Nessuno mi aspettava. Erano mesi che in quella che sarebbe diventata di lì a poco casa mia circolava l'idea che fosse arrivata l'ora per un altro bambino, visto che l'ultimo stava per oltrepassare la soglia dell'abbandono dei calzoni corti per indossare quelli alla ciclista chiusi dieci centimetri sotto il ginocchio su calzettoni rigorosamente a quadri scozzesi. Le mie due nonne, che coabitavano coi miei genitori -nonna Anita, col 42 di piede, gigantesca con due tette a davanzale e nonna Michelina minuta e felina- cominciavano a sospettare che mia madre non fosse più capace di farsi ingravidare da mio padre, o che forse non volesse più per via dei suoi 34 anni oramai prossimi.
Circolavano battutine salaci, sorrisetti ambigui, occhiate di complicità e poi tutte le mattine in chiesa alla prima messa, perché le donne rimaste vedove schizzano fuori dal letto prima che possono, visto che quelle lenzuola bruciano il sedere con ricordi che più il tempo passa più diventano violenti e tentatori. E loro due, Anita la tettona e Michelina la gatta mammona, a confessare peccati immaginari e a pregare la Madonna vergine e madre, soprattutto la madre, che rendesse quella ultratrentenne ancora capace di generare.
Mia mamma invece mi aspettava, ma non così presto. Tutta colpa di mestruazioni impertinenti che avevano continuato a sgocciolare fino a tre mesi prima di Natale. Per cui nei suoi calcoli durante quella settimana di fine anno a Perugia -una gradita vacanza con marito, figlio tredicenne e la rarità di una Leika a soffietto pronta a immortalare lei, il ragazzo e la panzetta appena sporgente- mia madre era convinta di portare a spasso appunto una panzetta di appena tre mesi, mentre invece era di otto suonati. Lo avesse saputo non avrebbe fatto gare di corsa in salita su per le scalinate delle chiese sfidando il marmocchio in calzoni corti e sballonzolando nel proprio liquido amniotico l'altro completamente ignudo che, vittima di quei salti, andava attorcigliandosi il cordone ombelicale a mo' di mutanda in basso e di collare in alto. Un bel pacchetto confezionato nel momento in cui il futuro neonato -cioè io- cominciava a infilarsi col capoccione nell'angusto e buio corridoio finale tutto in discesa, imbracato nel proprio cordone ombelicale come una forma di provolone.
Per questo quando incominciarono le doglie la mattina di giovedì 8 febbraio le due donne vigilanti furono d'accordo, come sempre accadeva, nel diagnosticare un mal di pancia. "Mangi troppe schifezze, figlia mia", fu il gelido giudizio di nonna Michelina. "E ingozzi il cibo troppo in fretta", aggiunse nonna Anita. Prepararono un clistere di un litro di acqua calda e olio di oliva, e mentre nonna Anita teneva alto il vaso la collega là sotto infilava la cannula nel buco giusto, aprendo subito la valvola a farfalla. Ma non entrò nemmeno la metà del liquame perché lì dentro c'ero io a premere sugli intestini e a ingombrare tutto lo spazio. Posso immaginare il guazzo e la sorpresa delle due dame nerovestite.
Ma fu mia madre a terrorizzarle sgridandole per averle allagato cosce e pancia in abbondanza, perché quando si decisero a pulirla si accorsero che quel liquido ben altro colore aveva, ben altra viscosità e che fuoriusciva non dallo sfintere anale.
"Le si sono rotte le acque!", gridò nonna Anita, che ancora reggeva il vaso del clistere sopra la testa.
Nonna Michelina disse solo "Oh Dio mio!" e corse a chiamare la Sora Tina, al secolo Assunta Guidi, la capace levatrice che aveva fatto nascere mezza Civitavecchia.
"Non è nemmeno di sei mesi", provò a protestare nonna Anita. "Eh no, signora mia", replicò la Sora Tina dopo aver infilato le sue lunghissime dita dove doveva. "Questa è una testa di nove mesi suonati".
Al termine di un infinito giovedì di muggiti di mia madre, guaiti di mio padre, giaculatorie delle due donne troppo vestite di nero, la Sora Tina si sfilò i guanti di lattice e rimase a mani nude.
"Che ora s'è fatta, Sor Amlè?" E mio padre: "È l'una de notte. Ve lo faccio un caffè, Sora Ti?" E lei: "Doppo, adesso lassateme tirà fora sta creatura, sinnò questa qui me more sotto le mano".
