venerdì 17 agosto 2012

PARE CHE STAVORTA CE SEMO

Come dicono a Roma quelli che so romani: "ce famo? ce semo? allora ce stamo". Infatti sembra che stamo pe partì.
Sarebbe ora perché mai come quest'anno ho desiderato un po' di sole vero, quello che scotta, sulla pelle, perché da ottobre dell'anno scorso siamo stati a bagno maria, più la nebbia a novembre e febbraio, più la neve da dicembre a tutto febbraio. Morale: siamo diventati stalattiti.
Non ho il portatile, quindi temo che non avrò occasione per farmi sentire, ma forse va meglio così, dice che ci si ricarica le pile. Dove staranno ste pile? Nei piedi? Nel sederino? Nelle ginocchia? Dite che siano nel cervello? Nooooo, ma scherziamo! Nel cervello tengo da un sacco di tempo un impiastro di segatura e marmellata di more. Non credo proprio che le mie pile alberghino in soffitta, sì soffitta, perché tutta la roba vecchia e inutile sta là dentro.
Mi auguro di ritrovarvi tutti al mio ritorno allegri e pimpanti.
Auguro questo a tutti i miei amici vecchi e nuovi: un fine agosto coi botti e controbotti e tanta allegria, che fa bene al cuore a allo spirito.
Ciao a tutti.

domenica 12 agosto 2012

MONDO ANTICHISSIMO, ANTICO E MODERNO

Scartabellando tra le segrete cose di mia madre, che tengo gelosamente custodite e sotto chiave, ho riesumato antiche vestigia di un'epoca appartenente al passato millennio. 
Osservino lor signori le date di esecuzione dei brani, tenendo presente che la mia data di nascita è il 9 febbraio 1934.

Ecco la filastrocca da cui tutto incominciò, e dalla quale qualcuno -leggi mia madre- capì le tendenze del bambino che aveva messo al mondo in una notte fredda e tempestosa.

Canta il gallo
ogni mattina,
la preghiera
ogni sera,
i tuoi occhi
mamma
tutto il giorno,
le favole di nonna
per addormentarmi,
gli scherzi di Lito
alla zia Giulia
per svegliarmi,
e papà mi porta
il Corrierino
ogni sabato, 
ma dove sei papà
gli altri giorni?

Scritta a Civitaveccchia nell'aprile 1942.

Questa è la mia prima poesia

Non venite a trovarmi:
io non abito più qui.
Non chiamatemi più:
io sono in viaggio
e sto solcando il cielo.
Non aspettate il mio ritorno:
io sto tanto meglio quassù.

Scritta a Valentano, in sfollamento da una città devastata dalle bombe aeree americane nel settembre 1943.

E questa è la mia ultima poesia, scritta a Maximiliansau il 29 luglio 2012, alle ore 22,30

SQUARCIO  DI  LUNA

Squarcio di luna alla fine di luglio,
trasuda luce dalle punte aguzze delle foglie
di granoturco là, dietro i binari
della ferrovia. Un latrato lontano, una sirena
ingoiata dal buio e per il resto della notte
silenzio immaginoso di lontananze.

Grazie per la lettura.

giovedì 9 agosto 2012

PUNTO ZERO





Si chiamava Walter Pidgeon ed era omonimo del famoso attore inglese, col quale sosteneva di avere una improponibile parentela, essendo lui canadese di umilissime origini (si raccontava che sua madre avesse lavorato in un bar a luci rosse in una cittadina della regione del Manitoba), mentre sembra che il vecchio attore avesse un paio di quarti di sangue blu.
Aveva frequentato dei corsi serali all’Università di Vancouver diplomandosi in speleologia. Speleologo quindi, né infame né famoso come si conviene alla media; assai volitivo e non troppo ambizioso, dotato comunque di sufficiente curiosità e coraggio, più quella che questo, per calarsi dentro impervi crepacci naturali del suolo, dove non filtrava mai luce, o quasi mai.
All’età di trentun anni suonati gli capitò l’incontro della vita con la donna materializzatasi accanto a lui lungo le rive sotterranee del fiume Cuyagueteje, nella provincia cubana Pinar del Río: Danielle Maribon, non più giovanissima archeologa francese, né bella né brutta, cui la vita aveva riservato sovente rovine e rovesci privati, che forse cercava nel profondo le risposte ai propri quesiti esistenziali.
L’incontro fu fatale dato il vasto programma di ricerche che Danielle aveva intenzione di portare a compimento, al quale immediatamente gli offrì di prendere parte. La francese aveva forse molta fantasia, di certo la lingua assai lunga e veloce. Gli raccontò di avere conosciuto personalmente il dottor Antonio Nuñez Jiménez, fondatore della Società Speleologica di Cuba, lasciandogli intendere di esserne stata in qualche modo l’allieva prediletta e la collaboratrice più fidata. Al fianco del maestro, gli disse, aveva percorso tutta la Gran Caverna de Santo Tomás nella Sierra de Quemados, la parte non aperta ai turisti, naturalmente, quella più pericolosa.
Walter Pidgeon pendeva dalle labbra della francesina di Charvieu-Chavagneux, città una quindicina di chilometri da Lyon, e quando lei una sera, mentre bivaccavano davanti ad un fuoco crepitante, gli confessò di essere arrivata insieme al grande maestro cubano a 4100 piedi di profondità nella caverna di Lepineux aperta sulla Pierre Saint Martin nei Pirenei, andò in brodo di giuggiole pronto a seguirla in qualsiasi buco avesse voluto infilarsi.
“Andremo insieme nella Grotta Cuba-Magyar, nella Sierra de Trinitad –gli offrì –Per i permessi non c’è alcun problema: io conosco mezzo mondo qui a Cuba”.

