giovedì 24 febbraio 2011

CHE COSA PENSANO LE GIOVANI TIGRI....

Seconda parte

Nessuno si era accorto di quell'incontro ravvicinato, di quel tète-à-tète tra un uomo e una tigre, ma dopo un paio di giorni appariva chiaro e tutti gli inservienti dello Zoo che c'era qualcosa di strano nel comportamento di Dagmar.
-Che cosa hai fatto a quella tigre? Gli chiedevano. Ringhia furiosamente tendendo il collo finché non ti vede spuntare, allora diventa mite come un agnellino.
-Non so che dirvi, si schermiva Marco; fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno che esistessero le tigri in Siberia.
-Sta di fatto che lei quando tu arrivi si fissa su di te e non si perde una mossa che fai e una parola che dici.
-Forse le piace la mia voce, provava a scusarsi Marco sempre più in difficoltà.
-Prova a cantarle qualcosa allora, può darsi che ti applauda.
E finiva in sghignazzate ogni volta.
-È innamorata di te, non lo hai capito? Gli disse Maria una mattina mentre insieme pulivano le stalle.
-Quando mai! Esclamò Marco -ma rivide i lunghi baffi di Dagmar che vibravano e i suoi enormi occhi gialli che si socchiudevano-; non ho mai sentito dire che un animale così grosso si innamori, e per giunta di un uomo.
-Invece succede. Ho letto di un elefante in India che si era innamorato di una ragazza e la seguiva sempre. Quando lei fu investita da un'auto e uccisa, l'elefante non volle più mangiare e morì dopo un po', non di fame ma di dolore.
-Storie come questa me le raccontavano quando ero un bambino, Maria. Non sono vere.
-Ma non vedi che ti fa le fusa come una gatta? Non senti come ronfa, rrronn, rrronn, rrronn? Ti dico che Dagmar si è innamorata di te.
Marco cercò di non pensare a quel che Maria gli aveva detto, ma quella notte quasi non riuscì a prendere sonno, e quando infine morto di stanchezza crollò, sognò di passeggiare in una grande vallata fiorita con Dagmar che gli trottava a fianco felice.

Il giorno dopo lo aggregarono a un'altra squadra perché occorreva sostituire alcuni filtri difettosi nella vasca delle foche. Finì che dovettero sostituire anche un paio di tubi e se ne andò quasi tutta la giornata, ma non proprio tutta.
-Oggi nessuno si è potuto occupare di Dagmar, gli raccontò Maria, perché era furibonda.
-Che aveva?
-Era preoccupatissima perché tu non arrivavi. L'avresti dovuta vedere come annusava l'aria in tutte le direzioni per sentire il tuo odore, ma voi lavoravate all'interno. Avrà temuto che te n'eri andato per sempre; pensa che non ha nemmeno mangiato.
-Adesso dov'è?
-Lasciala perdere e incomincia a pulire la sua stalla, poi digita il programma sul computer e faccela entrare. Chiudi l'ingresso e pulisci la sua stanza in galleria.
-E la gabbia?
-Non te ne occupare, tanto col buio non vedresti niente. Mi raccomando di verificare sempre sul quadro di controllo che siano chiusi i cancelli della stalla e della gabbia prima di entrare nella stanza della galleria. Guarda che sarai solo, quindi controlla almeno due volte.
-Starò attentissimo, fidati di me.
Pulì la stalla più velocemente che poté; cambiò la paglia, infilò nella mangiatoia i pezzi di carne che avevano già preparato i colleghi e mise acqua fresca e pulita nel contenitore.
Uscì dalla stalla, ne chiuse il grosso cancello dietro di sé e digitò il comando di apertura del cancelletto del corridoio che collegava la stalla alla gabbia esterna. Dagmar entrò nella stalla come un bolide e andò a fermarsi dietro al cancello guardando Marco come lui non le aveva mai visto fare prima. Lo sguardo della tigre esprimeva ansia e sgomento, era quasi umano. Mugolò qualcosa indistintamente, soffiò col naso indispettita, mugolò di nuovo. Lo sguardo le si incupì, sembrava stesse per arrabbiarsi con lui.
-Non è stata colpa mia, ho dovuto lavorare in un altro posto, ma adesso qui dentro ti ho pulito tutto e là ho messo la tua cena. Avrai fame visto che non hai pranzato.
Dagmar si era seduta sulle zampe posteriori; sembrava non avere più né paura né rabbia.
-Fallo per me, Dagmar, vai a mangiare.
Ma l'animale non si mosse.
-OK! Adesso vado a pulire di là, poi ripasso di qui a salutarti.
La tigre emise un leggero mugolio.
-No, non mi avvicino questa volta; non mi lascio coinvolgere.
Lei mugolò di nuovo , come una preghiera, come un invito.
Marco si allontanò di un paio di passi e raccolse i suoi attrezzi senza voltarsi.
-È un vero peccato che tu sia una tigre, le disse; se tu fossi una bella ragazza questa sera ti porterei a ballare.
"Magari!" Gli rispose una voce.
-Chi ha parlato? Chiese Marco gridando.
Si era immobilizzato al centro del corridoio con il badile e la ramazza a spallarm, scrutando in ogni direzione; ma le stalle erano ampie e c'erano decine di possibili nascondigli
-C'è qualcuno? Ripeté.
La voce gli si era incrinata, non certamente per la paura, ma era indispettito con se stesso che uno degli inservienti lo avesse sentito parlare con la tigre.
Lei non si era mossa da dietro il cancello della sua stalla.
-Chi c'è qui dentro? Le chiese sottovoce. Puoi annusarlo?
Dagmar non lasciò vibrare un solo muscolo.
Diventerò lo zimbello di tutti, pensò; adesso mi metto a chiedere informazioni agli animali.
Scrutò ancora una volta gli angoli lontani e bui, poi si allontanò rapidamente dimenticandosi di controllare sul computer la chiusura dei cancelletti. Raggiunta la galleria digitò l'apertura della porta blindata della stanza della tigre e vi entrò deciso. Altrettanto decisamente Dagmar abbandonò la stalla, attraversò il corridoio e la gabbia superando gli sbarramenti lasciati aperti e arrivò al cancelletto solo accostato che immetteva nella sua stanza con la vetrina. Lo spinse col muso ed entrò.
Marco era accucciato col viso rivolto alla vetrata nell'atto di raschiare dello sporco solidificato dal pavimento. Non udì alcun rumore, ma sentì il profumo di lei penetrargli intensamente nelle narici, il profumo della tigre che tanto bene conosceva. Alzò il viso verso il cristallo e ce la vide riflessa, immensa, accanto a lui, accanto al suo fianco sinistro. Il sangue gli si fermò nelle vene, e l'urlo che immaginò di lanciare gli uscì come un misero sibilo abortito dalla gola strozzata. Sentì lungo il fianco il calore del corpo della tigre: si era appoggiata a lui ed effettuava un lento dondolio in avanti e in dietro, in avanti e in dietro. Contemporaneamente proruppe dalla bestia un sonoro rronn, rrronn, rrronn.
Marco ne avvertiva il suono vicinissimo alla sua testa, mentre i muscoli del poderoso torace di Dagmar gli trasmettevano sulla spalla sinistra le vibrazioni del suo cuore. Espirò fino in fondo tutta l'aria che aveva trattenuta nei polmoni e sentì una violenta vampata di calore salirgli al volto. Non era in grado di pensare, il respiro gli si era fatto cortissimo e non riusciva a staccare gli occhi dall'immagine che vedeva riflessa.
L'animale annusò il suo terrore e gli diede un leggero colpo con la testa per rincuorarlo. L'effetto fu disastroso: Marco pensò che fosse arrivata la fine e che la belva fosse prossima a sbranarlo; sentì mancargli il respiro e svenne.