Infilò le sue lunghissime dita più in alto che poté, torse con forza il polso, di là, di qua, nuovamente di là e dopo dieci minuti tirò fuori un salame di pur porc dal vivido color prugna. "Avete fatto un bel maschio, Sora Marì", disse la Sora Tina, "bello, grasso e cazzuto". "Che bello! So contenta", rispose mia madre, ma sicuramente pensò -che fregatura, io volevo una femmina-.
"Allora ve lo porto sto caffè?", chiese mio padre.
"E che state aspettanno?"
Quella è stata l'unica volta in cui è successo qualcosa di importante nella mia vita senza che io apparentemente abbia fatto nulla. Apparentemente, ripeto. Infatti durante il laborioso travaglio io ho ascoltato tutto: voci che conoscevo e altre mai sentite prima. Ho lavorato sodo: ho tenuto a bada il cordone ombelicale che cercava di soffocarmi, infatti sono uscito a conquistare il mondo con una pelle da pakistano, color melanzana prossima a marcire. Per uno strano scherzo del destino 39 anni dopo un analogo cordone ombelicale ha tolto la vita al mio quinto figlio, il gemello di Federico. Lui non ha avuto la mia fortuna, o meglio non c'era la Sora Tina per lui. Quel giorno mi sono però preso una gran paura: mia madre mi ha raccontato di un tremore a tratti violento come uno spasmo che mi scuoteva durante le prime ore di quel venerdì. Avevo forse già intuito che quella battaglia che avevo combattuta apriva la strada a una serie di conflitti col mondo nel quale ero appena capitato. Ben presto dovetti rendermi conto che per vivere bisognava lottare. Mentre mio padre -che per noncuranza quasi mi lasciava soffocare con un biscotto della salute, per sbadataggine mi slogava una spalla, per eccesso di confidenza mi toglieva il cappellino durante una passeggiata sotto il sole d'agosto procurandomi una farabutta insolazione- veniva privato di ogni opportunità di allontanarsi da solo col suo figliolino ("e so tre, adesso basta, amore mio, sennò me l'ammazzi sto poro fjo"), per parte mia venivo privato dell'opportunità di fare i sacrosanti comodi miei e segregato in casa sotto lo sguardo vigile di mia madre e quello torvo delle mie due nonne, delle quali nonna Michelina oltre alle occhiatacce aveva anche mani velocissime e nocche ossute che mi arrivavano sul muso sotto forma di manrovesci volanti e precisi.
Ma a quell'età il tempo passa in fretta e ogni nato maschio ha la sua Elena. Menelao aveva più di 40 anni quando sposò la sua; Paride la metà quando gliela rapì e trenta quando gliela dovette rimollare. Io l'ho avuta a tre anni la mia bellissima Elena, la figlia più piccola del dottor Villotti. Sua sorella Mimì si faceva sbaciucchiare dal mio fratellone, mentre noi due pargoletti venivamo portati a passeggio come loro alibi e costretti a tenere il moccolo. Allora io pretendevo dalla mia Elena almeno che mi desse la sua bambola nuova, che diceva "mamma" se le pigiavi sulla pancia. Parecchi anni più tardi non si chiamava Elena la ragazza di nome Giovanna che diceva sempre "mamma, mamma mia!". Mi bastava premerle sulla pancia o giù di lì con una mano, cinque dita, a volte dieci, mentre la mia aspirazione era adoperare per certe raffinate operazioni l'undicesimo dito, il ditone, ma in quegli anni noi maschietti ci accontentavamo di sentirle invocare la mamma.
La guerra del Duce cambiò la nostra vita, di noi ragazzini intendo dire, quelli come me nati nell'anno XII del E.F. era fascista, per chiarire. Infatti a scuola si iniziava il dettato con la data in alto a destra e cioè, per esempio il giorno del primo bombardamento di Civitavecchia, 14 maggio 1943, scrivemmo in alto 14 maggio XXI E.F. Bello! Faceva tanto fino, tanto chic. Quel bombardamento ci fece veramente capire cosa significasse la parola guerra, usata fino allora come un vezzeggiativo, anche se a casa mia c'erano alluvioni di lacrime un giorno sì e l'altro pure per via del fratellone dichiarato "disperso in Russia".