Invece nada de nada: niente permessi e andatevene subito via di qui, por favor.
Danielle non era tipo da darsi per vinta. Morto un papa se ne fa un altro, era il suo motto.
“I cubani ci snobbano? Ci scacciano? E noi ce ne andiamo in un isolotto sperduto, ma non troppo, nell’Oceano Pacifico, circa cinquanta miglia dalle coste cilene, di fronte a Chañaral, all’altezza del 28° Parallelo. Ci dovevo andare con Antonio, ma poi sono saltate le sovvenzioni”.
“Ma io non ho il becco di un quattrino –obiettò Walter Pidgeon –dovrai finanziare tutto tu”.
“Antonio Nuñez Jiménez soffriva di mania di grandezza e faceva tutte le cose in grande. Conosco gente a Chañaral: ci bastano poche centinaia di dollari per farci trasportare da un peschereccio cileno. Sono brave persone, stai tranquillo”.

Forse fu per effetto del mal di mare, che era grosso, forse perché la distanza risultò quasi il doppio di quella preventivata da Danielle Maribon, ma quando arrivarono in vista del minuscolo atollo a Walter Pidgeon era venuta la luna storta, e il suo morale era andato a finire sotto le suole. Sbarcarono di sera e decisero di pernottare sulla spiaggia piuttosto che infilarsi immediatamente all’interno della spelonca. Decisione estremamente negativa, perché nel buio degli abissi Walter Pidgeon avrebbe smaltito il malumore e ritrovato il suo entusiasmo. Così invece mise mano a una bottiglia di Tequila messicana per tirarsi su, e si ubriacò.
Andò a finire che litigò con la donzella francese, coprendola di insulti e di improperi. Dato che subito l’alcool gli fece venire sonno, non si accorse che la sua bella aveva ripreso il largo a bordo del peschereccio cileno, piantandolo sbronzo accanto al fuoco, solo sopra un atollo nel Pacifico.
Quando all’arrivo dell’alba Walter Pidgeon si svegliò, non vedendo Danielle né l’imbarcazione dei pescatori, pensò che lei offesissima dalle sue male parole fosse penetrata da sola nella grotta e si affrettò a seguirla, senza immaginare che un destino crudele stava muovendosi contro di lui con pessime intenzioni. Danielle infatti, tornata sulla terra ferma, decise di rientrare immediatamente in Francia con un aereo della Pan American da Santiago quel giorno stesso. Purtroppo l’aereo precipitò al decollo, portato in disastroso stallo dall’imbranatissimo secondo pilota: dall’esame dei resti mortali del comandante risultò che era ubriaco fradicio e per quel motivo aveva scambiato posto e mansioni col suo inesperto collega. Nessun superstite.
Questo non fu solamente un guaio per Danielle, che ci rimise la vita, ma anche per Walter Pidgeon, che perdette l’unica testimone della sua operazione sotterranea, che avrebbe potuto confermare la natura delle ricerche che volevano effettuare, ma soprattutto la data di inizio dell’intrapresa.
È dunque così importante tale data?
Tutto è importante quando si accumulano tanti elementi contraddittori tutti insieme.
Innanzi tutto non si trattava di un atollo sperduto, bensì di un isolotto ben noto, antico avamposto fortificato giapponese nell’ultima guerra mondiale. In secondo luogo la spelonca non era nelle mappe internazionale degli speleologi, avendo pochissimo valore di ricerca.
Del peschereccio e dell’equipaggio scomparsa ogni traccia: poco il danno, considerando che erano contrabbandieri di droga, di armi e di quanto ci fosse di illegale, e che quindi non avrebbero mai testimoniato nulla nemmeno sotto tortura.
L’importanza della data è presto spiegata: Walter Pidgeon sostenne fin dal primo istante del suo ritrovamento, che quando si risvegliò dopo la sbronza era un’alba limpida con vista chiarissima. Disse di aver veduto costruzioni strane, mura merlate e di aver pensato ad antiche fortificazioni spagnole, ma di non aver visto niente altro.
C’è da credergli, perché se infatti avesse veduto le impalcature, i tralicci metallici e tutte le attrezzature erette al centro dell’isola non se ne sarebbe dimenticato. Infatti non poteva non vederle, dato che stavano proprio sopra l’ingresso della spelonca dove si era precipitato, coprendolo come un tetto. C’è da aggiungere che gli equipaggi di guardia in coperta sulle sette o otto navi militari della marina degli Stati Uniti avrebbero visto loro per primi lo speleologo, e che nella notte in cui sbarcò nell’isolotto insieme a Danielle tutti gli uomini addetti ai radar avrebbero avvistato sui loro schermi il barchino clandestino che li aveva condotti fin lì. Sarebbero stati inesorabilmente messi in fuga e Danielle sarebbe ancora in vita, mentre Walter Pidgeon avrebbe vissuto anni più sereni.
Quindi in quella notte era ancora tutto in ordine, per così dire, e così la mattina dopo.

