lunedì 31 maggio 2010

RACCONTO ALLA ROVESCIA DI UN PAIO DI GIORNI NON PROPRIO QUALSIASI

Leggendo un recentissimo post di una mia amica, http://fuma62.blogspot.com/2010/05/vita-al-contrario.html, mi sono fatto cadere sul naso l'idea di come avrei potuto raccontare un paio di giorni non proprio qualsiasi della mia vita.

Prima parte- circa alle undici del mattino, in un ambiente assai tranquillo.
Qualcuno mi sta togliendo le bende dagli occhi. Vedo il chiarore del giorno, o di una lampada molto forte; Qualcuno mi parla:
-Non apra subito gli occhi, ha capito? Tenere gli occhi chiusi, bitte, ha capito?
-OK! Ho risposto, visto che insisteva tanto.
Le bende sono tutte via. Adesso vedo una luce attraverso le palpebre: potrebbe essere una lampada tascabile oppure un laser. È una luce che Qualcuno sposta da destra a sinistra e viceversa, due, tre volte.
-Che cosa vede? Chiede Qualcuno- Che cosa vede, insiste. Deve avere poco tempo o poca pazienza, o entrambe le cose.
-Una luce che si muove.
-Dov'è adesso?
-Ferma alla mia destra.
-E adesso?
-Ferma alla mia sinistra.
-Apra gli occhi; ma piano piano, bitte.
Mi sembra che le palpebre siano incollate, appiccicate l'una sull'altra. Le spiccico a fatica. Apro una fessura, la allargo. Vedo tutto opaco: chi si è divertito a spalmarmi burro sugli occhi?
Piano piano vedo chiaramente qualcosa, dopo aver chiuso e riaperto le palpebre per un paio di volte. Qualcuno non dice niente; ha spento la pila e tace; dove cavolo sta Qualcuno?
-Cosa vede adesso?
È tornato nel quadro; mi sta davanti; indossa un camice bianco: Qualcuno è un medico.
-Cosa vede, bitte.
-Un dottore col pizzo e gli occhiali con una pila in mano.
-Bene, molto bene.
È soddisfatto Qualcuno, quasi ride.
-Che mi è successo?
Cazzo! Nessuno mi spiega dove sto e come sto.
-Abbiamo i risultati delle analisi del suo sangue.
-Allora?
-Avvelenamento del sangue.
Dice proprio così: "Blutvergiftung". Ho il sangue avvelenato. Chi è stato?
-Verrà una mia collega a farle la anamnesi. Io però adesso indovino: lei è stato nella piscina di Rappenwörth e ha fatto il bagno nella vasca nuova.
Non me lo chiede, lo afferma.
-Macché bagno. Ho immerso le gambe, l'acqua era troppo fredda.
-Solo le gambe? Non la testa? Non ha bevuto di quell'acqua?
-No...si...no...beh, forse qualche goccia...mi sono spruzzato un po' il torace e la testa...
-OK. Ha bevuto.
-Non mi sembrava sporca.
-Non era sporca, solo infetta. Un batterio che già conosciamo. Lei è il settimo ricoverato da ieri con gli stessi sintomi.
Che bello! Siamo in tanti e tutti ancora vivi, malgrado l'ingozzata di batteri.

Seconda parte- La notte precedente, verso la mezzanotte, sull'autostrada Karlsruhe-Landau.
Sono al volante della mia macchina assolutamente sobrio -bevo solo caffè o succo d''arancia quando devo guidare- con a fianco mio nipote Alessandro di 20 anni, tutto eccitato.
-Dai, dai! Pista, pista ché ce le siamo perse -dice il moccioso.
Allude a sua madre -mia figlia Stefania- e a sua nonna -mia moglie AM.
Stefi in autostrada di notte non supera i 90. Io sto a 140 e lui mi incita a pistare. E io pisto. Si arriva subito sui 160, ma poi diminuisco sui 150 perché ha piovuto e l'asfalto è ancora bagnato.
Alessandro si volta indietro. ma li abbiamo infilati tutti e sua madre non arriverà prima di mezzora.
Bello viaggiare con un nipote giovane. AM oltre i 100 già si aggrappa con le mani e si puntella con i piedi, e poi rompe e rompe. Molto meglio il nipote giovane. Però devo stare attento, penso, perché da qualche parte deve essere successo un incidente. C'è un elicottero in avvicinamento, ne sento distintamente il rumore dei rotori.
Aspetto di vedermelo sfilare sopra la testa, ma non passa. Il rumore è aumentato, deve stare proprio sopra di noi.
-Riesci a vedere dove sta?
-Chi, la mamma?
-No, l'elicottero.
-Quale elicottero?
-Sei sordo? Quello che sta sopra le nostre teste.
Mi sta guardando e ride.
-È uno Zeppelin, nonno: è lo Zeppelin della birra Moninger.
-Non fare lo stronzo: c'è un elicottero sopra di noi da qualche minuto.
Mi guarda e ride sempre.
-Non c'è nessun elicottero, nonno.
-E sto rumore?
-Quale rumore?
-Non senti niente tu?
-Perché, tu cosa senti?
D'accordo, è mio nipote è ha qualcosa di me, quindi gli piace scherzare e prendere la gente per il culo, ma un elicottero non ti vola sopra la testa tutti i giorni, o le notti.
Però, dove sono le luci di posizione?
Forse ho bucato. N'est pas possible: la macchina non decelera e non sbanda.
Allora me lo suono nella testa 'sto elicottero. Che cazzo mi succede?
Un attimo dopo penso: devo togliere il piede dal gas.
Un secondo dopo esplode un lampo bianchissimo davanti alla macchina.
-Che è stato?
-Cosa?
-Quel lampo bianco. Cazzo, non hai visto quel lampo?
Adesso mi guarda un po' preoccupato.
-Ti senti bene, nonno? Vuoi che guidi io?
-Che cazzo dici!
Ma il rumore dell'elicottero si è incistato: è come se si fosse infilato dentro una montagna di burro o di margarina. Anzi è come se il burro abbia riempito la mia testa.
Alessandro mi sta dicendo qualcosa ma io non lo sento: gli vedo muovere le labbra come un pesce in un acquario.
Forse incomincio a sentirmi male.
Fermare sta macchina. Devo fermare sta cazza di macchina. Adesso tolgo il piede dal gas.
Senza più un rumore; senza più rumori; solo un ronzio sordo, lontanissimo.
Un muro nero mi è caduto davanti agli occhi.
Silenzio dentro di me; solo un martello pneumatico che mi picchia al centro della cassa toracica e fa un male boia. Silenzio dentro e fuori e una muraglia nera tutta intorno a me.
Sono cieco e sto morendo.
Fermare sta cazza di macchina.
Vedo solo una larva di luce, uno spicchio lateralmente a sinistra; qualcosa del volante e le mie cosce in basso; niente altro.
Una mano di Alessandro sul mio braccio destro.
Fermare sta cazza di macchina, finché c'è il rettilineo. Ancora mezzo chilometro.
Colpo di freno, non energico, cortissimo.
Frizione giù -dalla quinta alla quarta.
Volante stretto in modo leggero, non convulso. Vibra.
Colpo di freno più energico, ancora molto corto.
Frizione giù -dalla quarta alla terza.
Volante vibra ma resta dritto.
Colpo di freno assai più forte, ma corto.
Frizione giù -dalla terza alla seconda.
Colpo di freno fortissimo, lungo.
Volante afferrato con forza.
Frizione giù -dalla seconda alla prima.
Pedale del freno giù a morire.
Volante tenuto come Sansone le sue colonne.
Sta cazza di macchina è immobile.

Forse Dio esiste.
Forse è tutto culo.
Forse il mio famoso sangue freddo.
No, Dio esiste.
No, è culo.

Adesso Alessandro fa tutto lui. Non so cosa faccia, ma a me va bene tutto: lui è salvo, io posso anche crepare.

