domenica 16 maggio 2010

CONTINUO SE VI PIACE

Visto che i miei racconti inediti piacciono provo a continuare, almeno finché troverò commenti interessanti.
IL prossimo si intitola:


SANGUE MARCIO


La giovane donna si sporse, spingendo la testa oltre il punto in cui il sentiero d'improvviso terminava. Finito di botto. E adesso uno sterrato ripidissimo di quattro o cinque metri per poi ricominciare giù in basso con uno stradello striminzito, visibile a malapena tra erbacce, sassi e radici di alberi. Come un percorso per giovani esploratori o per la caccia al tesoro. Ma perché cavolo fanno i sentieri nei boschi se poi non ci va nessuno?
Da tre ore camminava senza incontrare anima viva, senza un rumore, senza un odore, senza una puzza.
Il cervello farraginosamente le si rimise in moto: c'era da affrontare lo strapiombo e lei proprio quella mattina aveva indossato un paio di stupide scarpe da ginnastica di tela nera e lasciato a casa le Nike nuove. E niente jeans, solo un vestitino a fiori con gonna a mezza coscia; mezza coscia nuda, come il resto delle gambe, naturalmente. Roba da matti.
Provò con la punta di un piede la solidità del terreno: scarsissima, quasi nulla, come previsto. Meglio scendere coi talloni a squadra cercando di non scivolare sulle chiappe per via dei non jeans appunto: solamente vestitino e mutandine di seta, e pelle delicata sotto. Peccato non saper bestemmiare.
Si fermò di colpo, girandosi a guardare indietro da dove era venuta. Aveva sentito...che cosa? Nemmeno un alito di vento, solo il suo fiatone e forse il cuore che incominciava a correre.
Poggiò per primo il piede destro, di taglio; poi cautamente il sinistro, poi basta perché venne giù come su uno scivolo senza muovere un passo. Un successo straordinario, se non fosse stato per i piedi, che adesso sguazzavano nel terriccio che le si era infilato nelle stupidissime scarpe di tela. Che stronza era stata ad indossarle.
Sedette su quella specie di sentiero ritrovato e iniziò l'operazione svuotamento scarpe storcendo il naso: i piedi scalzi erano bagnati, impastati di terra e di sudore, e già puzzavano troppo a suo giudizio. Chissà che tanfo quando sarebbe arrivata a casa.

Il giovanotto scostò un ramo con un gomito rimanendo accosciato tra la vegetazione. Estrasse dalla custodia un binocolo militare e lo puntò sulla donna seduta a terra, distante poco più di un centinaio di metri in linea d'aria, leggermente più in basso rispetto al punto dove si trovava lui.
Svuotava le sue scarpe e se la prendeva comoda. Adesso sembrava si stesse spidocchiando, grattandosi tra i capelli e sotto le ascelle. Continuò a grattarsi qua e là. Effetto del sudore e della polvere, pensò il giovanotto. Capitava sempre anche a lui: se cammini non è niente, ma se ti fermi sei fregato, e lei si era fermata.
Zumò al massimo scendendo dalla testa alle spalle per fermarsi sulle cosce completamente scoperte; cosce lunghe da animale selvatico. Intravide un lampo nero nel mezzo: mutandine nere. Che scelta, ragazzi! Lui adorava gli indumenti intimi di quel colore.
Si stava allacciando le scarpe di nuovo indossate.
Il giovanotto scrutò in basso cercando di intuire in quale direzione portava il sentiero della ragazza. Scendeva in basso per qualche centinaio di passi per poi risalire leggermente. A quel punto doveva esserci un bivio, se ricordava bene: una via si arrampicava verso l'alto piuttosto ripidamente rientrando nel bosco, un'altra scendeva verso il ruscello, che lui da dove si trovava riusciva già a vedere.
È stanca, pensò il giovanotto; si intuiva dalla lentezza dei suoi movimenti. Cinque a uno che scende al ruscello.
La ragazza si era rimessa in piedi e si stiracchiava. Poca voglia di andare avanti, vero? Pensò lui. Ma indietro non torna quella lì, non è il tipo.
Finalmente lei si mosse, dopo essersi guardata alle spalle più volte. Camminava più lentamente di prima, continuando a girarsi di tanto in tanto.
Teme un agguato, pensò il giovanotto; oppure comincia ad essere stanca.
Non era più baldanzosa come un paio di ore prima, quando l'aveva vista la prima volta e da allora iniziata a seguire, sempre tenendosi a dovuta distanza.
Non ha rallentato solo perché è stanca, ma forse adesso incomincia ad avere paura, pensò il giovanotto. Paura di che? Di niente e di tutto, del silenzio soprattutto. Sogghignò. Introdusse di nuovo il binocolo nella custodia, si alzò in piedi e iniziò a scendere verso il ruscello.