Quando avvertì qualcosa di tiepido sul collo capì di essere tornato in vita e di stare disteso per terra, ma tenne gli occhi chiusi; sentiva fortissimo il profumo di Dagmar accanto a lui, sopra di lui, dappertutto.
"Non avere paura di me, amore mio".
Udì di nuovo quella voce, mite, delicata, che gli aveva parlato nella stalla. Aprì gli occhi: c'era soltanto la tigre accanto a lui che gli leccava il collo e il petto dove la camicia si apriva, con gli enormi occhi gialli chiusi a metà. Provò a sollevarsi sui gomiti. Lei lo costrinse a rimanere sdraiato poggiandogli delicatamente il muso sul petto, lo sfiorò appena.
"Resta disteso per terra, devi riprendere le tue forze".
La bestia non aveva mosso la bocca, era evidente che qualcun altro era entrato in quella stanza e parlava: una donna, ma dove stava? Cercò di guardare oltre il corpo della tigre dentro la stanza: si girò verso la vetrata e vide riflessi soltanto lui e la grande fiera allungati l'uno vicino all'altra.
-Ma chi sta parlando? Quasi gridò.
"Nessuno. Siamo soltanto tu e io qui dentro".
-E allora questa voce che sento da dove viene?
"Non lo so. Io penso solo di dirti cose belle e tu le capisci, le senti; è proprio così che succede, io comunico così con tutti gli altri animali".
Marco si tirò su di scatto.
-Cos'è questa, magia?
"Non lo so".
-E tu chi sei?
"Non so nemmeno questo. Voi mi chiamate Dagmar, ma non importa chi io sia. Tu sei importante, tu sei il mio amore".
Marco sedette per terra poggiando la schiena sulla vetrata. Dagmar gli si avvicinò immediatamente e gli posò la testa sul grembo.
-Fammi capire, Dagmar: tu puoi comunicare con me col pensiero come fai con gli altri animali?
"Si".
-E io sento il tuo pensiero come una voce?
"Questo non lo so, sei tu che lo dici".
-E io capisco tutto quello che dici, cioè che pensi?
"Lo capisci, no?"
-Addirittura nella mia lingua?
"Non so cosa vuoi dire. Io voglio comunicare con te, penso qualcosa e tu capisci. Cosa c'è di strano? Lo faccio tutti i giorni con i leopardi e le leonesse qui vicino".
-Ah, certo! Non c'è niente di strano, che stupido che sono. E tu capisci tutto quello che io ti dico?
"Perfettamente".
-E quello che dicono gli altri lo capisci?
"No, capisco solo quello che mi dici tu".
-Neanche quello che dice Frau Müller?
"Neanche quello".
-Mi stai prendendo in giro.
"No, non posso farlo: io ti amo".
-Vuoi farmi credere che non comunichi con altri uomini?
"Solo con te. Gli altri non mi sentirebbero e non potrebbero capire".
-E io perché ti sento? Perché ti capisco?
"Questo non lo so, ma fin dal primo istante io ho capito quello che dicevi e ho saputo in quel momento che potevo comunicare con te".
Marco si alzò in piedi e anche Dagmar si eresse sedendo sulle zampe posteriori.
E adesso che si fa? Si chiese Marco dentro di sé.
"Rimaniamo sempre insieme" , gli rispose Dagmar.
-Capisci anche il mio pensiero?
"Benissimo; mi arriva come fosse la tua voce".
-Fantastico.
"Sì, fantastico".
-Riesci anche a ridere?
"Che vuol dire?"
-Ridere.
"Cosa è?"
Marco si sentì molto puerile, tanto da vergognarsene.
-Ah, ah, ah! Così.
"Ah, ah, ah! Così -gli rispose Dagmar- Ma che cosa vuol dire?"
-Si fa quando si è contenti, ma non è importante; tu continua pure col tuo rrronn, rrronn.
"Non lo faccio apposta, viene su da solo quando tutto è bello e io sono felice. Quando tu ti avvicini mi viene su subito".
-Ora però dobbiamo fare un patto io e te.
"Un'alleanza?"
-Sì, diciamo un'alleanza.
"Ma noi stiamo già insieme".
-Proprio di questo volevo parlarti: noi non possiamo stare insieme.
"Certo che possiamo. Chiudi la porta, non facciamo entrare più nessuno".
-Ma che dici?
"Non vuoi stare insieme con me?"
-Dagmar, guardati bene intorno: vedi uomini nelle gabbie insieme agli altri animali?
"No, ma non capisco perché".
-Perché è pericoloso.
"Vuoi dire che io sono in pericolo?"
-Tu no: io sono in pericolo. Tu potresti assalirmi e uccidermi; voglio dire che normalmente lo altre tigri lo fanno.
Oh Dio, pensò Marco, non le avrò mica dato l'idea?
Ma Dagmar gli si avvicinò, gli poggiò il muso sul petto affettuosamente e gli leccò la camicia.
"Io non ti farò mai del male, mai mai mai. Non lo hai ancora capito?"
-OK, io l'ho capito, ma gli altri?
"Gli altri non sono importanti. Lasciali fuori, chiudi la porta".
-Non è possibile. Gli altri vedendomi qui dentro insieme a te penserebbero che tu mi tieni prigioniero e che mi stai per fare del male, tanto male. Allora cercherebbero di liberarmi e potrebbero anche ferirti o ucciderti.
"Uccidermi? E perché?"
-Per salvare me.
"Ma tu puoi spiegare a tutti come stanno le cose e loro non mi uccideranno".
-E come glielo spiego? Gli dico: "signori, io e Dagmar siamo amanti e vogliamo rimanere sempre insieme". Così?
"Sì, digli così".
-Dagmar, loro non sentono il tuo pensiero come me e non comunicano con te. Penserebbero che sono matto e mi porterebbero in manicomio, così non potremmo più vederci.
"Oh no, questo proprio no!"
-Allora facciamo il patto io e te, l'alleanza come dici tu.
La tigre sbuffò un paio di volte, poi si distese ai piedi di Marco.
"Dimmi cosa devo fare".
-Devi fare la tigre nella gabbia.
"Cosa vuol dire fare la tigre nella gabbia?"
-Devi stare tranquilla come eri prima che io arrivassi in questo Zoo.
"Non mi piace tanto; non mi fido".
-Fa come ti dico e tutto andrà bene. È importante che nessuno si accorga che io e te comunichiamo.
"Non devono sapere che siamo amanti?"
-No, altrimenti mi cacciano via, oppure trasferiscono te in un'altra città.
"Ma se faccio come dici mi starai sempre vicino?"
-Tutto il tempo che potrò.
"Verrai da me quando io ti chiamerò?"
-Verrò da te.
"Entrerai qui dentro per starmi accanto?"
-Qui no, è troppo esposto. Verrò nella tua stalla di sera, dopo aver finito il mio lavoro.
"Ogni sera?"
-Ogni sera.
"Promesso?"
-Promesso.
Riuscì finalmente a convincerla a ritornare nella sua stalla prima che qualcuno dei guardiani di notte venisse a vedere perché le luci nella galleria a quell'ora erano ancora accese. Dagmar lo salutò con due o tre colpi del muso sui fianchi.
Marco rientrò velocemente nella galleria, sbarrò ermeticamente la porta blindata e si avviò verso la stalla, dove Dagmar già lo aspettava dietro il cancello.
"Puoi restare qui ancora per un po'?"
-No, è troppo tardi, le rispose Marco digitando sul computer la chiusura di tutti i passaggi.
-Dovrei essere fuori da un bel pezzo, ma domattina alle sette sarò di nuovo qui. Adesso mangia la tua cena altrimenti penseranno che sei malata.




