è vero che dopo un po' si aggirava per la casa annusando l'aria con le narici spalancate, come fa un cane da caccia che ha percepito la presenza della preda.
Era stato a consulto da tutti gli specialisti di malattie intestinali, tornando a casa col morale sempre più a terra. Le diagnosi non variavano di molto: infiammazione del colon ascendente, del trasverso oppure del discendente. L'ultimo che lo aveva visitato, un professore dell'Università di Heidelberg, gli aveva dato il colpo decisivo.
"È colite cronica; se la porterà addosso finché campa".
La sua vita era cambiata da così a così. Era diventato tetro e schivo; s'era incupito e chiuso nella sua immensa sfortuna, ragionando solo in dimensione fecale.
Aveva acquistato un nuovo orologio da polso, con applicato un meccanismo di sveglia che dava una leggera scossa al polso. Ogni notte che Dio aveva creato, alle due in punto, quando Norma e Giulia dormivano sodo, si alzava in punta di piedi, si chiudeva nel cesso ed espandeva in libertà il suo putridume, finalmente tranquillo.
Lo sciacquone era escluso, faceva troppo rumore a quell'ora di notte. Ricorreva a tre secchi d'acqua preparati la sera prima dentro la vasca da bagno: li versava uno dopo l'altro nella tazza e finalmente il putridume scompariva. Rimaneva il gran puzzo. Spalancava allora la finestra, che restava aperta tutta la notte con qualsiasi tempo. Al mattino era sempre il primo ad alzarsi per correre a richiuderla.
Aveva eliminato le ferie e qualsiasi altro viaggio perché era ormai legato alla tazza del cesso casalingo. La moglie e la figlia se ne andavano in vacanza da sole ben contente, e lui rimaneva rintanato in casa, ma non cambiava l'usanza delle due di notte per non guastare il ritmo del suo intestino.
Aveva tentato di farsi escludere dal seminario, ma qualcuno della direzione del personale gli aveva fatto intendere chiaro e tondo che chi non partecipava poteva anche perdere il posto, ché c'era tanta gente pronta a saltarci sopra.
"Cerca di stare tranquillo -aveva cercato di rassicurarlo Norma- negli alberghi moderni tutti i gabinetti sono forniti di potenti aspiratori, e poi alle due di notte la gente dorme".
"Puoi sempre andare in un bosco se hai paura di svegliarli coi tuoi botti" -aveva aggiunto Giulia mezzo strozzandosi dal ridere.
Ma il rischio era tremendo. Agitandosi dentro l'abitacolo della sua Opel Dario si chiedeva come avrebbe potuto continuare a vivere come niente fosse se degli estranei avessero conosciuto il suo segreto, come avrebbe ancora potuto guardarli in faccia se quella gente avesse annusato l'orrendo puzzo che diffondeva tutto intorno.
Si rese conto che stava per soccombere a un attacco di panico. Afferrò il trolley e l'impermeabile e saltò fuori dalla macchina correndo verso l'ascensore. Molto più tardi si ricordò di non avere nemmeno chiuso le portiere.
Salutò tutti quelli che incontrò con un cenno della testa. Si curava poco degli altri e ben pochi si curavano di lui. Per molti era solamente l'italiano della stanza 312, e non sapevano nemmeno che diavolo facesse lì dentro. Da parte sua, all'infuori del ragionier Mellini, e della Frau König, non aveva stretto relazioni con nessuno.
Erano arrivati tre grandi autobus e la maggior parte dei colleghi era già dentro. Rimase a guardare indeciso, non sapendo su quale salire.
"Contini! Dario! Hallo!"
Dal secondo autobus Frau König lo stava chiamando.
"Le ho tenuto un posto libero vicino a me; di fronte c'è anche il ragionier Mellini".
Dopo alcuni minuti i tre autobus marciavano in colonna sull'autostrada. Dario chiuse gli occhi, si allungò sul sedile, congiunse le mani sulla pancia e provò a dormire. Per un po' di tempo doveva esserci riuscito, dato che tutti i rumori del traffico e il vociare dei viaggiatori gli si erano fusi dentro le orecchie in un monotono muggito, basso e calmo.
Si scosse dal torpore per una frenata piuttosto brusca: stavano uscendo dall'autostrada e l'autista era impegnato in un curvone dal raggio assai stretto. Finita la curva imboccarono una breve salita e dopo la strada si distese diritta e piana davanti a loro.
Viaggiavano in mezzo a una foresta di alberi molto alti, olmi gli sembravano, ma anche acacie e querce. Più avanti vide venirgli incontro un intero bosco di pini marittimi, alberi che adorava.
Guardò il suo orologio: le nove e tre quarti. Aveva quindi dormito più di due ore. Di fronte a lui Mellini dormiva con la bocca aperta e le gambe divaricate. Anche la König dormiva, ma in modo molto più composto.
