giovedì 28 ottobre 2010

MICHELE SANTO SUBITO

Ieri nella mia posta elettronica ho ricevuto una mail della mia cara amica Cristina, piemontese DOC come un Barolo d'annata, che, tra l'altro, commenta il post che ho scritto sul mio blog il 7 ottobre scorso dal titolo "Dolore sbattuto in diretta".

"...siamo lì a guardare le sequenze del dolore in diretta senza avere neanche il pudore di cambiare il programma. Hai ragione Enzo! Hai mille ragioni! Ma...chi l'ha cambiato quel programma? Siamo sinceri: io non l'ho cambiato. Sento tutti indignarsi ma quel programma non l'ha cambiato nessuno!
Quando siamo diventati così? ...Siamo sempre stati così! È nella natura umana. Basti pensare all'antica Roma, dove si andava a vedere nelle arene squartare persone e dove ci si divertiva; nel medio evo, dove se c'era un'impiccagione in prima fila c'erano i bambini, perché veniva concepito come un divertimento; nella grandi rivoluzioni quando si giustiziava qualcuno, per strada c'era tutto il popolo, come se si trattasse della prima di uno spettacolo importante per giunta gratuito.
Siamo sempre stati così, è nella natura umana".

Mi ricordo che Gioacchino Belli, grande poeta dialettale romano del XIX secolo, in una sua poesia scriveva che a Piazza Navona era perennemente eretto un palco, dove venivano eseguite le punizioni corporali. Il condannato veniva piegato su un cavalletto a pancia sotto e culo per aria -nudo si capisce- e il boia su quel culo picchiava 30 oppure 40 frustate di quelle che lasciavano segni indelebili.
Belli dice che la gente veniva in massa da tutta Roma, e che tanti pagavano per stare proprio sotto il palco e non perdersi nessuno dei movimenti convulsi e dei lamenti del disgraziato.
Pagavano profumatamente, e se la vittima era una donna, pagavano il doppio.

"Credo che sia nella natura umana -continua Cristina- la pusillanimità di guardare quel che succede ad Avetrana e dire tanto a me non capita...senza pensare che magari tua sorella, tua cugina, la figlia di una tua amica stia subendo molestie".

Sono addolorato perché devo concordare con la mia amica Cristina: il sangue, la morte, l'orrore, il dolore altrui attira morbosamente tutti, chi più chi meno. Basta osservare le code che si formano in autostrada quando è avvenuto un incidente. Si va lentamente perché la Polizia ci costringe a rallentare? Sì, certo. Ma soprattutto perché tutti allungano il collo per vedere cosa è successo e quanto sangue ha imbrattato l'asfalto.
Ma quando sono solo cocci rotti e lamiere abbozzate una smorfia di sdegno si allarga sulle labbra di tutti: "Solo un botto?! Niente feriti? Nemmeno un morto? Che schifo di incidente!"

Per quanto concerne la storia di Avetrano, se non ci fosse una ragazzina ammazzata quando appena iniziava a vivere, la si potrebbe definire una pagliacciata, dove tutti, ma proprio TUTTI, si divertono a fare i giallisti e i detective.
A cominciare dagli avvocati.
Ma che razza di avvocati ci sono nel Sud Italia? Gente che non conosce l'uso del congiuntivo.
Ieri sera a "Porta a Porta" l'avvocato Daniele Galoppa, difensore di Michele Misseri, volendo dire "faccio una precisazione" ha detto per ben DUE volte di seguito "faccio una PRECISIONE".
Poi ha raccontato balle su come verrebbe trattato il suo assistito in carcere, che, a suo dire, avrebbe saputo da "qualcuno all'interno della Casa di Pena" dell'arresto della figlia Sabrina, lasciando intendere in parole povere che a rivelarglielo fosse stata una guardia.
Stamattina la SAPPE , Sindacato Autonomo di Polizia penitenziaria, in una nota ufficiale ha fatto sapere che il Galoppa non è esperto di cose penali, altrimenti saprebbe che il suo assistito è in regime di isolamento precauzionale a tutela della propria incolumità personale, e che in assenza di divieto può ricevere telefonate e posta dall'esterno.