Terza parte- Sabato nella piscina di Rappenwörth, la più bella e moderna di Karlsruhe.
Stefania e il suo manzo sono già in postazione quando io e AM arriviamo: noi non li abbiamo invitati; loro non ci hanno invitato. Casualità. Casualità del cazzo.
Stefi parla, parla, parla, parla per tutti e quattro.
Il manzo -infatti- tace, grazie a Dio.
AM ascolta, ascolta, ascolta, ascolta e qualche volta annuisce.
Io sto lì impalato e mi rompo i coglioni.
Non mangio. Se l'acqua è calda faccio una nuotata.
Afferro un polso di AM e la tiro su dalla sdraio.
-Non ne hai abbastanza? Andiamo alla vasca nuova.
-È fredda.
-E tu come lo sai? Proviamo.
-Facciamo tutto il giro, in riva al fiume.
Una camminata di 20 minuti, sotto il sole. Ci voleva sto caldo dopo un inverno di merda.
Arriviamo alla vasca. Poca gente dentro; tutti fuori come lucertole al sole. AM immerge mezzo alluce di un piede per mezzo secondo.
-È fredda.
-Fammi sentire.
Calda non è, ma io insisto. Immergo i piedi, poi scendo uno scalino e ce l'ho ai polpacci; ancora uno scalino e arriva alle ginocchia. Vado avanti nell'acqua bassa finché mi bagna le cosce e i bermuda. Chi se ne frega, sono quelli dell'anno scorso.
-Non andarci dentro -intima AM.
-E chi ci va!
Ma mi bagno il petto, il collo, la testa e anche un po' la faccia.
Mi va un po' d'acqua in bocca.
Buona quest'acqua. Sembra quell'acqua minerale che compriamo in Francia; sembra Evian, sembra Vittel "eau minérale naturelle".
Solo un po' dolciastra, ma buona.



lunedì 24 maggio 2010

I QUESITI SERI E GRAVI DI FEDERICO

Quando mio figlio Federico pone quesiti ed inizia ragionamenti con suo padre bisogna drizzare le orecchie: ascoltare bene, tutte le sillabe, e valutare ancor meglio le risposte.
Chicco (Federico all'anagrafe, 2 metri e 2 centimetri per circa 100 chilogrammi, ma per noi solo e sempre Chicco) è capace di parlare per due ore dell'Inter, per quattro ore dei suoi due meravigliosi gemelli, ma quando parla da solo a solo con suo padre parla di problemi esistenziali.
Oggi, in completa solitudine con suo padre -che sono io- ha esordito con una domandina facile facile da 100 euro:
-Secondo te esiste la vita dopo la morte?
-Di cosa ti preoccupi tu, che hai 37 anni, o vuoi sfottere?
-No, dico sul serio: tu che pensi?
-Io non penso. Io credo di sapere.
-E cosa credi di sapere?
Lui mi conosce e sa che non sparo mai balle su questi argomenti.
-Non voglio confonderti le idee, ma i tuoi nonni me lo hanno fatto sapere, dopo morti.
-I tuoi genitori?
-Ho detto i tuoi nonni.
-Allora? Come te lo hanno fatto sapere?
Non molla più la presa Chicco, è risaputo in famiglia.
-Tuo nonno mi ha salvato la vita una notte a Francoforte dicendomi una sola parola: "frena!"
-Come fai a dire che fosse la sua voce?
-Era la sua voce.
Non chiede mai due volte. Si fida di me. È uno dei pochi ormai, ma Chicco si fida ciecamente di suo padre. È un gran bravo ragazzo, l'ultimo, il cacanido, forse il migliore.
-E la nonna?
-Ha esaudito un mio desiderio. Le avevo chiesto di darmi un segno e lei me lo ha dato.
-Inequivocabile?
-Hai detto la parola giusta.
-Tu ci hai creduto? Voglio dire, ti ha convinto il segno?
-Al mille per mille.
Tace. Soppesa la prossima domanda. Giuro che non so quale possa essere.
-Dì un po', papà: secondo te che succederà dopo la morte?
-Quanto tempo dopo?
-Subito dopo, appena si è morti.
Lo avevo capito che volevi saper questo, ragazzo mio. È una vita che ci sto pensando. Sono lieto che incominci a pensarci tu.
-Ti dico tutto quello che penso: la verità, senza mezzi termini, Chicco. Io penso che la nascita e la morte siano due momenti assolutamente uguali.
Mi sta ascoltando come se fossimo soli in un deserto, e siamo in mezzo a un branco di gente vociante.
-Cerca di pensare al bimbo prima che nasca, tranquillo e felice dentro il suo sacchetto, che succhia il liquido amniotico dove è immerso, nel calore e nell'ombra, ascoltando solo il tum, tum, tum del cuore di sua madre, e il fusch, fusch, fusch del sangue di sua madre; e la voce di sua madre mentre parla a lui, dolcissima e quieta.
Poi, tutto a un tratto si scatena l'inferno. Quasi niente più liquido, una forza terribile lo capovolge, lo serra, lo bracca e gli afferra la testa tenendogliela immobile.
Il tum, tum, tum diventato debolissimo; il fusch, fusch, fusch quasi scomparso; la voce della madre non c'è più, ma ci sono tante altre voci mai ascoltate e tanto frastuono ...e il dolore. Cos'è il dolore? Una forza che gli schiaccia il torace e che lo tira in basso, giù, giù, giù...e poi di colpo...una luce accecante...immensa...voci tante...altissime...mai sentite...e rumori infiniti.
Finalmente qualcosa di morbido sotto di lui...un odore conosciuto sotto le sue narici spalancate...un tum, tum, tum riscoperto e una voce che ha già sentito, che gli dice "sono qui...sono qui...sono io...sono tutta per te".
È il trauma più grande e sta all'inizio della vita, Chicco. È veramente una faticaccia nascere.
-Sì, vabbè, ma la morte sarà diversa: tutto in silenzio, tutto in pace.
-Dici? Secondo me avviene esattamente lo stesso che alla nascita. Prova a pensarci, Chicco.
Tu lasci la tua luce, i tuoi rumori, le tue puzze, i tuoi odori, con i quali hai convissuto decine di anni, che riconosci in un attimo...e sei nel nulla, nel vuoto, nel sottovuoto spinto, nel buio assoluto. Sei solo...senza il tuo corpo a difenderti...senza le tue forze a darti coraggio...vedi, senti, annusi e forse pensi...ma quel che vedi, che senti, che annusi è incredibilmente diverso da tutto quello che avevi immaginato.
-Allora?
-Allora non lo so, ma credo che i primi momenti saranno terribili, atroci. Forse schizzerai come un missile accanto ad altri morti in quel momento, che schizzeranno come missili verso di te, gli uni verso gli altri, a formare una nube, un pallone, un'entità, una massa in fuga nell'universo, tutti uniti per combattere il terrore.
Tacevamo entrambi. Pensavo di avergli messo addosso una bella strizza e volevo risollevarne il morale. Aveva una faccia cupa, sembrava un uccello trafitto in volo.
-Coraggio Chicco: hai tanto tempo davanti a te, sei così giovane.
-Stavo pensando a te, papà, quando dovrai combattere il tuo terrore.

È gratificante avere un figlio che ti dice una frase così bella.

Torniamo dalla piscina sudati, scottati dal sole e un po' incazzati perché i due gemellini strillano e fanno casino. AM li tiene a bada a fatica. Sara è esausta e già pensa che dovrà fargli il bagno e buttare tutti i panni in lavatrice. Chicco trotterella accanto a me portando la gran parte dei pacchi e due sdraio.
Io porto le altre due sdraio e sono un uomo felice.


DE AMICITIA

L'amicizia è un albero antico. Non si sa quando sia nato, né dove.
Di giorno offre ombra se c'è il sole cocente, riparo se c'è pioggia battente o vento devastante.
Di notte dà luce, perché è fornito di luce propria, che nessuno sa da dove venga, ma che c'è sempre.
Ci si ritrova tutti intorno all'albero luminoso dell'amicizia di notte. quando il buio è più fitto. Ci si tiene per mano tra amici, per prendere coraggio, per dare coraggio, per scambiarsi calore, e sudore e odore della pelle.

Quando due persone si incontrano sotto quell'albero per la prima volta, due uomini, due donne, un uomo e una donna, una donna e un uomo, avviene come quando nasce un pulcino. Qualcosa picchietta il guscio dell'uovo dall'interno e poi il qualcosa lo spacca e tira fuori la testa. Non si sa mai in anticipo se sarà bianco, o giallo, o nero oppure maculato. Non si sa mai se sarà un maschio o una femmina finché non arriva il sessatore a fare selezione e chiarezza, con una tolleranza di errore sotto il 2% se è bravo.
Contemporaneamente in un posto remoto e misterioso di una galassia sconosciuta e invisibile ogni volta che nasce un'amicizia si odono suoni di campane e squilli di tromba.

Ma è difficile navigare per le vie dell'universo senza scontrarsi con venti contrari, correnti sconosciute anche agli scienziati più evoluti, l'odio e l'invidia quelle più forti. Correnti che arrivano a sabotare batacchi e corde delle campane, che tirano palate di merda dentro le trombe. Campanari ricevono allora frantumi di campane sulla testa, trombettieri ingozzano merda.
Intorno all'albero dell'amicizia di notte si fa allora più buio. Per ogni amicizia che barcolla diminuisce la luce. Se non si riparano subito le campane, se non si puliscono le trombe L'amicizia, una amicizia qualsiasi in qualunque posto o paese essa si trovi, vacilla, cade e può morire.
Allora anche quell'albero non riesce a dare più luce sufficiente e rischia di morire, lentamente, come una cosa inutile.

QUARANTA PEZZI DA CINQUECENTO

Un anno fa, proprio di questi tempi, nella soffitta che ho usato per tanti anni come atelier ho distrutto l'ultimo mio quadro, un acrilico 150 x 150, che avevo dipinto qualche giorno prima in appena due ore.
Dice che si chiama arte gestuale quella che si ottiene con ampie pennellate ad apertura di braccia.
Un cielo blu, o qualcosa di blu su in alto, una fascia rossa terra di Siena bruciata a metà della tela, ancora fasce di azzurro e rosa a chiudere, giù in basso.
Si chiama arte gestuale. Non bisogna pensare, solo muovere il braccio lungo la tela. E basta.
L'ho fatto a pezzi. Perché mi faceva schifo.
Sentivo che quella era la fine di un amore tempestoso, mai completo, mai compreso tra me e la pittura, tra me e l'arte. Un amore durato quarantacinque anni.