Si può dedurre, ma è pura fantasia perché tutto è top secret per almeno altri 50 anni, che mentre un’operazione illegale terminava, con Danielle che si allontanava e Walter Pidgeon solo nella spelonca ad inseguirne l’ombra, un’altra operazione ancora più illegale stava incominciando. Quando incominciò non lo sapremo mai. Che fu effettuata viene aspramente negato dal governo interessato.
Si concluse comunque circa alle nove e trenta antimeridiane di un’altra limpida mattinata marina, nel momento esatto in cui Walter Pidgeon, riemerso finalmente dalle tenebre del sottosuolo con le orecchie ben chiuse da tappi di materiale speciale acquistati in Inghilterra per proteggere dal gelo i suoi timpani, con gli occhi serrati e bendati per non lasciarsi accecare dall’improvvisa luce del sole, iniziava una lenta inspirazione per rintrodurre aria normalmente calda nei polmoni abituati ad aria assai più fredda. Pertanto occhi che non vedevano e orecchie che non sentivano nel preciso istante in cui un ordigno nucleare di 50 megatoni gli esplodeva trenta metri a piombo sopra la testa.

In virtù di quell’effetto fisico, che sarebbe forse meglio definire metafisico, cui sono stati attribuiti vari nomi e valenze, ma che viene comunemente chiamato “incolumità del punto zero”, Walter Pidgeon avrebbe potuto vantarsi di essere l’unica creatura rimasta illesa dopo che gli era esplosa sopra la testa una bomba atomica cinquanta volte più potente di quella di Hiroshima.
Avrebbe potuto, ma non lo potè mai fare, dato che rimase del tutto all’oscuro degli accadimenti. Infatti una volta scoperta la sua presenza sul luogo, la marina degli Stati Uniti, l’esercito degli Stati Uniti, lo F.B.I. e soprattutto la C.I.A. si gettarono famelicamente su di lui per farne polpette.
Ecco la spia malefica, ecco il terrorista dell’ultima generazione, ecco il mostro!
Fu trasportato a Guantanamo in tutta segretezza, bendato e legato come un salame. Ma non fu possibile cavargli di bocca niente di interessante.

A domanda risponde: “Non ho sentito niente, avevo i tappi nelle orecchie”.
A domanda risponde: “Non ho visto niente, tenevo gli occhi chiusi e bendati”.
A domanda risponde: “No, nemmeno un chiarore, niente di niente”.
A domanda risponde: “No, niente vento, niente calore, niente”.
A domanda risponde: “Che cosa ho visto quando ho riaperto gli occhi? C’era erba tutta intorno a me; era verde. Non c’era il sole, era tutto nuvolo e buio. Ho pensato di avere sbagliato i calcoli col tempo: non erano le 9,30 del mattino, ma le 21,30 della sera”.
La contingenza assolutamente sfortunata per lui fu che nessuno gli spiegò quello che gli era capitato.

Il fatto di essere sopravvissuto al cataclisma gli procurò immediate conseguenze dolorose: dopo Guantanamo un prolungato soggiorno in una clinica specializzata nel Texas; una detenzione ancora più lunga in un penitenziario militare degli U.S.A. senza un’accusa specifica, senza un processo, senza una condanna; così, tanto per vedere quello che si sarebbe dovuto fare di lui.
In effetti era innocuo, nel senso che se anche avesse detto ciò che aveva visto e sentito nessuno gli avrebbe creduto. Ma poiché molti erano ancora convinti che si trattasse di un fottuto bugiardo, che tutto sapeva ma faceva finta di cadere dalle nuvole con domande tipo: “perché mi trattenete qui?”, oppure “che cosa ho fatto di male?”, alle quali nessuno rispondeva mai, fu stabilito che, fesso o furbo che fosse, rimanesse chiuso fino alla fine dei suoi giorni in un manicomio criminale, militare naturalmente.
Nessuno quindi, nemmeno il suo confessore in punto di morte, gli rivelò l’amara verità e Walter Pidgeon morì in una fresca mattina di settembre senza sapere di essere sopravvissuto a pian terreno, mentre al terzo piano scoppiava un inferno nucleare di 50 megatoni.




lunedì 6 agosto 2012

LA PIÙ BELLA È GIULIA




Giulia è la sorella di mia madre. Giulia è una donna bellissima e anche mia madre è una donna bellissima, perché Giulia è la sorella gemella di mia madre e sono uguali come due gocce d’acqua. Pochi hanno mai capito quale fosse l’una quale l’altra perché assolutamente identiche. Con qualche piccolissima differenza, però. Per esempio: mia madre è alta, slanciata e sinuosa; anche Giulia è alta, slanciata e sinuosa. Mia madre è bionda ed ha occhi azzurri trasparenti come albe sul mare; Giulia è bionda e ha gli occhi azzurri trasparenti come albe sul mare. Mia madre è intelligentissima e colta; Giulia è intelligentissima e colta. Mia madre è riflessiva e scaltra; Giulia anche. Mia madre ha piantato il primo marito, il padre di mio fratello, e adesso va alla grande col secondo, mio padre. Giulia non si è mai sposata, ma ha piantato tutti i suoi amanti. Mia madre è saggia e parsimoniosa; Giulia è matta e spendacciona. Mia madre gode di un’ottima salute; Giulia sta morendo.
Giace da due settimane in un letto ultramoderno dell’Ospedale dei tumori più rinomato del paese. Malata terminale agli sgoccioli: ma lei è sempre bella, anzi sempre più bella, come se invece di starle a fare l’allestimento per il funerale, la stessero mantenendo in forma per andare a nozze.
A mio fratello di primo letto di nostra madre Leonardo è balenata in mente un’idea:
“Non è che queste due stanno facendo i giochetti, che ci hanno raccontato facevano ai tempi della scuola e dei loro fidanzati?”
“Pensi che si alternino dentro quel letto?”
“E chi lo sa? Possono fare tutto quelle lì.”
Intanto Giulia è sempre bellissima e fresca, non sembra proprio una moribonda.