domenica 20 febbraio 2011

CHE COSA PENSANO LE GIOVANI TIGRI DEI LORO GUARDIANI GIOVANI E BELLI?

Prima parte.

La lettera gliela portò la vicina verso l'ora di pranzo.
-L'hanno messa per sbaglio nella mia cassetta postale. Chissà che altro pasticcio avrà combinato, aggiunse prima di andarsene dando un'occhiata al mittente.
Lui se la rigirò fra le mani per un paio di minuti: veniva dalla Amministrazione comunale di Karlsruhe e dentro poteva esserci una specie di sentenza. Quando si decise ad aprirla ne stracciò la busta con un gesto violento.
Gli veniva comunicato che era stato assunto come operaio generico per la manutenzione dello Zoo comunale. Che si presentasse il prossimo lunedì mattina alle sette al dirigente dell'Ufficio del personale dello Zoo. Fine.
Begli amici che ho, pensò. Ma non poteva prendersela con Filippo, perché aveva mantenuto la parola. Lo aveva convinto a firmare una richiesta di lavoro al Comune, promettendogli che ci avrebbe pensato lui a farla camminare.
"Vedrai che ti sistemo io; dal sindaco agli assessori sono tutti clienti fissi nel mio ristorante".
Così lui aveva cominciato a vedersi dentro un ufficio al caldo in giacca e cravatta, mentre una collega in minigonna carina e sorridente gli portava un caffè.
-Mi chiamo Marco Vittori, disse al dirigente il lunedì mattina, e ho la maturità classica.
-Qui non le servirà, gli rispose l'uomo che aveva una faccia da cavallo. Cerchi Frau Müller al piano di sopra; è lei il suo capo.
Il suo capo quindi era una donna, e aveva una faccia da topo. Forse si diventa così qui dentro dopo un po' di tempo, pensò Marco. Speriamo non mi venga una testa da babbuino.
-Lei è a disposizione per qualsiasi lavoro: le capiterà di dover tagliare l'erba dei prati, riparare l'intonaco di un muro, verniciare una porta, ma la sua mansione principale sarà quella di pulire e lavare le gabbie dei Felidi, dei felini per intenderci, aggiunse vedendogli fare una faccia strana; pulirà le gabbie dei felini quando gli animali sono nelle stalle, e pulirà le stalle quando gli animali sono nelle gabbie. Non abbia paura, le porte e i cancelli sono manovrati automaticamente dall'esterno e non è mai capitato nessun incidente.
Lo condusse a vedere di cosa stesse parlando, cioè le stalle, chiuse al pubblico, dove gli animali pernottavano, e la serie di stanzoni corrispondenti alle gabbie esterne, che avevano tutti una larga parete costituita da una vetrata a prova d'urto. Tutte le vetrate davano su una galleria semi ovale dove sostava il pubblico quando c'era cattivo tempo.
-Gli animali sporcano quotidianamente, ma non amano stare nello sporco, spiegò Frau Müller con voce monotona; poi c'è da considerare la puzza, quindi la pulizia deve essere fatta due volte al giorno, mattino e pomeriggio. Per la prima settimana la lascerò insieme a una operaia già esperta che le insegnerà tutto quel che deve sapere.