Al contrario di tutte le relazioni umane che vanno a male, la fine di questa non mi ha dato amarezza, ma un senso di pace, un "grazie a Dio mi sono liberato di questo peso". Era diventata da anni una sofferenza, infatti. Non mi rendeva più felice. Dipingevo velocissimo, non vedevo l'ora di finirlo il quadro. Come quando non ami più una donna, o meglio quando non la desideri più ma pensi di amarla ancora in qualche modo e ci vai lo stesso a letto insieme, ma cerchi di finirla in fretta in modo che lei poi si addormenti, soprattutto perché non ti capiti qualche abbattimento di tensione, che faccia capire alla donna come stanno le cose. Non è bello che lei lo capisca, e poi non ti lascerebbe più in pace.
Con la pittura è stato diverso: lei non si è lamentata, non ha pianto; le tele inconsumate stanno tutte lì nella soffitta, appoggiate bianche e nude a una parete per quanto è lunga, perché sono tante e grandi. Difficile da svenderle così montate su telai, infatti quegli enormi formati non possono interessare nessuno; dunque occorrerà smontarle e arrotolarle insieme per tentare di sbolognarle sotto costo a qualche pittorello dilettante.
Bene! Chiuso, finito, morto e sepolto. Ma perché tutto a un tratto? Perché da anni mi ripetevo, pasticciavo e ci giravo intorno. Non c'è niente di più triste di un artista alla frutta, peggio al digestivo. Ricordo gli ultimi trenta o quaranta quadri di Picasso, che disperazione! La caricatura di sé stesso. Tranne l'ultimo, intitolato postumo "femme nue couchée et tête", un vecchio dipinto del 25 maggio 1972, che Picasso aveva per circa la metà spalmato di bianco il 7 aprile 1973 per finirlo l'indomani, ma al mattino morì.
Solo perché incompleto è così bello e tragico.
I miei ultimi trenta o quaranta quadri mi fanno schifo. Li tengo arrotolati in soffitta; li ho staccati dai telai per non guardarli.
Ecco perché ho smesso e mi sono subito sentito bene, migliorato, liberato.

Benissimo, ho pensato; adesso smonto tutto e affitto la soffitta a ore a questi gruppi rock di giovani scassacazzi, che vogliono fare musica e hanno bisogno di provare le cose loro in un ambiente ampio e insonorizzato, e la mia soffitta è ampia e insonorizzata.
Mi è sembrata una buona idea, così mi sono messo subito al lavoro per ripulire tutto il sudiciume di anni di schizzi di colore, di colle e di soventi; e poi creare lo spazio necessario agli scassacazzi.
Mentre mi trovavo inzaccherato e lercio, fetente di sudore, sentii salire sull'ultima rampa di scale, che porta solamente alla mia soffitta, qualcuno che picchiettava sui gradini con due piedini leggeri sospesi su altissimi tacchi a spillo (si sente, si sente, e come si sente).
Cristo! Ho pensato; arriva una bellissima e io puzzo.
Ne ho atteso l'ingresso spavaldo immaginandomela come non poteva che essere: altissima, biondissima, bellissima, coscia infinita, bocca carnosa e lasciva.
Cinque o sei scalini prima della porta me ne è arrivato il profumo: Chanel numero 5, vuoi mettere!
No ha bussato, ha aperto e regalmente è entrata: una stupenda femmina di Labrador dal manto bianco a pelo raso, muso lungo e intelligente, con al guinzaglio di vernice rossa una donna, che certamente era bellissima, ma piccola, bruna e cinese.
Andò in ogni angolo, seguendo il suo cane. Guardò compiaciuta le grandi tele già pronte appoggiate alla parete di fondo.
-Mi occorrono alcuni quadri -disse, tirando a sé il Labrador.
Chi lo avrebbe mai detto che avrei venduto un quadro proprio adesso, pensai.
-Ho parecchia roba qui; se mi dice le sue preferenze, che so, figure, nature morte, paesaggi -le dissi avvicinandomi alla grande scaffalatura di legno che occupava tutta una parete, dove tenevo i quadri finiti ed asciugati.
-No, no -mi interruppe- niente roba vecchia. Io voglio quattro quadri nuovi, che lei dipingerà per me.
E poiché ero rimasto a guardarla a bocca aperta, continuò spiegandomi le sue intenzioni.
-Lei mi fa quattro ritratti per la mia nuova casa di campagna. D'accordo?
Provai ad evitarmi quel tormento.
-Non è possibile.
-Cosa non è possibile? Glieli pagherò bene i suoi quadri.
-Non è una questione di soldi; io non dipingo più, signora.
-È questo che non è possibile: un pittore non smette mai di dipingere; solo quando è morto smette.
Come cavolo facevo a spiegarle che mi sentivo arrivare la merda fino alle orecchie quando prendevo un pennello in mano?
-Ho dei problemi...personali, e poi non sono un ritrattista...non ho tempo per le pose...né la pazienza. Se li immagina io e lei chiusi qui dentro a posare per settimane, per trovare le giuste espressioni del viso...no, no signora, rifiuto. Negativo.
-Io non vengo qui a posare, come dice lei, nemmeno per un minuto.
Aprì la sua borsa e ne estrasse un pacco di foto formato 18 x 13.
-Due quadri li voglio col mio cane, come queste due foto; gli altri due da sola, a figura intera, in piedi naturalmente, e qui può trovare tutte le espressioni del mio viso, quando rido, quando sono pensierosa, quando sono ironica, quando sono sorniona, tutte. Scelga lei.
-Naturalismo assoluto, copie fotografiche, insomma. Un delirio! -esclamai.
-Non esattamente copie fotografiche -rispose.
Tirò fuori dalla borsa un libretto illustrato e me lo porse. Lessi il titolo: "Gustav Klimt, die Wiener Secession und der Jugendstil". Oh Dio! Pensai. Che vuole questa da me? Odio il Liberty.
Come se mi avesse letto nel pensiero la cinese aggiunse:
-Sono molto amica di Olga Borg e frequento il suo bel locale il "Lord Pub". Ho visto lì appesi i due quadri che lei ha dipinto su commissione per Olga. Bellissimi. I miei quattro li voglio proprio così.
Ricordavo benissimo quei due quadri e la fatica che mi erano costati. Più che altro erano un assemblaggio di elementi presi da quadri di Klimt, spudoratamente copiati. Un orrore; ma Olga me li aveva pagati tremila marchi l'uno e io in quel momento avevo uno schifoso bisogno di soldi.
-Si è trattato di due unicum -obiettai- nel senso che non ne avevo mai fatti e mai ne rifarò.
Fece un sorrisetto beffardo.
-Le darò cinquemila euro per quadro. Fanno ventimila euro. Non si trovano per terra tutti 'sti soldi.
La guardavo in silenzio. Non sapevo che dire, ma mi sentivo tanto triste.
-Bene, ci siamo capiti. Grandi come quelle tele appoggiate al muro, mi raccomando. Quando li avrà finiti me li porterà a questo indirizzo -concluse lasciandomi un biglietto da visita.
Uscì come era entrata, preceduta dal suo meraviglioso cane. Quando il ticchettio dei suoi tacchi a spillo si fu perduto sedetti sopra una sedia per riprendere fiato. Per lo meno non dovevo smontare tutte quelle tele.

La prima cosa razionale che feci fu telefonare a Olga. Mi attaccò un bottone di mezzora, ma alla fine sapevo quel che mi interessava.
Liù, nome vero o d'arte poco importa, non era cinese, ma nata a Kyoto, per cui giapponese; era sposata con un magnate dell'edilizia nel mondo che conta, ricco da crepare, trentacinque anni più vecchio di lei, che la ricopriva di regali. Ogni desiderio di Liù era un ordine, per cui possedeva sette cani di razza, più di duecento quadri d'autore. Le ville, gli appartamenti e i gioielli non li contava ormai più.
-Ventimila euro? Li hai già in tasca. Piantala di lamentarti e dipingile 'sti quadri perché ti stai scavando un pozzo di petrolio in casa. Tu non hai idea di quanti soldi può buttare in un giorno. Datti da fare, bello!
Ottimo consiglio: sui soldi non si sputa, anche a costo di lavorare con la porta del cesso aperta per andare a vomitare ogni volta che mi sarebbe venuto su. Ma mi sentivo una gran puttana.

La seconda cosa razionale fu di recarmi al Teatro di Stato dove avevo lavorato per dieci anni come pittore di scena, e dove contavo ancora tanti amici, a cominciare dal capo deposito. Fu lui a fornirmi a costo zero tutta una serie di colle e pigmenti d'oro, d'argento e di bronzo indispensabili per quello schifo di pittura piena di arzigogoli. Se avessi dovuto comprarli in un negozio d'arte in quella quantità mi sarebbero costati un occhio della testa. Ottenni perfino quattro dosi da mezzo litro di lacca essiccante: un attimo per spruzzarla e due ore dopo tutto asciugato e pronto per la consegna.
Adesso dovevo scegliere le foto e non fu una gran fatica: la tipa di Kyoto era fotogenica e per niente difficile da ritrarre. Una foto poi ha i suoi vantaggi: quando l'hai fermata sopra una superficie con due puntine da disegno non si muove come una modella in carne e ossa, puoi tenerla lì tutto il tempo che occorre, perché una foto non beve, non mangia, non piscia e non deve dormire.
Per i soggetti imitai -mi vergogno come un ladro a scrivere copiai- i tanti quadri in cui Gustav ritrasse la sua amante, quella Emile Flöge che a Vienna in quei tempi era una specie di Donatella Versace. Aveva un salone di alta moda e una figura splendida.
Tre settimane dopo allineai i quattro quadri 180 x 120 lungo una parete in piena luce. Li osservai a lungo: poi mi diedi una pacca sopra una spalla. Ottimo lavoro, perdio! E non ero mai dovuto correre al cesso per vomitare, come temevo. Un successone!

