Verena Montrasio dipingeva cavalli a encausto, usando un ferro da stiro a vapore per fare sciogliere la cera. Dunque Verena dipingeva cavalli, poi li stirava col ferro a vapore, i dipinti naturalmente. Aveva una faccia di bronzo e fumava mezzi sigari toscani, sbavando bava color marroncino sul davanti della camicetta.
E poi? Ah sì: Verena non ne azzeccava mai una.
Da piccola aveva sbagliato scuola: invece di iscriversi all'Istituto d'Arte, lei che era una creativa, andò a finire sui banchi di un liceo scientifico, lei che odiava la matematica. Ne risultò un disastro con due classi ripetute e il definitivo abbandono dei banchi a terza non conclusa.
Fece un corso da parrucchiera. Tempo e quattrini buttati al vento perché risultò allergica alle soluzioni che scioglievano le tinture.
Allergica anche ai maschi coi quali si accoppiava, perché sistematicamente inadatti a lei, anche se quella gallina di Rosalba insinuava che fosse lei indatta al maschio medio latino. Fu per questo che Verena si adattò con un maschio massimo, un bovo di una ventina di chili sopra il quintale, dove attraverso la ciccia delle guance si intravedeva una fisionomia anche piacevole, che scompariva immediatamente ad ogni contrazione della muscolatura facciale, contrazione che avveniva di continuo perché il bovo masticava copiosamente ogni sorta di cibo e di leccornia.
Verena l'aveva battezzato la rana, per lo strano gorgoglio che emetteva il suo gargarozzo mentre inghiottiva.
Ugo era il nome del batrace. Di buono aveva che era unico figlio e quindi unico erede di Evi Perugini, la stilista che aveva creato un calzaturificio per uomo, donna e bambino imponendo a suo marito, il padre di Ugo, di lasciare la sua professione forense per dirigere il centinaio di negozi in tutta Italia di "Evi, la scarpa per te".
Lo sfarzo della villa della scarpara, dove Ugo aveva il suo appartamento sotto il tetto e dove Verena passava oramai la maggior parte delle sue notti, l'aveva convinta a passare sopra la naturale bruttezza del fortunato prescelto. Verena si costringeva a lunghe camminate lentissime per i boschi che circondavano il maniero fatte a passo di lumaca mano nella mano insieme a Ugo. Una tortura per lei che aveva partecipato ai campionati juniores di atletica leggera nei 100 metri, dove era straordinariamente veloce, così veloce da produrre un effetto stroboscopico, perché se ti passava davanti vedevi le sue gambe muoversi all'indietro con un lento ruotare, mentre lei schizzava rapidissima nella direzione opposta.
Era arrivato il matrimonio e il cambio totale della condizione della sua vita, ma non erano arrivati figli per fortuna di entrambi, come Ugo e Verena riconoscevano senza mezzi termini.
Matrimonio felice? Dopo quattro anni si poteva parlare di matrimonio soddisfacente, forse solo tranquillo, senza scosse, forse un po' monotono, forse un po' troppo monotono. In una parola una lagna senza fine.
Soldi tanti, viaggi, gioielli, acquisti senza limite di spesa, tempo a disposizione per la sua amata pittura a encausto.
E la vita intima? Insomma trombavano sti due? E come riuscivano nell'impresa a prima vista da Oscar per l'audacia?
Da quattro anni l'ora di sesso avveniva con la regolarità dei certosini arabi, ogni terzo giovedì del mese e consisteva in due parti: la seconda il tempo perché la rana raggiungesse l'orgasmo, circa diciotto secondi; la prima di cinquantanove minuti e quarantadue secondi, perché Verena riuscisse a fare sì che l'asta o meglio il periscopio penetrasse là dove era scritto nei testi dei profeti che dovesse penetrare, cioè la sua vagina. Lo aveva chiamato periscopio perché emergeva appena dalle onde ruotanti e avvolgenti delle molteplici trippe, di Ugo, contrastanti caparbiamente qualsiasi tentativo di pesca miracolosa che Verena metteva in atto. La maggior parte del tempo veniva impiegata nell'ossessiva ricerca della posizione iniziale di attacco delle forze che partecipavano alla pugna. Era durato mesi di tentativi frustranti prima di arrivare alla grande X, costituita in basso dalle gambe della rana divaricate in senso antero-posteriore a mò di quelle del pupazzetto dalla giacca rossa sull'etichetta del Johnnie Walker, rovesciato per la bisogna a testa in giù; in alto dalle gambe di Verena che tentava così di battere ogni record di scosciamento forzato che l'avrebbe, se lei lo avesse voluto, potuta far entrare a vele spiegate nello sparuto gruppo delle acrobati e contorsioniste del mondo circense, premiate nel Principato di Monaco con la medaglia d'oro.