Poi la guerra finì come Dio volle e tornammo alle città abbandonate. Della nostra non era rimasta nemmeno la metà delle case in piedi, le altre erano scheletri di mura, vestigia di un tempo defunto per forza. Nella casa di lusso -sei stanze e doppi servizi- dove ci trasferimmo, il salone d'angolo con il balcone era inabitabile perché mancava un pezzo del soffitto, un angolo intero. La chiamavamo la camera dei venti per via dello spiffero tra balcone, finestrone laterale e buco nel soffitto. Passò un anno prima che ce la mettessero a posto. In quella casa abitai tutto il tempo che occorse perché arrivassi alla maturità, all'Università e ai primi amori: Anna O., Agnese P. e finalmente Maria Luisa A.C., detta Lilly, che mi prese per il cuore, per i polmoni, per i reni, per gli inestini e infine mi prese per il culo, scavando il buco dell'abisso dentro di me.
Facemmo un sacco di fotografie in quella casa (vero papà?), fino a quella con indosso la diagonale di sottotenente di artiglieria. Con quella diagonale arrivai a Udine il primo mattino del 10 gennaio 1960, insieme al altri sei poveri cristi, che dal morbido inverno romano erano stati scaraventati nel freddissimo Friuli.
Quei fetentoni dei miei conterranei misero in giro la voce che io fossi lo sciupafemmine magno, il supinatore di via Merulana, colui che osculava ogni bella fica non a stampo ma con la lingua di un formichiere, insomma il più ricercato leccafica e frullasorca di Roma e provincia. "Visto che le metti tutte sdraiate, prova a farlo con AM, la più bella ragazza della Bassa Friulana e la più tosta". Mi sfidarono gli ufficiali anziani del mio Reggimento. "Fatemela véde e poi vi dico", fu la breve risposta che diedi senza raccogliere il guanto.
La vidi una domenica mattina, rovinai tutto quella domenica sera ("quando c'è quel cretino tu non chiamarmi" disse lei alla sua amica, che aveva procurato l'incontro); ricucii per tigna tutto il martedì e lei accettò di uscire solo per curiosità ("volevo vedere se eri veramente così stupido"). Mi ripromisi di sdraiarla come le altre e ci riuscii il 5 maggio di tre anni dopo in un albergo di Sirmione, dove eravamo in viaggio di nozze.
Dopo quella prima domenica di maggio la vita ebbe una violenta accelerata, al punto che giorni di poche ore correvano rincorsi da giorni sempre più brevi, fermandosi appena un 2 di febbraio, quando nacque Monica, un 10 maggio (sempre maggio) quando nacque Stefania, un 17 giugno quando nacque Alessandro e un 20 settembre, quando arrivò Federico, perdendosi per strada il suo gemello, cui rimase attorcigliato per troppo tempo intorno al collo quel famigerato cordone ombelicale che non era riuscito ad accoppare me 39 anni prima. Un altro giorno di maggio, il 24 maggio 1971, abbandonai l'Italia per disperato bisogno di un lavoro e durante una interminabile notte sbarcai a Francoforte in mezzo ai crucchi. Ci ho scritto la mia poesia più lunga -un'eccezione, io scrivo di solito poesie brevi- ma in quel giorno cambiò la mia vita e quella dei miei: fine della fanciullezza, della goliardica spensieratezza e arrivo repentino e doloroso della maturità, del punto di non ritorno.
Nel capoluogo dell'Assia si conclusero i miei primi quaranta anni in un turbinio di bottiglie di vino, di spumante di Asti, di cartoni di Vecchia Romagna, di Stock 84 e di fine grappa friulana, che erano i prodotti che io vendevo in Germania. Sbucavano qua e là grosse forme di grana padano e di provoloni Auricchio. Tornava il provolone, di un bel colore giallo paglierino, lucido, che niente aveva a che vedere col provolone color prugna, che scendeva lungo il collo dell'utero materno tenuto stretto e fermo da un robusto cordone ombelicale in una gelida notte di febbraio di quaranta anni prima.
Non voglio mettervi paura, amici cari: i miei primi quaranta anni sono stati anni di cazzate e di conquiste, più cazzate che conquiste, ma ci sono voluti 480 mesi perché si concludessero. I secondi penso siano durati meno della metà del tempo, quindi vi resta poco da leggere per arrivare ai giorni nostri.