L'autobus rallentò la corsa; girarono a sinistra iniziando a salire lungo il fianco di una collina. Quasi in cima un ampio piazzale si apriva di fronte alla facciata di legno di un albergo a tre piani, con grandi balconi pieni di fiori. A destra della facciata un enorme cartello luminoso con la scritta in neon rosso "Willkommen" accoglieva i nuovi arrivati. Scesero tutti facendo un gran chiasso. L'aria era piuttosto rigida.
" A che altezza saremo?" -chiese Dario.
"Circa ottocento metri -gli rispose Frau König-. Andiamo, ché distribuiscono le camere"- aggiunse prendendolo sottobraccio.
Dario ricevette la chiave col numero 211.
"Io e lei siamo proprio di fronte -disse la König- ho la 212".
"A me è toccato il 218 -disse Mellini-. Per lo meno siamo sullo stesso corridoio".
Nella sua stanza Dario si guardò intorno. C'era un letto abbastanza grande, un armadio a tre ante con cassetti interni, un lavandino con un grande specchio e una doccia a porta scorrevole, come quella di casa sua.
Svuotò immediatamente il suo trolley, disponendo la sua roba nell'armadio meglio che poteva, poi uscì, chiudendosi dietro la porta a chiave. C'era da fare l'operazione più importante: il sopralluogo dei gabinetti.
Andò subito in fondo al corridoio e li vide: quattro gabinetti allineati sul lato sinistro e di fronte tre stanze da bagno. Immaginò che dalla parte opposta del corridoio fosse uguale ed entrò nell'ultimo gabinetto, quello più lontano dalle camere. Come aveva sperato c'era tutto l'occorrente, compreso l'aspiratore che entrava in funzione accendendo la luce. La finestra si apriva spingendo verso l'alto. Urinò, si lavò le mani e tirò lo sciacquone. Grazie a Dio aveva un getto potente e lungo, non come in certi alberghi dove lo tengono bloccato al minimo perché il troppo rumore non disturbi gli ospiti.
Uscito percorse l'intero corridoio, passando davanti ai due ascensori e ad una porta a vetri che immetteva nelle scale. Si recò fino in fondo al braccio opposto, dove trovò l'identica disposizione: quattro gabinetti e tre bagni posti di fronte.
Pensò che fosse assolutamente perfetto: poteva usare tutte e due le zone gabinetti, a turno, così si sarebbero confusi eventuali sospetti.
Si sentiva sollevato. Rientrò nella sua stanza, si tolse giacca e scarpe e si buttò sul letto. Dopo un minuto dormiva profondamente.
Si svegliò perché qualcuno bussava alla sua porta con insistenza.
"Contini! Dario! Si svegli!"
Era la voce della König. Le aprì solamente uno spiraglio.
"Abbiamo un'oretta libera fino al pranzo, e avevamo pensato di fare una passeggiata nel bosco per respirare un po' di aria pura".
"Ma che ora si è fatta?"
"Sono passate da poco le undici. Una mezzoretta nel bosco ci farà proprio bene in vista di tutte le ore di chiacchiere che ci aspettano. Ci incontriamo nell'atrio tra un quarto d'ora".
Si lavò in fretta il viso e le mani. Indossò una camicia fresca e un pullover di lana. Niente giacca, solo l'impermeabile. E scese.
Passeggiando per viottoli e sentieri in mezzo agli alberi si erano spinti un po' oltre, perché i viottoli erano finiti e incominciava un fitto sottobosco.
"Che cavolo! -esclamò Mellini- Non siamo nemmeno a mezzo chilometro dall'albergo e già non ci sono più strade".
Dario si volse a guardare da dove erano venuti e vide il tetto dell'albergo, giù in basso non certo distante.
"La zona è tutta in costruzione -disse la König- la dovranno ancora fare la strada".
Decisero di ritornare perché si era fatto tardi, e si incamminarono di buon passo. Prima, però, Dario diede una lunga occhiata circolare a quel sottobosco, che gli sembrava intonso. Un buon posto per le mie faccende, pensò, se questa notte dovesse andare buca coi cessi in corridoio.
Dopo pranzato i seminaristi rimasero per cinque lunghissime ore col culo incollato a una sedia coi braccioli e piano per scrivere, che qualcuno doveva aver studiato apposta per far stare scomoda la gente, ad ascoltare chiacchiere e a riempire un formulario, dove tutte le domande avevano lo scopo evidente di chiarire a qualcuno della direzione che cosa cavolo facesse ognuno di loro durante le ore lavorative, oltre che andare al cesso a fumare una sigaretta ogni tanto.
Dopo un po' Dario aveva avvertito dei comici dolorini al basso ventre, che non erano forti, ma sufficienti a tenergli tutti i sensi all'erta. Per quello a cena ingoiò poche cucchiaiate di una minestra di verdure, sbocconcellando un mezzo panino, mentre gli altri ci davano sotto di brutto come fosse il loro ultimo pasto, bevendoci sopra un paio di bicchieroni di buona birra.
Solo la Frau König fu parca come lui: una omelette, molta insalata e niente birra, solo acqua minerale non gasata.
