È un detto antico: c'è sempre una prima volta. Io quindi non sono sfuggito alla regola, e adesso racconterò come è stata la mia prima volta....la prima volta che ho fatto del male ad una persona cui volevo un gran bene.
Si trattava di mio padre; io non avevo più di tredici anni e con papà avevo un rapporto fantastico. Oggi si dice feeling, allora si diceva che eravamo molto attaccati l'uno all'altro, io a lui di più, credo. Da un po' di tempo mi portava sempre con sé, quando si prendeva un po' di svago, liberandosi dagli impegni della Banca dove lavorava. Mia madre ne era felicissima, un po' perché si liberava contemporaneamente di due rompiballe, un po' perché penso che fosse gelosa di papà, che insieme al figlio piccolo non poteva certo andare in gattaggio.
Papà era un fotografo dilettante molto bravo, un vero artista e ci teneva ad insegnarmi tecniche fotografiche che a me sembravano astruse; ma lui insisteva con calma, quasi rassegnato a ripetere cento volte le stesse cose, a mostrare gli stessi movimenti ad un figlio un pochettino gnoccolone.
Però non mi aveva mai portato con sé a pescare, la sua seconda passione. "Perché si pesca nelle ore tarde e qualche volta si fa notte, mi diceva; prova a chiedere a mamma se ti fa rimanere fuori fino all'ora dei lupi e vedi che ti risponde".
Manco a pensarci: nemmeno una parola avrebbe detto mia mamma, mi avrebbe mollato un manrovescio, garantito. Ma a giugno avevo l'esame di terza media e lei si gonfiava come una mongolfiera quando me ne parlava: "Bada che devi risultare il primo della classe, e comunque non accetto meno della media dell'otto. Guai a te se non ci riesci. Devi iscriverti al liceo classico con una pagella migliore di quella di tuo cugino Gabriele".
Sempre Gabriele come termine di paragone, ma Gabriellino aveva la testa come un uovo e gli occhiali da miope, e si sa che quelli un po' becalini sono più bravi degli altri; e poi Gabriellino era capace di stare sei, sette ore alla sua scrivania, e subito dopo pranzato faceva i compiti, mica come me che li facevo alla sera prima di andare a letto.
Un bel giorno mi venne il coraggio di interromperla mentre concionava e mi sentii dirle: "io prenderò come minimo otto e mezzo di media". Oddio, che cavolata ho detto? Adesso questa qui come me la scollo di dosso?
"Perfetto! -esclamò mia madre- aggiudicato", il che significava non meno di otto e mezzo.
"Però se ci riesco mi lasci andare con papà a pescare", insistetti
"Ora che lo hai detto, devi riuscirci. Poi...poi vedremo", che voleva dire sì.
Ho sudato sette volte sette camice, ma alla fine ho realizzato una media di 8,68, sorpassando Gabriellino di quasi mezzo punto.
Due sere dopo, marciando come soldati nazisti nel primo anno di guerra, io e papà arrivammo alla scogliera dell'antimurale del porto alle nove di sera, con due canne, un tascapane pieno di vettovaglie per noi ed un sacchetto contenente terra e lombrichi, le vettovaglie per adescare i pesci. Mio padre avvitò i tre pezzi della leggerissima canna di bambù cui era tanto affezionato e me la consegnò completa di filo di nylon, piombi, amo e sugheretto galleggiante. Un gioiellino di quattro metri e mezzo, che non pesava nemmeno tre chili.
"Sta attento a non farla finire in acqua, ché in mezzo a questi scogli e con questo mare mi va a pezzi e povero te", mi ammonì. Ma sorrideva mentre che minacciava ed io sapevo di che pasta fosse fatto il mio grande papà.
Mentre a lui andava buca, io tirai su un sarago di circa tre etti, due sarde e un Miccio di re, un pesce azzurro molto colorato.
"Ha' visto er tu fijo? -gli gridò uno dei tre o quattro vecchi pescatori che stavano lì nei pressi- tira su solo robba bbona"
"E de chi ha preso siconno te?" rispose papà, e io sentivo che era contento, anche se a lui non abboccavano.
Dopo un paio d'ore, però, non dico che mi veniva sonno, ma certo non mi sentivo proprio a mio agio. Devo fare pipì, pensai, poi mi passa. Guai a mostrare cenni di cedimento dopo aver fatto tutta la gran cagnara nel pomeriggio perché la signora madre mi lasciasse andare. Morto magari, ma dovevo rimanere sveglio. Però non volevo dire niente a papà, che cominciava a tirar giù moccoli perché in tutto quel tempo aveva pescato solo due vope piccole piccole.