Da un paio di giorni mio padre ha trovato su internet una notizia che ci ha costernati. Da allora siamo preoccupatissimi. Sembra che i gemelli monozigoti abbiano lo stesso decorso di vita, la stessa tratta, la stessa durata. Quando uno dei due sta male anche l’altro soffre, e se uno dei due muore l’altro lo segue rapidamente, dopo una malattia breve e fulminante. Sembra, non c’è alcuna certezza scientifica, ma un fortissimo dubbio.
In tutti i modi è già successo quando mia madre ha avuto un premolare cariato sul lato sinistro della mandibola. Giulia aveva dolori fortissimi sull’altro lato, ma non aveva carie, soltanto dolori. Appena il dentista ebbe finito di otturare il dente di mia madre cessarono di colpo i dolori che Giulia aveva in bocca.
Il conto torna e in casa nostra non si vive più. Nessuno di noi ha parlato chiaramente con Magda, nostra madre, la gemella di Giulia apparentemente in salute, ma tutti ne stiamo osservando ogni movimento, trattenendo il fiato ad ogni suo colpo di tosse.

Questa mattina Giulia sembra stare molto meglio. Ha voluto leggere un giornale, senza occhiali come sempre. Ha letto però solo i titoli mentre mia madre faceva un salto a casa, dove aveva dimenticato chissà che. Nessuno se ne è accorto: dimentica tante cose lei, ogni giorno.
Giulia ha ripiegato il giornale, lo ha riposto sul comodino, si è girata su di un fianco e dopo un po’ ci siamo accorti che non respirava più. Era morta così, tranquillamente come non era mai vissuta.
Passato il primo momento di sgomento siamo scattati tutti fuori dalla stanza come se avessimo ricevuto una scarica elettrica, chi verso le scale chi verso l’ascensore. Parola d’ordine: fermate Magda prima che arrivi alla stanza di sua sorella e la trovi morta, bella e stecchita dentro il letto.
I minuti volano via, ma mia madre non arriva. Passata quasi un’ora qualcuno prova a chiamarla sul cell, non ricordo chi nella confusione che si era creata; ma non c’è risposta. Allora mio padre prova col telefono di casa.
Al quarto squillo lei risponde.
-Che cosa stai facendo ancora a casa? –le chiede mio padre.
-Sto qui con Giulia.
Neanche il tempo di sentire il seguito: siamo già tutti nelle nostre macchine diretti a casa.
Entro per primo, dopo essermi mangiato gli scalini delle due rampe a quattro a quattro.
Lei siede regalmente sulla sua poltrona preferita di alcantara beige al centro del salotto. Ha tirato accanto alla sua l’altra poltrona, di pelle nera, dove mio padre di solito dorme beato davanti alla TV accesa. Ma non c’è la TV accesa e non c’è mio padre a dormire sulla poltrona: c’è invece una gatta tigrata, bellissima, che prima nessuno aveva mai visto. Sdraiata sul fianco destro, mentre mia madre di tanto in tanto allunga una mano a carezzarle il pelo, la gatta emette quel tipico suono, quel ronfare ritmico, che rivela una profonda beatitudine. È beata e soddisfatta, con gli occhi chiusi a metà.
Ma da dove è uscita fuori, mi chiedo e sono certo che se lo stanno chiedendo tutti.
-Come fai a sopportare ‘sta gatta vicino a te, tu che soffri d’asma e sei allergica ai peli?
La domanda la fa mio padre perché riesce per primo ad aprire bocca. Noi siamo inchiodati dalla visione.
Mamma non sopporta i gatti, penso io e pensa Leonardo. Mamma non è mai andata a casa di Giulia per via delle sue quattro gatte, una bianca e tre nere, perché le sarebbe venuto un colpo sul pianerottolo, prima ancora di mettere un piede in quell’appartamento.
“Hai addosso la puzza dei tuoi gatti”. Quante volte glielo avevamo sentito dire? E adesso accarezza la groppa di quella bestia.
Giulia adorava i gatti, era di natura felina anche lei; teneva le sue quattro micie come fossero figlie. Le avevamo portate all’ospizio municipale per animali, pagando salate parcelle mensili, quando Giulia era entrata in ospedale. A nessuno di noi era passato per la testa di abbandonare quelle bestie al loro destino, sapendo quanto lei le amasse.
Ma questa gatta tigrata non l’avevamo mai vista. Giulia prediligeva i bianchi e i neri.
Forse mia madre ce la legge in faccia la domanda.
-Questa è Giulia –ci dice.
Nemmeno una parola di più. Così ci lascia nel dubbio: avrà voluto significare “questa è una gatta e io l’ho chiamata Giulia”, abbastanza semplice, forse un po’ troppo semplice temiamo, oppure “questa qui è Giulia, mia sorella, da adesso in poi”?

Mio padre ci prende per un braccio e ci porta via, in un’altra stanza.
-Dovrò trovare il modo di dirle che sua sorella è morta, perché non precipiti nella disperazione. Voi intanto fate come se niente fosse successo.
-Ho paura che lei pensi che quella bestia sia sua sorella –gli dico.
-È la mia stessa paura –aggiunge Leonardo.
-Non lo ha detto e non lo credo proprio –taglia corto nostro padre –voleva sicuramente dire che quella era la sua gatta e che si chiamava Giulia.
-Non ti sembra strano che l’abbia chiamata così? –gli chiedo.
-Hai dimenticato che nomi aveva dato Giulia alle sue gatte? Maria Antonietta, Ludovica, Concetta e Rosalba; tutti nomi di donna.
E poiché ci legge in faccia l’incertezza e il dubbio, chiude il discorso:
-Gente! Noi dobbiamo far finta che sia così come vi ho detto e non che sia diventata matta all’improvviso.
Allora facciamo finta e vediamo come va a finire questa storia.

