martedì 30 ottobre 2012

TATORT 6

2.

Irene dorme ancora,
e il Comandante aspetta alla sua porta.
Deve suonare molto:
più spesso, più a lungo;
è sempre più nervoso.
Ma Irene ha il sonno duro alla mattina.
Lui scende i sei gradini,
va alla grossa BMW,
prende qualcosa, scrive;
torna alla porta color verde cupo,
infila il biglietto sotto alla fessura,
scende di nuovo.
E allora Irene apre la porta.
Non saluta nemmeno.
Il Comandante
le dice che prima di andare all'obitorio
ha bisogno di lei
al Commissariato.
Irene non risponde.
Rientra in casa,
lascia la porta aperta
e il Comandante entra
dietro di lei.

Per prepararsi a uscire
Irene può impiegare
pochi minuti o un'ora.
Questa volta
esce subito dalla sua camera,
non ci rimane nemmeno un quarto d'ora.
Indossa un vestitino azzurro chiaro
ricamato intorno al collo,
con le maniche lunghe;
ci infila sopra una giacca nera
a doppio petto;
le scarpe sono nere coi tacchi bassi.
Vanno via con la grossa BMW.
Il Comandante guida veloce,
lei guarda avanti fisso,
respira piano
che quasi non si vede.
Fino al Polizei Präsidium
nessuno dice niente.
Dentro il suo ufficio
il Comandante la fa sedere
su una poltrona rossa.
Lui resta in piedi.
Le offre una sigaretta,
ne accende una anche lui.
Aspira profondamente,
trattiene a lungo il fumo nei polmoni,
lo fa riuscire dal naso, 
e intanto pensa
a lungo
prima di parlarle.
Poi le chiede
di raccontargli la storia
della vita passata insieme col marito,
dal nostro primo incontro
a Francoforte,
in quel Caffè nella Goetheplatz,
poi via via fino
all'ultima sera.
Irene lo guarda un po'
prima di rispondere.
Spegne la sigaretta,
accavalla le gambe,
congiunge le mani sulle ginocchia,
se ne sta un po' così
chiusa come in un guscio.
Poi tira fuori dalla sua borsetta
un'altra sigaretta,
l'accende,
soffia in alto un po' di fumo
e incomincia
a raccontare.

Parla con voce bassa, fioca fioca,
si ferma spesso,
cerca le parole.
Quel che racconta
è la sua parte di vita
passata insieme a me,
e forse è proprio questo
che il Comandante 
vuole ascoltare da lei.
Quello che Irene adesso gli racconta
in parte è vero, il resto
è tutto inventato, però.
Conosco bene Irene.
Conosco ogni cosa di lei:
tutte le volte,
quando più le fa comodo,
lei si inventa
la sua realtà,
e agli altri solo
questa racconta,
non la riguarda il resto.
Lei sta sulla scena
e fa come un attore che butta via il copione
e si riscrive la parte:
recita a soggetto
la sua storia privata,
e la racconta così bene
che alla fine anche lei ci crede.
Adesso, per esempio, guarda il Comandante
dritto negli occhi
e gli racconta delle gran botte
che io una sera le ho dato,
ma non gli dice
perché ne ha prese tante.

Succede una settimana prima
di quando il sicario vestito con un
impermeabile chiaro
colpisce con la pietra
il cranio dell'uomo
che poi muore.
Irene torna a casa
a notte fonda, mezzo ubriaca
e mezzo piena dei baci del suo amante.
Io l'aspetto e le chiedo
dov'è stata,
a casa di chi si è presa la sbronza,
e di chi è la puzza
che tiene addosso.
Irene non risponde:
dice che vuole farsi la doccia
e subito si spoglia.
Io l'agguanto per i capelli,
la trascino per un po';
lei tira calci e pugni.
Io la sbatto per terra 
a muso in giù:
mi accoscio sulla sua schiena
premendole le mie natiche sul collo,
le torco le braccia con forza, 
e per tenergliele ferme
mi infilo i suoi polsi
tra i polpacci e le cosce, 
e stringo più che posso.
Lei non dice una parola,
cerca soltanto
aria a bocca spalancata,
e tenta di scrollarmisi di dosso;
ma io spingo giù il mio culo
con tutta la forza, 
e intanto mi guardo intorno in cerca
di qualcosa
per picchiarla di brutto.
Per terra sono i miei pantaloni,
accanto al letto, dove
li ho buttati.
Sfilo la cinghia di cuoio
larga tre dita, 
e me l'avvolgo intorno
alla mia mano destra,
lasciando libera la bella
fibbia di bronzo ovale,
con la figura di una donna
nuda scolpita sopra.
Un regalo di Irene.
E quella fibbia

io le sbatto
sul culo da destra
a sinistra,
e da sinistra a destra,
con tutta la rabbia che ho nel corpo.
A ogni colpo
tutta la schiena le vibra
e il collo sotto di me;
a ogni colpo muove
il culo
in su e in giù
man mano sempre più veloce, 
alla fine in modo così convulso
che a stento trovo spazio 
dove colpirla.
Soffre come una cagna:
soffia e
inghiotte aria
più veloce che può,
singhiozza forte,
ma non emette un lamento.
Cieco di furore
la pesto
finché più non si muove.
Adesso dalle reni
alle cosce
tiene addosso
una mappa di segni rossi
e marrone:
venti, trenta impronte di
quella fibbia di bronzo ovale
con la donna nuda
scolpita di traverso.
Qua e là la pelle si è spaccata
e cola sangue.
Così la lascio
e  mi rialzo a guardarla.
Stringo sempre la cinghia, 
e lei che è svenuta
resta un bel pezzo immobile.
Poi si tira su piano piano
e si chiude nel bagno. 