Intanto mi sono messo a studiare da giovane, ma da tanto giovane: studiavo da bambino. La cosa più difficile per un adulto è tornare all'innocenza pura, senza bruciare le proprie carte in una imitazione alla "tale e quale" dei propri pargoletti. Non è dignitoso imitare i figli, che contemporaneamente stanno imitando te; diventi una scimmia di coccio e loro un adulto di porcellana, ma il coccio è coccio, vuoi mettere, nemmeno lo puoi lucidare e se ci batti sopra con le nocche non vibra, non squilla, fa solo un rumore abortito di pantegana morta, putrida e gonfia di gas da decomposizione. Ma io studiavo da bambino rischiando il putridume e gli anni svolazzavano via frettolosi come le vecchie vedove alla prima messa.
I miei bambini intanto crescevano, i quattro che avevo collaborato a far nascere in otto anni di frenate, di marce indietro disperate, di coitus interruptus, in cui avevo dato il mio robusto contributo alla prosecuzione della specie, cercando di non eccedere e di non far diventare Annamaria la madre della nazione, dopo che mi ero accorto che ero capace di ingravidarla anche solo telefonandole.
Nel quarantennio successivo al primo la mia tribù ha procreato sei volte con l'aiuto di un paio di puledri di razza e di una cavalla molisana. Insomma noi Iacoponi la nostra parte l'abbiamo fatta, e adesso che tutta questa bella gioventù galoppa tirandosi dietro chi già arranca col fiatone non può che andare bene, se è vero che When the Saints go marching in e tutto insieme a loro procede celermente.
Ah sì, certo, dimenticavo. Non ho prodotto solo individui -sempre in pareggio, con equa distribuzione dei due sessi: due figlie, due figli, tre nipoti maschi e tre femmine, per cui adesso stiamo sei a sei- ma contemporaneamente più di seicento quadri, almeno tre volte tanti disegni; ho scritto una cinquantina di racconti, lunghi e brevi, cinque romanzi, di cui due pubblicati; qualche centinaio di poesie, delle quali una prima raccolta è stata pubblicata due anni fa.
Ho lavorato in teatro come pittore realizzatore di scena; ho fatto il camionista e il tassista e mi sono divertito da pazzi in mezzo a giovani e giovanissimi di etnie e religioni diverse in uno Jugendzentrum, un posto meraviglioso dove si raccoglievano ragazzi dai 12 ai 20 anni a sentir musica, a farla, a giocare e a fare spettacoli teatrali. Non mi sono mai divertito tanto, non ho mai sentito tanta affinità coi miei simili. Si può dire che quei due anni allo Jugendzentrum di Wörth am Rhein abbiano felicemente concluso il mio apprendistato da bambino. Negli anni immediatamente successivi ho preso il Master e adesso insegno l'arte di rimanere giovane a chi ne abbia voglia. Per ultimo ho aperto un blog, dove sto scrivendo questo mio pezzullo.
Un blog è una gran bella cosa, è come la civetta da richiamo degli uccellatori: la civetta batte le ali, lancia i suoi acuti strilli e gli uccelli accorrono a stormi. Tanti curiosoni, tanti perditempo, tanti guardoni, anche un paio di imbecilli, attaccabrighe di professione, ma anche tanta gente perbene, di qualità e d'ingegno. La selezione avviene automaticamente, tutto si screma e restano quelli buoni, anche se qualche imbecille si salva sempre e continua a galleggiare. Qualche volta la selezione ha bisogno di tempo perché il male a volte è ben nascosto e occorrono mesi per poterlo scovare ed eliminare. Ma ho dato inizio anche ad amicizie, quelle vere, quelle destinate a durare a lungo nel tempo. A me sono toccati in sorte un gruppo di amici e di amiche veri che senza il web non avrei mai potuto incontrare. A volte sorgono equivoci, ma se si è sinceri ci si capisce sempre a lungo andare. Pertanto ringrazio Iddio di aver bissato i quaranta anni e di essermi inoltrato nell'era della tecnologia.
Il sogno continua. Da domani metto piede nel terzo quarantennio. Sarà difficile concluderlo, mai però porsi traguardi di tempo. Solo un desiderio: adesso che sono riuscito a tornare bambino vorrei fermarmi in tempo, non ci tengo a tornare neonato. Non se lo aspetterebbe nessuno. Quindi niente.
Per questo quando incominciarono le doglie la mattina di giovedì 8 febbraio le due donne vigilanti furono d'accordo, come sempre accadeva, nel diagnosticare un mal di pancia. "Mangi troppe schifezze, figlia mia", fu il gelido giudizio di nonna Michelina. "E ingozzi il cibo troppo in fretta", aggiunse nonna Anita. Prepararono un clistere di un litro di acqua calda e olio di oliva, e mentre nonna Anita teneva alto il vaso la collega là sotto infilava la cannula nel buco giusto, aprendo subito la valvola a farfalla. Ma non entrò nemmeno la metà del liquame perché lì dentro c'ero io a premere sugli intestini e a ingombrare tutto lo spazio. Posso immaginare il guazzo e la sorpresa delle due dame nerovestite.