Avevo visto che gli altri pescatori fissavano le canne al suolo tra gli spacchi degli scogli e si allontanavano. Così feci anch'io. Trovai una bella fessura dove infilare la canna e mi allontanai velocemente. Sentii che mi stava venendo di fare anche qualcosa di grosso, per cui scesi in mezzo ad un paio di scogli belli alti in modo da rimanere fuori dagli sguardi degli altri.
Non avevo nemmeno incominciato che sentii l'urlo di mio padre: "Enzaccio, che cavolo hai combinato?"
Schizzai fuori dalla buca e vidi con orrore che tutti, proprio tutti i pescatori con in testa mio padre, tentavano disperatamente di recuperare la mia preziosa canna di bambù, che però sembrava avesse un motorino perché si allontanava zigzagando sempre più velocemente.
"Ha abboccato uno bello grosso -strillò il più anziano- cià culo er regazzino stasera"
"Je lo fo io er culo prima de tornà a casa!" e questo era papà.
Il guaio era che io non avevo lo spirito di osservazione che, per fortuna, mi sarebbe venuto con gli anni. Le canne degli altri pescatori infatti, quelle che venivano lasciate negli spacchi degli scogli, avevano tutte il mulinello e se un pesce avesse abboccato avrebbe tirato il filo di nylon, lasciando la canna al suo posto; la mia era una canna per la pesca a traino, con imboccatura fissa. Appena quello squalo aveva abboccato s'era trascinato via amo, sugheretto, piombo e canna, lasciando sulla scogliera me desolato in balia dell'ira paterna.
Papà non mi fece niente; papà non mi faceva mai niente.
Cominciò a rimettere insieme tutte le nostre cose, senza proferir motto.
Mentre tornavamo indietro gli dissi:
"Mi dispiace tanto, papà; mi dispiace proprio tanto per quella canna"
Lui si fermò sul posto, mi guardò un attimo, poi rispose:
"Guarda che della canna non me ne frega niente. Io ti avevo dato una consegna e tu non sei stato capace di eseguirla. Mi hai dato una grande delusione stasera", e fino a casa non disse più una parola.
Quella notte non sono riuscito a dormire. Pensavo che è proprio brutta cosa fare del male alle persone cui si vuole tanto bene.
Quella è stata la prima volta. Ho continuato a fare del male alle persone che più amavo, e continuo di tanto in tanto a farlo ancora adesso. Cose piccole, certamente, ma -come dice una mia amica- che rendono infelici le persone colpite, quasi sempre donne: madre, moglie, figlie, amiche.
Il brutto è che non me ne rendo conto. Per fortuna siamo in tanti, guarda caso quasi tutti uomini.
Anche mio padre non si arrabbiava mai quando facevamo danni materiali, sono sicura che non si sarebbe arrabbiato nemmeno se avessimo rotto un vaso ming, se l'avessimo avuto. Qualsiasi coccio andasse in frantumi, la sua reazione era: l'importante è che non ti sei fatta male.
RispondiEliminaDeludere le persone che amiamo non è bello, ma "errare humanum est". L'importante è accorgersene, rimediare, e starci più attenti, perchè, a furia di perseverare, l'altro si rompe le palle.
da alcuni giorni sto leggendo questo blog, bello, colto, di belle penne. E non c'è nulla di ironico in quel che dico: trovo che l'uso r-affinato della nostra bella lingua, così ricca e variegata, sia un esercizio doveroso (per chi come voi lo sa fare) e contemporaneamente educativo, in un tempo, come già scritto egregiamente dal sig. Vincenzo, che troppo frettolosamente e superficialmente ci induce a liquidare con una faccina e un omino che corre dei concetti e delle idee che meritano di più.
RispondiEliminaAnch'io ricordo una volta che ho fatto del male, alla mia mamma: innocente, ma sempre del male. In un tema di V elementare, o giù di lì (in un tempo in cui cmq si usava farli), ho ironizzato sul suo peso, che avrebbe atto barcollare la gondola veneziana che ci portava per i canali. E siccome mia mamma lavorara nella segreteria della scuola, la mia maestra si era prodigata nel farglielo leggere, ovviamente e spero, senza malizia. Lei me lo aveva fatto notare più o meno con queste parole: "tutto qui quello che sai dire della tua mamma?" con un sorriso dolce, lo stesso di adesso. Mi aveva fatto sentire un piccolo (quello lo ero di sicuro) verme.....e Dio solo sa quanto aveva ragione. Vorrei riscriverlo oggi quel testo, e renderle giustizia della meravigliosa persona che sa essere ancora adesso a 80 anni suonati!
andre (sì certo, con la a minuscola e senza accento!)