Fluttuando in alto con veloci colpi di natica l'intero busto a Verena, che non si poteva aspettare dalla rana altro contributo che una passiva immobilità, e giovandosi della provvidenziale caduta verso il basso, verso il centro della terra o verso l'inferno, della moltitudine di pieghe, di anse, di volte e di trabeazioni della ciccia inerente le molteplici trippe della rana, caduta che liberava finalmente l'ultima parte, e la più importante, del periscopio, a Verena dicevo non rimaneva altro che sperare che il suddetto periscopio rimanesse rigidamente eretto, e reiterare i colpi di natica finché non avvenisse il miracolo dell'intubazione del periscopio stesso tra le pareti vaginali, traguardo che poi Verena difendeva con la baionetta fra i denti per almeno venti secondi, permettendo il flusso seminale, o quel che cavolo fosse, il passaggio insomma delle migliori cellule del ciccione tra gli antri più umidi e nascosti del suo bassissimo ventre, dove probabili ventose se ne impossessavano, facendone l'uso che potevano. Fisiologico, pensava Verena, perché altro non usciva fuori che una caparbia lubrificazione, mai purtroppo un concepimento, cosa questa che ogni volta lasciava Verena nell'atroce dubbio se tale incapacità di riproduzione fosse da attribuire a lei piuttosto che alla rana.
Ma, come ho già detto, il non concepimento di figli era stato accolto non come il male minore, ma come un evento favorevole. E nessuno dei due aveva ben capito il significato di quell'assioma.
Ma i figli fanno casino e riempiono la giornata e qualche volta avvicinano i coniugi.
Pian piano Ugo e Verena erano andati alla deriva della noia, ognuno una rotta diversa. Così giorno dopo giorno era maturata in Verena la voglia di disfarsi di Ugo. Così giorno dopo giorno, mentre dipingeva cavalli, lei pensava a come fare scoppiare la rana, senza doverla pagare naturalmente.
Così, tra cavallo e cavallo, tra un rosso e un blu e tanta tanta cera Verena arrivò ad escludere ogni forma di omicidio violenta, con botti di revolver, o lama di coltello, o veleni raffinati e fulminanti, perché era il dopo che la metteva in ansia.
Doveva riuscire a spingere Ugo in soffitta, dove si apriva un balcone abbastanza capace per contenerlo tutto, e poi spingerlo di sotto perché la ringhiera era molto bassa e sarebbe bastata una spintarella. Il resto lo avrebbe fatto il peso da pachiderma di Ugo.
Ma far salire alla rana quei cinque scalini si rivelò una missione impossibile: non gli andava l'idea, non gli passava proprio per la testa di fare quello sforzo.
Finché una sera, chissà come chissà perché, Ugo entrò nella stanza dove Verena dipingeva e le disse: "Vieni, andiamo in terrazza". Lei lo seguì così come stava, col grembiule e la spatola per spalmare la cera impugnata.
Arrivato al terzo gradino Ugo inciampò e cadde all'indietro. Verena alzò le braccia d'istinto per proteggersi da quella valanga e la spatola si infilò completamente nella schiena di suo marito. Riuscì a evitare di rimanere sepolta dal corpaccio dell'uomo. Scartò di fianco e si voltò a guardarlo: lo vide immobile con gli occhi sbarrati e lo battezzò morto.
E adesso, come sfuggire all'accusa di omicidio? Come salvare il culo?
Sentì il vomito salirle su dallo stomaco e corse verso il bagno.
La porta era sbarrata da Ugo con la spatola stretta in una mano.
"Fortuna che ho chili di lardo sulla groppa, sennò si infilava dentro, ma non mi ha nemmeno scalfito".
Verena sbarrò gli occhi tappandosi la bocca con una mano. Il vomito le riempì la gola e, dato che lei presa dal terrore respirò, le invase i polmoni.
Si contorse, si piegò in due, mentre Ugo si preoccupava di controllare il buso sulla sua giacca nuova infilandoci dentro due dita e non si accorse di quello che stava capitando a sua moglie.
Così Verena Montrasio morì, inopinatamente soffocandosi col proprio vomito. L'ultimo pensiero da vivente fu: "Che culo che hai, rana", e il dispetto e la rabbia le sopravvissero a lungo.
Fluttuando in alto con veloci colpi di natica l'intero busto a Verena, che non si poteva aspettare dalla rana altro contributo che una passiva immobilità, e giovandosi della provvidenziale caduta verso il basso, verso il centro della terra o verso l'inferno, della moltitudine di pieghe, di anse, di volte e di trabeazioni della ciccia inerente le molteplici trippe della rana, caduta che liberava finalmente l'ultima parte, e la più importante, del periscopio, a Verena dicevo non rimaneva altro che sperare che il suddetto periscopio rimanesse rigidamente eretto, e reiterare i colpi di natica finché non avvenisse il miracolo dell'intubazione del periscopio stesso tra le pareti vaginali, traguardo che poi Verena difendeva con la baionetta fra i denti per almeno venti secondi, permettendo il flusso seminale, o quel che cavolo fosse, il passaggio insomma delle migliori cellule del ciccione tra gli antri più umidi e nascosti del suo bassissimo ventre, dove probabili ventose se ne impossessavano, facendone l'uso che potevano. Fisiologico, pensava Verena, perché altro non usciva fuori che una caparbia lubrificazione, mai purtroppo un concepimento, cosa questa che ogni volta lasciava Verena nell'atroce dubbio se tale incapacità di riproduzione fosse da attribuire a lei piuttosto che alla rana.