Dario pensò che Mellini avrebbe dormito sodo, pieno com'era. Della König non si preoccupava, aveva già raccontato che era solita prendere una camomilla con dei sedativi e che si addormentava prestissimo.
"Ho bisogno di molte ore di sonno", aveva aggiunto.
Rimanevano soltanto una sessantina di seminaristi, tutti col buzzo bello gonfio; ma di questi i più importanti erano la ventina che occupavano il suo piano, quelli che avrebbe potuto incontrare nel corridoio insomma. Ma sperava che l'alcool facesse il suo effetto prima delle due di notte.
Si recò nella sua stanza, accompagnato da Elisabeth König, che doveva già avere inghiottito le sue compresse per la quiete notturna. Fu infatti insolitamente veloce nell'accomiatarsi.
Dario si sdraiò sul letto vestito e attese che arrivasse il sonno. Di solito doveva aspettare un paio di minuti. Ma quella notte qualcosa non funzionava: forse l'ambiente estraneo alle sue abitudini, oppure la tensione nervosa. E poi i rumori che provenivano dal corridoio: chiacchiericci, risatine, sospiri come se invece di andarsene a dormire gli inquilini del piano avessero programmato una riunione speciale, o un party.
Tirò avanti in un affannato dormiveglia, girandosi e rigirandosi sul letto, finendo per aumentare la sua agitazione. Poco dopo l'una di notte buttò le gambe giù dal letto. Si avvicinò alla porta, accostandoci un orecchio e gli parve di sentire uno scalpiccio. Aprì cautamente uno spiraglio e vide in fondo al corridoio, proprio davanti ai gabinetti, due o tre colleghi in conversazione serrata. Chissà cosa avevano di tanto importante da discutere a quell'ora.
Proprio in quel momento il suo orologio cominciò a vibrare.
"Le due! E questi non se ne vanno!" -bofonchiò tra i denti.
Ma quella era la sua ora, da più di due anni e già sentiva aumentare gli stimoli del suo intestino intasato. Non poteva rimandare, pena chissà quale disastro.
"Userò i gabinetti dell'altra ala del corridoio" -si disse e si infilò le scarpe.
Ma non fece in tempo ad uscire la sua stanza che li vide: erano in cinque, proprio là in fondo, uno stava con le spalle appoggiate alla porta dell'ultimo gabinetto. Ogni strada era sbarrata. Capì che doveva decidere in fretta, prima che succedesse l'irreparabile: quella gente là fuori non aveva nessuna voglia di dormire, non gli rimaneva che il bosco.
Indossò l'impermeabile, uscì e chiuse la porta a chiave. Non usò l'ascensore. Nell'atrio non c'era anima viva. Più rapidamente che poté sgattaiolò all'aperto.
"Le conviene portare un ombrello -disse una voce alla sua sinistra- ha smesso di piovere, ma temo che dia ancora una buona lavata"
Il portiere di notte stava fumando una sigaretta al buio. Solo allora Dario si accorse che i viali erano tutti bagnati.
"Sto poco -rispose- sto pochissimo. Ho bisogno di prendere una boccata d'aria e di sgranchirmi le gambe".
"Io lo porterei lo stesso. Se vuole le do il mio, a me non serve".
"Grazie, ma sto veramente assai poco".
Si allontanò rapidamente. Dopo alcuni metri diminuì la velocità: aveva detto al portiere che voleva fare due passi, non una corsa; non doveva farlo insospettire. Appena fu abbastanza lontano riprese il suo passo veloce. Doveva camminare fino alla fine del sentiero, dove era arrivato la mattina insieme a Mellini e alla König. Proprio lì aveva visto la possibilità di fare i suoi bisogni indisturbato.
Ci giunse in una manciata di minuti, quando la pancia oramai gli muggiva con disperazione.
Entrò nel sottobosco con decisione e gli sembrò di scivolare. Forse c'era del fango, ma non poteva stare lì a sofisticare. Era arrivato accanto al tronco di un grosso albero: sollevò i lembi dell'impermeabile fino alle ascelle, slacciò freneticamente la cinghia dei pantaloni, che lasciò cadere in basso insieme agli slip e si accosciò giusto in tempo per non riempire i suoi calzoni.
Avvenne quello che già conosceva: un orrendo boato, seguito da un crepitio stizzoso come i mortaretti nei giorni di festa grande a Napoli, accompagnò la super abbondante uscita di feci e di orribile puzza, che si diffuse immediatamente nell'aria quasi togliendogli il respiro.
Quando fu di nuovo libero cercò qualcosa per pulirsi. Aveva nelle tasche dei pantaloni dei fazzolettini, ma non erano sufficienti. Aveva qualcosa nelle tasche dell'impermeabile, una specie di lunga nota spese che Norma gli aveva dato tempo prima. La usò.
Si rivestì, cercando di non sporcare i pantaloni nelle sue feci; tirò giù l'impermeabile riassettandolo al meglio e si allontanò facendo lunghi passi. Si accorse che le scarpe affondavano nel terreno e si augurò che non si fossero troppo infangate.
