giovedì 30 giugno 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Parte settima


Dopo che avemmo pranzato passò all'attacco e mi disse chiaro e tondo il motivo per cui mi aveva cercata. Dopo la morte degli Zervos nessuno ancora se l'era sentita di prendere in mano l'eredità del loro lavoro e di concludere il Catalogo, e si era accumulata un'enorme quantità di quadri, disegni, schizzi, gouache in una grande confusione di date. Non era stato più registrato niente, e la seconda moglie e ultima compagna di vita del maestro, Jacqueline Roque, con la sua pretesa di controllare tutto, di vedere tutto e supervisionare tutto metteva ancora più confusione nella gran confusione. "Questo è il momento, mi disse Josephine; ho visto alcune tue imitazioni che sembrano veri Picasso. Copiare la sua firma sarà un gioco da ragazzi, potrei farlo anch'io. Ti giuro che c'è da fare un sacco di soldi".
Obiettai che che c'erano già tanti falsari in galera e che non mi sembrava il caso di sovrappopolare le celle. "Uno o due quadri soltanto, mi rispose; pensavi di dover fare una serie? Picasso di solito di un soggetto dipingeva tre o quattro quadri in un giorno con minime variazioni. Uno o due quadri, ti ripeto, possibilmente del '68 o del '69 quando Christian Zervos era ancora vivo. Io sarò la testimone vivente dell'autenticità, io e la mia macchina fotografica, e i quadri verranno catalogati insieme agli altri. Stai tranquilla che non c'è nessun pericolo: ho già pensato io a tutto".
Esther si deterse il sudore dal viso con un fazzolettino di lino; si accomodò al meglio sui cuscini, poi raccolse le foto che aveva sparpagliate sulla coperta.
Verena intanto teneva le labbra tenacemente incollate: temeva le sfuggisse una domanda o un commento. Si sentiva parzialmente confusa e integralmente fatta, come dopo una sniffata di coca, ma non era così stupida da correre il rischio di arrestare con una sola parola l'accadimento di un evento che ormai le sembrava certo. In due giorni quell'anziana donna le si era trasformata davanti agli occhi da mite studiosa di antichi testi teologici a una intrigante e spregiudicata protagonista della storia che tante vite umane aveva distrutto o radicalmente cambiato; ma adesso le si stava per rivelare come un'astuta truffatrice, una falsificatrice di quadri d'autore, una volgare arraffa soldi senza scrupoli. Perché lei si decidesse a vuotare il sacco alla svelta Verena tenne le labbra serrate e attese.
-Mi convinse. Ma non fu Josephine con le sue chiacchiere, o la bramosia dei tantissimi quattrini che avrei potuto lucrare: a convincermi fu l'idea che sarei entrata in quel Catalogo di cui si favoleggiava; che uno o due quadri da me dipinti potessero finire affissi alle pareti di un museo internazionale, guardati e ammirati da milioni di persone, copiati da migliaia di giovani pittori, questo mi convinse, e dicendolo porse alla ragazza le due piccole foto a colori. Dipinsi tre Picasso. Questo è il primo: si tratta di una raffinata variazione del "Mousquetaire à la pipe", che Picasso dipinse il 16 ottobre 1968. Al posto dei rossi ho usato toni di verde, al posto del grigio l'azzurro e un po' di nero. Cambia la posizione delle gambe e la poltrona dove il fumatore siede è più massiccia. Questa qui è la foto di Josephine che è finita sul Catalogo, e questa me la scattò mentre ero all'opera, aggiunse offrendo a Verena una piccola fotografia in bianco e nero. Nessuno ha mai sollevato dubbi sull'autenticità di questo quadro.
Raccolse un'altra pagina di giornale e la porse a Verena. In un breve articolo si dava notizia dell'acquisto da parte di un collezionista americano del quadro "Mousquetaire à la pipe dans un fauteuil", dipinto il 19 ottobre 1968 per un milione e mezzo di dollari.
-Non ho avuto un centesimo; lei è padrona di non credermi. Ero orgogliosa e felice, mi bastava pensare che qualcuno avesse tirato fuori tutti quei soldi per un quadro che avevo dipinto io. Ma era un Picasso vero quello e non un Samenberg.
Le mostrò l'altra foto a colori.
-Questo è il secondo quadro che dipinsi, una imitazione di "Tête d'homme", che Picasso realizzò il 6 luglio del '69. Niente rosso veneziano nel mio, ma rosa acceso e violetto al posto del verde; per il resto poche variazioni come avrebbe sicuramente fatto il maestro stesso. In questa piccola foto in bianco e nero sto sorridendo a Josephine che mi ritrae col pennello in mano pronta ai ritocchi conclusivi.
Rimase un attimo silenziosa tenendo gli occhi chiusi.
-Questo quadro nasconde una tragedia, disse infine. Josephine lo portò a Mougins nel febbraio del '74, nascondendolo arrotolato dentro un suo stivale. Mi telefonò per dirmi che tutto era andato liscio e che mi avrebbe fatto sapere quando ci saremmo riviste. Passarono molte settimane durante le quali non si fece viva, non mi scrisse né mi telefonò; ma io non diedi peso alla cosa, perché Josephine era fatta così, prendere o lasciare: quando le veniva un'idea in testa le correva dietro e si dimenticava del mondo intero, e c'è da dire che a lei di idee per la testa gliene passavano sempre cento alla volta.
Alla fine di aprile mi arrivò dentro questa busta spiegazzata una mezza pagina de "Le Figaro". Un articolo breve, stringato, un po' freddo sul suicidio incomprensibile di Josephine Kneff.
"Anche il terzo lato del triangolo Zervos se ne è andato" era il titolo dell'articoletto.
"Nessun biglietto, nessuna lettera di addio come ogni buon suicida usa fare, nessuna spiegazione".
Non mi sembrava un comportamento da Josephine, di cui non conoscevo però niente all'infuori di quel che mi aveva raccontato lei nei pochi mesi della nostra convivenza. Ma Jacqueline Roque-Picasso, che molto bene l'aveva conosciuta, da me raggiunta per telefono, confermò la mia impressione. Mi disse di essere rimasta sbalordita da quel che era successo. "Ci eravamo incontrate la sera prima, ricordò Jacqueline; parlammo del Catalogo, come sempre, perché stava a cuore a entrambe, e di cento altre cose. Era tranquilla, mi sembrò anche allegra. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo". Invece lei il giorno dopo si uccise. Anche a madame Picasso sembrava un comportamento assai insolito. Ma la polizia parigina non aveva dubbi, mi disse: Josephine si era sparata una revolverata in bocca con un revolver da cowboy ragalatole da Pablo, che a sua volta lo aveva avuto in dono da Gary Cooper. Una morte atroce. Ma chi era che ci teneva tanto che io ne fossi informata inviandomi quella busta? Chi era che sapeva dei miei recenti rapporti con Josephine, e quanto ne sapeva? A me Josephine aveva parlato di un segreto estremo, tra noi due sole, come era logico che fosse: in fin dei conti avevamo commesso un reato di truffa e chissà quanti altri ancora. Era inimmaginabile che ne avesse fatto parola anche con altri. Aspettai quindi con ansia un'altra lettera o comunque un altro segnale, ma dopo questo pezzo di giornale più nulla, per mesi interi. Mi occorse molto tempo per riprendermi dallo shock di quel suicidio assurdo e dalla paura di chissà quale ricatto.
La prima settimana di ottobre di quell'anno mi fu recapitato un pacco spedito a Parigi da un anonimo mittente: conteneva uno stivale da donna del tutto simile a quello con cui Josephine aveva contrabbandato il mio falso Picasso. Lo stivale aveva un foro sulla punta. Lei non lo sa, Verena, ma in quei tempi veniva proiettato nelle maggiori sale cinematografiche europee il western di Sergio Leone "La conquista del West". C'era una scena dove uno dei buoni ammazza uno dei cattivi nascondendo il revolver dentro uno stivale. Il messaggio era forte e chiaro: qualcuno mi mandava a dire che sapeva dei falsi e che Josephine era stata "suicidata".
Precipitai nel panico e durante una di quelle notti insonni decisi di dipingere il terzo Picasso. Questa volta non volevo un'imitazione: doveva essere una copia esatta, come ai tempi dell'Accademia di Brera. Scelsi "Le baiser", dipinto a Mougins il 26 ottobre del '69 e inserito nel XXXI° volume del Catalogo Zervos alla pagina 484, quindi un falso assolutamente documentabile. Questa l'ho scattata e sviluppata io stessa, disse mostrando a Verena la grande foto in bianco e nero. Scelsi quel quadro dopo attenta ricerca per via del suo formato: era una tela di 97 centimetri per 130. esattamente lo spazio che serviva a me. Non assuma quell'espressione attonita, Verena: non può capire nulla finché non le avrò spiegato tutto. Avevo un testo da trascrivere e da nascondere in modo definitivo, un testo del tutto inintelligibile per me; usando un proiettore mi serviva una superficie come quella di quel quadro per essere sicura di avere l'ingrandimento giusto per non confondermi nella trascrizione dei segni, dei numeri e delle parole che non conoscevo. Non potevo sbagliare e non potevo attendere: sospettavo che dietro la morte di Josephine ci fosse qualcosa di molto più grosso di una storia di falsi. Chi aveva ucciso Josephine conosceva il mio segreto.
Tenne un attimo il fiato sospeso per sentire se le arrivava qualche esclamazione soffocata, ma Verena rimase ostinatamente zitta, perché il ruolo della spalla che offre la battuta alla prima attrice per farle fare un figurone non le piaceva. Se ha qualche nuovo segreto da scoprire lo scopra, pensò, e che sia fatta la volontà di Dio.