Ma fu mia madre a terrorizzarle sgridandole per averle allagato cosce e pancia in abbondanza, perché quando si decisero a pulirla si accorsero che quel liquido ben altro colore aveva, ben altra viscosità e che fuoriusciva non dallo sfintere anale.
"Le si sono rotte le acque!", gridò nonna Anita, che ancora reggeva il vaso del clistere sopra la testa.
Nonna Michelina disse solo "Oh Dio mio!" e corse a chiamare la Sora Tina, al secolo Assunta Guidi, la capace levatrice che aveva fatto nascere mezza Civitavecchia.
"Non è nemmeno di sei mesi", provò a protestare nonna Anita. "Eh no, signora mia", replicò la Sora Tina dopo aver infilato le sue lunghissime dita dove doveva. "Questa è una testa di nove mesi suonati".
Al termine di un infinito giovedì di muggiti di mia madre, guaiti di mio padre, giaculatorie delle due donne troppo vestite di nero, la Sora Tina si sfilò i guanti di lattice e rimase a mani nude.
"Che ora s'è fatta, Sor Amlè?" E mio padre: "È l'una de notte. Ve lo faccio un caffè, Sora Ti?" E lei: "Doppo, adesso lassateme tirà fora sta creatura, sinnò questa qui me more sotto le mano".
Infilò le sue lunghissime dita più in alto che poté, torse con forza il polso, di là, di qua, nuovamente di là e dopo dieci minuti tirò fuori un salame di pur porc dal vivido color prugna. "Avete fatto un bel maschio, Sora Marì", disse la Sora Tina, "bello, grasso e cazzuto". "Che bello! So contenta", rispose mia madre, ma sicuramente pensò -che fregatura, io volevo una femmina-.
"Allora ve lo porto sto caffè?", chiese mio padre.
"E che state aspettanno?"
Quella è stata l'unica volta in cui è successo qualcosa di importante nella mia vita senza che io apparentemente abbia fatto nulla. Apparentemente, ripeto. Infatti durante il laborioso travaglio io ho ascoltato tutto: voci che conoscevo e altre mai sentite prima. Ho lavorato sodo: ho tenuto a bada il cordone ombelicale che cercava di soffocarmi, infatti sono uscito a conquistare il mondo con una pelle da pakistano, color melanzana prossima a marcire. Per uno strano scherzo del destino 39 anni dopo un analogo cordone ombelicale ha tolto la vita al mio quinto figlio, il gemello di Federico. Lui non ha avuto la mia fortuna, o meglio non c'era la Sora Tina per lui. Quel giorno mi sono però preso una gran paura: mia madre mi ha raccontato di un tremore a tratti violento come uno spasmo che mi scuoteva durante le prime ore di quel venerdì. Avevo forse già intuito che quella battaglia che avevo combattuta apriva la strada a una serie di conflitti col mondo nel quale ero appena capitato. Ben presto dovetti rendermi conto che per vivere bisognava lottare. Mentre mio padre -che per noncuranza quasi mi lasciava soffocare con un biscotto della salute, per sbadataggine mi slogava una spalla, per eccesso di confidenza mi toglieva il cappellino durante una passeggiata sotto il sole d'agosto procurandomi una farabutta insolazione- veniva privato di ogni opportunità di allontanarsi da solo col suo figliolino ("e so tre, adesso basta, amore mio, sennò me l'ammazzi sto poro fjo"), per parte mia venivo privato dell'opportunità di fare i sacrosanti comodi miei e segregato in casa sotto lo sguardo vigile di mia madre e quello torvo delle mie due nonne, delle quali nonna Michelina oltre alle occhiatacce aveva anche mani velocissime e nocche ossute che mi arrivavano sul muso sotto forma di manrovesci volanti e precisi.