Batté i piedi con forza quando fu nuovamente sul viottolo di terra battuta e ghiaia; continuò a battere per alcuni metri, poi prese un'andatura normale. Si sentiva stanchissimo, come se avesse scaricato da solo un vagone pieno di merce.
Salutò con un bel sorriso il portiere di notte, che lo guardava in modo strano. Alzò gli occhi sull'orologio nell'atrio e vide che segnava un quarto alle quattro.
Se ne stupì molto. Non gli pareva che fosse passato così tanto tempo.
Solo quando fu nella sua stanza si accorse del disastro sulle sue scarpe e sui pantaloni: erano pieni di fango, che aveva lasciato schizzi perfino sulla fodera dell'impermeabile. Ripensando alla sua posizione sul terreno la cosa gli sembrò addirittura logica. Ma dove stava tutto quel fango? Non se ne era assolutamente reso conto.
Durò un'ora abbondante prima di riuscire a togliere dalle scarpe, sopra e sotto, e dall'orlo dei pantaloni quella schifezza che ci stava attaccata. Erano ormai quasi le cinque quando si spogliò, indossò il pigiama e si distese sotto le coperte.
Cadde immediatamente in un sonno letargico.
Dei colpi sonori e insistenti picchiati sulla porta lo fecero svegliare di soprassalto, ansimante e sudaticcio. Guardò l'ora: le sette e un quarto passate da una manciata di secondi. Cosa diavolo vorrà Mellini all'alba? I colpi si reiterarono fortissimi.
"Arrivo, perdio! Arrivo, basta!"
Appena girata la chiave e tirata a sé la maniglia, una manata dall'altra parte della porta la spalancò mandandogliela quasi a sbattere sulla faccia.
"Ma che razza di modi...", pensò di dirlo, ma gli rimase in gola: tre, quattro, cinque...sei individui mai visti prima erano dentro la sua stanza e altri tre ne vedeva fuori, questi in divisa da poliziotti, mentre quelli dentro, che già rovistavano dappertutto, erano in borghese.
Dario spalancò le braccia a bocca spalancata, perché non trovava parole, mentre uno dei tipi aveva richiuso la porta e ci stava appoggiato con la schiena.
"Mi chiamo Bernard Werner -disse quello più anziano- e sono Commissario della Polizia Criminale di Wiesbaden".
La Kripo? Pensò Dario. Che vogliono costoro da me? Che ho fatto?
Uno dei poliziotti aveva in mano le sue scarpe. Dopo essersele rigirate in mano ben bene le porse in visione al Commissario indicando alcune macchie; non era evidentemente riuscito a cancellare tutte le tracce del maledetto fango che ci si era accumulato.
"Indossava queste scarpe stanotte quando è uscito dall'albergo?" -gli chiese il Commissario
Quel portiere aveva la lingua lunga. Si era accorto che le sue scarpe erano piene di fango e gli avrebbero rovinato i tappeti. Ma la Kripo non si muove per queste stupidaggini. Pensieri rapidissimi in successione nella testa di Dario ancora non del tutto sveglio.
"Le ho fatto una domanda,vuole rispondere?"
"Sì, certo. Indossavo quelle scarpe".
"Cosa doveva fare di tanto urgente?"
"Volevo prendere un po' d'aria e fare due passi per sgranchirmi le gambe".
"Alle due e mezza della notte?"
"Non riuscivo a prendere sonno".
"E ha passeggiato nel bosco per oltre un'ora e mezza?"
"Sì, credo di si".
"E dove ha raccolto tutto quel fango? Lungo la strada e lungo i viottoli era bagnato, ma niente fango".
"Sono entrato nel sottobosco per qualche metro".
"Per fare che cosa?"
Non mollava l'osso lo sbirro.
"Ho orinato".
"Ma guarda! E per pisciare lei si è riempito i risvolti dei pantaloni di fango, ma non solo -e gli mostrò i poveri calzoni, che un altro agente reggeva in mano- anche la cinghia, lo vede? Addirittura la fodera del suo impermeabile, qui, qui e qui. Lo vede?"
Vedeva adesso che non si era accorto di quelle macchie quando era tornato, ma era stanchissimo.
"Da quando in qua è proibito andare a zonzo nei boschi e magari inzaccherarsi di fango?"
Il Commissario Bernard Werner fece un mezzo sorrisetto, poi diede un'occhiata alla stanza.
"Evelyn Blumenkohl"
Pronunciò solamente quel nome, continuando a guardarsi intorno. E poiché Dario lo fissava perplesso, ripeté:
"Evelyn Blumenkohl"
"Chi è? -chiese Dario spazientito.
"La conosce?" -questa volta lo fissava diritto negli occhi.
"Mai sentito questo nome".
"Si vesta. Deve venire via con noi" -e lasciò la stanza incurante delle proteste di Dario.