Settima pausa





lunedì 20 giugno 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Parte sesta


-Mamma mia, che faccia sbattuta oggi!
La cassiera del bar che vedeva Verena tutte le mattine si era accorta subito della nottataccia che aveva passato.
-E non è nemmeno roba da maschio questa, aveva aggiunto sottovoce; questa è roba da mal di stomaco, da febbre. Forse ce l'ha ancora addosso.
-Ho la testa che mi scoppia.
-Niente caffè macchiato allora, prenda un the.
-Così vado di corpo mentre attraverso la strada. Macché! Mi faccia il solito caffè.
Ma dopo era corsa subito alla toilette per darsi un'occhiata allo specchio. Niente da eccepire se l'altra si era fatta tante meraviglie: aveva la faccia di un pugile suonato con due cerchi scuri intorno agli occhi. Dormito male e poco, sudato abbondantemente tutta la notte. E fuori pioveva. Ci mancava, quando era umido i suoi capelli diventavano una massa di fili di ferro.
Saltellando sui tacchi a spillo per evitare pozzanghere si infilò nel salone del suo parrucchiere, infischiandosene dell'appuntamento che non aveva; doveva fare un completo maquillage per mascherare le occhiaie e restaurare la capigliatura. Mentre stava sotto il casco si diede a esaminare il suo mal di testa, la sua sudata notturna, lo stato confusionale in cui si era ritrovata appena buttate le gambe fuori dal letto. Non c'entrava niente la cattiva dormita: quando dormiva male si svegliava spesso e se ne andava in giro per la casa tirando mattina come un'anima senza pace fin dai tempi dell'infanzia. Non erano nemmeno dolori alla testa dovuti alla febbre, perché non le facevano male la nuca e il collo e respirava bene senza affanno. Quello era il suo tipico mal di testa da ansia, che l'assaliva quando doveva affrontare prove di un certo impegno, oppure quando pensava che stesse per cascarle addosso qualche accidente. Mal di testa da presentimento di disgrazie o comunque di qualcosa assai spiacevole. Ma che diavolo poteva capitarle in quel momento? A soldi andava tutto bene, mai filato via così liscio come adesso. Nessun problema di cuore, grazie a Dio; la fisionomia dell'ultimo amante ormai sbiadita e nessun altro in vista. Salute discreta, come al solito. Insomma niente per cui valesse la pena di allarmarsi, eppure qualcosa sotto la pelle se la sentiva muovere. Doveva mettersi in guardia contro un accadimento misterioso, un vero e proprio accidente, che probabilmente stava effettuando giri concentrici sopra la sua testa prendendo ben bene la mira prima di venire giù in picchiata. La condizione peggiore di attesa è quando non sai cosa cacchio stai ad aspettare, pensò mentre spalancava l'ombrello e si avviava di buon passo verso il suo posto di lavoro.
Con la sua minuta calligrafia da scolaretta delle elementari Esther la pregava nel biglietto poggiato sui tasti del computer di raggiungerla di sopra in camera sua, "in qualsiasi istante del giorno e della notte lei arriverà", concludeva in tono più melodrammatico del solito. Il tempo di togliersi le scarpe bagnate e di infilarne un paio di quelle più basse e comode prima di salire di sopra.
La stanza era quasi al buio, soltanto da un minuscolo abat-jour proveniva un filo di luce. Sentì la signora Samenberg annusare voracemente l'aria in cerca di cattivi odori, che la ossessionavano. Verena non poteva vederla, ma l'immaginava col naso arricciato e la bocca increspata in una piega di disgusto.
-Sono dovuta passare prima dal parrucchiere; questo tempo mi devasta i capelli in modo indecente.
-Una puzza discreta in un certo senso, le rispose l'anziana donna; comunque grazie di non essersi spruzzata addosso quel profumaccio rancido di quell'orribile sarto tedesco.
Stava sdraiata sul suo lettone, appoggiata con la schiena sopra un cumulo di cuscini.
-Apra uno spicchio di finestra, Verena; lasci penetrare un filo d'aria, ma non di più.
In quella camera era entrata più di una volta, ma non aveva mai visto la signora Samenberg a letto; men che meno l'aveva vista con indosso quella antiquata veste da notte stracarica di pizzi e di merletti.
-Si metta comoda, Verena; ne avremo per un bel pezzo.
Avvicinò una poltroncina al letto e sedette accavallando le gambe.
-Dovrò prendere appunti?
-Neanche un po': dovrà tenere tutto a mente, tutto quello che le dirò io.
Si sollevò un poco sui cuscini; prese fiato e congedò con un cenno della testa il tentativo di aiuto da parte di Verena.
-Voglio ringraziarla per tutti gli anni che ha lavorato per me e sopportato i miei cattivi umori, anche se ci ha guadagnato due romanzi di successo.
Fece un altro cenno imperioso con la testa aggrottando le sopracciglia.
-Non mi interrompa. Sappia che ho dovuto sprecare una raccomandazione soltanto per il primo dei suoi libri, perché quel filibustiere del direttore della sua Casa editrice voleva fregarla. Non l'ho fatto per darle un contentino, ma perché ero convinta che lei avesse scritto un bel libro, tutto qui.
Si accomodò meglio la coperta.
-Dunque, come le dicevo, il suo lavoro qui mi è stato prezioso e la ringrazio. Non so quanto tempo ancora potrà durare, due o tre mesi, forse quattro, ma ormai sono arrivata al capolinea, cara Verena.
Si interruppe, prese fiato e continuò a fissarla a labbra serrate con la sua solita posa da commediante consumata. Sapeva che oramai non sarebbe stato più un colpo di scena, che la sua segretaria aveva da tempo capito, ma nessuno le avrebbe tolto il ruolo della primadonna lì dentro.
-Mi è cresciuto un albero nella pancia, disse infine; le radici sono nel colon, ma i rami arrivano da per tutto e da per tutto sbucano foglie, fiori e frutti velenosi. Il cancro è qui, e si appoggiò le mani sul basso ventre; ma ho metastasi ovunque, anche nelle ossa dei piedi. Il mio medico dice che mi restano sei o sette mesi, aggiunse con flebile voce dopo una pausa; durante i primi quattro vivrò, poi vegeterò. Ecco fatto, gliel'ho detto. Adesso badi bene a non commiserarmi: odio le giaculatorie e le lacrime dei coccodrilli.
Ma Verena non aveva voglia di compiangerla, per questo tacque.
Alla signora Samenberg quel silenzio fece un bell'effetto: significava evitare le frasi fritte di circostanza; indicava sgomento e perché no, dolore. Ma sicuro! Ci si affeziona alla gente non soltanto agli animali; anche a lei dispiaceva abbandonare Verena sulla faccia della terra, ci si era ormai abituata a quel bell'animale domestico.
Verena invece pensava prosaicamente al mutuo della casa da pagare ogni quindici del mese, al nuovo job che si doveva cercare, al trasloco dei suoi libri e delle due o tre casse di documenti che ormai le si erano accumulati; per ultimo al grosso problema dei funerali di un personaggio così famoso e ingombrante. Tutto sulle sue spalle, naturalmente, e nessuno a disposizione per darle una mano. Poteva provare alla Sinagoga e tentare col Rabbino, chissà; ma Esther Samenberg se li era inimicati tutti con le sue teorie del cavolo sulla religione dei Padri. Per questo Verena stava zitta: soffriva in silenzio. Capì però che qualcosa doveva pur dirla, che alla fine un commento striminzito a quella notizia bomba doveva strizzarselo fuori dalla bocca, glielo imponeva la sua buona educazione e l'attesa che leggeva negli occhi spiritati di Esther puntati sui suoi.