Avvocaticchi che sbagliano congiuntivi, si confondono sui sostantivi, ma non sui programmi TV, dove li trovi sempre in prima fila e dove dibattono coi colleghi della parte avversa, vedi i legali di Sabrina Misseri con quello della famiglia Scazzi a Matrix due sere fa.
Bruno Vespa ieri sera, con la suprema arguzia che lo contraddistingue, faceva notare che a proposito di Michele Misseri era scomparso l'appellativo "mostro".
Che bello!
Adesso è un povero Cristo, che dorme su una sdraio in cucina e mangia i resti dei pasti della due megere di casa, Cosima e Sabrina: insomma n'omme emmerda, un ratto di fogna, una pantegana di fosso campestre che si sta sacrificando per salvare le sue aguzzine.

MICHELE SANTO SUBITO

Santo e protettore di tutti gli stronzi masochisti come lui, di tutti i coglioni senza spina dorsale, di tutti l'ommene emmerda di cui è infestata la penisola nostra.

Altro dirvi non vò che vi sia grave.
Ho una sola domanda: ma se così forte era il connubio, la collusione, l'unione tra Cosima e Sabrina, com'è possibile che Sabrina appunto per dare una lezione alla cugina sia ricorsa al padre e non a sua madre?
Queste sono cose di donne: che ci azzecca uno che lecca i resti dai piatti come un cane randagio? Che ci azzecca uno che è stato sbattuto fuori dal letto coniugale dalla moglie andare a dare una mano alla figlia?
E perché mentre tutti cercano Sarah scomparsa, rapita, evaporata, disintegrata, Cosima resta in casa e usa il telefono di casa per fare telefonate?
Stava creandosi un alibi?

domenica 24 ottobre 2010

DELITTO DI PROFANAZIONE DI MEMORIA

Ieri sera ho letto su videotext la notizia che il sindaco di Avetrano aveva emanato un'ordinanza di divieto di accesso alle due strade dove sorgono le abitazioni degli Scazzi e dei Misseri.
Infatti era annunciata in arrivo una serie di pulmann turistici dalla Basilicata e dalla Calabria.
Non si potrebbe chiudere le Agenzie che tali escursioni turistiche organizzano, e interdire dall'attività turistica e di intrattenimento i direttori e i proprietari di queste Agenzie, coloro cioè che intendono lucrare sulla morte di una ragazzina di 15 anni?
È sicuro che non esista nel nostro Codice Penale o nel Codice di Procedura Penale lo straccio di una legge che impedisca questa vergogna, questo scempio?
Non c'è nessuna organizzazione umanitaria, civica di qualsiasi referenza, o religiosa di qualsivoglia religione -mi va bene anche quella indù- nessuna Opus Dei, nessuna Azione Cattolica, nessuna associazione parapolitica di destra o di sinistra che apra una decina di gazebo nelle nostre maggiori città, per raccogliere firme da portare a chi di dovere e ottenere che il Parlamento italiano emani una legge che punisca il delitto di profanazione di memoria?
Si raccolgono quotidianamente firme per difendere gatti randagi malati di diarrea cronica, e topone vedove di ratti morti per esalazione di gas di scarico, e non si può far nulla per difendere la dignità di una morta ammazzata?
Si insorge virulenti di bile su tutti i media per i diritti sacrosanti dei batteri dell'influenza suina a non venire sterminati da un siero privo di controindicazioni, e non si può ottenere che su questa sordida storia, emersa dalle tenebre medioevali, venga steso un salvifico velo di silenzio?