Si chiamava Maria e non era né bella né brutta, ma assolutamente comune come il suo nome. Studiava zoologia all'Università. Non parlava molto, anzi pochissimo; diceva soltanto le cose essenziali e andava bene così perché il suo alito era cattivo. Aveva una faccia qualsiasi, ma non rassomigliava al muso di nessun animale, e questo rincuorò non poco Marco.
-Prima devi spalare il grosso, poi portare via tutto quello che resta attaccato per terra col getto d'acqua bollente. Non soltanto gli escrementi ma anche i resti del cibo e la paglia troppo vecchia e bagnata. I nostri ospiti sono molto viziati, concluse e sembrava una malignità.
Quel primo giorno Maria si trascinò dietro il suo apprendista e lavorò apposta a tutto vapore senza fare nemmeno una pausa per fargli sentire subito il tono della musica. Cominciarono dalle stalle, che durante le ore di visita erano vuote, spalando e lavando senza sosta. Verso la fine della giornata Marco aveva le ossa a pezzi e i muscoli duri come pietre. Il pubblico stava ormai sfollando verso le uscite e loro due si incamminarono per un ultimo giro di controllo.
Passarono dal recinto degli elefanti a quello dei bufali; dall'acquario coi coccodrilli alla vasca con le foche e i pinguini; girarono tutto intorno alla grande uccelliera; salirono fino alla fossa degli orsi polari, per poi andare a controllare tutte le stazioni delle scimmie, e infine discesero nella galleria sotterranea dove passarono in rivista le vetrate dei felini, una pantera nera, due leopardi, un leone adulto ben pasciuto e sdraiato tranquillamente su un fianco e due leonesse molto giovani e molto irrequiete.
Maria si fermò davanti all'ultima vetrata.
-Stai sempre molto attento all'inquilina di questa stanza, curala in modo particolare se vuoi tenerti cara Frau Müller.
Marco allungò il collo per quanto poteva scrutando in ogni angolo di quell'ultima stanza.
-Ma è vuota.
-Arriva sempre per ultima. Non lo sai che la primadonna si fa sempre attendere?
Entrò in quel momento con andatura regale. Marco aveva visto alla TV un paio di animali simili a lei: sembrava una tigre, ma era quasi bianca.
-Ti presento Dagmar, la nostra zarina, gli disse Maria.
-Che animale è?
-È una stupenda tigre siberiana di tre anni, nata nello Zoo di Berlino. Frau Müller ha sputato sangue per portarla qui da noi: si tratta dell'unico esemplare nato in Germania, e queste in cattività non si riproducono mai.
-Una cosa rara, insomma.
-Si capisce! Frau Müller la adora. Guardala: bella, capricciosa e intelligente. Non ti pare che capisca quello che stiamo dicendo?
Dagmar era giunta davanti al cristallo e si era seduta sulle zampe posteriori come fanno i gatti; guardava Marco con la testa leggermente piegata da un lato.
-Le sei piaciuto, guarda solamente te.
-Starà pensando a quanto sarebbe bello sgranocchiarmi.
La tigre sbadigliò.
-Sta ridendo, esclamò Marco. Come cavolo ha fatto a capire la mia battuta?
-Macché, sta sbadigliando.
-A me è sembrata una risata.
-Sei matto? Per essere intelligente lo è, ma non fino a questo punto; e poi le tigri non ridono, nessun animale ride.
-Sai dirmi perché, zoologa?
-Perché non hanno la muscolatura adatta. Ma quando sono contenti te lo fanno capire. Questa per esempio ronfa come una gattina.
Prima di uscire dalla galleria Marco si voltò a guardare cosa facesse Dagmar. Era rimasta seduta e allungava il collo fino a toccare il vetro con la testa per poterlo ancora vedere. Sbadigliò di nuovo e a lui questa volta sembrò che gli avesse veramente sorriso, ma se lo tenne per sé altrimenti Maria lo avrebbe preso per stupido.

Per tutto il resto della settimana Marco non rivide Dagmar. Non gli capitò mai di attraversare i giardini di fronte alle gabbie all'aperto né di entrare nella galleria sotterranea, perché era prossimo l'arrivo di alcune scimmie giapponesi e bisognava ristrutturare un vecchio recinto da tempo disabitato, rifare una tettoia e dragare il fondale di un laghetto sporchissimo. Gli rimaneva appena il tempo per respirare con Maria che lo tirava di qua e di là coma fa una locomotiva.
Gli era sembrato però di sentire che alcuni colleghi si lamentassero di quanto fosse diventato irrequieto uno dei felini, ma non aveva afferrato a quale alludessero. Il sabato sera negli spogliatoi, mentre si cambiavano d'abito, sentì uno dei guardiani più anziani dire che sarebbe stato meglio se quella tigre fosse rimasta a Berlino.
-È sempre stata lunatica, ma da un po' di tempo è nervosa e arrogante: ruggisce, soffia e sbuffa, tanto che passare vicino alla sua gabbia ti viene la pelle d'oca. Chissà che le è preso.
-Può darsi che stia diventando matta, disse un altro; ho sentito dire che a volte succede con animali così delicati.
-Io dico invece che ci vorrebbe un bel maschio per calmarla, aggiunse un terzo.
S'erano fatti una gran risata e sembrava finita lì. Marco però quella notte dormì male. Non riusciva a non pensare a quella tigre bianca, nervosa e sbuffante.
Il lunedì mattina, indossò la tuta da lavoro, afferrò un badile e si recò alle stalle, sapendo che quelle dei felini erano già vuote. Spalò e innaffiò più velocemente che poté, poi disse ai colleghi che andava a rinfrescare le stanze della galleria.
-Sta già piovigginando, e di sicuro il tempo peggiorerà. Fra non molto faranno rientrare i felini, meglio che mi affretti.
Le stanze erano vuote, lo sapeva bene. Occorreva l'autorizzazione di Frau Müller per farvi entrare gli animali, ma a lui era venuto l'impulso di arrivare il più vicino possibile a quella tigre.
Digitò sul computer la chiusura ermetica dei cancelletti che separavano ogni stanza dalla gabbia esterna corrispondente, come gli aveva insegnato Maria, poi premette contemporaneamente il tasto di controllo e F4 facendo scattare la serratura del portoncino blindato della stanza di Dagmar. Gli avevano raccomandato di non entrare mai in una di quella stanze senza che un collega fosse vicino al computer, ma lui si stava infischiando di tutti i dispositivi di sicurezza. Eppure non era un cuor di leone, tutt'altro. Non amava il rischio, per questo non aveva voluto imparare a nuotare e non aveva mai guidato una moto; non andava nemmeno in bicicletta, e adesso era entrato nella stanza di una tigre siberiana di tre anni, lunga due metri senza contare la coda. Ma era come in trance.
-Dove sei? mormorò
Inspirò forte con le narici allargate, rumorosamente, e gliene arrivò l'odore un attimo prima di vederla. Era emersa silenziosa dal nulla e adesso stava immobile a meno di quattro metri da lui, dietro il cancelletto, coi sensi tesi. Marco percepì l'enorme tensione dell'animale, simile alla sua.
"Scappa!" si gridò dentro in un rigurgito di lucidità, ma quando si mosse non schizzò fuori dal portoncino blindato, si avvicinò invece lentamente al cancelletto. Adesso era a meno di tre metri, molto meno di tre metri. La tigre si alzò sulle zampe posteriori poggiando quelle davanti sulle sbarre trasversali del cancelletto: accostò il muso vicinissimo alle sbarre verticali come se volesse provare a passarci attraverso, però la sua testa era troppo grossa e le sbarre troppo vicine l'una all'altra. Ma non desistette, e tenne il muso fermo tra due sbarre come se aspettasse che lui le si avvicinasse.
E Marco fece un passo. Se la tigre adesso avesse allungato una zampa lo avrebbe colpito, afferrato, dilaniato.
"Vattene!" si urlò dentro ancora una volta; ma di nuovo fece un passo in avanti. Adesso le vedeva gli enormi occhi gialli (sono curiosi quegli occhi, sono felici quegli occhi) e i baffi finissimi e folti ai lati della bocca (fauci! sono fauci quelle, gran dio!).
Marco aveva il cuore in gola, ma non era paura. Vide l'enorme torace dell'animale espandersi e nel mezzo i folti peli alzarsi e abbassarsi veloci.
-Quello è il tuo cuore, disse; batte veloce quanto il mio; il tuo cuore batte insieme al mio.
Annusò di nuovo con forza e inspirò il profumo di lei, il profumo di una tigre.
"Tutti gli animali puzzano, ma lei profuma" pensò.
Era a non più di mezzo metro e poteva toccarla, aveva un grande desiderio di toccarla, un enorme bisogno di toccarla. Alzò un braccio e avvicinò la sua mano al muso della bestia. Gli sembrò che i lunghissimi baffi vibrassero e che gli occhi gialli si socchiudessero per un paio di millimetri. Rimase fermo con la mano a qualche centimetro dal muso di Dagmar per un secondo e per l'eternità.
Di colpo si girò e volò fuori dalla porta blindata. La chiuse con forza sbattendola, digitò freneticamente sui tasti del computer, e appena sentì lo scatto della serratura si lasciò scivolare a terra in un bagno di sudore.