-Sarò così sola dopo, come un'orfana.
Bel colpo! Si disse. La battuta che mancava sul mio copione. Maledettamente buona per giunta. Glielo leggo in faccia che l'ho sorpresa e scossa con questa allusione alla maternità che lei aveva volutamente rifiutato. Una bella martellata su un portone chiuso ho dato, senti come rimbomba.
Ma Esther impiegò pochi secondi a ritrovare il suo à plomb. Si occupò un po' dei suoi pizzi, lisciò e accomodò il lenzuolo e riprese a parlare dal punto in cui si era interrotta, come se niente fosse stato.
-Grazie per non avere fatto piagnistei né domande inopportune, amica mia. Adesso però spalanchi la finestra, ci sarà bisogno di luce qui dentro.
Verena passò e ripassò due volte davanti al letto per effettuare l'operazione e tornarsene al suo posto sentendosi addosso lo sguardo di Esther Samenberg. Pensò che adesso le sarebbero arrivati come schiocchi di frusta i suoi ordini su come organizzare i giorni, le ore e i minuti da quel momento fino alla sua morte; e poi anche su tutto quello che a lei sarebbe toccato fare dopo la sua morte, le esequie cioè e gli inviti alla cerimonia; e per finire il catalogo di tutti i suoi libri, dei suoi scritti, degli appunti e dei mille oggetti e oggettini che si teneva intorno in quella casa immensa. E guai a prendere appunti, poteva immaginarselo: Esther era sempre pronta a nasconderle trappole davanti ai piedi, felice e beata quando la vedeva infilarcisi dentro a testa in giù. C'era da scommettere che da lì al decadimento finale ogni giorno le avrebbe trovato un compito diverso, e dato tante bacchettate sulle dita a ogni dimenticanza, lei che non si scordava mai di niente. Chissà da quanto tempo Esther aspettava il momento di mettere in scena il gran finale prima di crepare, e venire a conoscenza della scadenza dei suoi giorni doveva esserle apparso come un colpo di fortuna.
Verena pertanto si accomodò sulla sua poltroncina più comodamente che poté in attesa delle istruzioni. M si sbagliava.
-Le racconterò una storia che le sembrerà incredibile, ma è tutta vera. Nell'ultimo cassetto in basso del comò c'è una grossa scatola di cartone. La prenda.
Dispose sul letto a semicerchio intorno alle sue ginocchia quel che ne estrasse: alcune pagine ingiallite di vecchi giornali; due fotografie in bianco e nero 13 x 9, due a colori 14 x 10 e una grande in bianco e nero 24 x 30; una busta da lettera molto spiegazzata con un indirizzo illeggibile, e infine una scatoletta multicolore con sopra stampigliata in oro la sigla MF-2HD contenente dischetti per computer.
-Legga questo ritaglio, Verena.
Era una terza pagina de "La Stampa" di Torino, datata 20 settembre 1973; in basso, listato con un pennarello rosso, un trafiletto occupava un quarto di colonna: il Ministero della Cultura della Repubblica di Cuba inviava a Parigi due competenti critici d'arte per curare la scelta, l'imballaggio e la spedizione di alcune opere di Picasso, messe a disposizione dalla Galleria Louise Leiris, tra cui una eccellente "Tête de femme" in bronzo e il quadro "Joueur de flûte et femme nue", dipinto a Mougins il 21 ottobre 1970, che insieme ad altre opere provenienti dal Museo dell'Ermitage di Leningrado e da collezionisti privati sarebbero state esposte nella Casa di Cultura Popolare a l'Avana per un omaggio postumo al grande artista catalano.
-Picasso era morto l'otto di aprile di quell'anno e c'era un grande fermento da per tutto per accaparrarsi opere sue da collezionisti e da gallerie private. Tutti volevano esporre tutto. C'era poi una gran confusione, dovuta al fatto che il Catalogo Zervos era fermo al XXXII° volume, dopo che Yvonne e Cristian Zervos eramo morti l'uno dopo l'altro tre anni prima. Picasso nei suoi ultimi anni di vita dipinse molto e disegnò tantissimo, si figuri il caos che c'era a Mougins nella sua villa atelier di Notre-Dame-de-Vie.
Ai primi di ottobre del '73 venne a farmi visita Josephine Kneff, una ebrea svizzera figlia di una grande amica di mia madre, morta dentro le docce di Auschwitz. Josephine era stata sottratta alla deportazione da una famiglia cattolica romana, che era riuscita a infilarla all'ultimo momento prima di una retata in un piccolo monastero a Castel Gandolfo. Mi ero quasi dimenticata di lei, ma Josephine non si era dimenticata di me né di mia madre, che alla fine della guerra se l'era presa in casa come una seconda figlia. Eravamo coetanee io e Josephine e anche piuttosto somiglianti, così la gente ci prendeva per sorelle.
Quando mia madre sposò Allen Upward io decisi di rimanere a Roma con mia nonna, non mi andava di correrle dietro. Josephine invece fu felicissima di seguirli in Pennsylvania, e si installò nella loro bella villa di Harrisburg come una principessa. Mi scriveva spesso, mi raccontava tutto quello che succedeva, mi chiedeva di raggiungerla. Di colpo smise di scrivere e dopo un paio di mesi seppi da mia madre che se n'era tornata in Svizzera, così senza spiegazioni; cioè mia madre non mi diede spiegazioni, e io pensai che di ragioni sotto ce ne dovevano essere a mucchi, ma poiché la cosa non mi interessava non indagai.
Di Josephine non seppi più nulla fino alla mattina che lei suonò alla porta di casa mia, e io aprendo me la trovai davanti. Io non conoscevo niente di lei, invece lei conosceva tutto di me: sapeva che ero io l'autrice dei libri di Edith LS Upward (un'informazione avuta di prima mano da mia madre); sapeva dei miei corsi di pittura all'Accademia di Brera; sapeva che mi dilettavo a imitare quadri di Picasso e di Braque; sapeva che non mi ero sposata, ma conosceva i nomi di tutti i miei amanti; insomma sapeva tutto.
Cercai di pareggiare il conto e le chiesi di raccontarmi come aveva trascorso tutto quel tempo, e cosa faceva per vivere. Fu molto evasiva sul passato, due parole e via; per il resto mi spiegò che era una fotografa d'arte molto richiesta, che fotografava oggetti d'arte ma soprattutto quadri e affreschi con tutte quelle tecniche a rifrazione della luce per la perfetta incidenza angolare tra piano del quadro e piano della macchina. Qualcuno me ne aveva già parlato, ma lei quella mattina mi spiegò tutto da capo perdendoci un paio d'ore, perché io in fatto di tecnica sono totalmente ottusa. Comunque capii che la sua era una professione difficile e assai ben pagata. Lei mi rivelò di essere la fotografa ufficiale di tutti i quadri di Picasso per il Catalogo Zervos, e di avere iniziato quella collaborazione nel 1959, cioè dal diciottesimo volume della raccolta.