Venerdì sera sul quinto canale di Mediaset, durante la trasmissione di Gerry Scotti "Io canto", per la prima e unica volta ho ascoltato parole d'amore e di fiducia su questa vicenda. Dopo l'esecuzione della canzone "La vita", uno splendido motivo portato al successo alcuni anni fa da Shirley Bassey, il conduttore della trasmissione Gerry Scotti ha detto più o meno:
"Inneggiamo a quel grande bene che è la vita e vergogniamoci di stare invece ad inneggiare alla morte. Vergogna! Vergogna!"
Era ora, vivaddio, che qualcuno usasse il mezzo di comunicazione più seguito per dire BASTA.
Mi associo, applaudo e sottoscrivo.

Però, non so perché, questa tristissima faccenda mi appare come il dramma di Antigone, girato al contrario.
Antigone, figlia dell'incesto tra Edipo e Giocasta, dopo aver accompagnato il padre cieco a Colono ed averlo assistito fino alla morte, corre a Tebe, dove i suoi due fratelli Eteocle e Polinice cercano di abbattere il tiranno Creonte. Muoiono entrambi e Creonte ordina che il corpo di Polinice rimanga insepolto alle intemperie e ai morsi dei cani randagi.
Antigone sfida il tiranno e dà sepoltura al fratello. Morirà suicida in carcere, ispirando a Sofocle una tragedia immortale.
Forse perché adoro questo personaggio femminile, ma mi sono detto: guarda un po' che roba, laggiù una salma esposta al vento e alla pioggia, che non si voleva seppellire; qui da noi un'altra salma, che alla pioggia e al vento è rimasta già esposta per 42 giorni e che si è seppellita in una bara bianca, ma che tutti quotidianamente riesumano in modo impietoso.
Dove sta una Antigone a volerla sepolta per sempre? Dove un Sofocle a pronunciarne il requiem definitivo?

In una accozzaglia di voci che hanno blaterato su tutti i canali e a tutte le ore, cercando fatti, inventando fatti, estrapolando parole, interpretando parole, gesti, sguardi, pensieri altrui, solo una voce ho sentita tra tutte di commozione e di pietà: quella di Giorgio Napolitano.
Poche parole una volta sola e poi il silenzio che Sarah merita.
Era commosso il Presidente, gli si è incrinata due volte la voce.
Quest'uomo mi piace: un comunista autentico, che non si è mai vergognato di esserlo stato. Quando ha capito ha smesso di esserlo, senza mai fare proclami, senza sparare sentenze.
Porta la sua croce sul Colle con enorme dignità. Non interviene nei feroci dibattiti della politica italica, qualche volta corregge il tiro di certe cannonate e quando lo attaccano non si difende istericamente come tutti gli altri, ma volta le spalle e se ne va.
Non l'ho mai votato e mai lo farò, perché oramai è fuori gioco: adesso fa il Presidente effettivo, poi diventerà Presidente Emerito e Senatore a vita.
Però Giorgio Napolitano mi piace.
E mi piace pensare che legga l'articolo di fondo di Conchita, la topona extralusso che dirige l'Unità, col naso arricciato e che lo legga per dovere, insieme a tutte le altre testate ogni mattina.
Poi fa il Presidente come gli pare, come gli dicono la sua coscienza e la sua intelligenza.

domenica 10 ottobre 2010

DALLE DUE ALLE TRE

Adesso sicuramente qualcuno penserà che ci provo gusto. Non lo so. Le poesie sono come i racconti: se ne scrivi uno ti tira dietro un altro. E poi le poesie sono "come d'autunno/ sugli alberi le foglie".
Ma vi prometto che ci starò più attento la prossima volta.
IL titolo è:

DALLE DUE ALLE TRE

Mi basta
un mozzicone di matita
e un foglio di carta spiegazzato
per mettere parole sfuse
in girotondo
e scrivere una poesia
che muore appena nasce
per la ragazza A.