Intanto io mi do da fare per organizzare i funerali, e affrontare tutta la parte burocratica. Una montagna di carte e moduli da riempire e da firmare. Falsificando la firma di mia madre, perché lei è la parente più stretta e toccherebbe a lei sottoscrivere ogni documento; ma mia madre non deve sapere quanto è successo, almeno ancora per un po’.
Al funerale mia madre non c’è, ma nessuno se ne meraviglia. Mio padre è un mostro della mistificazione: ha messo in circolazione bugie così ben calibrate che tutti, piuttosto che per la defunta, spendono lacrime per la sopravvissuta, sola e triste in una stanza buia, ricurva su sé stessa e sulla perdita incolmabile che l’ha colpita.
Ai funerali escono fuori tutti i vecchietti, come i funghi dopo la pioggia.
-State molto vicini a vostra madre, poveretta –raccomanda a me e a mio fratello una donnetta rugosa, che non conoscevo, ma che dopo parla a lungo con mio padre.
-Dia un bacio alla sua mamma –mi sussurra un bassotto panciuto molto in là cogli anni.

Dopo la tumulazione tutti a casa a salutare la mamma.
-Mi raccomando, fate finta di niente –ci catechizza nostro padre sul pianerottolo, prima di infilare la chiave dentro la serratura –e soprattutto non mostratevi meravigliati di niente.
Appena entrati colpisce il volume della musica, molto alto, troppo, considerando le abitudini della mamma. Musica latino americana, un samba credo.
Non è la TV come pensavo, ma un CD. In mezzo alla stanza mia madre in calzamaglia rossa mima una ballerina brasiliana, o balla come una. Ad ogni modo si dimena a tempo, e lo fa con garbo. Accanto a lei, in piedi sulla poltrona di pelle nera, la gatta Giulia accompagna il ritmo con sinuosi scatti della sua coda, tenuta distesa verso l’alto, da destra a sinistra e ritorno, nonché alzando ed abbassando sul posto le zampe posteriori, come chi segna il passo o piuttosto tenta di tenere il ritmo della musica in una discoteca affollatissima. Insomma la gatta Giulia balla, e questo è un fatto.
Restiamo lì imbambolati, senza sapere che fare. Per nostra madre non esistiamo, adesso conta solo la danza e la sua gatta.
Retrocediamo a marcia indietro, passetto dopo passetto, tirati per la giacca da nostro padre.
-Non lo raccontate nemmeno alle vostre mogli –ci supplica –non capirebbero e la giudicherebbero male.
Io non l’ho mai raccontato e sono certo che nemmeno Leonardo lo abbia fatto.
Dopo quella volta non sono più passato da casa loro. Mio fratello ha osato farlo ancora un paio di volte. Alla sera mi telefonava per dirmi che la situazione non era migliorata, anzi secondo lui andava sempre peggio.
-Cosa intende fare papà? –gli chiesi una sera.
-Niente, non farà niente. Penso che abbia paura di perderla affrontandola con la verità.
-Ancora non le ha detto che Giulia è morta?
-Temo che se va avanti così non glielo dirà mai.
Per fortuna si sbagliava.
Una sera sul tardi mio padre mi telefona per dirmi che passa a prendermi con la sua macchina. È arrivato il momento, penso. Vorrà chiedermi l’ultimo parere prima di affrontare mia madre.
Questa volta mi sbagliavo io.
Scendo subito quando lo sento suonare da sotto casa. C’è Leonardo accanto a lui.