Sesta sosta

martedì 14 giugno 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Quinta tappa


FILENAME Una delle due ragazze.

Una delle due ragazze stava seduta sulla spalliera del ponte. Guardava fisso davanti a sé come se pensasse intensamente, ma non vedeva e non pensava a nulla, era come addormentata a occhi aperti. Al contrario l'altra ragazza andava continuamente su e giù lungo il breve ponte, su e giù su e giù, dalla parte opposta a quella dove la prima se ne stava seduta. Un paio di volte era discesa sulla riva del torrente, si era tolti gli scarponi e le calze e aveva passeggiato a piedi nudi nelle acque gelide. Era in continuo movimento in contrapposizione alla statuaria immobilità della compagna, ma non era affatto nervosa: una questione di temperamenti diversi, se ne era già accorta altre volte, addirittura opposti; strano in due gemelle identiche come due gocce d'acqua, aveva spesso pensato.
Un centinaio di metri distante dal ponte un gruppetto di uomini, tre per l'esattezza, dall'aspetto vigoroso sedevano lungo l'argine del torrente intorno a un fuoco di sterpi. Un quarto uomo, a piedi nudi e pantaloni rimboccati fino alle ginocchia, tentava di usare come fiocina una pertica finemente appuntita. Lo scarsissimo pesce riusciva comunque a evitare con destrezza gli incerti lanci del pescatore.
Dovevano trovarsi in quel posto da molto tempo, nessuno parlava, sembravano tutti assai annoiati.
Si voltarono insieme di scatto verso la parte alta della strada, là dove scendeva piuttosto rapidamente dalla collina, quando il rumore si fece udire più distintamente. Il cigolio di ruote sull'asfalto aumentava di intensità dietro la curva a gomito: un carro abbastanza leggero veniva trascinato o spinto.
Trattenuto lungo la discesa piuttosto, e non era un carro, ma una carrozzina da bambini piena di indumenti, cappotti o coperte, importava veramente poco cosa fossero, ma da mezzo gli indumenti, e questo era quello che importava, spuntava la testa ricciuta di un ragazzo, il corpo completamente sommerso dalle stoffe. Cappotti, ecco cosa erano, e stivali di cuoio; cappotti, stivali e un bambino riccioluto.
L'inesperto pescatore gettò via l'improvvisata fiocina, indossò le sue calzature e ritornò sul ponte; i tre uomini spensero velocemente il fuoco e si avvicinarono alla carrozzina. Ognuno indossò un cappotto, anche le ragazze. Non ci furono convenevoli, né scambi di saluti come se ognuno conoscesse a memoria il copione. L'ultimo arrivato ricominciò a spingere la carrozzella cigolante, dove il bambino si era adesso sdraiato completamente; gli altri lo seguirono in ordine sparso, ultime le due ragazze che procedevano tenendosi per mano.
Camminarono per tutto il resto della giornata. All'imbrunire raggiunsero una periferia. Arrivato al cartello che indicava il nome del paese uno degli uomini cavò di tasca un libretto foderato di carta rossa e ne sfogliò le pagine, poi si voltò verso quello che spingeva la carrozzella e fece segno di no con la testa. Entrarono allora tutti insieme chiacchierando allegramente come un qualsiasi gruppo di turisti. Presero alloggio in una locanda e prima di andare a dormire fecero un'abbondante mangiata.
Il giorno dopo si rimisero in cammino di buon ora, dopo aver indossato ciascuno un paio di stivali. Percorsero una strada provinciale, poi una scorciatoia attraverso un bosco. Quando incontrarono un nuovo paese l'uomo ritirò fuori il libretto foderato di rosso, lesse tra le pagine e recitò: "Triplice omicidio con saccheggio". Subito abbandonarono la strada principale e girarono intorno al paese passando per viottoli attraverso i campi, finché le ultime case non furono più visibili. Allora risalirono sulla strada fino alla fermata degli autobus di linea.
Salirono sul primo che passò, dopo un'attesa di un paio d'ore. Era malridotto e sverniciato, ma comodo e soprattutto era vuoto. Dopo più di un'ora di viaggio l'uomo che spingeva la carrozzella si alzò e spostò il suo veicolo fino a ridosso del guidatore.
"Che paese viene adesso?", gli chiese. "Monte Meceri", gli rispose il guidatore. "Noi scendiamo. Ci lasci fuori dal paese". Tornò al suo posto e lasciò la carrozzella e il bambino alle spalle del guidatore. Si voltò a guardare il bambino.
"Sei carino, sei proprio un bel bambino: come ti chiami?"
Lo guardava fisso senza rispondere.
"Non ce l'hai la lingua?"
Il bambino continuava a fissarlo.
"È straniero? Non capisce la lingua?", chiese a una delle donne, quella che stava in prima fila accanto all'uscita.
"Non è straniero, è sordomuto", gli rispose.
Che peccato, pensò, così un bel bambino, ma non replicò nulla alla donna.
Il bambino sollevò un lembo della coperta che aveva sulle gambe e gli mostrò uno stivale nero lucidissimo con gli speroni dorati.
Che razza di madre ha questo bamboccio, pensò il guidatore; lo lascia dentro la carrozzina calzato e vestito. Si volse a guardare in viso il bambino e gli sorrise. Lui rimase serissimo: con una mano spostò il ciuffo di capelli che gli cadevano sempre sull'occhio destro, come se volesse guardare meglio il guidatore.
Quando di nuovo si volse col suo migliore sorriso lo guardò in faccia e rabbrividì: il sorriso scomparve, si rigirò di colpo e da quel momento concentrò apparentemente tutta la sua attenzione sulla strada che gli veniva incontro. Quando i suoi passeggeri fuori dalle mura di cinta di Monte Meceri furono tutti discesi tirò un sospirone di sollievo e ripartì più veloce che poté.
"Tu controlla", ingiunse l'uomo che spingeva la carrozzella a quello che aveva il libretto dalla fodera rossa. Lo sfogliò lentamente, poi lesse una pagina intera.
"Qui avevamo un contratto, disse alla fine; qualcuno arrivò prima di noi e ammazzò il nostro contratto, una donna. Lo fece male, sangue da per tutto, uno schifo. Lui si incazzò di brutto, disse indicando con un cenno del capo l'uomo che spingeva la carrozzella, e sterminò un'intera famiglia che abitava la casa di fronte a quella del contratto".