A. come aspettami.
A. come ascoltami.
A. come andiamo via insieme.

Cerco la matita in un cassetto
dell'armadio in cucina.
Aprire altre porte e altri cassetti
farebbe troppo rumore
dalle due alle tre della notte.
Cerco la matita,
cerco la carta
ma trovo solo piatti
stoviglie e bicchieri.

Poi, quando torno a letto,
dalle due alle tre,
e mi giro su un fianco mi si stira
un muscolo della spalla.
Mentre cerco di tirarmi fuori
dalle lenzuola un dolore,
un gran dolore
al polpaccio destro
perché ho appoggiato male il piede.

Sono diventato
all'improvviso più vecchio
dalle due alle tre.

E qui finisce il girotondo
delle parole sciolte
della poesia per la ragazza A.

A. come arrivederci.
A. come alla fine
vincono sempre gli altri.


10.10.10
Ci avete fatto caso? Tre dieci, come al poker. Qualche volta si vince, qualche volta si paga, ma sono belli tre dieci in mano.
Adesso fra un mese avremo tre undici, poi tra due mesi tre dodici.
Dovremo aspettare 91 anni per riavere un tris: 01.01.01, il primo di gennaio del 2101!
91 anni si fa presto a dire, ma provate a contare: sono 120 mesi, 24.215 giorni più 20 volte il 29 di febbraio fanno 24.235 giornate.
Credo che solo i miei due nipotini Fabio e Alessia siano sicuri di arrivarci, gli altri -solo i giovani- possono sperare nello sviluppo scientifico e nell'allungamento progressivo della vita, ma mio nipote Ivan, che ha 19 anni, ne avrebbe 110, e decisamente mi sembra troppo.
Noi che non ci saremo ce li godiamo adesso, da lontano.
Ad maiora gente e chi se ne frega quanto si campa.

giovedì 7 ottobre 2010

DOLORE SBATTUTO IN DIRETTA

Scrivo a caldo, senza pensarci su e vaffanculo la sintassi.
Ad Avetrana è successa una cosa atroce: uno zio ha strangolato la nipote quindicenne in una cantina perché gli si rifiuatava e l'ha -a sentire le scarse prime notizie- violentata post mortem. Questo è il fatto, terribile nella sua scarna tragicità.
Appena ieri sera le prime notizie arrivano alle redazioni dei giornali e dei telegiornali volano illazioni e mozziconi di notizie. In quel momento in uno studio di "Chi l'ha visto", se ho letto bene, c'è la madre della ragazza che sta verosimilmente rivolgendosi a quelli che crede siano i sequestratori di sua figlia.
Quando incominciano a circolare le notizie qualcuno, dallo studio centrale della RAI, comincia a parlare a voce alta: si sentono le parole "corpo" e "ritrovato".
La telecamera inquadra impietosa la faccia della madre, che certamente ha sentito tutto. Senza pudore né pietà.
La conduttrice azzarda a chiedere a quella povera donna se voglia abbandonare la trasmissione, ma si trova di fronte una faccia di pietra.
Impietrita è la parola esatta. La madre ha percepito la morte della figlia, ma si aggrappa ancora a chissà quale speranza. E la telecamera sta sempre puntata sul suo viso, sul suo immenso dolore, spiattellato su tutti i teleschermi senza alcun pudore.
Le fanno addirittura ricevere una telefonata -dai carabinieri, presumo- che la informano del ritrovamento di un corpo. La madre rispondendo alla conduttrice che le ha chiesto appunto cosa le abbiano riferito, risponde: "Dicono di avere ritrovato un corpo, ma non può essere vero".
A questo punto la decenza imporrebbe di tagliare quella immagine del dolore universale, di lasciare quella madre alla sua infelicità, che appartiene solamente a lei, non al mondo intero.
Solo dopo un paio di minuti in cui la telecamera inquadra sempre questa Maria del Calvario, la conduttrice si decide a far togliere il collegamento.
Io mi indigno per questo comportamento della nostra televisione di stato, che cerca solo mostri da sbattere in video e vittime di mostri. Spero che, come me, si indigni più della metà dei telespettatori, ma temo di sbagliare, di sbagliare di grosso.
Questa televisione del cazzo, questa televisione spazzatura non fa altro che correre dietro al campione di telespettatore e ai suoi gusti. Ci è stato insegnato in tutti questi anni, in cui abbiamo visto imbarbarirsi il metodo di comunicazione fino ad arrivare al puro e semplice messaggio commerciale anche della morte, per alluvione, per terremoto, per omicidio. Quindi anche il dolore di una madre è un messaggio commerciale, è un modo come un altro per tenere incollato sul PROPRIO canale il telespettatore, costi quel che costi. Ben venga allora una faccia impietrita, ben venga un volto dove non scorre più sangue: fa audience o come cazzo si scrive. Pertanto se il telespettatore vuole questo strazio, questo strazio gli viene offerto.
Ma a questo punto mi vengono sul gozzo un paio di domande: ma che razza di gente popola questa nazione?
Da quando siamo diventati così?
Perché dobbiamo vedere solo sangue, morte e distruzione?
Quale tormentone interno appagano i dolori altrui?
Siamo veramente così, o VOGLIONO farci apparire così?
Sono dunque solo io ad indignarmi tanto?
Visto che stamattina a "Uno mattina" nessuno si è degnato di sputtanare la trasmissione di ieri sera e la sua conduttrice, e visto che stasera -mi ci gioco una coscia- Bruno Vespa cavalcherà in diretta a "Porta a Porta" questo ferale avvento?