Parte subito sparato senza nemmeno rispondere al mio saluto. Sceglie una piazza grande in periferia, semideserta a quell’ora. Spegne il motore e resta immobile fissando il buio fuori. Non si sente un fiato dentro l’auto.
-Vostra madre vive solamente per quella gatta; –dice alla fine con un filo di voce –non esce più di casa e si chiude per ore e ore dentro la sua…la nostra camera da letto insieme a Giulia.
-Che fanno tutto il tempo? –chiede Leonardo.
-Parlano. Cioè, lei parla e Giulia miagola.
-Beh! Mi sembra normale, visto che è una gatta –mi riesce a dire, ma ho un groppo in gola.
-Non mi capite: Giulia ci conversa, anzi le fa i suoi ragionamenti e lei la sta a sentire e le risponde. Vostra madre si comporta con quella gatta come con sua sorella quando era viva. Anche allora si chiudevano in camera per delle ore e guai ad entrare dentro, mi cacciavano fuori come un intruso.
-Non ti sei mai ribellato? –chiedo.
-È sempre andata avanti così: erano gemelle, erano in simbiosi costante. Quando mamma aveva un problema chiamava Giulia e lei arrivava. Non ci ho mai trovato niente di strano.
-Ma adesso con la sua gatta forse recita quella vecchia parte –dice Leonardo.
-Il fatto è che io non so più se quella gatta è solamente una gatta –risponde papà con un sospiro.
Mi sembra che qualcuno mi stia prendendo a cazzotti sullo stomaco. Bisogna uscir fuori da questo vicolo cieco.
-Hai mai trovato il coraggio di dirle che Giulia è morta? –gli chiedo.
-Credete davvero che lei non lo abbia saputo per prima?
Adesso ci scruta in volto, me e mio fratello.
-Lo ha sentito –continua –lo ha sentito ancora prima che morisse. Ha sentito dentro di sé che la sua metà naturale stava abbandonandola. Ha preso la scusa di essersi dimenticata qualcosa e se ne è andata a casa: e là ha sentito sua sorella morire dentro di sé.
-Io glielo avrei comunque detto –insisto –anche per vedere la sua reazione.
-L’ho fatto –risponde papà con un gran sospiro –in un momento di rabbia gliel’ho sbattuto in faccia. Le ho detto per convincerla che l’avrei portata a vedere la tomba di sua sorella.
-E lei che ti ha risposto?
-Nemmeno una parola. È andata a sedere sulla sua poltrona. La gatta le è immediatamente saltata in grembo e vostra madre le ha sussurrato qualcosa in un orecchio. Poi si sono girate a guardarmi e vostra madre è scoppiata in una risata. Mi è sembrato che anche la gatta mi ridesse in faccia.
-Ma questa maledetta gatta da dove è saltata fuori? –chiede Leonardo, che sta quasi per piangere, come quando era un bambino.
-Sarà di qualche vicino di casa –provo a dire –hai chiesto in giro?
-Nessuno si è perso una gatta.
-Non può essere comparsa dal nulla! –esclamo alzando la voce –Prova a domandare in giro, maledizione.
-Da dove sia sbucata quella gatta non mi interessa proprio: il problema è che vostra madre è convinta che si tratti della reincarnazione di Giulia, per questo le ha dato subito ‘sto nome. Mi sbalordisce piuttosto che non le provochi alcuna allergia. Quando sentiva puzza di gatto starnutiva per mezza giornata e le lacrimavano gli occhi per ore e ore. Con Giulia non le succede. Non è straordinario?
Io e Leonardo ci guardiamo. Sì, è straordinario che non subisca danni, ma ancor più sensazione mi provoca questo suo amore improvviso per una micia: mia madre, fino alla morte di sua sorella, avrebbe sterminato tutti i gatti del mondo col lanciafiamme.

Mio padre deglutisce a fatica, guardando ostentatamente fuori. Quando riprende a parlare si sente che ha il pianto in gola: sta tirando fuori il rospo più grosso.
-Mi ha sbattuto fuori dalla camera –mormora.
-Cosa? –chiediamo io e Leonardo insieme –quale camera?
-Fuori dal letto –tira su col naso –da tre giorni dormo sul divano del mio studio.
-E lei dorme con Giulia, vuoi scommettere? –chiedo così per chiedere, ma ormai è chiaro.
-Dorme con Giulia.
Fa una lunga pausa. Nessuno di noi osa aprire bocca.
-Finché sto in casa non escono più dalla stanza.
-Che cosa fanno lì dentro, dormono? –chiede Leonardo.
Mio padre risponde dopo una pausa che dura un’eternità.
-Miagolano.
-Che hai detto?
Salto su come se avessi il fuoco sotto il sedere, mentre Leonardo tiene la bocca spalancata.
-Vostra madre miagola con Giulia.
Incomincia a piangere senza ritegno.
Io e Leonardo ci guardiamo con gli occhi sbarrati. Dopo un po’ trovo la forza di dire la cosa enorme, la cosa brutta che penso, mentre Leonardo gli tiene le mani nelle sue.
-È partita, papà: dobbiamo farla visitare da uno psichiatra.
-No! –sbotta –Non lascerò che Magda finisca in una clinica psichiatrica. Guai a te se lo ridici, guai a voi se lo pensate.
Adesso che cosa dire? Che cosa fare? Solo sguardi tra me e Leonardo, e il silenzio in quell’abitacolo è scandito dalle tirate su col naso che fa nostro padre.
-Come pensi di andare avanti? –chiede Leonardo, che ha ritrovato il coraggio prima di me.
-Come sto andando avanti adesso.
-Non farai niente?
-Assolutamente niente. Aspetterò che le passi.
-E se non le passa? –chiedo io.
-Le passerà prima o poi. Deve passarle.
Adesso ho solo un’ultima domanda da fargli.
-Perché ci hai portato qui stasera? Perché ci hai raccontato queste cose?
-Perché siete i suoi figli e dovevate sapere.
Rimette in moto il motore e mi riporta a casa, senza più dire una parola.