Affittai un furgone Mercedes, vi caricai dentro due gabbie fatte di tavole di legno incrociate, che lasciavano libero uno spazio minimo dove le tele, due per gabbia, si andavano a incastrare. Un lavoretto da professionisti. Mi misi al volante e partii, non prima di aver preavvisato il mio arrivo con una e-mail.
Il cancello che dava sulla strada si spalancò davanti al muso del Mercedes, dovetti solo scalare in seconda.
Davanti all'ingresso della villa mi aspettavano due uomini aitanti in tuta grigia: li battezzai giardinieri, ma va a sapere quali fossero le loro mansioni. Portarono via gabbie e tutto.
Mi venne incontro una signora ancora giovane e molto elegante con un grande sorriso stampato sulla faccia.
-Mi chiamo Ursula Pfefferle; sono la segretaria di madame Song.
Senza neanche stringermi la mano mi consegnò una busta.
-Questo è il suo onorario. Se vuole controllare.
Contai quaranta pezzi da cinquecento. Era quanto pattuito.
-Tutto in ordine? -chiese Ursula Pfefferle- Allora buona giornata.
-Non devo firmarle una ricevuta?
-No. Buongiorno.
Se ne andò, piantandomi nell'atrio.
Dopo un po' viaggiavo verso il parcheggio della ditta dove avevo affittato il furgone, e mi sentivo straordinariamente allegro. Pensavo al pozzo di petrolio che avevo scavato nella mia soffitta.

Nei dieci mesi successivi, però, non ho ricevuto nessuna visita da parte di madame Song con o senza Labrador, né telefonate, né e-mail. Silenzio polare.
Non ho nemmeno tentato di telefonare a Olga per sapere quel che combinava la sua amica. Devo confessare che ogni mattina accendendo il PC ho cercato nella posta elettronica in arrivo che uscisse fuori in fondo in neretto il nome di Liù Song. Niente.
Ieri pomeriggio, per caso (bugia, bugia) sono passato davanti alla cancellata d'ingresso di Villa Song. Ne usciva in quel momento un camion di una ditta di traslochi. Il cancello automatico rimaneva aperto, allora ho imboccato il vialetto. C'erano altri uomini aitanti in tuta grigia, che spostavano casse.
-Traslochiamo -mi ha detto il più loquace- la signora è andata via da più di un mese.
Volevo chiedere degli oltre duecento quadri; volevo anche chiedere dei miei quattro quadri, ma io non sono così sfacciato, e poi le opere d'arte si trasportano sempre per prime. Cosa ne poteva sapere quell'operaio?
Ho percorso tutta la facciata a piccoli passi e proprio dietro l'angolo c'era un grosso contenitore, che nei traslochi serve sempre per ammucchiare immondizie, stracci e cose che si vuole distruggere, che non servono a nulla, che nessuno vuole più.
Mi sono alzato sulla punta dei piedi per guardarvi dentro e li ho visti: distrutti, a pezzi, come il mio acrilico 150 x 150 di pittura gestuale. Tra i pezzi dei telai e delle tele strapazzate usciva fuori il muso di un Labrador che guardava in alto verso il viso della padrona, il viso di Liù. Ma qualcuno aveva tagliato via quel pezzo e di Liù si vedeva solo una mano, che reggeva un guinzaglio di vernice rossa.
Sono tornato rapidamente alla mia auto e me ne sono andato. Mi sentivo furioso e mortalmente addolorato, come se mi avessero ammazzato il mio miglior amico.
Ho guidato fino a notte, senza meta; poi sono ritornato a casa e mi sono infilato sotto le coperte senza toccare cibo, perché avevo lo stomaco chiuso.
Dopo un po' per fortuna sono crollato nel sonno.




venerdì 21 maggio 2010

HA VISTO IL MIO GATTO ?

Ecco il vantaggio di avere un appartamento al pian terreno, pensò Adolfo G. chiudendosi la porta dietro le spalle. Cercò di attraversare la calca di gente in attesa dell'ascensore, sorridendo bonariamente un po' a tutti quei poveracci dei piani superiori.
Un bel vantaggio, oltre a quello di avere dentro casa la scala di accesso al garage, che stava proprio sotto lo stanzone che avevano adibito a salotto e sala da pranzo. Quella scala ce l'avevano soltanto loro. L'aveva fatta costruire Adolfo G. un anno dopo aver comperata quella casa, in primavera, quando aveva veduto quello che succedeva d'inverno sulla maledetta rampa esterna di accesso al pianerottolo: ghiaccio da spaccarcisi sopra l'osso del collo e freddo boia. Una manna per Filippo G., suo padre, sempre carico di reumatismi; ma andava malissimo soprattutto per Benedetta G., sua madre, sempre morta di freddo. Suo padre era un pensionato dello stato, ma lei a quei tempi lavorava ancora negli uffici del notaio Colasanti, in piazza dell'Orologio, e aveva bisogno della macchina tutte le mattine alle sette e mezza. Doveva correre a prendergliela lui, che tanto non doveva andare in nessun posto; e poi rimetterla nel garage ogni sera quando lei ritornava. Una bella rottura, niente da aggiungere, e quella scala interna era stata la soluzione del problema.
Uscì dal portone e attraversò la strada dirigendosi alla minuscola tabaccheria di fronte per comprare i quotidiani due pacchetti di Marlboro.
-Brenno, Brenno! Dove ti sei infilato?
L'anziano tabaccaio era fuori dalla porta del negozio.
-Ha visto il mio gatto? -gli chiese appena gli fu vicino- Non lo trovo da ieri.
Avrà incontrato una micia, pensò Adolfo G. e glielo disse.
-È già capitato, ma di notte torna sempre a casa.
Il tabaccaio e sua moglie erano due vecchietti, quel gatto se lo tenevano come un figlio, pensò Adolfo G. e frenò sul nascere la risata di scherno che gli stava venendo su.
-Tornerà, tornerà: non gli è sicuramente successo niente, stia tranquillo.
Ma il vecchietto non sembrava così sicuro. Mentre riponeva in cassa i soldi delle sigarette chiese con un diverso tono di voce.
-Come sta sua madre adesso?
-Sta molto meglio, sta molto meglio, grazie. L'aria di montagna è molto più buona di quella che abbiamo in città e la clinica la conosciamo bene.
-Sta nella stessa clinica dove è ricoverato suo padre, il signor Filippo, non è vero?
-Certo, certo: siamo ottimi clienti ormai da più di un anno e mezzo.
-Speriamo che si rimettano e che tornino presto -aggiunse il tabaccaio- almeno sua madre. Anche per Brenno, sa? Da quando è andata via la signora Benedetta non sta più tranquillo e la cerca sempre. Le è molto affezionato Brenno.
-Anche mia madre a lui -rispose Adolfo G. prontamente.
-Sì, sì. I gatti riconoscono per istinto le persone che gli vogliono bene, e sua madre ama i gatti.
-Stia tranquillo che Brenno presto ritorna -disse Adolfo G. accomiatandosi- appena avrà finito con la sua micia.
Riattraversò la strada, discese la rampa e aprì il garage. Mise in moto il suo fuoristrada BMW X5. Uscì dal garage, che richiuse accuratamente a chiave. Salì la rampa e si avviò al più vicino centro commerciale. Aveva urgenza di acquistare alcune robe.
Quando dopo un'oretta ritornò ridiscese la rampa fermando la BMW di fronte al garage. Lasciò il motore acceso e scese per aprire la porta. Brenno venne giù dalla rampa di gran carriera; gli passò tra le gambe miagolando e si fermò davanti alla saracinesca ancora chiusa.
-È venuto fuori dal suo garage quando ne è uscito lei poco fa -gli gridò il tabaccaio dalla strada- è stato tutto il tempo chiuso lì dentro mentre io lo cercavo dappertutto. Non ha nemmeno mangiato. È corso di nuovo davanti all'ingresso del garage miagolando, come adesso.
Era intanto disceso anche lui ed ora sostava in attesa come il suo gatto.
-Ho sentito un odore strano venire da dentro -disse, tirando su col naso- ci deve essere qualcosa che è andata a male.
-È vero -gli rispose prontamente Adolfo G.- Mia madre aveva comprato due prosciutti cotti, ma io me ne ero dimenticato. Credo che abbiano perduto il vuoto, comunque sono andati a male e puzzano. Volevo portarli via oggi stesso.
-Se vuole darli a me, ci penserò io -si offrì il tabaccaio.
-La ringrazio, ma non occorre; lo farò io più tardi.
Tirò su la saracinesca, ma prima aveva preso in braccio il gatto.
-Si riporti a casa Brenno, non voglio che si perda di nuovo.
Il tabaccaio rimase nel cortile, impalato col gatto in braccio mentre l'altro entrava col fuoristrada.
-Buona giornata a lei -disse Adolfo G. piuttosto bruscamente, tirando giù la saracinesca dall'interno.
Chiuse a chiave e salì la scala entrando in casa.