martedì 5 ottobre 2010

RISPOSTA NON PRIVATA A NIK ZIO SCRIBA

Carissimo Nik, che guaio non averti incontrato qualche anno addietro. Ti avrei fatto leggere il manoscritto e tu avresti potuto suggerirmi quel che mi dici nel tuo commento. Hai perfettamente ragione: il libro così com'è è un po' prolisso -troppo- divagante, sfuggente. Ma io me ne sono reso conto SOLO dopo averlo riletto stampato!
Ho letto che anche ad altri è successo, ma non mi consola tanto.
Oggi so che lo scriverei diversamente, eliminando tanti flashback del finale -Billa, la ragazzotta- ma non del tutto la storia iniziale con Christine e l'educazione del moccioso, stringendola moltissimo, però, e lasciando il finale.
Ti rivelo a questo punto un segreto.
Avevo mandato quel manoscritto a Mondadori. Mi hanno risposto con una lettera dopo circa tre mesi. Mi chiedevano di tagliare tutta la seconda metà e di lasciare lo scavo fino alla riconsegna dei soldi.
Significava via la storia di Marò, che a me piace un sacco, via tutto il dramma intimo del protagonista e di Terenzio, via il MIO romanzo.
Loro mi avrebbero pubblicato il"nero", e sarebbe sicuramente stato un successo.
Ma sarebbe stato il LORO romanzo, non il mio.
Ci ho pensato, sai. Un bell'imbarazzo. Capirai Mondadori ti pubblica il tuo primo libro e ti etichetta: scrittore di libri "neri".
Poi ho cortesemente ringraziato e rifiutato.
Sono immensamente grato a Giulia Fabbri -le voglio bene- che ci ha investito i suoi quattrini ed ha creduto in questo libro. Non mi pento di avere sbattuto, anche se accompagnandola, la porta in faccia al potere.
Forse sono uno stronzo.
Il fatto è che questa era la storia che mi tiravo dentro da almeno quaranta anni, da prima di arrivare in Germania. Poi mi è piaciuto ambientarla in Germania.
Certo che allora, quando l'ho immaginata, inghiottita, digerita era scritta in quel modo, con aggettivi e avverbi. Purtroppo anche quando l'ho ruminata gli aggettivi e gli avverbi c'erano rimasti attaccati. Tu mi puoi capire, a quanto mi scrivi nel commento.
Ho scritto anche qualche poesia, certi peccati si fanno, e recentemente ancora qualcuna.
Per farti capire dove sta la differenza ti propongo due poesie di argomento simile: la prima fu scritta una trentina di anni or sono, quando ero a Milano; l'altra questa notte, dalle due alle tre, proprio come canta Falstaff "dalle due alle tre".
Te le propongo adesso per mostrarti quanto sia cambiato lo stile e l'umore.
Grazie comunque della bellissima critica spassionata. Sei un amico.