"Evelyn Blumenkohl"
Ripetuto per la terza volta quel nome mise Dario in orgasmo.
Si trovava negli uffici del Polizei Presidium di Wiesbaden, in una stanza nuda con tre finestre rettangolari e strette, poste una accanto alle altre lungo la parete più corta, proprio a ridosso del soffitto. Sembrava volessero impedire di dare uno sguardo sul mondo, lasciandone solo immaginare l'esistenza.
Sedeva davanti a un tavolo metallico; sulla parete di fronte a lui uno specchio molto grande.
La solita trovata, pensò. È sicuramente lì dietro che mi osserva questa Evelina del cavolfiore. Beh, adesso si accorgerà che non mi ha mai incontrato in vita sua.
Il Commissario Werner si era tolto la giacca e aveva rimboccato le maniche. Non portava la fondina a tracolla con la pistola dentro, come si vedeva in quasi tutti i film e nemmeno aveva un aspetto truce. Teneva i gomiti appoggiati al piano del tavolo e aveva aperto una cartella gialla che gli aveva messo davanti al naso un poliziotto in divisa, che subito si era allontanato. C'era un numero stampato in grande, aveva fatto in tempo a leggerlo: 1221. Ora la cartella era aperta, ma conteneva solo qualche foglio scritto e un paio di foto.
"Ha mai sentito quel nome?" -chiese paziente il Commissario.
"No, mai -rispose Dario ormai rinfrancato- e nemmeno vista. Se non mi crede lo chieda a lei" -e indicò lo specchio alle spalle del Commissario.
Lo guardò un attimo da sopra le lenti, che teneva quasi sulla punta del naso.
"Non c'è nessuno là dietro, e lei non faccia il furbo".
Tirò fuori dalla cartella le prime due foto: il ritratto a colori di una ragazza bionda, decisamente molto bella, occhi azzurri e un sorriso da conquistatrice del mondo.
"Evelyn Blumenkohl, 21 anni -disse Werner- cubista in un locale qui a Wiesbaden, il Trocadero".
L'altra foto la ritraeva in due pezzi, sempre col solito sorriso.
"Ride sempre allo stesso modo -osservò Dario- deve essere il suo marchio di fabbrica".
"Era. Su questa non ride più".
Gli mise davanti l'ultima foto. Un corpo di donna seminudo, disteso in mezzo al fango con graffi sanguinanti in mezzo alle cosce, i pantaloni abbassati fino alle caviglie e il collo piegato di lato in una posizione assai poco normale.
"Prima stuprata, poi strangolata, signor Contini".
Inutile chiedere dove l'avevano trovata e quando, anche un idiota era capace di fare due più due uguale a quattro. Ma non poteva essere così sfigato, no perdio, non era giusto.
Mise entrambe le mani davanti, scuotendo la testa con forza.
"Io con questa storia non c'entro...non posso essere stato io".
"E perché no?"
"Perché...perché..."
Ma non poteva andare avanti, non poteva dire quello che aveva fatto; certe dichiarazioni finiscono sui giornali. Cosa sarebbe diventata dopo la sua vita se si fosse diffusa la notizia della pestilenza che si portava dentro. Lui non era stato e non potevano infilargli dentro le scarpe quel delitto. Prima o poi lo avrebbero trovato il colpevole, bastava scavare nella vita della ragazza e sarebbe saltato fuori. Cosa era venuta a fare nel bosco a quell'ora? Quell'idea lo folgorò.
"Che ci faceva la ragazza nel bosco? -chiese saltando in piedi- Come c'era arrivata? Chi ce l'aveva portata? Io no di certo, sono stato in albergo tutto il giorno, ci sono decine di testimoni".
"Sieda, Contini, sieda".
"Ho gente che è stata con me da ieri mattina presto ogni minuto, il ragionier Bruno Mellini e Frau Elisabeth König".
"Potrebbe trattarsi di una sua vecchia conoscenza, che lei ha cercato col suo telefonino".
"Lo avete voi; controllate le telefonate che ho fatto e quelle che ho ricevuto".
"Lo stanno facendo, stia tranquillo".
Werner lo guardò un momento, come se cercasse le parole.
"Se lei non è l'assassino non ha niente da temere, i poliziotti non sono tanto stupidi come la gente pensa. Devo dirle però che lei non è molto collaborativo. Io non credo che lei stesse facendo una passeggiata. Comunque sia andata aveva ben altre ragioni per uscire questa notte dall'albergo, e io le scoprirò"
Se ne andò lasciandolo solo a macerarsi al pensiero che quel vecchio poliziotto riuscisse a scoprire il suo segreto.
Ma dove diavolo è stata ammazzata questa qui? Quanto sarà distante il luogo del delitto dalla mia postazione di questa notte?
Questa era la sua unica preoccupazione: che cioè trovassero il monte di merda che aveva lasciato sotto un albero. Che gli potessero accollare un delitto da trenta anni di galera non gli passava nemmeno per la testa.