"Passiamo per i campi", disse l'uomo che spingeva la carrozzella e si avviò in testa al gruppo.
Pernottarono nell'area di sosta di una pompa di benzina chiusa di notte. Avevano tolto la corrente al distributore automatico di bevande, ma le latrine e i locali per le docce erano a disposizione e ben illuminati, e si sarebbero anche potuti adattare lì dentro se avesse incominciato a piovere. L'indomani mattina poco dopo l'alba, ma molto prima che gli inservienti del distributore di carburante arrivassero, scesero verso la vallata e trovarono subito i binari dove la notte avevano sentito passare i treni. Marciarono in direzione Nord lungo i binari per tutto il giorno, e a tarda sera videro in lontananza le luci di una stazione.
Nottata all'addiaccio in un piazzale semi deserto, e alle prime luci del giorno un caffè bollente nel bar della stazione e poi via col primo treno che andava nella direzione giusta.
I pochi viaggiatori infreddoliti avevano altro da fare che rivolgere la parola a gente vestita a mezzo tra vagabondi e turisti con quasi nulla in tasca. Meglio non dare confidenza a sconosciuti, pensarono; sicuramente si trattava di extra comunitari penetrati illegalmente nei territori.
Arrivarono a destinazione nel pomeriggio inoltrato. Nessuno aveva fatto da tempo un pasto caldo e sistemarono la pendenza nel ristorante della stazione.
"Qui non abbiamo un contratto, disse l'uomo che per tutto il tempo si era occupato della carrozzina col bambino dentro; nessuno ci paga, siamo dei professionisti in vacanza e ognuno è libero di tirarsi indietro, se vuole. Il conto da saldare è però abbastanza vecchio perché qualcuno possa ancora ricordarsi di noi, e questo va tenuto nel suo conto. D'altra parte non potremmo rimandare la cosa a un nostro prossimo passaggio tra cinque, dieci o quindici anni e sperare di trovare ancora in vita coloro che allora agirono, e anche questo va tenuto nel dovuto conto. Se trovassimo solo dei morti saremmo arrivati maledettamente in ritardo".
Spinse avanti a sé la carrozzella rumorosamente per alcuni metri, poi rallentò e tese le orecchie senza voltarsi. Sentì il consueto scalpiccio dietro le spalle e capì che tutti lo stavano seguendo.
L'edificio era al centro della City, alla fine di un viale alberato, tigli dall'odore. Sembrava un ospedale, o per meglio dire, di solito negli ospedali ci sono certi ingressi con ampie vetrate luminosissime, sormontati da una tettoia di rame a forma di semi cupola e niente scalinate, ma una larga e corta strada a forma di U rovesciata, che sale fino al portone principale e dall'altra parte ridiscende; e di solito negli ospedali l'intonaco dei muri esterni è sempre color paglierino chiaro, quasi candido. Sì, proprio una facciata da ospedale o da gendarmeria, oppure l'ingresso di un casinò di lusso. E invece appena entrati si pensava di stare in una galleria d'arte in allestimento, dove l'indomani si sarebbero potuti trovare appesi alle enormi pareti bianche i capolavori dei maestri più illustri. Poi una volta imboccato un ampio corridoio dall'altissimo soffitto stuccato si arrivava in un'enorme sala ovale dove confluivano altri corridoi, quattro o sei, non si poteva calcolare subito.
Dal centro del pavimento partiva una scalinata a forma di esse fino al piano rialzato e di lì si snodavano ballatoi lungo entrambi i lati dei corridoi, come in certi grandi magazzini russi a Mosca o a San Pietroburgo: ogni sei metri un agile arco in modo da potersi sedere sulla balaustra e poggiarsi morbidamente alla colonnina con nonchalance che è proprio chic, tanto è vero che ogni colonnina era occupata di qua e di là dai soliti perditempo. Come in ogni grande città doveva esserci anche lì una bella schiera di personaggi che non avevano niente da fare, che sembravano essersi dati convegno tutti là dentro, accuratamente vestiti con una gran voglia di chiacchierare: parlavano tutti infatti, e tutti insieme. Nessuno sembrava ascoltare e forse quella era la regola del gioco, chiacchierare per non sentire.
Nessuno di quei vocianti si diede cura del gruppetto di vagabondi polverosi e unti da poco entrati, che procedevano con estrema lentezza guardando in ogni lato, come in cerca di un tavolo libero, o di una panca dove poggiare le natiche, o di un angolo appartato dove sbracarsi un po'. Lo trovarono alla fine l'angolino adatto e sedettero in cerchio intorno a un tavolo. Nessun cameriere si avvicinò a quegli avventori indesiderati né loro lo chiamarono, intenti come erano ad osservare quella gioventù incurante dei problemi del prossimo e dell'avvicinarsi della fine del mondo.
L'uomo che fino allora aveva spinto la carrozzella sollevò le gambe del bambino e da sotto il suo sedere estrasse una vecchia borsa di pelle. Si avviò tranquillamente alla toilette per uomini. Tornò dopo una manciata di minuti senza la borsa di pelle: tutto lasciava pensare che l'avesse dimenticata nella toilette.
L'uomo afferrò il manubrio della carrozzella e la spinse davanti a sé avviandosi verso l'uscita. Il suo gruppo lo seguì in silenzio. Nessuno si accorse che quei vagabondi se ne stavano andando.
Erano arrivati oltre la metà del viale alberato, tigli dall'odore, e già potevano vedere la grande tettoia grigia della stazione centrale, quando un immenso boato scosse le fondamenta della città.
Continuarono a procedere con calma verso la stazione come se nulla avessero sentito. Soltanto il bambino effettuò una piccola variazione: sollevò la coperta che lo copriva, tirò in alto le ginocchia e appoggiò i piedi sui bordi laterali della carrozzella in modo che tutta quella gente che adesso usciva di casa e da ogni dove e si precipitava verso il centro della City, da dove si sollevava una colonna di densissimo fumo scuro, potesse vedere i suoi stivali neri lucidissimi e gli speroni dorati.