sabato 19 febbraio 2011

ANTEPRIMA

Carissimi, da domani comincio a postare -ma che brutta parola- un racconto che ho scritto qualche anno fa quando mi sentivo tanto più poetico e leggero di adesso.
Parla di una tigre siberiana che si innamora del suo giovane guardiano, e lui di lei. È una favola, si capisce, perché di solito le tigri siberiane i guardiani incontrati dentro le loro gabbie se li pappano.
Potrei anche cominciarlo oggi, ma il mio oroscopo crucco dice per me: "Sie stehen glänzend da, sind beliebt bei Ihren Freunden, geschätzt von den Kollegen.
In der Liebe ist heute ein herrlicher Tag für ein zärtliches Date".
Traduzione: "Lei sta brillando, amato dai suoi amici, tenuto in gran conto dai colleghi. In amore oggi è un giorno sovrano per una data molto importante". Ignoro di quale data parli, ma visto che tutti mi vogliono bene meglio non scrivere niente più per non tediare ed essere mandato a quel paese.
A domani, amici.

domenica 13 febbraio 2011

QUANDO UN COMPLEANNO CAPITA DI MERCOLEDÌ

Qui in Doiccelandia la gente lavora sul serio, non si può scherzare col tempo e con le feste. Per questo, quando un compleanno capita in mezzo alla settimana si fa quello che in Italia avviene con le feste religiose: si sposta il tutto al fine settimana.
Ieri qui da noi c'era un gran casino. Un viavai continuo, un logorio di nervi che non voglio raccontare per non dovermelo ricordare.
Le cose brutte innanzitutto.
Piatti a iosa da lavare e da asciugare stamattina.
Due bicchieri di cristallo rotti.
Una semina di frammenti, a volta microscopici, di salatini per terra e, ahi ahi, sui divani seminuovi, nel senso che erano nuovi una settimana prima, fatta da due seminatori di eccellenza, quei diavoli di anni tre dei gemelli.
Una sbronza del festeggiato, che, assaggia questo e assaggia quest'altro, stamattina c'erano sei bottiglie vuote sei, di pregiatissimi vini. Forse si aspettavano che dessi i numeri, sti scemi.
Le cose belle, adesso.
Una sbronza del festeggiato, che così è riuscito ad innalzarsi sopra le disgrazie e i dolori della vita quotidiana di questo febbraro non corto ma tanto amaro.
Una maglia dell'Inter formato trasferta in Champions Leage -bianca per chi non è addetto ai lavori, con banda trasversale nerazzurra- con dietro scritto "ENZO" e il numero, ovviamente il 77. Regalo di Chicco, e chi sennò.
Un libro di Paolo Coelho "Lo Zahir", che Cristina mia nipote mi ha regalato. Ignoro come abbia fatto a sapere che avevo preventivato di comprarmelo appena messo piede in Italia, cominciando a cercare nel settore libri della prima area di sosta vicino Pontebba.
Un cellulare Samsung GT - E 2550. Boh! Che vorrà di?
Naturalmente adesso me lo dovrò iniziare a studiare, perché io cellulari non ne ho mai avuti e li ho sempre guardati con diffidenza.
Vedremo.
Poi il gran casino generale che è partito alle sedici ed è finito a tarda serata, l'ora non me la ricordo più. Ero sbronzo.
Così anche questa è andata.
Avanti la prossima.