Passano tre mesi. Vivo, lavoro, scherzo, guardo la TV, faccio all’amore con mia moglie ma il pensiero è sempre rivolto all’appartamento dove mia madre vive con Giulia e coabita con mio padre, il mio pensiero è sempre a cosa succede in quelle quattro stanze.
Non sono più entrato in quella casa perché non me la sento di vedere mia madre dialogare con una gatta, miagolando insieme a lei.
Che lo faccia è sicuro, me lo ha confermato Leonardo, che in quella casa è stato più di una volta. Non gli è riuscito mai di vedere nostra madre perché se ne resta chiusa in camera, ma da dietro la porta l’ha sentita miagolare con Giulia.
Questa mattina Leonardo è piombato nel mio ufficio con la faccia tesa dei momenti brutti.
-Vieni con me –mi fa.
Mi afferra per un braccio e incomincia a correre giù per le scale trascinandomi dietro. In macchina finalmente mi molla l’ultima:
-Mi ha telefonato papà. Sta succedendo qualcosa.
-Cosa?
-Sembra che Giulia stia male; forse sta morendo, ma non ci ho capito più di tanto.
-Dio mio, non l’avrà mica avvelenata lui?
Ma Leonardo non mi risponde.
Mio padre ci aspetta sul pianerottolo, davanti alla porta dell’ascensore, ma noi arriviamo di corsa dalle scale.
-La gatta non si muove quasi più –ci dice guidandoci verso il salotto.
-Lascia stare la gatta –gli dico –cosa fa la mamma adesso?
Ma lui non risponde. Si è fermato davanti al tappeto grande. Giulia sta lì, quasi immobile, allungata come se stesse stiracchiandosi, ma rimane così e sembra che qualcuno la tiri per le zampe e gliele tenga ferme. I gatti non restano in quella posizione più a lungo di qualche secondo. Mi chino e la tocco sulla pancia: è calda, ma non reagisce al tatto. Penso che potrei comprimerle il torace e la pancia senza che lei faccia nulla.
-È fuori conoscenza? –mi chiede Leonardo.
-Penso proprio di sí.
Mi rialzo e guardo mio padre negli occhi.
-Sei stato tu?
-Non avrei mai fatto una porcata a Giulia; non sono un vigliacco.
-Lei come l’ha presa? –gli chiedo indicandogli la stanza da letto.
-Da quando Giulia sta così vostra madre si è infilata sotto le coperte. Non parla più e ho dovuto avvicinarmi alla sua bocca con un orecchio per sentire il suo respiro.
Entro dentro la stanza. Mamma ha la testa coperta dal lenzuolo. Glielo abbasso un po’ sul viso.
-Sono io, mamma. Come ti senti?
Non si muove di un millimetro.
-Come ti senti? Rispondimi!
Le tocco la fronte: è gelata. Il polso è debolissimo, sembra che batta al rallentatore.
-Leonardo chiama un’ambulanza, un medico di servizio, il nostro dottore. Fa in fretta: dobbiamo portarla all’ospedale.
-Sta così male? –chiede Leonardo con un fil di voce.
-Per me è grave, non l’ho mai vista così. Sembra un collasso.
Leonardo smanetta freneticamente sul cellulare e sento che parla con qualcuno: gli dà l’indirizzo.
-Guardate Giulia –grida mio padre dal salotto.
Giulia è stecchita: le dita della zampe allargate e tese, il collo e la schiena formano un arco perfetto con la coda distesa, la bocca semiaperta in una smorfia di sofferenza. È ancora tiepida, ma mi sembra già dura.
La schiena mi si gela di colpo. Torno nella camera di corsa, giusto in tempo per cogliere l’ultimo respiro di mia madre. Muore qualche attimo dopo la sua gatta, senza un gemito, senza un addio.
-Che succede qui dentro? –bisbiglia mio fratello con la voce rotta dietro di me.
-Mamma se ne è andata, per sempre.
Esco fuori da quella stanza maledetta e vado a sedermi per terra nel salotto. Dalla porta aperta mi arrivano i singhiozzi di mio padre e di mio fratello, abbracciati accanto al letto.

A un anno esatto dalla morte vado al cimitero con due rose bianche, una per Magda l’altra per Giulia.
Pronuncio una breve preghiera per quelle due donne che sono state così importanti per me. Un pensierino anche per la gatta, che abbiamo voluto mettere nella bara di mia madre.
Devo affrettarmi. È già buio e fra qualche minuto chiuderanno i cancelli. Mentre percorro il vialetto dirimpetto alle due tombe affiancate sento un fruscio. Mi giro: seduta su una delle due tombe c’è una gatta tigrata. Mi ricorda subito Giulia; anche questa è molto bella e grande come era lei. Torno indietro di due passi e mi accorgo che c’è un’altra gatta tigrata, identica alla prima, sdraiata sull’altra tomba.
Ho la fronte imperlata di sudore freddo e mi tremano le mani.
Provo a chiamarle sottovoce:
-Giulia…Magda…
Non oso muovermi di lì. Il tempo si è fermato. Quanto dura? Non lo so.
Poi le due gatte si alzano e si allontanano strofinandosi l’una all’altra ed emettendo corti miagolii di intesa. Quando sono una diecina di metri distanti da me si girano e mi guardano.
Un attimo dopo sono scomparse, ma prima che spariscano io odo chiaro e forte una risata di donna, anzi di due donne.
Non l’ho sognato, giuro.
Corro da Leonardo. Mi fermo sotto casa sua. Lo citofono e gli dico di scendere subito.
Gli racconto quello che è successo.
-Le ho viste anche io quelle due gatte un paio di sere fà –mi interrompe –Ho creduto di sognare e non l’ho raccontato a nessuno per non farmi prendere per pazzo; ma se le hai viste anche tu vuol dire che quelle due gatte esistono davvero.
-Potrebbe essere un caso, una coincidenza –dico per darmi coraggio.
-Lo credi davvero? E sempre su quelle due tombe, due gatte uguali come gemelle?
Rimaniamo a guardarci in silenzio. Nessuno ha il coraggio di continuare.
-Pensi che siano loro? –mi chiede alla fine Leonardo.
-Non voglio pensare a niente. Sono successe tante cose strane dopo che è morta zia Giulia, che tutto può essere possibile.
-Io invece credo che quelle due gatte…
Ma non ha il coraggio di concludere.
-Non diciamo niente a papà –gli raccomando –lui non si è ancora ripreso dalla botta.
-Hai ragione, non diciamogli niente.
Ci guardiamo. Oramai ci siamo sintonizzati.
-S’è fatto tardi. Buona notte, Leonà!
-Buona notte, Vincè!



