Perché in effetti gli storici buonisti hanno falsificato il pensiero del grande Julius: è tutto un cavolo che lui abbia pronunciato quella frase con l'intenzione di dire ai suoi legionari "Ragazzi, mi dispiace, ma vi dovrete fare un culo così perché io stanotte ho dormito male". No, certamente no. Julius Caesar stava giocando a dadi con uno dei suoi generali, a cavallo loro due, mentre i legionari marciavano compatti, così per passare il tempo, velocemente. Per questo era così veloce e sobrio nello scrivere i suoi Commentari, "Veni, vidi, vici" e via veloce, facciamoci un'altra partitina, che poi gli storici lecchini mica ce lo venivano a raccontare quale fosse la posta in palio. Ce la dobbiamo solamente immaginare.
Così quella mattina, proprio sulla sponda di quel fiumiciattolo, un lancio fatto male, magari uno scarto del cavallo e, plaff!, un dado va a finire nell'acqua e mo questo chi lo trova più, ché già allora quel rigagnolo d'acqua era fetido e lercio come appare oggi. "Tira fuori gli altri dadi" imperativamente con uno sguardo cattivissimo al suo generale Gaius Tirolus Quintus.
"Erano gli ultimi due, mio Dux"
"Con uno solo non si può giocare" replica incazzatissimo Julius Caesar.
"Lo so, ma non si può cambiare il corso della storia"
E questo che cavolo c'entra? Tranquilli, deve essere la solita intrusione dello storico lecchino.
"E allora che s'ha da fare?" strilla Julius Caesar sempre più incazzato.
"Li fabbricano a Roma, mio Dux"
"E dillo subito! Andiamo a Roma, allora"
E alla truppa non troppo convinta gridò il grande Caesar la storica frase:
"Lo avete visto, no? Alea iacta est, ma è caduto nell'acqua. Dunque zitti e camminate"
E iniziò il guado del Rubicone borbottando sotto voce "Ma che razza di generali del cavolo, mi tocca fare tutto da solo"
Ma non troppo sottovoce, perché uno scriba gallo sentì le sue parole e le trascrisse in francese antico. Frase che Napoleone usò poi a Marengo alle cinque della sera, quando la battaglia gli sembrava persa.
Mi è venuto tutto in mente questa mattina appena acceso il PC.
Mi ero alzato arzuto e pettorillo...ops, scusate...arzillo e pettoruto, malgrado un mezzo raffreddore, e volevo scrivere una mail a Fuma, perché di mattina ho i migliori pensieri, quelli buoni, così non avrei corso il rischio di adirarla; ma, una volta seduto qui dove sono, forse per prendere un po' di tempo e darmi l'ispirazione per un buon incipit -che in certi casi riesce a condizionare lo spirito e predisporlo a nobilissimi intenti- giocherellando con la mouse ho cliccato una sigla sul deskop e mi è venuto in chiaro il testo del mio terzo romanzo, quello che ancora non ho presentato a nessun editore perché voglio aspettare il risultato del secondo.
Il titolo mi piace, non dice molto ma invoglia. Senti un po' qui: "Rimasti a Suarez". È tutto.
Beh, a me piace. Il fatto è che si tratta di un testo abbastanza complicato nella sua semplicità, ed io allora preferisco tenermelo al calduccio e non esporlo alle intemperie, perché se qualche addetto di una Casa Editrice lo leggesse appena alzato al mattino dopo una nottata poco felice potrebbe rimanergli di traverso e buttarlo nel cestino dopo una quarantina di pagine.
Ho cominciato a rileggere qua e là e mi sono venuti dei dubbi, quei dubbi che Giovanni Pascoli diceva gli venissero sempre quando rileggeva cose che aveva scritto qualche tempo prima.
Dopo averne letto una cinquantina di pagine i miei dubbi consistevano in un dilemma, duplice dilemma: lo butto oppure lo tengo e se lo tengo lo lascio così com'è oppure lo riscrivo?
Riscriverlo? Sei matto? Quattro mesi di mazzo dalla mattina alle sei alle dieci e di nuovo tre o quattro ore nel pomeriggio, ogni giorno senza pausa neanche alla domenica. Non se ne parla proprio.
Poi ho ripreso a leggere il manoscritto verso il finale e mi son detto: "lascialo stare così com'è".
Bisogna credere nelle cose che si fanno, quando sono fatte con grande impegno. "Credere, credere, credere. Resistere, resistere, resistere" dice il mio personaggio principale. Ci deve essere un motivo, ma forse lui sapeva che al suo autore sarebbe venuto il mal di pancia quando lo avrebbe riletto.
Resta così.
L'ho scritto lo scorso anno, mentre sopra la mia scrivania campeggiava un cartello con sopra scritto a lettere dorate "2009, das wird mein Jahr" cioè il 2009 sarà il mio anno.
Avrà pur voluto significare qualcosa, anche se verso la fine dell'anno, visto che non succedeva niente, mi è venuta la paura che volesse indicare qualcosa di sinistro, ferale e funereo: questo sarà il tuo anno, amico; lo scriveranno in grande sulla tua pietra tombale.
Oddio! Quando finisce 'st'anno?
Ho tirato un sospirone di sollievo a capodanno, subito dopo la mezzanotte.
il rubicone lo attraversavo da piccola, con le mie sorelle, su un ponte stretto, senza parapetto, chiuso con un arco di ferro a spuntoni. una cosa pericolosissima che quel pazzo di mio padre ci faceva fare quasi ogni giorno, al mare, come se fosse la cosa più normale del mondo.
RispondiEliminanon essere mai completamente soddisfatti di ciò che si scrive è normale: c'era uno scrittore, non ricordo quale, al quale dovevano togliere di forza il manoscritto, per pubblicarlo.