La ragazza scendeva lentamente poggiando ogni volta i piedi con cautela. Pisciavano sudore ad ogni passo dentro le stramaledette scarpe di tela e lei sapeva che in quelle condizioni rimediava sempre vesciche schifose, che le duravano due o tre giorni. Non solo aveva sbagliato scarpe, ma non aveva indossato calze di lana e sentiva la pelle nuda delle piante dei piedi scivolare sulle ruvide solette interne. Eh già! Le calze di lana stavano dentro le Nike, ti pareva! Che idea del cazzo le era venuta quella mattina.
Il sentiero ballonzolava un po' qua e un po' là e sembrava non decidersi a prendere una direzione precisa. Dopo un centinaio di passi se lo trovò davanti diviso in due: un ramo ben tracciato e apparentemente il più frequentato puntava verso l'alto e si infilava di nuovo nel bosco; un altro appena visibile scendeva a valle. Dovevano essere pochi quelli che ci passavano, pensò la donna. Una sua idea, niente altro, ma era più comodo e scelse quello. In verità non aveva tanta voglia di rinfilarsi nella vegetazione più folta. Una sua sensazione, ma lei era una che agiva di pelle, di istinto, e alle sensazioni dava ascolto sempre.
Dopo un po' cominciò a sentire lo sciabordio di un corso d'acqua: il tipico rumore che fa l'acqua quando taglia veloce il suolo facendosi strada tra i sassi. Pensò con sollievo ad acqua freschissima dove avrebbe potuto immergere i suoi poveri piedi e affrettò il passo.

Il giovanotto sogghignò di nuovo. Aveva previsto giusto: la ragazza non aveva più tanta voglia di faticare e aveva scelto di rimanere allo scoperto. Adesso lui doveva tagliare verso il basso e arrivare alla riva del ruscello prima di lei. Era pronto a scommettere che avrebbe cercato di riguadagnare il bosco, lo schermo degli alberi. Chiamatelo intuito, ma certe cose si sentono.
Incominciò a correre, al diavolo se si accorgeva della sua presenza.