Per quasi un'ora Adolfo G. non fece altro che misurare l'appartamento in lungo e in largo, passando dalla finestra della camera da letto dei genitori, da dove, attraverso le fessure delle tapparelle quasi completamente abbassate riusciva a vedere la tabaccheria di fronte, alla finestra della sua stanza, che dava sul cortile. Era curioso di vedere cosa avrebbero combinato Brenno e il suo padrone.
Il gatto piantonava ancora la saracinesca chiusa, emettendo strazianti miagolii. Il tabaccaio lo aveva chiamato più di una volta; poi si era fatto portare il cellulare da sua moglie, e adesso stava parlando fitto fitto con qualcuno. Non perdeva mai d'occhio Brenno.
Sta parlando del gatto e di come si comporta, pensò Adolfo G.
Aveva comunque visto abbastanza. La piantò lì: aveva diverse cose da fare.
Un attimo dopo scendeva giù per la scala. Accese la luce interna; aprì il portabagagli della X5 e ne tirò fuori tutto quel che aveva acquistato, deponendolo sui ripiani di uno scaffale; tutto, meno una confezione di sacchi di plastica, che piegò e mise in una tasca.
Aprì poi una cassapanca appoggiata alla parete di fondo: ne estrasse un voluminoso involto di tela e fogli di plastica legato con una robusta corda e lo depose nel portabagagli. Raccolse dalla cassapanca altri tre oggetti impaccati dentro sacchi di plastica, li mise accanto al primo e chiuse il portellone.
Salì di nuovo la scala. Entrò nella cucina e aprì il frigorifero. Tolse un oggetto da dentro il congelatore, che infilò in un sacco di plastica tolto dal pacco che teneva in tasca.
Con quel sacchetto in braccio discese i gradini e tornò nel garage. Depose il sacchetto sul sedile accanto al suo. Spalancò la porta del garage disinteressandosi che Brenno fosse entrato: non avrebbe potuto far niente di male. Mise in moto e uscì fuori senza richiudere la porta del garage, così il gatto ne sarebbe potuto riuscire, una volta finita la sua ispezione.
Fece la rampa e si inserì nel traffico. Non rallentò nemmeno passando davanti al vecchio tabaccaio, che si sbracciava facendogli cenno di fermare. Notò solamente che aveva fatto una faccia strana.

Trovò la tangenziale ovest sorprendentemente libera a quell'ora; la percorse per una decina di chilometri a velocità sostenuta, rallentando solo alla postazione fissa del radar; aveva già beccato una lampata la settimana precedente e non aveva bisogno di una seconda.
Prese la prima provinciale che portava al mare, quella che conosceva meglio perché già tante volte c'era stato. La percorse fino al curvone di fronte alla scogliera di Sant'Agostino. Lì abbandonò la provinciale per lo stradello in terra battuta che portava fino al costone di roccia, un burrone di una cinquantina di metri a picco sul mare, dove d'estate bivaccavano gruppi di giovani sballati che tiravano mattina facendosi canne e suonando le loro chitarre. All'inizio dell'inverno non c'era più nessuno. Come quella sera, appunto.
Avanzò sobbalzando sulle lastre di granito fino a pochi metri dallo strapiombo. Spense il motore e tirò il freno a mano.
Non voleva scendere, non se la sentiva di abbandonare il guscio protettivo della sua auto. Si allungò all'interno, scavalcando il suo sedile. Ribaltò gli schienali posteriori e trasse dal portabagagli l'involucro più grande e meno maneggevole. Dovette contorcersi per issarlo sopra il sedile accanto al suo, dritto secondo la lunghetta.
Nella confusione dei movimenti era caduto sul tappetino il pacco più piccolo, quello che aveva tirato fuori dal frigorifero. Lo raccolse immediatamente e se lo mise in grembo.
Sedette di nuovo tranquillo al posto di guida; abbassò lo schienale di tre tacche e vi si allungò. Fissava l'orizzonte e la strana fusione di colori che vedeva: il blu scurissimo del mare, una striscia di nuvole basse e plumbee appoggiata proprio sulla linea dell'orizzonte, e sopra l'amaranto cupo del cielo con qualche frangia dorata tra nuvola e nuvola.
Ma uno strano torpore si era impossessato di lui: Adolfo G. non individuava forme, non seguiva linee, non vedeva colori, non vedeva nulla perché ciò che i suoi occhi carpivano non arrivava a sollecitare nel suo cervello nessuna reazione. Adolfo G. si era chiuso nella commiserazione di se stesso, come da qualche tempo gli capitava ogni giorno, ogni ora, ogni volta che lasciava i suoi pensieri in libertà.
Cominciò a tirare su col naso prima ancora che gli si inaridisse la gola. Così, come quando era bambino: tirate su col naso, gola che si seccava e poi lacrimoni in abbondanza. Tutto questo non avveniva più automaticamente adesso, perché malgrado la gola gli si stringesse le lacrime non uscivano. Serrò gli occhi come due fessure e mugolò tra le labbra continuando a tirar su col naso finché si accorse che il viso, il collo e il petto gli si erano rigati di lacrime.
Con movimenti convulsi aprì la busta di plastica che aveva in grembo e ciò che ne estrasse se lo strinse al petto singhiozzando forte. Bagnò di lacrime, di muco e di saliva i capelli e le gote esangui di sua madre Benedetta.
Per un po' non successe niente altro. Terminò di lacrimare; tirò ancora un po' su col naso, poi basta; rimase in silenzio, immobile e il tempo si arrestò dentro il fuoristrada.
Finalmente ricominciò pian piano a muoversi: farfugliò delle parole incomprensibili, alzando continuamente il volume, perché aveva bisogno di ascoltare la propria voce, forte e chiara.

"Siamo qui, mamma...siamo qui. Ora non ti lascio più. Te lo avevo promesso...te lo avevo promesso quando è morto il babbo...ho mantenuto la promessa"
Carezzò la testa mozzata sui capelli, sulle guance, sulla fronte, con tenerezza.
"Tutte quelle bugie le hai inventate tu: la salute cattivissima del babbo...la clinica sui monti dove l'aria è eccezionale...le hai inventate tutte tu. Ma dovevamo dirle tutte quelle panzane...erano a fin di bene, mamma...c'era da finire di pagare il mutuo e se si dimezzava la pensione del babbo non ce l'avremmo mai fatta...ce l'avrebbero portata via la nostra bella casa, mamma"
Continuò a carezzarla. Aveva abbassato la voce, quasi sussurrava ormai.
"L'idea di seppellirlo nel garage l'hai avuta tu. Ho lavorato due giorni, ma ce l'abbiamo fatta. Lui era lì sotto, tranquillo, accanto a noi"
Tirò su col naso due volte.
"Io non ti avrei seppellita in nessun altro posto, mamma...ti avrei seppellita accanto a lui e sareste rimasti sempre insieme"
Carezzò la testa di sua madre.
"Mi dispiace tanto, sai, averti dovuto tagliare in tanti pezzi, mi dispiace proprio. L'avevo fatto anche con lui...lo spazio era ristretto...le costruiscono con troppo cemento le case questi delinquenti. Non potevo farvi una buca più larga e più lunga...mi dispiace così tanto...e sono così arrabbiato, mamma, così arrabbiato...perché sarebbe andato tutto liscio se non fosse stato per Brenno..."
Brenno, pensò; è stato la nostra rovina.
"È stata colpa tua: ti avevo detto di non farlo mai entrare in casa quel gatto, ma tu no, te lo saresti anche tenuto se non fosse stato per il tabaccaio, che lo amava come un figlio. Hai visto adesso cosa ha combinato?"
Maledetto gattaccio, pensò.
"È stata tutta colpa tua: perché non mi hai detto che stavi male? Non avrei mai immaginato di trovarti morta dentro il tuo letto l'altra mattina"
Tirò su con forza col naso.
"Che dovevo fare mamma? Mancavano solo otto rate...otto rate del mutuo maledetto, mamma"

Ora gli stava venendo su il magone. Strinse la testa con forza sul petto.
"Adesso che ci penso è stata sempre tutta colpa tua. Perché non ho mai lavorato io? Dillo, dillo! Ma perché tu volevi un figlio studente universitario in casa e lo hai avuto fino all'ultimo...io non sono mai stato il primo della classe e non sarei mai diventato un ingegnere come sognavate tu e il babbo...la matematica buona appena per giocare a scacchi...ecco...ecco, gli scacchi appunto...colpa tua anche lì...pensavi che sarei diventato un grande maestro internazionale, ma io vincevo solo all'inizio nei tornei regionali...non sono mai riuscito a prendere la prima norma...non ci sono mai arrivato...non ho mai vinto un torneo importante...troppe patte...in questi ultimi anni solo patte...solo patte...e tanti abbandoni"
Aveva ricominciato a piangere, sui suoi sogni perduti, sul suo infame destino.
"Mi dispiace di non avercela mai fatta...mi dispiace...ma almeno in casa ti ho sempre aiutato, non è vero? Non ho mai portato una donna...neanche adesso a 54 anni...e poi guidavo bene...voglio dire che guidavo piano quando c'eri tu perché avevi paura...ho sempre avuto riguardo per te e per le tue cose...anche per le tue manie...soprattutto dopo che è venuto a mancare il babbo"