Quinta pausa

lunedì 6 giugno 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITRO

Quarta tappa


Ci fu un attimo di gelo nella stanza.
-Mi dispiace, signora Samenberg, mormorò Verena; sono veramente addolorata.
-Non c'è nulla per cui debba sentirsi in colpa. Avrei dovuto rivelarle fin dall'inizio della nostra collaborazione chi era mio padre e chi era mia madre.
Esther aveva compreso la confusione della ragazza; si alzò dalla poltrona e le fece una carezza.
-Non deve prendersela, è passato così tanto tempo. Sono stata anche io un po' teatrale come Edith LS Upward; non le è sembrata una sua tipica messa in scena?
-Mi stavo appunto chiedendo se lei stesse facendo il verso a sua madre, oppure avesse voluto mettermi in imbarazzo portandomi sopra un sentiero sbagliato.
-Al contrario. Io volevo metterla sulla strada di una nuova rivelazione, ma ho evidentemente esagerato. È stato un tentativo maldestro.
-Ancora una rivelazione? Finirò per soffocare sotto questa valanga di novità.
-Resista, perché siamo appena alla preistoria.
-Gesù, non mi faccia star male! Mi dica subito tutto.
-OK! Mia madre incominciò a raccogliere i suoi appunti su Auschwitz non subito, ma soltanto nel 1948, due anni dopo aver sposato Allen, il suo generale, e continuò a lavorarci fino al 1950; le occorreva tutto quel tempo perché il materiale in suo possesso era assai abbondante, ma confuso e spesso contraddittorio. Alla fine gli appunti erano tutti ordinati: adesso doveva solo scriverlo il suo libro e pasticciò per due anni, finché una sera si decise, prese il telefono e piangendo mi supplicò di raggiungerla immediatamente a Harrisburg in Pennsylvania. Edith non era capace di scrivere nemmeno una lettera sua figlia e si era incartata in un testo senza capo né coda, che al massimo poteva servire da copione per un mediocre film dell'orrore.
Rifiutai di aiutarla; le proposi invece di scriverglielo io il suo libro, a suo nome però a modo mio, promettendole di rimanere fedele ai suoi ricordi, ma non alle sue sensazioni se queste fossero entrate in conflitto con le mie, riservandomi sempre la libertà di scelta tra i suoi commenti e le mie osservazioni sui fatti.
Naturalmente raccontai anche la sua Auschwitz, ma soprattutto la mia: io raccontai la storia dei tormenti dell'anima ebrea che non riusciva a liberarsi del corpo ebreo. Schermai gli orrori con un velo di nebbia, non li rinnegai certamente, ma li misi tutti intorno sopra un'ideale tribuna a far da spettatori a quell'estrema lotta dell'anima per riscattarsi di tutte le colpe del corpo. Conservai i veri nomi di tutti coloro che laggiù erano vissuti, di quelli che là erano morti e dei sopravvissuti. Mi intenda bene, Verena: tutti i fatti narrati sono veri, ma messi in rilievo in modo da avere lo spazio necessario perché la mia fantasia narrativa potesse trafiggere uomini e fatti come una lama di luce passata attraverso una lente a volte concava a volte convessa, che cioè diffondesse la luce in cerchio oppure la concentrasse su un unico punto bruciando tutto intorno.
Da questa mia fatica uscì "Terra di nessuno", un gigantesco affresco di vite disperate, di morti sofferte, di indicibili dolori rievocati e risentiti sulla carne come nuovi da tutti i lettori che si riconobbero in quei corpi straziati.
Gli editori si azzuffarono per avere il libro e due mesi dopo Edith LS Upward era la scrittrice più famosa degli Stati Uniti. Un anno dopo la riconoscevano in ogni angolo del mondo, che lei cominciò a girare insieme ad Allen per tenere conferenze e talk show televisivi, tutti retribuiti con fiumi di bigliettoni verdi: solo dollari, amici, solo dollari americani, prego.
-Mi perdoni, signora Samenberg, la interruppe Verena; fu sua l'idea di non fare alcun cenno di lei nel libro, oppure fu di sua madre?
-Mia, naturalmente. Fu un piccolo colpo di genio, lo ammetta Verena. Le ho già detto poco fa che mancando la figlia non c'era bisogno di parlare del padre, e quindi di fare il suo nome, un nome che toglieva il sonno a Edith e terrorizzava anche Allen, perché si era unito in matrimonio non con una vedova, né con una divorziata, ma con una donna ancora sposata con un altro. Allen aveva grandi mire politiche: voleva diventare senatore e farsi eleggere Governatore dello Stato della Pennsylvania, poi pensava che forse il buon Dio gli avrebbe mandato ancora qualcosa. Se fosse saltato fuori lo scandalo della bigamia di Edith ne avrebbe avuto la carriera troncata. Io risolsi tutto brillantemente; lui me ne fu sempre grato e mai madre poté di nuovo dormire la notte.
-Ha scritto lei tutti i libri di sua madre?
-Chi altro sennò? Edith era atterrita dal successo di "Terra di nessuno"; era convinta che io non sarei stata più capace di raggiungere quel livello. Quando iniziai il secondo romanzo, "Tutte le strade di Dio",. non potei venire a scrivermelo in santa pace qui a casa mia, ma dovetti rimanere a Harrisburg, e faticare non poco per convincerla a non convocare la stampa per annunciare al mondo che non era lei l'autrice del libro, ma una sua collaboratrice. La ricattai: le dissi chiaro e tondo che se lo avesse fatto il mondo avrebbe conosciuto anche il resto della verità, la faccenda della figlia e del padre per intenderci. Gli editori però la subissavano di continue richieste, e mia madre mi fece allora giurare in cambio della sua omertà che io avrei continuato a scrivere sotto il suo nome tutti i libri e i racconti che aveva in mente, di cui possedeva già centinaia di schede e una cassa piena di documentazioni e testimonianze.