Ormai lo vedeva: acqua limpida senza schiuma dove guizzavano i raggi del sole, sicuramente gelata. Quello che ci voleva per i suoi piedi e non solo. Una gran voglia di infilarcisi dentro nuda.
Si arrestò di colpo.
Aveva sentito un rumore su in alto, o aveva creduto di sentirlo. Insomma c'era qualcuno non troppo distante da lei che reagiva ai suoi movimenti, infatti anche lui in quel momento era fermo.
Non poteva rimanere lì col naso in aria. Ricominciò a muoversi con cautela verso la riva del torrente, e una volta arrivataci allungò il passo. Una ventina di passi veloci con gli occhi attenti e i sensi tesi. Di nuovo aveva sentito il rumore di qualcuno che corre, su due gambe non su quattro.
La ragazza si fermò di nuovo e si girò, piantata a terra a gambe larghe come un pistolero nel West, e attese. Pochi secondi, poi vide apparire il bipede. Sembrava normale e innocuo, come tutti quelli della sua specie: alto, robusto, abbastanza giovane, calzoncini corti, cosce abbronzatissime, polpacci assai muscolosi, eccessivi. Dei polpaccioni, insomma.
Si era fermato a una cinquantina di passi e la guardava senza espressione, soprattutto senza quello stupido sorriso accattivante che la maggior parte dei maschi sfoggia quando vede una donna per la prima volta. Poi fece qualcosa che non aveva ancora visto fare a nessuno: tirò fuori da una custodia a tracolla un grosso binocolo e se lo portò agli occhi, mettendolo lentamente a fuoco.
Lei vide che lo spostava dal basso in alto e viceversa con accurata lentezza.
Sta studiandosi la merce, pensò. Controlla che tutto sia a posto e non troppo sciupato. Che vuole questo stronzo?
Non le ci volle tanto per capirlo.
Finito l'attento esame il bipede ripose il binocolo nel suo astuccio, rinviandolo dietro la schiena e immediatamente iniziò a correre verso di lei come un predatore affamato.
La ragazza non ci pensò nemmeno per un istante e spiccò un balzo, allontanandosi rapidamente dal ruscello. Cercava di rientrare nel bosco; pensava di potercisi difendere meglio. Era velocissima per natura e in salita sfruttava tutta la sua agilità e la sua leggerezza rispetto all'inseguitore così muscoloso, ma ad ogni metro sentiva l'altro farlesi sempre più vicino. Già le arrivava alle orecchie il suo ansimare.
Di mettersi a gridare nemmeno a pensarci: non c'era nessuno e magari sarebbe riuscita ad attivare altri concorrenti del predatore, che le fiatava forte dietro la schiena.
Correva e basta, a pochi metri dai primi alberi del bosco, ma l'uomo ormai aveva colmato il distacco. Arrivarono insieme, lei al primo albero, lui su di lei.
-Fermati zoccola! Dove corri?
L'aveva agguantata per un braccio. Lei si divincolò e si liberò con uno strattone, guadagnando un paio di metri.
Si infilò tra due tronchi giovani a tutta velocità, mentre la vegetazione e gli arbusti a terra le frustavano le gambe e i rami bassi il viso e le braccia che teneva protese in avanti. Per scansare un ramo più robusto degli altri abbassò la testa e chiuse d'istinto gli occhi. Non vide la buca davanti al piede d'appoggio e un momento dopo vi precipitò dentro fino al ginocchio. Il piede libero tirò fuori quello imprigionato sullo slancio, che però al primo contatto col terreno le fece vedere le stelle: una fitta dolorosa alla caviglia la costrinse a sollevare la gamba da terra. Si appoggiò con tutto il peso al tronco più vicino.
L'uomo le fu addosso in un attimo: le diede una manata tra le due scapole facendola stramazzare a faccia avanti.
-Brutta troia schifosa! Le urlò in un orecchio. Mi stavi fregando col tuo giochetto: l'ho vista all'ultimo istante, sennò mi ci spezzavo una gamba in quella buca del cazzo!
Se lo sentì addosso tutto intero: le aderiva come un vestito attillato. Con un gomito le premeva la nuca affossandole il viso nel terriccio. Non poteva nemmeno respirare. Agguantare aria con le narici o con la bocca era adesso il suo unico pensiero. Non si accorse che l'uomo con l'altra mano le stava tirando via le mutandine, o non gliene fregava più niente, tanto stava per morire.
Oh Dio no! Morire no! Non adesso!
Tirando fuori le forze della disperazione riuscì a sollevare la testa di quel tanto che bastava per ingozzare aria e riempirsene i polmoni, proprio mentre il suo aggressore le strappava via le minuscole mutandine.
La donna cercò di sfuggirgli: inarcò la schiena, scalciò, allargò le gambe sul terreno cercando una migliore presa per scrollarselo di dosso. Così facendo una o due volte alzò il sedere, mettendosi nella posizione più agevole per l'uomo.

Se la trovò sotto a gambe divaricate e culo alzato: uno scherzo penetrarla, visto che già da alcuni secondi aveva liberato la sua arma.

Il dolore fu acuto, violento: le strappò un gemito. Si immobilizzò, sperando così di tamponare il male. L'uomo la comprimeva da tutte le parti, esterne e interne. Lo sentì dondolare sulle sue natiche per pochi secondi e per l'eternità. Poi le schizzò dentro tutto il suo schifoso materiale.
Se ne sentì inondata e soffocata, come se l'avesse in gola al posto del respiro.

L'uomo diede gli ultimi colpi con forza e sgusciò fuori rovesciandosi sul dorso di fianco a lei. Aveva il fiatone e gorgogliava come un vecchio diesel.

Lei cercò subito di abbassarsi le vesti. Dovette venire molto su con la mano, perché gliele aveva tirate molto in alto. oltre la vita. Lui le fermò subito il braccio, stringendole il polso.
-Cosa fai? Non ho finito, ho appena incominciato.
Cosa vuole farmi? Pensò lei in un lampo di terrore. Mi ucciderà?
Quell'idea le si rattrappì dentro il cervello come un mostro pronto a balzarle al collo. Mi ucciderà. Mi ucciderà.
Con la sola forza della volontà si tirò sulle ginocchia tentando di mettersi in piedi per darsi alla fuga, ma non riuscì a sottrarsi alla presa ferrea delle manacce dell'aggressore.