Oramai all'orizzonte sopra la linea scura delle nuvole l'unica luce era un tenue viola che sfumava nel blu più profondo. Non gli fu difficile vedere riflesso negli specchietti retrovisori il roteare delle luci blu di due auto della polizia. Avevano appena lasciato la provinciale e preso la strada sterrata per arrivare fin dove stava lui.
Adolfo G. girò la chiave, premette il pulsante dello starter e ascoltò il rumore del motore per un attimo. Inserì la prima e tolse il freno a mano.
Quando le due macchine si fermarono a qualche decina di metri Adolfo G. premette il pedale del gas a tavoletta.





martedì 18 maggio 2010

IO STO CON GOLIA

Ho sempre provato una gran pena per Golia.
Pensate un po': quel poveraccio, grande e grosso, tutte le mattine metteva l'armatura, afferrava le armi e andava davanti al campo nemico a sfidare qualche guerriero, uno, dieci, cento, purché non tutti insieme, mentre i suoi compagni d'arme filistei si rigiravano nel letto, o giocavano a carte o si spidocchiavano.
E Golia a far su e giù davanti al campo degli israeliti, a battersi il petto, a sfotterli a far loro pernacchie. Ma quelli niente, rimanevano rintanati nei loro cantucci.
Sul far della sera Golia, stanco morto e affamato, tornava al suo campo dentro il suo immenso lettone e l'indomani tutto daccapo, inutilmente.
Finché una mattina una voce: "Vengo io. Tu aspetta lì fuori"
Meno male, pensò Golia, e cominciò ad aspettare. Pensava di veder arrivare un cristone, non dico come lui ma almeno bello grosso, muscoloso e ben armato. Invece gli arriva davanti un moccioso a piedi scalzi con una fionda in mano.
Non è giusto! Golia aveva il diritto di scontrarsi con un guerriero maturo, non con un ragazzino.
Quello era un duello impari: il ragazzino aveva già vinto prima di incominciare; Golia aveva già perduto prima di alzare un braccio. Infatti se perdeva l'altro gli avrebbe tagliato la testa e addio mare, se invece vinceva perfino i suoi compagni lo avrebbero preso a fischi e pernacchie per aver battuto un bamboccio.
Guardate l'iconografia: Davide è sempre bello e in piena luce; Golia invece è brutto, goffo con in faccia l'espressione del mafioso.
Era troppo grosso Golia, troppo rozzo, troppo lento, troppo tutto per poter vincere. E poi, nel vedersi davanti un ragazzino, era caduto in preda alla frustrazione, che gli impediva di pensare, di muoversi. Credete veramente che non abbia veduto Davide raccogliere la pietra da terra? Girare velocemente la fionda? Prendere di mira la sua fronte?
Gli bastava tirar giù la visiera, alzare lo scudo, fare un passo avanti con le sue lunghissime gambe e dare una botta di piatto col suo spadone sulla capoccia di quell'impertinente, e addio Dinastia di Davide, addio Gesù, addio Cristianesimo, addio Vaticano.
Ma Golia non fece niente: se ne restò fermo come un palo a beccarsi la sassata in mezzo agli occhi.
Che pena che mi fa, e che rabbia che mi fa quel cacacazzo di Davide!
Ci sto pensando da ieri, da quando è arrivata la notizia degli altri due militari italiani ammazzati in Afganistan.
La NATO manda truppe sceltissime con mezzi blindati studiati apposta, dicono tutti.
Studiati apposta per che cosa? Per far crepare gli equipaggi.
Ma a chi volete mettere paura? I Talebani sanno benissimo che non sparerete mai con la vostra schizzapiselli. E che ci fa quel disgraziato con mezzo busto che emerge dalla torretta davanti a una mitragliatrice che spara sempre dopo, sempre dopo che qualcuno è stato già ammazzato. Ha già la tomba disegnata in faccia quello lì.
Levate di mezzo quei Lince del cazzo! Mandateci i Leopard, i Centurion, gli M 90, bestioni da 70 tonnellate con corazzatura adeguata e personale al sicuro, al riparo. Così se i Talebani sotterrano mine per strada il carro non ne viene distrutto, al massimo perde un cingolo.
Ogni reggimento carristi ha una Sezione cosiddetta "carri sminatori". Sono 5 o 6 carri che hanno davanti applicate un paio di rotaie lunghe una decina di metri, che terminano con pesi metallici con cui premono sul terreno minato. Se ci sono mine magnetiche brillano al contatto col metallo; se ci sono mine a spinta, brillano appena sentono sopra di loro un peso superiore ai 100 chili. Dopo basta, finito e i carri passano indenni.
La volete vincere la guerra oppure fate finta, tanto c'è sempre qualche disgraziato che per un pugno di dollari o di euro decide di andare laggiù.
Ma il Vietnam non vi ha insegnato proprio nulla?

lunedì 17 maggio 2010

TRENTASEI MINUTI

Cosa sono trentasei minuti? La sessantasettesima parte di un giorno.
Cosa sono trentasei minuti nella vita di un uomo? Nella mia, arrivata a 27.856 giorni vissuti, rappresentano solamente una di un milione ottocento cinquantasettemila sessantasette parti. In cifre 1:1.857.067. In pratica quasi niente.
Mia madre ha avuto un travaglio di nove ore e dieci minuti per mettermi al mondo, quindici volte e mezza trentasei minuti.
Per morire ne occorrono maledettamente meno, come sanno i parenti dei pazzi del sabato notte. A volte maledettamente di più, come sa Eluana, che ha faticato anni per farcela.
Per vivere, trentasei minuti nessuno li caga. Quanti anni ha lei? Ti chiede la gente. Mica, quanti mesi ha lei? Mica, quanti giorni ha lei? Figuriamoci le rispostacce che si beccherebbe il cretino che andasse in giro a chiedere -magari ad una signora- quanti minuti ha lei, bellezza mia?
Eppure trentasei minuti a volte ti possono anche cambiare la vita, darle un altro significato, una svolta, una girata, una smaneggiata, una smucinata -come si dice a Roma- che bello, che bello, che bello 'sto dialetto!
Boni, state boni solo il dialetto ho detto, e basta.
Per esempio: una telefonata.
Stai bene; squilla il telefono. Tu parli, parli, parli per trentasei minuti e quando riattacchi ti senti il culo rattrappito dentro le brache diventate larghe.
Ti è andata male: sei fottuto. Sei rimasto solo.
Oppure il contrario.
Sei lì che giri di stanza in stanza coi coglioni miniaturizzati come capocchie di spillo e il culo umido e stretto come quella cosa delle vergini racchie, che non la molleranno mai perché nessuno mai gliela chiederà. Giri e rigiri in venti metri quadrati fino a farti venire il fiatone.
Quando il telefono squilla tiri su e nemmeno rispondi: resti muto tanto che l'altra pensa di aver chiamato un morto. Ma non sei ancora morto, è la gola che è secca e se non ci soffi dentro il piffero non suona.
Cominci a parlare, a parlare, a parlare; mano a mano il fiato arriva copioso, il tono si alza, il ritmo cardiaco da tempestoso a variabile a normale a ringalluzzito.
Trentasei minuti dopo riattacchi, ma in effetti non stacchi più: continua, continua e continua all'infinito sta telefonata. Continua la vita, molto più bella di prima, di ieri l'altro, di ieri, di stamattina, di qualche ora fa, di trentasei minuti fa.
È così bella la vita; è così semplice il mondo; è così caldo il sole anche se fuori piove e tuona, perché tu ce l'hai dentro il cuore il tuo sole.

domenica 16 maggio 2010

CONTINUO SE VI PIACE

Visto che i miei racconti inediti piacciono provo a continuare, almeno finché troverò commenti interessanti.
IL prossimo si intitola:


SANGUE MARCIO


La giovane donna si sporse, spingendo la testa oltre il punto in cui il sentiero d'improvviso terminava. Finito di botto. E adesso uno sterrato ripidissimo di quattro o cinque metri per poi ricominciare giù in basso con uno stradello striminzito, visibile a malapena tra erbacce, sassi e radici di alberi. Come un percorso per giovani esploratori o per la caccia al tesoro. Ma perché cavolo fanno i sentieri nei boschi se poi non ci va nessuno?
Da tre ore camminava senza incontrare anima viva, senza un rumore, senza un odore, senza una puzza.
Il cervello farraginosamente le si rimise in moto: c'era da affrontare lo strapiombo e lei proprio quella mattina aveva indossato un paio di stupide scarpe da ginnastica di tela nera e lasciato a casa le Nike nuove. E niente jeans, solo un vestitino a fiori con gonna a mezza coscia; mezza coscia nuda, come il resto delle gambe, naturalmente. Roba da matti.
Provò con la punta di un piede la solidità del terreno: scarsissima, quasi nulla, come previsto. Meglio scendere coi talloni a squadra cercando di non scivolare sulle chiappe per via dei non jeans appunto: solamente vestitino e mutandine di seta, e pelle delicata sotto. Peccato non saper bestemmiare.
Si fermò di colpo, girandosi a guardare indietro da dove era venuta. Aveva sentito...che cosa? Nemmeno un alito di vento, solo il suo fiatone e forse il cuore che incominciava a correre.
Poggiò per primo il piede destro, di taglio; poi cautamente il sinistro, poi basta perché venne giù come su uno scivolo senza muovere un passo. Un successo straordinario, se non fosse stato per i piedi, che adesso sguazzavano nel terriccio che le si era infilato nelle stupidissime scarpe di tela. Che stronza era stata ad indossarle.
Sedette su quella specie di sentiero ritrovato e iniziò l'operazione svuotamento scarpe storcendo il naso: i piedi scalzi erano bagnati, impastati di terra e di sudore, e già puzzavano troppo a suo giudizio. Chissà che tanfo quando sarebbe arrivata a casa.