Ma a quell'età il tempo passa in fretta e ogni nato maschio ha la sua Elena. Menelao aveva più di 40 anni quando sposò la sua; Paride la metà quando gliela rapì e trenta quando gliela dovette rimollare. Io l'ho avuta a tre anni la mia bellissima Elena, la figlia più piccola del dottor Villotti. Sua sorella Mimì si faceva sbaciucchiare dal mio fratellone, mentre noi due pargoletti venivamo portati a passeggio come loro alibi e costretti a tenere il moccolo. Allora io pretendevo dalla mia Elena almeno che mi desse la sua bambola nuova, che diceva "mamma" se le pigiavi sulla pancia. Parecchi anni più tardi non si chiamava Elena la ragazza di nome Giovanna che diceva sempre "mamma, mamma mia!". Mi bastava premerle sulla pancia o giù di lì con una mano, cinque dita, a volte dieci, mentre la mia aspirazione era adoperare per certe raffinate operazioni l'undicesimo dito, il ditone, ma in quegli anni noi maschietti ci accontentavamo di sentirle invocare la mamma.
La guerra del Duce cambiò la nostra vita, di noi ragazzini intendo dire, quelli come me nati nell'anno XII del E.F. era fascista, per chiarire. Infatti a scuola si iniziava il dettato con la data in alto a destra e cioè, per esempio il giorno del primo bombardamento di Civitavecchia, 14 maggio 1943, scrivemmo in alto 14 maggio XXI E.F. Bello! Faceva tanto fino, tanto chic. Quel bombardamento ci fece veramente capire cosa significasse la parola guerra, usata fino allora come un vezzeggiativo, anche se a casa mia c'erano alluvioni di lacrime un giorno sì e l'altro pure per via del fratellone dichiarato "disperso in Russia".
Poi la guerra finì come Dio volle e tornammo alle città abbandonate. Della nostra non era rimasta nemmeno la metà delle case in piedi, le altre erano scheletri di mura, vestigia di un tempo defunto per forza. Nella casa di lusso -sei stanze e doppi servizi- dove ci trasferimmo, il salone d'angolo con il balcone era inabitabile perché mancava un pezzo del soffitto, un angolo intero. La chiamavamo la camera dei venti per via dello spiffero tra balcone, finestrone laterale e buco nel soffitto. Passò un anno prima che ce la mettessero a posto. In quella casa abitai tutto il tempo che occorse perché arrivassi alla maturità, all'Università e ai primi amori: Anna O., Agnese P. e finalmente Maria Luisa A.C., detta Lilly, che mi prese per il cuore, per i polmoni, per i reni, per gli inestini e infine mi prese per il culo, scavando il buco dell'abisso dentro di me.
Facemmo un sacco di fotografie in quella casa (vero papà?), fino a quella con indosso la diagonale di sottotenente di artiglieria. Con quella diagonale arrivai a Udine il primo mattino del 10 gennaio 1960, insieme al altri sei poveri cristi, che dal morbido inverno romano erano stati scaraventati nel freddissimo Friuli.
Quei fetentoni dei miei conterranei misero in giro la voce che io fossi lo sciupafemmine magno, il supinatore di via Merulana, colui che osculava ogni bella fica non a stampo ma con la lingua di un formichiere, insomma il più ricercato leccafica e frullasorca di Roma e provincia. "Visto che le metti tutte sdraiate, prova a farlo con AM, la più bella ragazza della Bassa Friulana e la più tosta". Mi sfidarono gli ufficiali anziani del mio Reggimento. "Fatemela véde e poi vi dico", fu la breve risposta che diedi senza raccogliere il guanto.
La vidi una domenica mattina, rovinai tutto quella domenica sera ("quando c'è quel cretino tu non chiamarmi" disse lei alla sua amica, che aveva procurato l'incontro); ricucii per tigna tutto il martedì e lei accettò di uscire solo per curiosità ("volevo vedere se eri veramente così stupido"). Mi ripromisi di sdraiarla come le altre e ci riuscii il 5 maggio di tre anni dopo in un albergo di Sirmione, dove eravamo in viaggio di nozze.
Dopo quella prima domenica di maggio la vita ebbe una violenta accelerata, al punto che giorni di poche ore correvano rincorsi da giorni sempre più brevi, fermandosi appena un 2 di febbraio, quando nacque Monica, un 10 maggio (sempre maggio) quando nacque Stefania, un 17 giugno quando nacque Alessandro e un 20 settembre, quando arrivò Federico, perdendosi per strada il suo gemello, cui rimase attorcigliato per troppo tempo intorno al collo quel famigerato cordone ombelicale che non era riuscito ad accoppare me 39 anni prima. Un altro giorno di maggio, il 24 maggio 1971, abbandonai l'Italia per disperato bisogno di un lavoro e durante una interminabile notte sbarcai a Francoforte in mezzo ai crucchi. Ci ho scritto la mia poesia più lunga -un'eccezione, io scrivo di solito poesie brevi- ma in quel giorno cambiò la mia vita e quella dei miei: fine della fanciullezza, della goliardica spensieratezza e arrivo repentino e doloroso della maturità, del punto di non ritorno.