Lui l'agguantò alla vita, la sollevò da terra e ce la scagliò di nuovo con violenza, godendo della smorfia di dolore della ragazza. La rovesciò sul dorso, tirandole di nuovo il vestito più in alto che poteva.

La donna si sentì soffocare con tutto il peso di quel bestione addosso. Era sfinita. L'aveva afferrata ai polsi e le teneva le braccia allargate come fosse in croce, fiatandole in faccia il suo alito pesante e schifoso. Le si dimenava sul ventre nudo: lei avvertiva la violenza del corpo dell'uomo che la schiacciava al suolo, sentiva la sua protuberanza cercare alla cieca in mezzo alle sue cosce.
Quando finalmente trovò il passaggio per raggiungere la sua anima ferita, vi penetrò con cattiveria mordendole le carni più segrete ancora più dolorosamente della prima volta.

Non ha il reggiseno, benissimo così! Le prese un capezzolo tra i denti mordicchiandolo. Gli stava arrivando alle orecchie il fiato grosso della ragazza, i suoi lamenti bassi, non proprio di dolore.
-Dimmi il tuo nome, le ansimò sulla faccia; dimmi il tuo nome, troia!
Lei farfugliò qualcosa.
-Non ho capito. Dimmi il tuo nome: voglio sentirlo forte e chiaro, troia!
-Paula, rispose con un rantolo.
-Impara il mio, troia: Gioacchino...Gioacchino, hai sentito?
Lei annuì.
-Pronuncialo forte il mio nome, perché mi piace.
La ragazza aveva rovesciato la faccia sulla sua sinistra cercando di tenerla lontano da quella dell'uomo. Le usciva muco dal naso.
-Dillo il mio nome, troia! Dillo forte.
-Non posso...non posso...
-Sì che puoi! Avanti! Gioacchino...Gio-ac-chi-no.
-Gio...ac...chi...no..., quasi esalando il respiro.

Lo sentì venire copiosamente dentro di lei.
-Gioacchino...Gioacchino..., continuava lui a ripetere nelle ultime contrazioni.
Finalmente le sembrò esausto, ma non osava muoversi, non osava provocarlo.

L'uomo che si chiamava Gioacchino si tirò sui gomiti e sulle ginocchia. Appena sentì il ritmo cardiaco tornato quasi normale si alzò e rimise in ordine mutande e pantaloncini. Non le diede mai uno sguardo, ma sapeva che non si era mossa di un millimetro. Si allontanò da lei a passi svelti senza mai voltarsi indietro. Quando uscì dal bosco correva.

La donna che si chiamava Paula aspettò che il rumore dei passi cessasse del tutto, poi si coprì e cercò di rimettersi in piedi. Rimase carponi un paio di minuti, puntellandosi con la fronte per terra. Quando fu dritta le venne su il poco che aveva mangiato e lo vomitò con robusti conati dolorosi. Se ne sporcò il vestito sul davanti, ma tanto si sentiva lurida dentro e fuori.
Tornò indietro per lo stesso sentiero da dove era passata poco prima, quando era ancora pulita.


Alle otto di sera, allungata sopra una comoda poltrona sotto una tenda a forma di pagoda in uno dei giardini dell'Hotel a cinque stelle dove soggiornava, sorseggiando un Tropical ghiacciato con una cannuccia ricurva, Paula guardava i camerieri nella lussuosa divisa dell'Hotel correre come formiche impazzite da una pagoda all'altra per soddisfare i mille capricci degli ospiti. Camerieri di grande scuola per un Hotel di gran lusso per gente ricca sfondata come lei, come suo marito.
Indossava un Versace di seta bianca, lungo fino ai piedi con uno spacco mozzafiato sul lato destro, che le liberava una delle sue bellissime gambe fino all'anca. Poche ore prima un giovane medico della clinica privata dell'albergo le aveva rimesso a posto con un paio di tocchi e con un balsamo miracoloso la caviglia infortunatasi nel bosco.
Sorseggiava il suo Tropical, guardava i camerieri in azione e non pensava a niente.