Nell'istituto di pena dove fu trasportato lo registrarono, poi lo portarono in infermeria, dove un medico prelevò campioni del suo sangue e di saliva per il controllo del DNA e il confronto con quello sulle tracce trovate sul corpo della ragazza uccisa.
Benissimo, pensò Dario, tra un paio d'ore sarò libero. Ma il medico lo disilluse immediatamente. Tutti gli esami venivano fatti a Francoforte e occorrevano non meno di ventiquattro ore, se tutto andava alla grande.
Mi toccherà pernottare qui, pensò.
Per fortuna, dato che era sotto inchiesta, fu assegnato ad una cella singola. Appena entrato vide in un angolo della angusta cella una tazza metallica inchiavardata al suolo con una maniglia a muro per tirare l'acqua. In pratica quella stanza era un cesso, anche le misure erano da cesso, tre metri per due per tre di altezza: diciotto metri cubi che, se fosse stato costretto a usare quella specie di bugliolo, avrebbe intasato di micidiale puzza che poteva asfissiare lui per primo e poi tutti gli altri ospiti del braccio.
Pertanto doveva mangiare poco o niente e sperare di farcela a trattenere il suo intestino. Mangiò pochissimo, giusto per non morir di fame e appena arrivata la notte sprofondò in un sonno pesante, svegliandosi soltanto al mattino.
Per la prima volta dopo più di due anni aveva saltato la cacata delle due di notte, e si sentiva orgoglioso del successo.
Si mise in attesa della imminente scarcerazione. Ma le ore passavano inesorabile e nessuno veniva a portargli la buona notizia.
Il secondino, dopo una delle sue solite domande, gli rispose:
"Nessuna nuova, buona nuova per chi sta sotto inchiesta. Di norma li portano via ogni giorno per interrogarli, ma di te sembra si siano dimenticati".
"Devo stare allegro, insomma?"
"Se non interrogano te, interrogano qualcun altro".
Che non faceva una grinza.
Intanto però s'era fatto di nuovo buio e stava per cominciare la seconda nottata in galera. Questa volta temeva di non farcela a resistere alla pressione dei suoi intestini. Aveva ragione. Strinse i denti, spasimando fin oltre le tre, poi dovette sedere su quell'imbuto di acciaio. Iniziò espellendo lentissimamente la prima ondata, con leggeri rumori, nel silenzio quasi irreale del braccio. Gli sembrava che tutti trattenessero il fiato per ascoltare l'imminente strombettata. Al massimo se ne sveglierà qualcuno dal sonno più leggero, si augurò: è quel che sarebbe seguito che lo angustiava.
La seconda ondata fu feroce e i rumori rimbombavano fortissimo in quella specie di cassa armonica che aveva sotto.
Quando sentì arrivare la biglia infuocata, capì che non avrebbe potuto trattenerla: si trattava dello stronzo regale che preludeva al gran finale. Mollò i muscoli dell'ano. Che la sorte abbia il suo corso, pensò, e amen.
Esplose nella tazza e svegliò tutti.
Urla, lazzi, pernacchie e risate.
"Che gli avete dato da mangiare, tritolo?"
"Ma chi cazz'è?"
"Quello della tre"
"Quello che ha ammazzato la cubista"
"E come l'ha ammazzata?"
"Con una scarica di scoregge"
E giù risate e fischi e pernacchie.
Ma quando ormai avevano esaurite le battutacce e si accingevano a dormire iniziò a propagarsi il gas ammorbante. Dario aveva cacciato la faccia dentro il cuscino e respirava pianissimo, ma gli altri non erano esperti di questa tecnica e pochi minuti dopo l'intero braccio era in rivolta.
"Uuuuuhhh, che schifo!"
"Mamma mia, che puzzona!"
"Cacciatelo via!"
"Cacciate fuori il cacone, fuori di qui!"
Dopo un po' gridavano tutti in coro:
"Fuori...fuori...fuori"
Le guardie correvano per i corridoi, picchiando sulle porte coi pugni e urlando imprecazioni.
Durò un paio d'ore, ma Dario era sicuro che non avrebbe più dimenticato quella insurrezione.
La notte successiva Dario Contini concesse il bis. Ormai non aveva più nulla da perdere. Aveva rifiutato l'uscita per l'aria, perché temeva che magari stessero tutti ad aspettarlo per suonargliele.
Pertanto sedette sulla tazza come se si fosse trattato di un trono e scaricò tutta la Santabarbara sforzandosi più che poteva. Per lasciare un ricordo indelebile, si disse, in un coro wagneriano di urla e di bestemmie.
Al mattino una delegazione di carcerati del braccio si mise a rapporto dal Direttore della casa di pena.
Dario non seppe mai cosa aveva deciso di fare il Direttore perché, prima che la delegazione fosse rientrata nelle celle, aprirono la sua porta e lo condussero negli uffici dell'accettazione, dove due poliziotti lo stavano aspettando.
Lo condussero a sirene spiegate al Polizei Presidium e lo lasciarono ad aspettare nella sala dello specchio. Nessuno gli aveva tolto le manette e questo gli faceva venire i crampi allo stomaco per la paura.