-Anche il secondo libro fu un best seller, mi pare.
-Ancor più del primo. Oramai ero lanciata, non avevo più dubbi, ma solo certezze: sapevo di poter narrare tutto quel che volevo proprio come volevo, così scrissi il primo romanzo veramente tutto mio. Mia madre intendeva opporsi a un libro quasi di fantasia, pensava che se avessi avuto una caduta di stile le avrei rovinato l'immagine, e chissà di cosa ancora avesse paura; ma io mi portavo quella storia nel cuore già dal tempo del campo. "Il pane di marmo" dei tre romanzi di Auschwitz è l'unico del tutto inventato, secondo me il più bello.
-Adesso capisco cosa intendessero dire le sue due amiche ieri, quando parlavano dell'amicizia della bambina di Edith col piccolo sordomuto vestito da nazista: nei primi due romanzi lei parla di questo bambino in divisa come di un giovanissimo demone, che provava amore solo per il suo cane; nel terzo, che lei dice del tutto inventato, gli fa morire il cane fin dall'inizio e il sordomuto pian piano si riscatta fino a salvare la vita di una giovane ebrea incinta, che riuscirà a fuggire portando dentro di sé una creatura di cui ignora lei stessa il padre, uno dei tanti ufficiali nazisti che l'avevano posseduta.
-Che cosa ha capito, Verena?
-Che lei ha usato questo stratagemma perché non poteva raccontare che il piccolo sordomuto aveva salvato sua madre e la figlia in incognito, cioè lei. Adesso mi pare una bella trovata.
-Ho pensato a Omero, a Ulisse che esce dalla caverna di Polifemo abbracciato alla pancia di una pecora: io mi nascondo dentro quella di mia madre. Niente di originale, come vede. Inoltre Ulisse aveva dichiarato al ciclope di chiamarsi Nessuno, così quando scappa nessuno scappa, proprio come me che non esisto in tre libri diversi, ma alla fine mi salvo senza nemmeno rivelare se in quel ventre in fuga ci sia un maschietto o una femminuccia.
-C'è ancora qualcosa che credo di aver capito.
-Sentiamo.
-È facile associare lo sconosciuto nazista inseminatore del ventre di sua madre al collaborazionista che doveva a tutti i costi rimanere ignoto; ma questo lo si può considerare un accorgimento letterario, un vezzo d'autore. Quello che io adesso ho capito è che lei in questo suo terzo romanzo ha redento sua madre: in quella fuga col pancione io ci vedo la nemesi di una donna che ha rinnegato suo marito e forse perfino la sua religione, ma ecco arrivare alla fine la sua catarsi attraverso il concepimento di una creatura innocente. Bella l'idea di coinvolgere il piccolo mostro sanguinario in uniforme nell'espiazione e nella purificazione che conclude tutto il ciclo di Auschwitz. Sono convinta che se tutti gli ebrei avessero guardato all'Olocausto con occhi come i suoi non sarebbero state generate tutte le tragedie che poi ne nacquero.
Nessuna replica, una prova per Verena di aver colpito nel segno: la signora Samenberg avrebbe potuto sicuramente trovare qualcosa per replicare, ma era evidente che preferiva tacere perché l'argomento cadesse.
Che Esther le stesse rivelando solo quella parte della verità che a lei faceva comodo era ormai più che un sospetto. Tuttavia Verena non arrivava a capire perché proprio a lei l'andasse a raccontare. Che cosa aveva in mente? Era come se avesse immaginato una nuova storia e stesse costruendone la trama lasciando che i personaggi si muovessero liberamente, un po' a casaccio seguendo un metodo moderno, caro ai giovani autori. Era forse stavolta il romanzo postumo di Edith LS Upward? E qual'era il ruolo delle due vecchiette Martina e Adele? Verena ricordò improvvisamente che Esther le aveva fatte scomparire nell'ultimo capitolo di "Terra di nessuno" appena varcati i cancelli spalancati del campo di Auschwitz. Era curiosissima di sapere quando e dove le avrebbe fatte ritornare a galla, ma non riteneva che Esther avrebbe mai risposto ad una domanda troppo diretta, così prese quella curva molto larga.
-Come è stato possibile che Martina e Adele non l'abbiano riconosciuta quando vi siete rincontrate?
-Erano passati più di trenta anni; loro ricordavano una bambina esile e gracile e si trovarono di fronte una donna forte e bene in carne. Ci incontrammo durante la Buchmesse di Francoforte. Le due brave ragazze devono essersi confuse.
-C'era la presentazione di un libro di Edith?
-No: ero lì per il mio primo testo teologico, una pizza barbosa di seicento pagine.
-Scommetto che lei le riconobbe subito.
-Non le avevo mai perdute di vista. Cosa vuole, Verena: siamo usciti vivi così in pochi da Auschwitz che mi sarebbe stato possibile tenere a mente indirizzo e numero telefonico di ciascuno. Ma segui solamente loro due, perché erano di Roma come me e tornarono subito a casa.
-Perché non le ha mai confidato quel che ha detto a me oggi?
-Perché non voglio di nuovo far sanguinare le loro piaghe; certe ferite non si rimarginano mai.
Verena raccolse a quel punto tutto il suo coraggio e andò all'attacco.
-Cosa c'entro io? Perché viene a svelare adesso i suoi segreti proprio a me?
Esther Samenberg sospirò e diede un'occhiata all'orologio che aveva al polso.
-Non c'è sufficiente tempo oggi; fra un'ora ho un appuntamento nella clinica del mio medico curante per un check-up e devo cominciare a prepararmi. Noi due ci rivediamo domattina, allora penso di poter rispondere alle sue domande.