Gioacchino si affacciò sul giardino soffermandosi un attimo per accendersi una sigaretta. Marciò poi dritto e leggero verso una delle pagode. Da dove arrivava vedeva solo un piede dell'ospite, calzato in un sandalo dorato dal tacco altissimo.
Si fermò accanto alla giovane donna bruna. Le baciò con gesto elegante la mano che lei gli porgeva.
-Buon anniversario, tesoro.
Paula si soffermò a guardare la figura atletica dell'uomo, evidenziata dallo smoking nocciola chiaro dal taglio perfetto.
Ha un sarto favoloso, pensò. I pantaloni sono attillati, ma non si notano i suoi polpaccioni. Un mago quel sarto.
-Vogliamo andare a cena? Chiese Gioacchino.
Lei si alzò pigramente e appoggiandosi al suo braccio si lasciò accompagnare nell'angolo del giardino dove erano allineati una decina di tavoli. In fondo a tutti il loro con le candele che già ardevano sui candelabri ed il secchiello col ghiaccio e una bottiglia di Dom Perignon d'annata ancora da stappare.
-Questo è per te, disse Gioacchino appena furono seduti allungandole un astuccio con sopra impresso in cifre dorate "Bulgari".
Mentre il cameriere stappava lo champagne, lasciandogli fare solamente un timido sbuffo di gas, Paula aprì l'astuccio spalancando la bocca: un bracciale di diamanti intrecciati come tante piccole esse.
-È una meraviglia! Grazie Joachim.
Lui avvampò in volto di piacere: andava in delirio quando lei lo chiamava nella versione tedesca del suo nome. Ma in fondo andava bene così, visto che lei era amburghese.
-Indossalo, ti prego.
Paula tolse il gioiello dall'astuccio e se lo chiuse sul polso sinistro.
-Sono 120 brillanti, spiegò lui. Uno per ogni mese del nostro matrimonio.
-Sei unico, gli rispose Paula.
Estrasse dalla borsetta applicata alla cintura dell'abito un cofanetto di pelle siglato "VC" e glielo porse.
-E questo è il mio regalo.
Gioacchino si irrigidì guardando il contenuto, un minuscolo Vascheron Costantin da tasca in oro bianco. Sul retro una incisione "P e G 26 maggio 1999 - 26 maggio 2009"
-Avrei voluto farvi incidere solamente "Senza fine", disse Paula, ma l'orefice di Zurigo mi ha convinta che andava meglio così. Te lo sussurro allora in un orecchio: il nostro amore non avrà mai fine.
-Ne sono sicuro, le rispose Gioacchino. Noi conosciamo i segreti per tenerlo in vita.
Bevvero un sorso di champagne abbandonando subito quell'argomento. Si misero a parlare animatamente di cento altre cose per il resto della serata.




3 commenti:

  1. Che botto! Sulle perversioni ho niente da dire,in fondo ognuno fa quello che vuole di se',se appunto applica le fantasie a se stesso senza obbligare o fare del male.
    Questa coppia faceva l'amore normalmente o ogni volta dovevano mettere su questo teatro? Una faticaccia! Ma una fatica da ricchi..ecco tipo i marchesi Casati Stampa che mi pare finirono malissimo invecchiando in mezzo ai loro giochetti,no? Sangue marcio mi sembra un titolo forte,forse troppo,forse più giusto per storie di pedofilia,che dici?
    Ieri sera non ho fatto brutti sogni dopo aver letto "il Gazebo Giusto",non ho proprio dormito!

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  2. oggi sono stato un cattivo bambino e un cattivo lettore, ma il mio cuore era in fibrillazione per lo stesso motivo per cui lo sarà stato il tuo...
    quindi, nel prometterti che il racconto me lo gusterò domani, non posso non dirti:
    ALE' MAGICA INTEEEEEERRRR!!!!
    più forti dei lupi
    più forti dei gufi
    e come sempre quando il gioco è pulito
    più forti di tutti!!
    GRAZIE RAGAZZI, GRAZIE MERAVIGLIOSI CAMPIONI!!

    (messaggio per i non nerazzurri:
    comodi comodi, state pure in ginocchio...) :D

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  3. rieccomi qua. in breve: visto che il titolo è "continuo se vi piace" la mia risposta è Va' pure avanti! Devo dire che questo mi è piaciuto assai più per la sorpresa finale che non per la scrittura, comunque più che buona ma non asciutta e bukowskiana come il primo racconto tuo che lessi, anche se poi l'unico vero punto debole (a mio modestissimo parere) sta nel voler spiegare pensieri o azioni dei protagonisti ("una sua sensazione", "chiamatelo istinto", ecc) E però, trattandosi di depistaggi, alla fin fine ci possono pure stare.
    Ho trovato notevole l' "agguantare aria con le narici o con la bocca".

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