Il giovanotto scostò un ramo con un gomito rimanendo accosciato tra la vegetazione. Estrasse dalla custodia un binocolo militare e lo puntò sulla donna seduta a terra, distante poco più di un centinaio di metri in linea d'aria, leggermente più in basso rispetto al punto dove si trovava lui.
Svuotava le sue scarpe e se la prendeva comoda. Adesso sembrava si stesse spidocchiando, grattandosi tra i capelli e sotto le ascelle. Continuò a grattarsi qua e là. Effetto del sudore e della polvere, pensò il giovanotto. Capitava sempre anche a lui: se cammini non è niente, ma se ti fermi sei fregato, e lei si era fermata.
Zumò al massimo scendendo dalla testa alle spalle per fermarsi sulle cosce completamente scoperte; cosce lunghe da animale selvatico. Intravide un lampo nero nel mezzo: mutandine nere. Che scelta, ragazzi! Lui adorava gli indumenti intimi di quel colore.
Si stava allacciando le scarpe di nuovo indossate.
Il giovanotto scrutò in basso cercando di intuire in quale direzione portava il sentiero della ragazza. Scendeva in basso per qualche centinaio di passi per poi risalire leggermente. A quel punto doveva esserci un bivio, se ricordava bene: una via si arrampicava verso l'alto piuttosto ripidamente rientrando nel bosco, un'altra scendeva verso il ruscello, che lui da dove si trovava riusciva già a vedere.
È stanca, pensò il giovanotto; si intuiva dalla lentezza dei suoi movimenti. Cinque a uno che scende al ruscello.
La ragazza si era rimessa in piedi e si stiracchiava. Poca voglia di andare avanti, vero? Pensò lui. Ma indietro non torna quella lì, non è il tipo.
Finalmente lei si mosse, dopo essersi guardata alle spalle più volte. Camminava più lentamente di prima, continuando a girarsi di tanto in tanto.
Teme un agguato, pensò il giovanotto; oppure comincia ad essere stanca.
Non era più baldanzosa come un paio di ore prima, quando l'aveva vista la prima volta e da allora iniziata a seguire, sempre tenendosi a dovuta distanza.
Non ha rallentato solo perché è stanca, ma forse adesso incomincia ad avere paura, pensò il giovanotto. Paura di che? Di niente e di tutto, del silenzio soprattutto. Sogghignò. Introdusse di nuovo il binocolo nella custodia, si alzò in piedi e iniziò a scendere verso il ruscello.

La ragazza scendeva lentamente poggiando ogni volta i piedi con cautela. Pisciavano sudore ad ogni passo dentro le stramaledette scarpe di tela e lei sapeva che in quelle condizioni rimediava sempre vesciche schifose, che le duravano due o tre giorni. Non solo aveva sbagliato scarpe, ma non aveva indossato calze di lana e sentiva la pelle nuda delle piante dei piedi scivolare sulle ruvide solette interne. Eh già! Le calze di lana stavano dentro le Nike, ti pareva! Che idea del cazzo le era venuta quella mattina.
Il sentiero ballonzolava un po' qua e un po' là e sembrava non decidersi a prendere una direzione precisa. Dopo un centinaio di passi se lo trovò davanti diviso in due: un ramo ben tracciato e apparentemente il più frequentato puntava verso l'alto e si infilava di nuovo nel bosco; un altro appena visibile scendeva a valle. Dovevano essere pochi quelli che ci passavano, pensò la donna. Una sua idea, niente altro, ma era più comodo e scelse quello. In verità non aveva tanta voglia di rinfilarsi nella vegetazione più folta. Una sua sensazione, ma lei era una che agiva di pelle, di istinto, e alle sensazioni dava ascolto sempre.
Dopo un po' cominciò a sentire lo sciabordio di un corso d'acqua: il tipico rumore che fa l'acqua quando taglia veloce il suolo facendosi strada tra i sassi. Pensò con sollievo ad acqua freschissima dove avrebbe potuto immergere i suoi poveri piedi e affrettò il passo.

Il giovanotto sogghignò di nuovo. Aveva previsto giusto: la ragazza non aveva più tanta voglia di faticare e aveva scelto di rimanere allo scoperto. Adesso lui doveva tagliare verso il basso e arrivare alla riva del ruscello prima di lei. Era pronto a scommettere che avrebbe cercato di riguadagnare il bosco, lo schermo degli alberi. Chiamatelo intuito, ma certe cose si sentono.
Incominciò a correre, al diavolo se si accorgeva della sua presenza.

Ormai lo vedeva: acqua limpida senza schiuma dove guizzavano i raggi del sole, sicuramente gelata. Quello che ci voleva per i suoi piedi e non solo. Una gran voglia di infilarcisi dentro nuda.
Si arrestò di colpo.
Aveva sentito un rumore su in alto, o aveva creduto di sentirlo. Insomma c'era qualcuno non troppo distante da lei che reagiva ai suoi movimenti, infatti anche lui in quel momento era fermo.
Non poteva rimanere lì col naso in aria. Ricominciò a muoversi con cautela verso la riva del torrente, e una volta arrivataci allungò il passo. Una ventina di passi veloci con gli occhi attenti e i sensi tesi. Di nuovo aveva sentito il rumore di qualcuno che corre, su due gambe non su quattro.
La ragazza si fermò di nuovo e si girò, piantata a terra a gambe larghe come un pistolero nel West, e attese. Pochi secondi, poi vide apparire il bipede. Sembrava normale e innocuo, come tutti quelli della sua specie: alto, robusto, abbastanza giovane, calzoncini corti, cosce abbronzatissime, polpacci assai muscolosi, eccessivi. Dei polpaccioni, insomma.
Si era fermato a una cinquantina di passi e la guardava senza espressione, soprattutto senza quello stupido sorriso accattivante che la maggior parte dei maschi sfoggia quando vede una donna per la prima volta. Poi fece qualcosa che non aveva ancora visto fare a nessuno: tirò fuori da una custodia a tracolla un grosso binocolo e se lo portò agli occhi, mettendolo lentamente a fuoco.
Lei vide che lo spostava dal basso in alto e viceversa con accurata lentezza.
Sta studiandosi la merce, pensò. Controlla che tutto sia a posto e non troppo sciupato. Che vuole questo stronzo?
Non le ci volle tanto per capirlo.
Finito l'attento esame il bipede ripose il binocolo nel suo astuccio, rinviandolo dietro la schiena e immediatamente iniziò a correre verso di lei come un predatore affamato.
La ragazza non ci pensò nemmeno per un istante e spiccò un balzo, allontanandosi rapidamente dal ruscello. Cercava di rientrare nel bosco; pensava di potercisi difendere meglio. Era velocissima per natura e in salita sfruttava tutta la sua agilità e la sua leggerezza rispetto all'inseguitore così muscoloso, ma ad ogni metro sentiva l'altro farlesi sempre più vicino. Già le arrivava alle orecchie il suo ansimare.
Di mettersi a gridare nemmeno a pensarci: non c'era nessuno e magari sarebbe riuscita ad attivare altri concorrenti del predatore, che le fiatava forte dietro la schiena.
Correva e basta, a pochi metri dai primi alberi del bosco, ma l'uomo ormai aveva colmato il distacco. Arrivarono insieme, lei al primo albero, lui su di lei.
-Fermati zoccola! Dove corri?
L'aveva agguantata per un braccio. Lei si divincolò e si liberò con uno strattone, guadagnando un paio di metri.
Si infilò tra due tronchi giovani a tutta velocità, mentre la vegetazione e gli arbusti a terra le frustavano le gambe e i rami bassi il viso e le braccia che teneva protese in avanti. Per scansare un ramo più robusto degli altri abbassò la testa e chiuse d'istinto gli occhi. Non vide la buca davanti al piede d'appoggio e un momento dopo vi precipitò dentro fino al ginocchio. Il piede libero tirò fuori quello imprigionato sullo slancio, che però al primo contatto col terreno le fece vedere le stelle: una fitta dolorosa alla caviglia la costrinse a sollevare la gamba da terra. Si appoggiò con tutto il peso al tronco più vicino.
L'uomo le fu addosso in un attimo: le diede una manata tra le due scapole facendola stramazzare a faccia avanti.
-Brutta troia schifosa! Le urlò in un orecchio. Mi stavi fregando col tuo giochetto: l'ho vista all'ultimo istante, sennò mi ci spezzavo una gamba in quella buca del cazzo!
Se lo sentì addosso tutto intero: le aderiva come un vestito attillato. Con un gomito le premeva la nuca affossandole il viso nel terriccio. Non poteva nemmeno respirare. Agguantare aria con le narici o con la bocca era adesso il suo unico pensiero. Non si accorse che l'uomo con l'altra mano le stava tirando via le mutandine, o non gliene fregava più niente, tanto stava per morire.
Oh Dio no! Morire no! Non adesso!
Tirando fuori le forze della disperazione riuscì a sollevare la testa di quel tanto che bastava per ingozzare aria e riempirsene i polmoni, proprio mentre il suo aggressore le strappava via le minuscole mutandine.
La donna cercò di sfuggirgli: inarcò la schiena, scalciò, allargò le gambe sul terreno cercando una migliore presa per scrollarselo di dosso. Così facendo una o due volte alzò il sedere, mettendosi nella posizione più agevole per l'uomo.