giovedì 2 giugno 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Terza tappa


Verena mescolò lo zucchero nel caffè caldissimo, lo sorseggiò e depose la tazza per metà svuotata sulla sua scrivania. Sentiva addosso lo sguardo della signora Samenberg.
-Ho un sacco di domande, disse.
E io un sacco di risposte, le fece eco Esther. Cominci pure dalla metà, tanto l'inizio non sa nemmeno dov'è.
-Me lo dica lei, allora.
-Glielo dirò alla fine.
Ridacchiò, ma le venne un accesso di tosse. Quando riuscì a controllarsi si pulì la bocca.
-Guardi che non era un giochetto, mi viene meglio se glielo spiego alla fine. Allora Verena, queste domande?
-Cosa c'entro io?
-Anche questo glielo dirò dopo; la prossima.
-Conosceva Edith Upward?
-Edith LS Upward, innanzi tutto; sì, la conoscevo.
-Personalmente?
-Sicuro.
-Sa che fine abbia fatto sua figlia?
-Sì, lo so.
-Ieri sera però ha chiesto alle sue amiche se lo sapessero loro, così ho creduto, voglio dire che ho pensato...
-Che lo ignorassi? Ha sbagliato: volevo sapere quanto quelle due fossero informate.
Verena pasticciò con la tazzina; si sentiva improvvisamente in difficoltà.
-Avanti, signorina Mutig, sputi il rospo! Spari la domanda che le viene sulla punta della lingua, anche se pensa che è una stronzata: si faccia coraggio!
-Non ho rospi da sputare, signora Samenberg, né mi vengono su domande strane. Non so perché, ma mi sento molto confusa.
-Credevo fosse più perspicace, signorina Mutig.
L'anziana donna fece un sospiro; si alzò dalla poltrona e prese un pacco di giornali da un cassetto.
-Sono tutti dello stesso giorno, disse porgendoli a Verena; portano tutti il necrologio di Edith. Li legga attentamente: non troverà la verità ma certamente qualcosa di strano, che dovrebbe aprirle gli occhi.
Verena conosceva la storia di Edith LS Upward; aveva letto i suoi romanzi, i suoi racconti e una bella biografia che uno scrittore slovacco aveva scritto prima che lei morisse, dieci anni prima, nel 1999 a novanta anni, di ictus cerebrale. A Verena era sembrata una morte degna di una grande narratrice: a un certo punto la lampada fa "clic" e diventa tutto buio, e tu te ne vai in gran fretta, senza prolungati soggiorni in cliniche costose e in ospedali; il cervello esaurisce le pile e tu sei morta, basta, fine. Perché uno scrittore è tutto cervello, il resto serve a poco, e se il cervello schiatta tu sei già morta. Non c'è bisogno di nessun dottore che certifichi che sei crepata, basta il tuo editore, nemmeno, basta l'edicolante qui all'angolo che dica "non scriverà più".
Rifletté un attimo: forse l'edicolante per essere in sintonia con questo ragionamento dovrebbe dire "non penserà più", ma per quel che riguarda il suo negozio ciò che a lui importa è che non potrà più scrivere, il pensiero te lo fai fritto, potrebbe aggiungere l'edicolante, e non è questo il momento di discutere sul livello culturale degli edicolanti, tagliò corto Verena.
Letti i necrologi ripiegò i giornali e li depose in ordine sul tavolo.
-E allora? Chiese aggressiva.
Esther fece un altro profondo respiro. Testa dura, pensò, si ostina a non capire. Dovrò farglielo entrare nella zucca un po' per volta.
-Non ha letto attentamente, Verena. Tutti i giornalisti si sono dilungati su particolari di poco interesse e già assai noti: dov'era nata, come si chiamava da nubile, il marito americano, i suoi libri e la sua fortuna letteraria. Soltanto due righe sul suo soggiorno ad Auschwitz durato tre anni.
-E nessuno parla di una figlia, la interruppe Verena.
-E nessuno parla del suo primo marito.
-Già, è vero. Non ci avevo fatto alcun caso.
-Non ci si può far caso, sembra tutto assolutamente normale: nessuna figlia, nessun padre; quindi nessun marito.
-Edith era sposata o no col padre di sua figlia?
-Naturalmente. Ma andiamo con ordine, e lei non mi interrompa con domande da servetta. Mi versi ancora un po' di caffè piuttosto.
Lo bevve di un fiato perché si era già raffreddato; poi ricominciò.
-Dopo l'emanazione delle leggi antirazziali fasciste Edith era riuscita a procurarsi dei documenti falsi. Non poteva uscirne fuori che fosse ariana e cattolica perché era troppo conosciuta nell'alta società romana. Fece quindi cambiare tutti i cognomi e si battezzò Edith Benedetti, vedova Levi Strauss. Fece morire il marito come ufficiale delle Camicie Nere combattendo eroicamente a Guadalajara il 20 marzo del 1937, quando la figlia aveva tre anni. C'erano amici altolocati nel Fascio, che l'aiutarono a costruirsi in famiglia un martire fascista, anche se giudeo. Si mormorava che perfino il Duce fosse venuto a conoscenza dell'imbroglio: fece finta di niente, ma non mosse un dito per evitarle la deportazione. Le malelingue dissero che la Petacci fosse gelosa di Edith e che minacciasse uno scandalo se la rivale non fosse sparita da Roma. Comunque la fama di moglie di un eroe fascista arrivò fino al Comando delle SS a Berlino, e anche per questo fu trattata con grande rispetto. In verità Edith si era appropriata del nome da ragazza di sua madre Miriam, che era una Benedetti, e trasferito al marito pari pari il nome di suo padre Isidoro Levi Strauss, che era morto da oltre venti anni.
-E come chiamò sua figlia?
-Non la chiamò affatto! Questo fu il colpo magistrale di Edith: già da quando aveva in mente il suo piano con lo scambio dei cognomi fece mettere in giro, da parte dei suoi amici più fidati, la voce che la bambina fosse frutto di una sua relazione extraconiugale con un pezzo grossissimo del partito fascista, ariano a prova di bomba, che amabilmente si prestò al gioco. Così Isidoro Levi Strauss la seconda volta che morì tra le zolle della Castiglia Nuova lo fece da vero fascista: martire e cornuto. La storia si era talmente ben diffusa che Claretta Petacci la bevve per buona, e si sapeva che quando parlava di Edith non la nominava mai, preferendo chiamarla "la puttana ebrea che figlia con tutti i gerarchi". E così tanto starnazzò Claretta che la notizia arrivò alle orecchie di chi doveva ascoltarla, assecondando i piani di Edith. Appena arrivate ad Auschwitz il Comandante del campo le convocò tutte e due nel suo ufficio. Gli bastò un'occhiata: Edith era alta e formosa, mora di capelli e con occhi nerissimi; la figlia invece esile e bionda con occhi azzurri. Non era stato ancora scoperto il DNA per loro fortuna, per cui fu deciso di non trascrivere il nome della bambina sui registri, né di tatuarle nessun numero o sigla sul braccio. Solo una stella di David di pezza gialla cucita sul petto e un trattamento decisamente speciale. Una meravigliosa trovata, non le pare? Il suo miglior romanzo, non scritto ma vissuto.
-C'è qualcosa che stona in questa storia e che mi dà fastidio, signora Samenberg. Per la figlia Edith ebbe un'eccellente trovata, tanto di cappello; ma lei era una Levi Strauss e restò una Levi Strauss anche dopo il trucco dei documenti. A me sembra che abbia voluto far sparire il nome del marito. Non è così?
-Vedo che ricomincia a far funzionare il suo cervellino. Sì, è così.
-Ma perché? Era forse il nome di un bandito, di un assassino?
-Al contrario: il marito di Edith era l'unico ebreo per il quale Himmler si sarebbe tolto la camicia di dosso e il pane di bocca, se l'altro glielo avesse chiesto.
-Addirittura! E chi era, un dio?
-Qualcosa di più agli occhi dei nazisti: era il più grande cervello matematico del suo tempo. Lavorava in un bunker con una squadra di scienziati ai suoi ordini. Aveva iniziato insieme al gruppo dei cervelloni che lavoravano sul principio dell'acqua pesante per attuare la fusione nucleare, ma ben presto si era messo a seguire una teoria tutta sua che l'avrebbe portato a trovare l'arma più potente dell'intero Universo, come lui sosteneva.
-Quindi era un traditore, che lavorava per i nemici del suo popolo.
-In un certo senso, ma non del tutto: lui inseguiva il suo genio, ma quello che lei ha detto era la stessa cosa che pensava Edith. Lei non voleva si sapesse che suo marito stesse aiutando Hitler a vincere la guerra; non voleva che questa vergogna ricadesse sulla figlia, perciò inscenò tutto quel teatro, aiutata dal fatto che pochissimi conoscevano suo marito a Roma, e ancora in meno sapevano come lui si guadagnasse da vivere. Consideri che i nazisti tennero gelosamente segreto il suo nome: non andava a genio nemmeno a loro che si sapesse che le sorti del conflitto fossero nelle mani di uno sporco ebreo.
-Perbacco questa Edith, che maestria! Con una biglia sola e un colpo di stecca fa quattro buche! Cambiando i documenti ha vinto tutto: fa scomparire il nome del marito, Giuda traditore, al suo posto se ne fabbrica uno così compiacente, che prima si lascia cornificare per farle partorire una mezzo sangue (e mi raccomando che sia a tutti palese che la metà di quel sangue è ariano, perché divenga un perfetto salvacondotto per l'immunità della piccola); poi si fa ammazzare dai rossi diventando un eroe fascista a ventiquattro carati per la salvezza della moglie.
-Brava, no? Se lo avesse scritto in un romanzo la gente non lo avrebbe creduto.
-Neanche lei le ha creduto, perché lei conosce la verità, signora Samenberg, non è vero? Voglio dire che lei sa che fine ha fatto questa fantomatica figlia, e che certamente conosce il famigerato nome di suo padre, di questo scienziato più importante di Einstein e di Fermi di cui nessuno, ripeto nessuno, sa nulla, ma proprio nulla. Se era così importante avrà lasciato qualcosa di scritto: gli scienziati scrivono tutti, magari formule incomprensibili ai normali mortali, magari appunti indecifrabili, ma scrivono.
-Tutto sequestrato dai nazisti, tutto sparito.
-Me lo aspettavo. Sparito anche lo scienziato in un turbine di fiamme?
-Niente affatto: è morto quindici anni dopo la fine della guerra. Uno sconosciuto e poco significante insegnante di matematica visse, insegnò, morì e fu sepolto in Germania, in un minuscolo paesotto di nemmeno duemila abitanti.
-E il nome sulla tomba?
-Il suo.
-Ed era?
-Isaia.
-Isaia, naturalmente. È stato messo sulla tomba per caso anche il cognome?
-Certamente
-E sarebbe?
-Samenberg, Isaia Samenberg.



Terza pausa