"Toglietegli le manette" -ordinò il Commissario Werner appena entrò nella stanza.
Sedette senza togliersi la giacca. Aveva di nuovo la cartella gialla col numero 1221 stampigliato sopra.
"Sua moglie è stata molto più collaborativa di lei, e anche sua figlia Giulia. Bella ragazza e molto intelligente. Lei è un uomo fortunato Contini, lo sa?"
Dove diavolo vuole andare a parare, pensò Dario sulla difensiva.
"Perché non ci ha detto subito del suo problemino? Si sarebbe risparmiato molte sofferenze, mi creda"
Dario pensò alle sue ultime nottate sul bugliolo e alla tempesta di urla e parolacce che lo aveva investito.
"Mi vergogno -disse a bassa voce- mi vergogno tanto, come se fosse una colpa infamante, un delitto, così non ne parlo mai".
"Con la polizia è come col prete in confessione: bisogna dire la verità quando si è innocenti"
Benissimo, adesso lo ha detto, che aspetta a mandarmi via? Si chiese Dario.
"Ci stavamo arrivando da soli: le tracce di DNA non corrispondevano, ma sua figlia ci ha detto del suo problema intestinale e di averla consigliata di evacuare all'aria aperta. Abbiamo allargato l'area di ricerca e, a circa mezzo chilometro, trovato le sue tracce. Corrispondeva tutto: il calco delle suole delle sue scarpe, la quantità di feci e il pessimo odore; pure la lista della spesa che le aveva fatto sua moglie. La prova calligrafica l'ha confermata"
Fece una pausa e lo guardò negli occhi.
"Adesso siamo felici e contenti -continuò con tono allegro- perché un innocente è in libertà; abbiamo trovato il colpevole del delitto, che ha già confessato e quei poveri cristi in carcere questa notte potranno di nuovo dormire tranquilli"
Si alzò e gli tese la mano.
Una macchina della polizia lo riportò al suo albergo, dove tutto il personale si congratulò con lui. I suoi colleghi erano già ripartiti per Karlsruhe, purtroppo, lo informarono.
Purtroppo certamente no, pensò Dario. Era felicissimo che non ci fosse nessuno a fargli domande; li avrebbe rivisti il prossimo lunedì e aveva tutto il tempo per inventarsi una storia sufficientemente credibile, posto che già non sapessero tutto.
Preparò la sua roba in tutta fretta e salì sul taxi, che era prontamente arrivato.
Una buona storia da raccontare doveva trovare.
"Mi farò aiutare da Giulia, che ha tanta fantasia -si disse- lo ha detto quello sbirro: sono un uomo fortunato.
Quando anche una storia di merda diventa appetibile.
RispondiEliminaHo pensato Dario in mano alla nostra giustizia: subito in pasto ai media, con l'assoluta certezza di avere beccato al volo il colpevole. Un giorno, due giorni al massimo, e le indagini sarebbero ricominciate da capo, poiché Dario aveva un alibi e questo alibi sarebbe stato divulgato su tutti i mezzi disponibili, con tanto di foto e, magari, qualche video.
Alla faccia della privacy, così avviene.
Questo come considerazione immediata della lettura.
Cui fa seguito un'altra considerazione: il vergognarsi delle proprie malattie, come fossero colpe.
Si è andati avanti secoli definendo la tubercolosi in mille modi diversi, prima che venisse accettata come definizione esatta e comune.
I tumori, il cancro, stessa cosa.
L'invalidità fisica, essendo visibile, non è possibile occultarla, ma dei malanni interni, nascosti, sovente più devastanti, ci sono ancora remore a parlarne.
Forse inconsciamente, se proprio non si può farne a meno, il tono di voce si abbassa e si cerca di evitare l'urto dei termini crudi.
(Se in qualche carcere qualche detenuto, magari colpevole, legge questo tuo racconto, immagino la corsa a informarsi come sia possibile provocarsi una buona colite, con gli strombazzamenti e i profumi qui descritti con dovizia di particolari, nel tentativo di farsi cacciare dal ricovero per incompatibilità col regime carcerario. Che, come noto, prevede ordine, pulizia, silenzio, puntualità, meditazione... Tutte situazioni in chiaro contrasto con una colite di questa portata).
Ciao, alla prossima (lettura, ovviamente).
Io ho voluto cimentarmi con "una storia di merda", perché trattasi di argomento difficile. Si incorre continuamente nel pericolo di derapare in curva e capottare. Penso di essere riuscito a mantenermi sull'asfalto.
EliminaDario in Italia sarebbe diventato lo zimbello della nazione.
Per quanto riguarda il vergognarsi delle malattie è purtroppo un male comune, di cui parecchi soffrono.
L'invalidità fisica, visibile, la porti come un marchio, ma non la puoi nascondere. Ogni riferimento ai down sarebbe casuale, ma tanti genitori di down soffrono la menomazione del figlio come una condanna.