Se la trovò sotto a gambe divaricate e culo alzato: uno scherzo penetrarla, visto che già da alcuni secondi aveva liberato la sua arma.

Il dolore fu acuto, violento: le strappò un gemito. Si immobilizzò, sperando così di tamponare il male. L'uomo la comprimeva da tutte le parti, esterne e interne. Lo sentì dondolare sulle sue natiche per pochi secondi e per l'eternità. Poi le schizzò dentro tutto il suo schifoso materiale.
Se ne sentì inondata e soffocata, come se l'avesse in gola al posto del respiro.

L'uomo diede gli ultimi colpi con forza e sgusciò fuori rovesciandosi sul dorso di fianco a lei. Aveva il fiatone e gorgogliava come un vecchio diesel.

Lei cercò subito di abbassarsi le vesti. Dovette venire molto su con la mano, perché gliele aveva tirate molto in alto. oltre la vita. Lui le fermò subito il braccio, stringendole il polso.
-Cosa fai? Non ho finito, ho appena incominciato.
Cosa vuole farmi? Pensò lei in un lampo di terrore. Mi ucciderà?
Quell'idea le si rattrappì dentro il cervello come un mostro pronto a balzarle al collo. Mi ucciderà. Mi ucciderà.
Con la sola forza della volontà si tirò sulle ginocchia tentando di mettersi in piedi per darsi alla fuga, ma non riuscì a sottrarsi alla presa ferrea delle manacce dell'aggressore.

Lui l'agguantò alla vita, la sollevò da terra e ce la scagliò di nuovo con violenza, godendo della smorfia di dolore della ragazza. La rovesciò sul dorso, tirandole di nuovo il vestito più in alto che poteva.

La donna si sentì soffocare con tutto il peso di quel bestione addosso. Era sfinita. L'aveva afferrata ai polsi e le teneva le braccia allargate come fosse in croce, fiatandole in faccia il suo alito pesante e schifoso. Le si dimenava sul ventre nudo: lei avvertiva la violenza del corpo dell'uomo che la schiacciava al suolo, sentiva la sua protuberanza cercare alla cieca in mezzo alle sue cosce.
Quando finalmente trovò il passaggio per raggiungere la sua anima ferita, vi penetrò con cattiveria mordendole le carni più segrete ancora più dolorosamente della prima volta.

Non ha il reggiseno, benissimo così! Le prese un capezzolo tra i denti mordicchiandolo. Gli stava arrivando alle orecchie il fiato grosso della ragazza, i suoi lamenti bassi, non proprio di dolore.
-Dimmi il tuo nome, le ansimò sulla faccia; dimmi il tuo nome, troia!
Lei farfugliò qualcosa.
-Non ho capito. Dimmi il tuo nome: voglio sentirlo forte e chiaro, troia!
-Paula, rispose con un rantolo.
-Impara il mio, troia: Gioacchino...Gioacchino, hai sentito?
Lei annuì.
-Pronuncialo forte il mio nome, perché mi piace.
La ragazza aveva rovesciato la faccia sulla sua sinistra cercando di tenerla lontano da quella dell'uomo. Le usciva muco dal naso.
-Dillo il mio nome, troia! Dillo forte.
-Non posso...non posso...
-Sì che puoi! Avanti! Gioacchino...Gio-ac-chi-no.
-Gio...ac...chi...no..., quasi esalando il respiro.

Lo sentì venire copiosamente dentro di lei.
-Gioacchino...Gioacchino..., continuava lui a ripetere nelle ultime contrazioni.
Finalmente le sembrò esausto, ma non osava muoversi, non osava provocarlo.

L'uomo che si chiamava Gioacchino si tirò sui gomiti e sulle ginocchia. Appena sentì il ritmo cardiaco tornato quasi normale si alzò e rimise in ordine mutande e pantaloncini. Non le diede mai uno sguardo, ma sapeva che non si era mossa di un millimetro. Si allontanò da lei a passi svelti senza mai voltarsi indietro. Quando uscì dal bosco correva.

La donna che si chiamava Paula aspettò che il rumore dei passi cessasse del tutto, poi si coprì e cercò di rimettersi in piedi. Rimase carponi un paio di minuti, puntellandosi con la fronte per terra. Quando fu dritta le venne su il poco che aveva mangiato e lo vomitò con robusti conati dolorosi. Se ne sporcò il vestito sul davanti, ma tanto si sentiva lurida dentro e fuori.
Tornò indietro per lo stesso sentiero da dove era passata poco prima, quando era ancora pulita.


Alle otto di sera, allungata sopra una comoda poltrona sotto una tenda a forma di pagoda in uno dei giardini dell'Hotel a cinque stelle dove soggiornava, sorseggiando un Tropical ghiacciato con una cannuccia ricurva, Paula guardava i camerieri nella lussuosa divisa dell'Hotel correre come formiche impazzite da una pagoda all'altra per soddisfare i mille capricci degli ospiti. Camerieri di grande scuola per un Hotel di gran lusso per gente ricca sfondata come lei, come suo marito.
Indossava un Versace di seta bianca, lungo fino ai piedi con uno spacco mozzafiato sul lato destro, che le liberava una delle sue bellissime gambe fino all'anca. Poche ore prima un giovane medico della clinica privata dell'albergo le aveva rimesso a posto con un paio di tocchi e con un balsamo miracoloso la caviglia infortunatasi nel bosco.
Sorseggiava il suo Tropical, guardava i camerieri in azione e non pensava a niente.

Gioacchino si affacciò sul giardino soffermandosi un attimo per accendersi una sigaretta. Marciò poi dritto e leggero verso una delle pagode. Da dove arrivava vedeva solo un piede dell'ospite, calzato in un sandalo dorato dal tacco altissimo.
Si fermò accanto alla giovane donna bruna. Le baciò con gesto elegante la mano che lei gli porgeva.
-Buon anniversario, tesoro.
Paula si soffermò a guardare la figura atletica dell'uomo, evidenziata dallo smoking nocciola chiaro dal taglio perfetto.
Ha un sarto favoloso, pensò. I pantaloni sono attillati, ma non si notano i suoi polpaccioni. Un mago quel sarto.
-Vogliamo andare a cena? Chiese Gioacchino.
Lei si alzò pigramente e appoggiandosi al suo braccio si lasciò accompagnare nell'angolo del giardino dove erano allineati una decina di tavoli. In fondo a tutti il loro con le candele che già ardevano sui candelabri ed il secchiello col ghiaccio e una bottiglia di Dom Perignon d'annata ancora da stappare.
-Questo è per te, disse Gioacchino appena furono seduti allungandole un astuccio con sopra impresso in cifre dorate "Bulgari".
Mentre il cameriere stappava lo champagne, lasciandogli fare solamente un timido sbuffo di gas, Paula aprì l'astuccio spalancando la bocca: un bracciale di diamanti intrecciati come tante piccole esse.
-È una meraviglia! Grazie Joachim.
Lui avvampò in volto di piacere: andava in delirio quando lei lo chiamava nella versione tedesca del suo nome. Ma in fondo andava bene così, visto che lei era amburghese.
-Indossalo, ti prego.
Paula tolse il gioiello dall'astuccio e se lo chiuse sul polso sinistro.
-Sono 120 brillanti, spiegò lui. Uno per ogni mese del nostro matrimonio.
-Sei unico, gli rispose Paula.
Estrasse dalla borsetta applicata alla cintura dell'abito un cofanetto di pelle siglato "VC" e glielo porse.
-E questo è il mio regalo.
Gioacchino si irrigidì guardando il contenuto, un minuscolo Vascheron Costantin da tasca in oro bianco. Sul retro una incisione "P e G 26 maggio 1999 - 26 maggio 2009"
-Avrei voluto farvi incidere solamente "Senza fine", disse Paula, ma l'orefice di Zurigo mi ha convinta che andava meglio così. Te lo sussurro allora in un orecchio: il nostro amore non avrà mai fine.
-Ne sono sicuro, le rispose Gioacchino. Noi conosciamo i segreti per tenerlo in vita.
Bevvero un sorso di champagne abbandonando subito quell'argomento. Si misero a parlare animatamente di cento altre cose per il resto della serata.