Nel capoluogo dell'Assia si conclusero i miei primi quaranta anni in un turbinio di bottiglie di vino, di spumante di Asti, di cartoni di Vecchia Romagna, di Stock 84 e di fine grappa friulana, che erano i prodotti che io vendevo in Germania. Sbucavano qua e là grosse forme di grana padano e di provoloni Auricchio. Tornava il provolone, di un bel colore giallo paglierino, lucido, che niente aveva a che vedere col provolone color prugna, che scendeva lungo il collo dell'utero materno tenuto stretto e fermo da un robusto cordone ombelicale in una gelida notte di febbraio di quaranta anni prima.
Non voglio mettervi paura, amici cari: i miei primi quaranta anni sono stati anni di cazzate e di conquiste, più cazzate che conquiste, ma ci sono voluti 480 mesi perché si concludessero. I secondi penso siano durati meno della metà del tempo, quindi vi resta poco da leggere per arrivare ai giorni nostri.
Intanto mi sono messo a studiare da giovane, ma da tanto giovane: studiavo da bambino. La cosa più difficile per un adulto è tornare all'innocenza pura, senza bruciare le proprie carte in una imitazione alla "tale e quale" dei propri pargoletti. Non è dignitoso imitare i figli, che contemporaneamente stanno imitando te; diventi una scimmia di coccio e loro un adulto di porcellana, ma il coccio è coccio, vuoi mettere, nemmeno lo puoi lucidare e se ci batti sopra con le nocche non vibra, non squilla, fa solo un rumore abortito di pantegana morta, putrida e gonfia di gas da decomposizione. Ma io studiavo da bambino rischiando il putridume e gli anni svolazzavano via frettolosi come le vecchie vedove alla prima messa.
I miei bambini intanto crescevano, i quattro che avevo collaborato a far nascere in otto anni di frenate, di marce indietro disperate, di coitus interruptus, in cui avevo dato il mio robusto contributo alla prosecuzione della specie, cercando di non eccedere e di non far diventare Annamaria la madre della nazione, dopo che mi ero accorto che ero capace di ingravidarla anche solo telefonandole.
Nel quarantennio successivo al primo la mia tribù ha procreato sei volte con l'aiuto di un paio di puledri di razza e di una cavalla molisana. Insomma noi Iacoponi la nostra parte l'abbiamo fatta, e adesso che tutta questa bella gioventù galoppa tirandosi dietro chi già arranca col fiatone non può che andare bene, se è vero che When the Saints go marching in e tutto insieme a loro procede celermente.
Ah sì, certo, dimenticavo. Non ho prodotto solo individui -sempre in pareggio, con equa distribuzione dei due sessi: due figlie, due figli, tre nipoti maschi e tre femmine, per cui adesso stiamo sei a sei- ma contemporaneamente più di seicento quadri, almeno tre volte tanti disegni; ho scritto una cinquantina di racconti, lunghi e brevi, cinque romanzi, di cui due pubblicati; qualche centinaio di poesie, delle quali una prima raccolta è stata pubblicata due anni fa.
Ho lavorato in teatro come pittore realizzatore di scena; ho fatto il camionista e il tassista e mi sono divertito da pazzi in mezzo a giovani e giovanissimi di etnie e religioni diverse in uno Jugendzentrum, un posto meraviglioso dove si raccoglievano ragazzi dai 12 ai 20 anni a sentir musica, a farla, a giocare e a fare spettacoli teatrali. Non mi sono mai divertito tanto, non ho mai sentito tanta affinità coi miei simili. Si può dire che quei due anni allo Jugendzentrum di Wörth am Rhein abbiano felicemente concluso il mio apprendistato da bambino. Negli anni immediatamente successivi ho preso il Master e adesso insegno l'arte di rimanere giovane a chi ne abbia voglia. Per ultimo ho aperto un blog, dove sto scrivendo questo mio pezzullo.