DONNA RITROVATA

Ti ho ritrovata, ma eri nuova,
inimmaginata.
Aspettavi clienti e avevi scarpe
verdi di coccodrillo e guanti di camoscio neri.

Per un lungo attimo,
intoccabile,
resta immobile il tuo gesto volgare
e la tua vita di allora zampilla dai tuoi occhi ancora fresca.
Così come stai, appoggiata a quel muro,
sei solo un'ombra senza palpito che si rifiuta e si concede;
forse proprio per questo mi emergi
come una bava di vento sul mare
dai margini della memoria.

Così ti rivedo, bella e pronta per vivere,
così ti seguo mentre chiara e ridente
mi guardi e taci.
Già mia madre dall'alto del grigio balcone
della nostra via grigia
mi chiama per la cena. E tu non parli:
non hai niente da dirmi,
hai solo occhi per me muti che guardano.

Io non chiedevo altro, io non volevo
niente di meglio che mi desse vita:
la luce dei tuoi occhi ed il calore purpureo
delle gote quando ti davi a me.

Indifferente al ricordo
ora ti sciogli
le vesti dalle spalle e dai fianchi ancora caldi.

E non ho un nome da darti.



POESIA DI OTTOBRE


Sta seduta in fondo al bancone
sullo sgabello più alto di tutti, sta sul pizzo,
insomma sta sull'orlo dello sgabello
come di una che aspetta solo di squagliarsela.
Metà sgabello è vuoto, il resto è il suo culo:
come fai a non guardare un culo così,
e gambe così e una donna così.
Attacca bottone prima che schizza via
da quel trespolo, mi dico.
Ci metto niente. Ci metto sempre niente
quando mi piace una donna,
e questa mi piace forte.
"Fatti un bicchiere con me. Che bevi?"
"Aspetto qualcuno", dice lei.
Voce da contralto, esce grattandole la gola:
a me gratta i testicoli e la base del pene.
"Che bevi?", ripeto.
"È una persona importante", dice lei.
"Chi è? Un senatore? Un ministro?
Oppure è il figlio di puttana che ti paga i tuoi conti?"
"Più importante: è mio figlio".
"Cazzo! Potrà aspettare cinque minuti. Che bevi?"
Col vocione, perché mi sto incazzando.
"Vodka". "Sei russa?" "Polacca".

È cominciato così.
Alla terza vodka è arrivato.
Un giovanotto di diciannove anni; un figlio grande e grosso
che mi guarda un po' storto. Ricambio.

Siamo andati in giro tutto il giorno
con la mia macchina, con la mia benzina;
il bel culo di lei sul sedile accanto al mio
lo stronzetto sdraiato
sui sedili di dietro come un pascià.

Tutto per lui 'sto casino. Deve trovarsi una stanza
più vicino che può alla Uni
perché non gli va di camminare tanto alla mattina.
Non mi pare che abbia una gran voglia di studiare questo,
nemmeno di lavorare. Secondo me a questo
qua non gli va di fare un cazzo.
Lo mantiene sua madre e chi se la sbatte.

Così da allora lo mantengo io,
sennò che ci faccio con tutta la grana
che guadagno; e poi sua madre mi piace forte,
m'è entrata sotto la pelle:
lei, la sua voce da contralto, il suo culo
grandioso, le sue cosce lisce come
un lavandino bagnato,
la sua maniera di fare all'amore
come una puttana selvaggia.
Tutto m'è entrato di lei sotto la pelle,
tutto di tutto, non butto niente.
E allora ci sguazza pure suo figlio,
ci guadagna bene con me.