giovedì 2 agosto 2012

LETTERA FAMILIARE

Alcune settimane fa ho pubblicato, insieme ad altre poesie, la quarta pagina di questa "Lettera". La ripropongo intera. Queste quattro poesie sono state scritte alcuni anni or sono. Secondo le mie intenzioni dovevano dare il titolo ed essere la parte centrale della raccolta che avevo in mente allora. Non ne ho fatto niente. Perché? Perché la poesia oggi va come una Ferrari con Alonso alla guida e questa mia raccolta camminava come una vecchia 500 FIAT.
Credo di avere distrutto più di venti racconti, scritti nei miei verdi anni, perché puzzavano di Ernest Hemingway lontano due chilometri. Ho sicuramente bruciato una cinquantina di poesie di egregia fattura, troppo egregia, perché sapevano di letteratura classica.
Ma questa "Lettera" riletta adesso mi ha suscitato una certa emozione, significandomi che era valida ancora.


PRIMA PAGINA - Dado, fratello mio

Appena il sole ha girato l'angolo della siepe
dell'orto, riaccende il triste faggio
di nuovo verde e la corteccia di nuovo
rosso più duro. Speditamente
scendono siepi da dietro il vecchio
muro del pollaio, l'intonaco azzurro della casa
è quasi bianco. Il vecchio pino di mare, il fosso
delle rane già buio, la ciminiera dei cementi spenta
fin d'allora, mia madre assai giovane e bionda
che ci chiamava nascosti, cogli occhi alla città
che scoloriva il suo giorno nel rosso
schiumare dell'acqua fuori il porto. Freschi di vita
era uno sguardo, il silenzio, già tutto; e le parole
pensate, mai dette. E tu fratello mio già chinavi il capo
seppellendoti in cuore ogni piega dell'erba
ed ogni sguardo di quell'ultimo giorno.

Quando venne la sera stavamo ancora uniti noi due.
Poi la notte, zigzagando tra le betulle, venne a giacere
ai nostri piedi; e noi parlammo a lungo
senza vederci, perché tutto di noi sapevamo.
Giunse il momento di parlare di morte e tu mi dicesti
come avresti voluto andare, guardando il cielo.

Qui, nel mio arido Nord, dove ho trasferito
la mia anima scabra,
di antico ho portato le tue parole di sempre,
aperte dentro il mio cuore.
Il colore dei capelli e degli occhi è mutato:
abbiamo entrambi una mano
sul cuore, e la vecchiezza non più una promessa.
"E i figli?" Tu chiedi.
I figli invaderanno la stanza
dove ci siamo chiusi per morire.
Non come cervi adulti che abbandonano
il decaduto capobranco. Non così.


SECONDA PAGINA - Partenza come fuga

Il gallo ha cantato ancora tre volte:
era il giorno del pentimento, 
nessuno ha chiesto di me.

Ma era scarna la mia valle, e il pane e il vino
si erano pietrificati sulla nostra tavola.

Soltanto a te, tenerissima madre, era rimasto
uno sguardo pietoso per il figlio esule,
vagabondo e insicuro.

Aggrappavi i tuoi occhi alla schiena del figlio
fuggitivo, tenerissima madre, senza una croce,
una parola santa, un pane biondo
nelle tasche;
e il vecchio quaderno lì sul tavolo
della cucina, con una dedica a te
di pochi versi scritti in fretta a matita.

Sulla mia vecchia strada hanno gettato nuovo asfalto.

Non chiedere di me, mamma.

Dovrà cantare ancora mille volte il gallo
perché il vento notturno ti porti
la mia voce mutata.


TERZA PAGINA - Sull'antemurale del porto

Soffia bruma e lacrime notturne
il vento di levante sui nostri scogli marciti;
tu lo ricordi, padre, io e te soli tra il fischio cieco
del vento, nel fremito dei lampioni arancione
le nostre ombre giganti, una manciata di salsedine sul
collo e il petto ignudi, gli occhi pieni di spazio.

E si sentiva
modulato
il colloquio dei morti;
un lamento per chi non sapeva:
per me, per te un'attesa, o meglio un vaticinio,
e tu coglievi di spuma in spuma lo sbalzo di quelle
alternanze di silenzi e di voci.
Era un antico messaggio che stava sospeso nell'aria,
il paradigma segreto della nostra vita comune,
che custodiamo nel cuore:
era quando tornasti dalla guerra.
In disperato silenzio
stringevi al petto mia madre, ma era me che cercavi
nascosto nell'ombra della stanza.

Ora che lentamente hai disceso la strada
del tuo colle, quale
ricordo tu porti via di me?
Quale dei nostri giorni passati insieme?
Quali parole, quali gesti e quali immutabili dolori?

Cosa sai tu ora di me?

Io, che me ne resto qui
nella patria degli altri
naufrago nella mia pigra indolente paura, 
non posso rivelarti niente.

A cavallo di un muro ai margini della tua collina
ormai ti vedo, e non hai ali, 
né uccelli migratori né rami freschi
in viso.


QUARTA PAGINA - Conclusione

Appeso a una parete vuota pende
il mio silenzio vecchio.
Ora che sono solo
le mie mani stanno aperte sotto le nuvole, il mio
cuore è largo come una vela scarica
in attesa di vento,
sconcerto e disperazione
restano attaccati
ai manifesti murali della mia vita
diroccata e priva d'ombra.
Ora che sono solo
io vado tra fiori inesplosi
e uve acerbe; 
ma vado.