Ma, come ho già detto, il non concepimento di figli era stato accolto non come il male minore, ma come un evento favorevole. E nessuno dei due aveva ben capito il significato di quell'assioma.
Ma i figli fanno casino e riempiono la giornata e qualche volta avvicinano i coniugi.
Pian piano Ugo e Verena erano andati alla deriva della noia, ognuno una rotta diversa. Così giorno dopo giorno era maturata in Verena la voglia di disfarsi di Ugo. Così giorno dopo giorno, mentre dipingeva cavalli, lei pensava a come fare scoppiare la rana, senza doverla pagare naturalmente.
Così, tra cavallo e cavallo, tra un rosso e un blu e tanta tanta cera Verena arrivò ad escludere ogni forma di omicidio violenta, con botti di revolver, o lama di coltello, o veleni raffinati e fulminanti, perché era il dopo che la metteva in ansia.
Doveva riuscire a spingere Ugo in soffitta, dove si apriva un balcone abbastanza capace per contenerlo tutto, e poi spingerlo di sotto perché la ringhiera era molto bassa e sarebbe bastata una spintarella. Il resto lo avrebbe fatto il peso da pachiderma di Ugo.
Ma far salire alla rana quei cinque scalini si rivelò una missione impossibile: non gli andava l'idea, non gli passava proprio per la testa di fare quello sforzo.
Finché una sera, chissà come chissà perché, Ugo entrò nella stanza dove Verena dipingeva e le disse: "Vieni, andiamo in terrazza". Lei lo seguì così come stava, col grembiule e la spatola per spalmare la cera impugnata.
Arrivato al terzo gradino Ugo inciampò e cadde all'indietro. Verena alzò le braccia d'istinto per proteggersi da quella valanga e la spatola si infilò completamente nella schiena di suo marito. Riuscì a evitare di rimanere sepolta dal corpaccio dell'uomo. Scartò di fianco e si voltò a guardarlo: lo vide immobile con gli occhi sbarrati e lo battezzò morto.
E adesso, come sfuggire all'accusa di omicidio? Come salvare il culo?
Sentì il vomito salirle su dallo stomaco e corse verso il bagno.
La porta era sbarrata da Ugo con la spatola stretta in una mano.
"Fortuna che ho chili di lardo sulla groppa, sennò si infilava dentro, ma non mi ha nemmeno scalfito".
Verena sbarrò gli occhi tappandosi la bocca con una mano. Il vomito le riempì la gola e, dato che lei presa dal terrore respirò, le invase i polmoni.
Si contorse, si piegò in due, mentre Ugo si preoccupava di controllare il buso sulla sua giacca nuova infilandoci dentro due dita e non si accorse di quello che stava capitando a sua moglie.
Così Verena Montrasio morì, inopinatamente soffocandosi col proprio vomito. L'ultimo pensiero da vivente fu: "Che culo che hai, rana", e il dispetto e la rabbia le sopravvissero a lungo.
Caspiterina Vincenzo, che storia! Non saprei proprio come definirla...forse tragicomica???
RispondiEliminaCiao nèèèè
Sì, volutamente tragicomica.
EliminaCiao.
Ti dispiace farci un disegnino in stile Kamasutra, chè mica io l'ho capita la posizione assunta dai due? ahahahahahahahahahahahahah
RispondiEliminaNo, te la devi immaginare da sola. Oppure provarla direttamente......
Eliminaahahahahahahahah
Tu dici? Ma a mio marito manca tutta quella trippa! ahahahahahahahahahahahahahahahahahah
EliminaE tu trovatene uno con la trippa!
EliminaEcco fatto!!
Non è che 'sta rana vorrebbe gentilmente concedermi sei numeri da 1 a 90 da giocare al superenalotto...non si sa mai...
RispondiEliminaBaol, l'ho spremuto tutta notte per farglieli uscire, magari dal culo, ma mi ha fatto solo pernacchie.....o era qualcosa d'altro? Mi sorge un dubbio...
EliminaBaol, l'ho spremuto tutta notte per farglieli uscire, magari dal culo, ma mi ha fatto solo pernacchie.....o era qualcosa d'altro? Mi sorge un dubbio...
EliminaRacconto delizioso. Grazie per esserti fatto conoscere.
RispondiEliminaGrazie a te per il tuo contributo.
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