L'altra sera è venuto. Gli servivano soldi,
viene solo per quelli. Gli ho dato due pezzi
da cinquecento; se ne è andato via subito.
Almeno per dieci giorni
non lo mantengo.

So già quale è la tua preferita, Nik.
Ciao, e grazie ancora.

lunedì 4 ottobre 2010

LE BELLE FESTE IN FAMIGLIA DI UN VOLTA

Noi, che eravamo 14 cugini DOC e ci chiamavamo per telefono una settimana prima, ogni tre mesi.
Noi, che prendevamo accordi e consolidavamo la nostra alleanza.
Noi, per i quali quell'evento rappresentava una mano di colore sulla facciata grigia della vita, considerata l'età felice che avevamo allora.
Noi, che vivevamo "in temporibus illis", dove non c'era ancora la TV, il Festival di San Remo arrivava via radio e lo vinceva sempre Nilla Pizzi, sempre con l'orchestra del maestro Angelini e la conduzione di Nunzio Filogamo ed il suo "Miei cari amici vicini e lontani, buonasera, buonasera, ovunque voi siate".
Noi, che preparavamo i tavoli allineati sotto il pergolato della casa di campagna di zio Aldo, oppure quando era il turno sulla terrazza di casa mia, o nel cortile di zio Sante, o nel giardino della casetta sul mare di zia Giulia, che capitava sempre d'estate nemmeno a farlo apposta.
Noi che disponevamo le sedie - ventotto - badando a non mettere nessuno a capotavola, per non farli litigare subito per chi ci si doveva sedere.
Noi, che mettevamo la sedia col cuscino alto di zia Giulia (era piccola e ci sformava) ben lontana da quella con lo schienale alto riservata a zio Sante (se la portava da casa), per non veder volare sberle tra fratello e sorella.
Noi, che mangiavamo tutto di corsa in modo da finire per primi e non perderci nemmeno una chicca dei loro battibecchi.
Noi, mi pare a questo punto che avessimo acquisito il diritto di goderci in prima fila lo spettacolo della rissa tra fratelli tre e sorelle due, senza morti né feriti ma con parolacce a gogò.

Qualunque fosse l'argomento iniziale andava sempre a finire a pianti -le due femmine- e strilli -i tre maschi. Vedere frignare come bambini innocenti i nostri antenati più prossimi era uno sballo.

"Tua moglie ha partorito nel mio letto perché non avevate nemmeno i soldi per comprarvene uno", strillava mia madre, che ce l'aveva con Zio Aldo.
"E io ti ho rifatto l'impianto elettrico di tutta la casa senza pretendere un soldo e ci ho rimesso pure il materiale", strillava di rimando zio Aldo.
Ma la più bella di tutte, quella che ha fatto sganasciare dalle risate per delle ore i 14 cugini 14, è stata di mia madre, modestamente. Ce l'aveva con lo zio Sante.
"Ridammi le due lire, che ti ho prestato nel 1914 e che non ho più visto".
Eravamo nel 1948, credo. Per comprare un pacchetto di schifosissime Alfa occorrevano 80 lire, e mia madre voleva indietro DUE lire!
"Non te ridò nemmeno se ti ammazzi", fu la risposta di zio Sante.
Noi, i superstiti dei magnifici 14 -purtroppo solamente tre- ancora ci facciamo venire le lacrime agli occhi dal ridere nel ricordare quel botta e risposta.
"Siamo rimasti solo noi tre a ricordarcelo, non è vero Enzarè?", mi diceva al telefono Anna qualche mese fa.
"Sì, le ho risposto, solo noi tre, Chichì, Cocò e Cachemeocazze".
Naturalmente per rimanere in sintonia coi vecchi tempi belli.