martedì 8 febbraio 2011

I MIEI PRIMI GLORIOSI 77 ANNI

Oggi si compiono i miei primi 77 anni.
Mi lascio prendere e trasportare dal fascino della matematica spicciola, ovvero -parafrasando Paolo Giordano- la compagnia dei numeri doppi.
L'ultima volta era un 66. Correva l'anno 2000; correva perché si stava concludendo il secondo millennio. Alla fine aveva il fiatone, ma non inciampò mai.
Prima c'era stato un 55. Eravamo approdati nel 1989, un anno di ripresa da eventi voluti e non voluti, che avevano lasciato il segno.
Ancora prima un 44, nel 1978. Correva anche qui qualcosa, ed era il TIR che guidavo io per le strade d'Europa. Ho nostalgia di quei tre anni: al volante di un bestione lungo 24 metri, un otto assi di 1600 quintali di tara e pieno carico, 9200 cc e 1400 cavalli, ti senti Dio. Io mi sentivo il dio delle strade d'Europa da Lisbona a Przemysl, confine dell'Unione Sovietica, 280 chilometri a Est di Cracovia.
Sempre prima un 33, nel 1967. A Roma, retour de Milan; abitavo a Viale Jonio, con tre donne deliziose che mi aspettavano a casa: due mi chiamavano "papà"; una mi chiamava "Enzo matto", e poi in un altro modo che non sta bene riferire Urbi et Orbi.
Col 22, nel 1956, accanto a me c'era un'altra donna, il cui ricordo mi rovinerebbe la giornata.
Finiamola qui.
Anche perché col numero 11 si sta nel 1945, anno di rinascita, dicono oggi sul Terzo nel programma "Correva l'anno", e io gli darei una martellata sulle palle. Rinascita un corno! Civitavecchia era un cumulo di macerie, della nostra casa rimanevano in piedi tre muri, uno era quello rosa della cucina. Poi basta. Mia madre non si era ancora sollevata di un millimetro, e non si sarebbe più riavuta per il resto dei suoi giorni da un dolore inumano che l'aveva piagata.
OK! Sempre vinti dal fascino della matematica spicciola si potrebbe raddoppiare, dividere, sottrarre, moltiplicare.
Così 7+7 fa 14: il mio primo anno di ginnasio; le mie incomprensioni con un professore di Latino e Greco giovanissimo -22 anni- e gasatissimo, destinato a diventare "lo mio maestro di vita".
L'anno in cui potevo crepare per un attacco di appendicite perforata, che solo mio zio Aldo prese sul serio. Mi infilò dentro il sidecar e mi portò all'ospedale qualche ora prima che l'infezione esplodesse in peritonite. Allora se ne moriva senza scampo perché la penicillina era ancora negli U.S.A.
7-7 uguale a zero; quindi ante nascita, quindi mobilissimo nel pancione, guizzante nel liquido amniotico.
7:7 uguale a uno. Un anno di vita e tutti intorno a me, al maschietto nuovo nuovo della famiglia Iacoponi. Tutti a guardarselo beati come i pastori nel presepio.
7x7 uguale a 49: -1 dal mezzo secolo, nel 1983, anno di lunga attesa senza sapere di che cosa.
Finito qui? Eh no! Perché il 77 è un numero fatidico, che ricorre nella mia vita ben due occasioni, nelle quali ho salvato la pelle miracolosamente.
(Oh mio Dio! Ho detto fatidico: all'inizio del mese ho già usato questo aggettivo in un post e mi è venuta addosso una montagna. Speriamo bene questa volta).

La prima occasione il 26. 8. 43.
Se si fa la somma delle cifre di quella data si ottiene infatti il numero 77.
Quel lunedì mattina il sole sorgeva da dietro i monti della Tolfa, allungando le ombre di Civitavecchia su un mare calmo come un biliardo.
Ero arrivato il giorno avanti da Valentano -dove la mia famiglia era sfollata dopo il primo bombardamento aereo del 14 maggio- a cavalcioni sulla canna della bicicletta di mio padre. Un viaggio epico, con lui che pedalava gagliardo e il vento tutto in faccia a me. 52 chilometri. Dai papà che sei grande come Gino Bartali!
Casa nostra era ancora in piedi, ma lesionata e inabitabile. Così avevamo alloggiato a casa di zio Aldo, che abitava in collina, lontano dal centro. Una caciara immensa coi due miei cugini per il resto della domenica, e la notte tutti e tre in un lettone a ruzzare, a darci spintoni e a spremere fuori puzze io e mio cugino Umberto, per fare rabbia a mia cugina.
Il mattino dopo, verso le nove, di nuovo a cavalcioni della canna della bici perché si dovevano prendere alcune cose da casa nostra e poi via di corsa a Valentano per arrivare prima che facesse notte.
Dalla prima volta a maggio le fortezze volanti americane non erano più venute a buttar bombe.
"Non vengono più -diceva la gente- il porto è vuoto e non ci sono più soldati in città"
Tutti pensavano che la guerra fosse finita per i civitavecchiesi, e la maggior parte degli sfollati era rientrata in città.
Così papà se la pigliò un po' comoda.
-Vieni, ti porto al Pirgo.
Lo stabilimento balneare della Civitavecchia bene.
-Faccio il bagno, papà?
-Bagnati fino alle ginocchia.
Nemmeno una mezzoretta. Poi si va via e si imbocca la strada del ritorno. Da Viale della Vittoria a Viale Garibaldi, arrivati davanti al Grand Hotel attaccano a suonare le sirene d'allarme il loro suono lugubre e agghiacciante.
C'era sulla destra una strada in salita, in cima alla quale avevano costruito un rifugio antiaereo, un cantinone di cemento armato interrato profondamente nel suolo con una scala ripidissima di accesso.
Papà si alzò sui pedali come Fausto Coppi e schizzò su arrivando tra i primi. Mi aiutò a scendere in quella spelonca semibuia tenendomi le mani sulle spalle. C'era un inferno di gente sudata e morta di paura. Nel silenzio atterrito di quella moltitudine si poteva udire scendere dall'alto il rumore sordo e monotono dello stormo di aerei: come un alveare di calabroni in movimento sopra di noi.
-Passano, disse uno su in alto.
-Vanno via, vanno a Viterbo -disse un altro con voce stentorea.
-Se ne vanno, se ne vanno -gridavano ormai in tanti.
Sembrava fosse cominciata la festa di Santa Firmina, la patrona della città.
Parlavano tutti, ridevano tutti.
Di colpo echeggiò il suono lungo della sirena del cessato allarme.
Venimmo su gradino per gradino a fatica, perché la scala era ripida, gli scalini assai alti e la gente non aveva fretta.
A me scappava la pipì.
Sempre per il fatto che io mi vergognavo a farla dietro a un albero se qualcuno mi guardava, e lì c'era una folla che sciamava fuori da quel rifugio, feci una corsetta fino in fondo alla discesa dove avevo adocchiato un riparo che mi avrebbe coperto alla vista della gente. Era un muretto che scavalcai e mi trovai in una specie di orto. Mentre facevo le mie cose vedevo papà che mi cercava. Si voltò e tornò indietro nel rifugio. "Non mi vede e crede che io stia ancora a salire per quella scala, pensai; adesso lo raggiungo". Ma la pipì non finiva mai.
Il cielo era pieno di lampi: c'era qualcosa che brillava al sole lassù nell'azzurro, come i fuochi di artificio. S'erano fermati in tanti e stavano tutti col naso per aria a guardare quel luccichio che ci veniva addosso.
Nessuno se n'era ancora reso conto, ma erano le fortezze volanti americane.
Lo stormo doveva aver virato sopra il lago di Bracciano ed era tornato indietro per sganciare le bombe a casaccio, all'americana, alla dove piglio piglio, e poi tirare dritto e tornarsene a casa sua, in Tunisia, da dove era decollato.
Mentre tutti i nasi stavano rivolti all'insù arrivarono a volo radente i caccia, che precedevano e scortavano lo stormo. Mitragliavano case, muri, aria e cristiani; mitragliavano tutto quello che si muoveva e che stava fermo.
La gente scappava come topi davanti al fuoco.
Urlavano tutti, correvano tutti.
Tutti, meno io.
Appena finito il mio bisogno e rimesso a posto le mie cose erano arrivati i caccia, poi il fugone del popolo impazzito di paura.
Saltai oltre il muretto e mi trovai sulla strada, ma non riuscivo a muovermi di lì. Qualcuno o qualcosa mi teneva inchiodato davanti a quel muretto, e ormai non c'era più nessuno per aiutarmi: solamente un infinito tragico silenzio al suolo, sopra il quale stava sospeso il mormorio dei calabroni americani.
Mio padre si era finalmente accorto che non stavo dentro il rifugio. Uscì fuori proprio mentre cominciavano le prime esplosioni nella parte più alta della città.
Lo vidi corrermi incontro, ma vidi anche le ombre dei caccia.
Mi urlava qualcosa, ma io continuavo a seguire le ombre dei caccia.
Ne arrivò uno, più basso degli altri. C'erano fiammelle che vibravano sulle sue ali.
Mio padre si tuffò come un rugbysta: mi placcò e mi trascinò qualche metro lontano di lì, nascondendomi sotto il suo corpo, mentre intorno esplodeva tutto con sibili laceranti.
Rimanemmo così a ridosso del muretto, mentre sulla città si scatenava l'inferno.
Avevo gli occhi a livello del suolo: vedevo solo il fumo nero delle esplosioni e la polvere, una nuvola enorme, sollevata dai crolli delle case, dei palazzi del centro, di un'ala del Grand Hotel.
A un tratto, forando la nube di polvere come sparato da un fucile, schizzò fuori un ragazzo molto molto giovane. Correva verso di noi, verso il muretto. Correva a piedi scalzi, la camicia spalancata come una vela gonfia dietro la schiena, il petto nudo.
Una raffica, un tonfo.
Planò sul dorso con la testa a qualche metro dalla mia. Non si mosse più.
Qualche minuto dopo l'inferno era finito e ne cominciava un altro: c'erano feriti lì intorno, tanti feriti; qualcuno si lamentava, qualche altro nemmeno si muoveva più.
Papà si era alzato e guardava il ragazzo scalzo abbattuto vicino a noi.
-Non guardare! Mi intimò con un grido e mi girò la faccia.
Ma io l'avevo visto il mio primo morto.
La pallottola dell'aereo americano gli era entrata dalla schiena, dove aveva fatto un buco, ed era uscita dal davanti. Ma il cosiddetto foro di uscita non c'era, non si vedeva: il torace era spalancato come un grande libro aperto a metà. Si vedevano solo costole, come quando appendono i maiali squartati.
Non c'erano polmoni, non c'era il cuore, non c'era più niente: solo ossa e sangue che già coagulava.
Il mio primo morto.
Papà gli chiuse gli occhi. Io non gli chiesi nulla; non ne parlammo mai più. Ma io sapevo che se lui non avesse fatto il rugbysta accanto a quel ragazzo sarei rimasto anche io.