Un blog è una gran bella cosa, è come la civetta da richiamo degli uccellatori: la civetta batte le ali, lancia i suoi acuti strilli e gli uccelli accorrono a stormi. Tanti curiosoni, tanti perditempo, tanti guardoni, anche un paio di imbecilli, attaccabrighe di professione, ma anche tanta gente perbene, di qualità e d'ingegno. La selezione avviene automaticamente, tutto si screma e restano quelli buoni, anche se qualche imbecille si salva sempre e continua a galleggiare. Qualche volta la selezione ha bisogno di tempo perché il male a volte è ben nascosto e occorrono mesi per poterlo scovare ed eliminare. Ma ho dato inizio anche ad amicizie, quelle vere, quelle destinate a durare a lungo nel tempo. A me sono toccati in sorte un gruppo di amici e di amiche veri che senza il web non avrei mai potuto incontrare. A volte sorgono equivoci, ma se si è sinceri ci si capisce sempre a lungo andare. Pertanto ringrazio Iddio di aver bissato i quaranta anni e di essermi inoltrato nell'era della tecnologia.
Il sogno continua. Da domani metto piede nel terzo quarantennio. Sarà difficile concluderlo, mai però porsi traguardi di tempo. Solo un desiderio: adesso che sono riuscito a tornare bambino vorrei fermarmi in tempo, non ci tengo a tornare neonato. Non se lo aspetterebbe nessuno. Quindi niente.
AUGURONI! Che tu possa mantenerti così come sei oggi per tanti anni ancora! Baci a profusione! ;-)
RispondiEliminaGrazie Orni, è un bellissimo augurio!!!
Elimina:-)
80 voglia di farti gli Auguri... e di poterteli fare ALMENO ALTRE VENTI VOLTE :D
RispondiEliminaUn superabbraccio, caro amico!
80 voglia di vederti di persona e di abbracciarti stringendo la tua massa di muscoli e non l'aria delle Alpi austroelvetiche.
EliminaSpero proprio che quando tu oltrepassi la soglia dei sessanta ci si possa ancora abbracciare e superabbracciare. Ciao Nick!!
Auguri Vincè buona passeggiata.
RispondiEliminaDi passeggiate a Roma sotto il diluvio non se ne parla. Passiamo da pasticcerie a ristoranti mangiando ottime cose e guardando le gocce che allagano il suolo della città eterna(mente zozza)
EliminaIo sono ai miei primi. Tu ai tuoi terzi.
RispondiEliminaSembra divertente...
Lo è, soprattutto quando c'è mia nipote che si vanta di avere uno zio di 80 appena compiuti e la gente spalanca la bocca e dice "con la salute, ci arrivassi io in quelle condizioni", e lei gongola e io...pure.
EliminaUn bel racconto, vitale.
RispondiEliminaOra puoi fare come quei bambini che sfogliano gli album delle figurine, fieri delle loro collezioni e pèensano alle prossima.
Auguri!
Cristiana
Ci ho già messo mano, Cristiana. Grazie di cuore.
EliminaAuguri Vincenzo.
RispondiEliminaIn forma nèèèè!
On questi ultimi tempi mi sento straordinariamente in forma.
EliminaGrazie, Mariè-
Che
RispondiEliminaMeraviglia
Ogni tanto mi illumino di una frazioncina di immenso.
EliminaCiao Baol
Sono ritornato un paio di ore fa da un viaggio regalo offerto dai miei figli e dai miei nipoti a me e a mia moglie a Roma per un brevissimo soggiorno. Un graditissimo regalo l'avermi fatto trascorrere il mio ottantesimo lá dove tutto era incominciato. Ve lo racconterò domani nel mio prossimo post. Adesso intendo abbracciare e ringraziare tutti coloro che si sono ricordati di me in questa ricorrenza: gli amici-amiche grandissimi; gli amici-amiche grandi; gli amici-amiche affievolite; quelli che amici non sono più o mai sono stati; quelli che mi hanno deplorato e detestato; quelli che comunque si sono interessati a me e alla mia produzione pr decantare o per declassare; quelli che ci hanno messo il naso ma non hanno mai sentito la voglia di commentare; tutti insomma coloro che per un motivo o per il suo contrario si sono immersi nella lettura di quel che scrivevo. Ma proprio tutti. A costoro io dico: GRAZIE!
RispondiEliminaGrazie del vostro interesse o disinteresse; grazie di esistere o di non esistere perché sono affari vostri se volete o non volete comparire. Io sono un immenso porto di mare -qualcuno mi giudica un'immensa cloaca che tutto inghiotte- nell'un caso o nell'altro tutti possono approdare anche per soli pochi minuti. Non ci sono noli da pagare.