L'invalidità invisibile la si deve nascondere a tutti i costi, hai ragione.
Gustoso il finale, non ci avevo pensato, ma per qualche ergastolano potrebbe essere una buona idea farsi venire il "cagotto" per essere espulso dal penitenziario.
Tutto sommato però, con le condizioni della Giustizia in Italia non c'è bisogno di tormentarsi le visceri per andare fuori prima del tempo, mi pare.
Ciao, alla prossima.
Quello volevo anche dire, prima di correre al cesso: sai, la cagarella è come gli sbadigli, basta insistere puro (notare, prego) con quelli finti e ce (ancora) vieni coinvorto (nun me piace, ma tant'è, romani de Roma se nasce; io nun ce nacqui, ma so' felice che quarcheduno ce si nato. Solo per coprire lo sbragamento. Cestina).
EliminaCiao, buona notte.
Fai progressi. Ripeto scrive lo sai già scrive, mo bisogna da vede come lo parli, ma se sa er romanesco pare facile ma facile nun è.
EliminaComunque ciai raggione, soprattutto quanno parli de sbadiji. M'hai fatto aricordà na barzelletta de quanno erimio rigazzini: un giovanottello va a spasso cor nonno. Ariveno l'amichi sua, de lui no der nonno, e lui je fa: nun riccontate barzellette che er mi nonno cià la pelle corta, si ride se caca addosso.
ma meno male che sto poraccio c'aveva sto problemuccio..hanno potuto provà che nn era corpevole...comunque concordo co gatto puro stavorta...ma me pare de avè capito che nn ereno in Itaja..sinnò stava ancora drento a ammorbà l'artri detenuti...co li tempi de la giustizia nostra e co li sbagli che fanno...bravo vincè..va bè che te lo dico a fa...
RispondiEliminaSe semo capiti: qui da noiantri quer poveraccio pe bene che ie annava lo tenevino drento pe du mesi e poi se metteveno a tirà fora sangue a tutti maschi e femmine, magaro puro all'estero pe trovà sto corpevole.
EliminaEppoi nun lo trovaveno, come quello che ha ammazzato quela poveraccia de Yara, che adesso je metteno er sale su la coda che cor cacchio che lo troveno più.
Meno male che adè un racconto e che me lo so nventato tutto da solo, sinnò vedevi tu.
Me congratulo co te e cor gatto tutto nero e sai perché? ma perché sete riusciti a finillo de legge...
io pe scrivelo sur blog ciò passato na serata e menco ero sicuro d'aveccela fatta, che co sta robba moderna ce sbaiocco mica tanto...
Ciao Mariagrà.
Ma se l'avevi già scritto, che fatica puoi avere fatto?
RispondiEliminaRicordo questo racconto, ricordo anche che non mi era piaciuto, e che ti avevo recensito, tra il serio e il faceto: in fondo, è un racconto di merda .. :))
Però un po' lo invidio questo tizio! Da sabato il mio intestino si è messo in cassa integrazione e sto bevendo litri di levolac, sottratto dalla farmacia di mio papà. :))
Ti sta bene! Così t'impari a stigmatizzare come racconto di merda quello che scrivo io...:)))
EliminaTieni duro -in tutti i sensi ah ah ah:)- fino a Filzmoos: lassù tira un aria meravigliosa che intenerisce tutto, anche la cacca nell'intestino vedrai, ti verrà la cacarella a schizzo....
ah ah ah ah ah ah!!!:DDD
P.S. Come sarebbe a dire che fatica ho fatto? Io non sono uno specialista come te, non so fare ancora bene il copia e incolla, per cui ho dovuto fare due operazioni: stampare con la stampante l'intero racconto, poi ricopiarlo sul blog. Ti pare poco?
Io vado piano con la tecnologia, se non mi fido non lo faccio.
Sei fuori dai divini beni!!!
RispondiEliminaDài non ci credo!
Non ci posso credere!
Fai una prova, ti assicuro che se anche sbagli un copia incolla il picì non ti esplode tra le mani come un petardo!
Me lo garantisci? Ma sei proprio sicura? E se poi si impapocchia che fai? vieni qui da me a spapocchiarlo?
EliminaPer dormire un posto c'è, da mangiare non manca -rigorosamente all'italiana, anzi alla romana, che è cucina bbona assai- e poi anche la Germania ha posti belli. Ci sono pure motagnole -sugli 800 metri- che passerebbero bene su di te, e poi in Bayern c'è tutto quello che vuoi.
Allora proviamo?
Speriamo che si impapocchi....:)))
Mamma mia! Mi hai fatto venire l'ansia (che quando si tratta di un racconto di questo tipo è una cosa buona) e mi hai fatto divertire (che quando...vabbè, hai capito)
RispondiElimina:)
Ho capito, ho capito! :))
EliminaQuando qualcuno legge un tuo racconto, gli viene il fiatone per l'ansia, ma in fondo si diverte, direi che è il massimo premio per chi l'ha scritto.