La seconda occasione si verificò al Km 77 della E40, un sabato sera sul tardi del mese di aprile 1977.
Qui il 77 torna due volte, come si può vedere.
Il bello di lavorare nella più grande ditta europea di Trasporti Internazionali -2500 TIR in giro per l'Europa ogni giorno- era che quando un sabato sera un autista staccava per una settimana di riposo dopo 21 giorni filati seduto in cabina, aveva a disposizione un pernottamento pagato in un Hotel Garni a 3 stelle, e l'indomani un auto a noleggio per tornarsene a casa.
Parcheggiai il mio SCANIA nella immensa Hof della nostra filiale di Hannover, dove un altro autista lo avrebbe messo in moto la sera dopo alle 22.
Rifiutai l'albergo; mi piaceva guidare di sera tardi e di notte. Dall'ADAC presi in affitto un Golf sport giallo oro con 150 cavalli. Piglia i 200 in mezzo chilometro e tiene la strada da Dio.
Mezzora dopo schizzavo nel traffico sonnacchioso dei ritardatari cronici del sabato sera, e dei rompiballe appena svegliati che si precipitavano nelle discoteche, in una autostrada sgombra di TIR.
Giù a tavoletta sopra una macchina che ti chiede solo di spingere a fondo il "Gaspedale".
C'era nebbia, ma si vedeva bene, almeno 100-150 metri, di più non mi occorreva.
Mi viene fatto di pensare che proprio su questa autostrada un anno prima era avvenuto l'incidente per nebbia più tragico della storia automobilistica tedesca: 39 morti e una settantina di feriti.
-Non ci sará questa volta una pazza che entrata in un banco di nebbia pianta la macchina a fari spenti e portiere spalancate in mezzo alla strada e scappa nei campi -mi dico a voce alta- non può succedere due volte.
La mia radio è spenta, come sempre. Quando guido odio ascoltare musica; quando guido io mi parlo. Mi pongo domande, mi do le risposte alla Marzullo. Mi racconto storie. Mi ricostruisco momenti brutti della mia vita, dandogli un altro corso, un altro esito. Vivo una vita che non c'è, ma è tutta dentro di me. Mi piace un sacco farlo. Guiderei tutto il tempo da solo proprio per questo.
La nebbia a tratti è intensa, aumenta con l'avanzare della notte.
Sono sceso a 170. Adesso i 200 te li puoi scordare: una volta sceso di velocità non c'è verso di tornarci più, anche se hai un cuore di leone come il mio.
Ci sono macchine lentissime sulla corsia interna; morti di sonno, morti di paura. Ho abbandonato da tempo la corsia centrale, sto su quella veloce, ma non riesco a tirare il Golf oltre i 120, dove sono sceso perché un lumacone non mi dava strada.
Tento di rialzare la media oraria ma non ci riesco. Colpa di un tappo psicologico: se si pensa bene la strada che si vede è sempre la stessa, 50-60 metri, sia che si vada a 70 orari sia che si vada a doppia velocità, ma non si riesce a spingere oltre i 70. Colpa di questo tappo psicologico, e colpa di questo stronzo che mi sta davanti sulla corsia veloce a meno di 80. Lampeggio, bestemmio, suono, ma lo stronzo scende a 60. Rilampeggio, ribestemmio, risuono e finalmente lo stronzo su Mercedes 240 mi lascia strada.
È una stronza di almeno 60 anni che guida col muso incollato al volante. Ti pareva!
La sorpasso poco prima della fine di una salita e le mostro il dito.
Dovrei invece baciarle i piedi perché la stronza mi ha salvato la vita.
Arrivo infatti in cima alla salita molto lentamente, perché ho perduto tutto l'abbrivio.
Scollino e davanti a me, a poche diecine di metri, un muro di lamiere, di auto che si sono schiantate e accartocciate le une alle altre. "Massenkarambolage", collisione a catena, disastro.
Freno a morire e l'auto mi si dispone di traverso a cavallo della striscia di separazione delle due corsie esterne.
Non ho il tempo di guardare quello che è già successo alla mia destra perché dalla parte sinistra, dall'alto scendono altre macchine in frenata con al volante gente come me, in preda al panico.
Un Volvo si ferma a qualche metro da me; un Mercedes lo tampona e me lo scaraventa contro, ma qualcosa devia il Volvo che scorre dietro il mio Golf e lì resta, senza sfiorarmi la carrozzeria.
Per un attimo sembra tutto finito, ma ecco la mia morte: ha il muso e i fari di un grosso BMW. Il guidatore sembra non aver visto niente, perché scende velocissimo. Il muso del BMW punta dritto verso i miei occhi.
Io so adesso cosa si prova quando si è sicuri di morire: assolutamente nulla. Ti distacchi dal mondo, dalla vita, non pensi a niente in preda all'apatia, alla rassegnazione. Non riesci a togliere gli occhi da quella cosa che ti vuole morto.
La BMW non si ferma, non frena, accelera: urta contro qualcosa, si impenna, si rovescia e passa col suo tetto sopra il tetto del Golf strappandone l'antenna radio e si infila dentro un Passat a qualche metro da me con un boato orrendo.

Quando la Polizei arriva in massa con pompieri, ambulanze, medici di primo intervanto, due elicotteri, io sono in piedi che giro intorno al Golf. Non c'è un graffio, è solo impolverato.È l'unica auto praticamente illesa in un mare di lamiere contorte, sembra calata dall'alto con una gru a spettacolo finito dentro l'unico punto di strada libero.
Un Polizist sta girando intorno alla macchina illuminandola con la sua torcia elettrica.
-Offizier -gli chiedo- dove ci troviamo?
-Al chilometro 77 della E40, direzione Frankfurt am Main.
Continua a girare intorno al Golf; si china, osserva, illumina, tocca.
-È suo il Golf?
-Sì, è il mio.
-Mein Gott! Aber Sie haben Glück gehabt.
Lei ha avuto fortuna, mi ha detto.
È educato come tutti i poliziotti tedeschi; fossimo stati a Roma mi avrebbe detto:
-A morè, ammazza che culo che ciai.





venerdì 4 febbraio 2011

FEBBRARO NUN É 'N MESE COME N'ANTRO. É 'N MESE BELLO, BELLO TANTO

Chi dice che febbraro è corto e amaro nun ha capito gnente: febbraro è bello perché adè er mese mio, de la mi moije, che fa l'anni oggi TANTI AUGURI ANNAMARÌ , volete da sapé quanti? Nun se dice de le siggnore, ma fra na settimana, quanno che li fo io ve do a tutti l'enigghema patriottico arittemetico e vedemo che cazzo ce capite.
Allora che stamio a dì? Sì, adè er mese mio, de la mi moije, de la mi fija primmoggenita e poi è stato sempre er mese celebbrato ne la famija nostra come quanno che se nasce du vorte, che se rinasce, che nun se more, boh! che cazzo ne so, ma er mi padre ner febbraro der 1917 doveva da morì e poi invece no, nun è morto.
Io sta storia me la so sentita ariccontà ar minimo na mezza miijarata de vorte, che si chiudevo l'audio a mi padre e je lassavo solo move la bocca come li pesci nell'acqua, le parole le potevo dille io co le virgole, li punti e la postrofi.

Basta, adera allora che mi padre stava in fanteria drento a na trincea a Conca di Plez, che mo adè Slovenia, ve possino ammazzavve. Ciaveva 21 anni ma pareva 'n pischello de 15 e quarcuno lo pijava per culo. Così lui se fece mette ndé l'Arditi che ereno na specie de commandos de li tempi.
Ciaveva 'n sergente de Genzano, un fijo de na mignotta, che se chiamava Biaggio Marini e je faceva piscià sangue.
"A Jacopò! Com'è che nun te cresce nemmeno 'n pelo sur barbozzo?"
"E che ne so, nun me viè gnente"
"Cellai su le palle?"
"Cellò ner bucio der culo" jarispose papà tutto 'ncazzato.
"Meijo, così te fanno da sbaramento"
E giù tutti a ride, sti coijoni.
Er mi padre ce sformava ma doveva da ingozzà.
"Seghettate le baionette -ordinò 'n giorno Biaggio Marini- je le dovete da infilà ndé la panza a sti doicce der cazzo, che devono da soffrì prima de crepà"
E tutti a seghettà le baionette, de corsa sinnò ereno carci in culo.
Na sera Biaggio Marini s'avvicina a mi padre e je fa:
"Jacopò, fra 'n'ora annamo io e te a taijà er filo spinato che domatina c'è l'assarto"
"Ce sto" jarispose mi padre.
S'anniede a preparà ma se sentì tirasse la giacchetta. Era Carletto De Fazi, n'amico suo, de Citavecchia puro lui.
"Amblè, damme la baionetta e píete la mia. Si t'agguanteno li bosniaci co quella seghettata nun li vedi più li scoijetti de casa nostra"
Se scambiorono le baionette, e così Carletto De Fazi sarvò la vita der mi padre, ma in quer momento ce lo sapeva solo Cristo.
Anniedero Biaggio Marino, sergente der cazzo, e Ambleto Jacoponi, ardito scerto senza peli sur barbozzo.
"A sergè -disse mi padre doppo 'n po'- stamo a fa troppo casino, quelli ce senteno"
"Quelli se cacheno sotto. Nun te preoccupà Jacopò, taija e nun rompe li coijoni"

Ma quelli staveno 'nguattati: Sortirono tutti fora sparanno come li matti.
Mi padre lo corsero a na coscia, er sergente ar core. Schiattò subbito.
Arimaneva n'omo solo, ferito e stracacato da la paura.
"Aber der ist nur ein Bube"
Ma questo è 'na creatura, disse er doicce che commannava.
"Zeige mal Dein Bajonett"
Facce vede sta baionetta e siccome viddero che nun era seghettata, invece de infilajela nde le budelle mille vorte, lo portorno all'infermeria a carci in culo.
Così sarvò la pelle er mi padre, perché ciaveva la baionetta de Carletto De Fazi e perché nun ciaveva peli sur barbozzo.
Quanno se dice er culo.
Così pe mancanza de peli e de seghe 17 anni doppo so nato io.
Quanno se dice er culo.