Da allora non ci parliamo più.
Una settimana prima del delitto:
ecco un buon movente.
Ma lei, che non è stupida,
non dice al Comandante
quando è successo,
e non gli dice che l'ho picchiata
brutalmente sul culo
con una cinghia di cuoio duro
alta tre dita
e una stramaledetta
fibbia di bronzo pesante lavorato.
Gli dice solo che le ho dato 
un sacco di botte,
che l'ho lasciata
svenuta per terra.
Il Comandante la guarda attento
in faccia, 
sul collo, sulle braccia;
non vede segni
e pensa
che è roba di qualche mese addietro.












venerdì 26 ottobre 2012

TATORT 5

IL  GIORNO  DOPO

1.

Alcune cose adesso sono buone:
non ho bisogno di danaro,
non mi annoio, non mi stanco,
non sento dolore.
Queste cose sono buone.
Il sole non mi scalda,
la pioggia non mi bagna,
non mordo, non rido,
non piango,
e nemmeno bestemmio;
e queste cose non sono buone.
Ma adesso che sto
seduto qui, davanti
alla casa dei gerani,
e ascolto
tutti i rumori e i gemiti
della città che si risveglia,
adesso
in questo immenso prato dei formicai
sono finalmente,
infinitamente
solo.
Questa cosa è buona:
stare solo è il mio destino
che si realizza
in questo mio esser qui.
Mentre siedo sul tetto
della casa dei gerani
sale verso di me
l'odore del male,
l'odore della paura
di tutta quella gente disperata.
Nel clamore di vita
e nei pensieri
che ascolto
di quella gente in corsa
sento pochi suoni di amore,
sento tanti suoni di odio.
Però io non amo,
però io non odio.
Questa cosa adesso non è buona.
Amore e odio nascono insieme
in questo pezzetto di universo,
e vanno sempre insieme
sottobraccio.
Chi vuole conoscere a fondo
le cose dell'odio
e chi vuole conoscere a fondo
le cose dell'amore
deve
interrogare i morti;
e i morti,
che conoscono solo
il linguaggio del sogno,
entrano nei sogni dei vivi
per dialogare con loro;
ma prima devono
rimparare a parlare
e a pensare anche un poco,
perché i vivi
pensano sempre.

Io so adesso
che tanti di quelli che sono morti
aspettano la notte
per infilarsi nei sogni
dei viventi:
per bisogno di parlare, o forse solo
per porre domande,
per offrire risposte.
Io però, che rimango qui tutta la notte,
accanto alla casa
dal grande balcone dei gerani, 
non entro nei sogni di Irene,
perché non voglio.
Alla bella Irene addormentata
non ho niente da dire.

martedì 23 ottobre 2012

TATORT 4

4.

Irene si accende adesso un'altra sigaretta,
e certo passano nel suo cervello
mille osceni pensieri.
Ma non voglio ascoltarli.
Me ne sto a guardarla fumare
come ogni notte facevo
dopo aver fatto all'amore.

Io che le parlo a lungo
ogni notte, 
e lei che mi ascolta.
Tiene la sigaretta accesa
nel portacenere;
la lascia consumare così
come fumo votivo
alla dea della notte.

"Vedi", le dico "io sono il tuo canneto,
nasco dal tuo stagno,
e tu sei il mio vento
che mi piega in due,
che mi prende
e mi lascia."

Le parlo come sempre le parlo
dopo ogni volta, e prima di ogni altra
e lei, forse, mi ascolta.

"Io potrei chiuderti dentro di me",
le dico,
"avvolgerti con le mie verdi aguzze foglie,
dai tuoi teneri piedi
alle tue lunghe cosce bianche,
dai seni acerbi
ai denti che sono
piccole schegge di brina;
tu diventata canna
nel mio canneto,
io nel tuo vento
immobile colomba."

"Hai molta fantasia, ma adesso è tardi."

Guarda me di lato, obliquamente,
me che le parlo
come ogni notte,
me, giunto alla sua casa
da lontano, 
da troppo lontano,
con dentro il cuore
solo vento e pianto,
stanco arco diroccato
di un vecchio rudere.

"Ascolta ancora un po',
dura solo un momento."

"Puoi dirmelo domani;
adesso è tardi ormai.
Adesso ho sonno."

Io posso ancora parlarle a lungo
e raccontarle cose nuove per lei,
posso rattristarla o rallegrarla
e vincere il suo sonno.
Ma il lungo mozzicone si è spento
nel portacenere colmo.
Sdraiata sopra un fianco
mi lascia vedere
la bianca schiena nuda.
Non mi ascolta più.
Così ogni notte
la ladra Irene
estrae la polpa dal mio frutto,
abbandonandomi poi
e mostrandomi il culo.

Ma questa sera
se vorrà
dovrà inventarsi 
le mie parole
al buio.

sabato 20 ottobre 2012

TATORT 3

Davanti alla casa
dal grande balcone dei gerani,
dove per quindici anni
ho abitato con Irene,
sosto
senza sapere
perché non entro.
Giro intorno alla casa,
le passo sopra,
ancora da più in alto
la guardo.
Di nuovo le sono davanti:
il cancelletto scrostato,
il giardino sempre pieno di erbacce,
i sei scalini di pietra grigia,
il portone smaltato verde cupo.

La Kripo non è ancora qui,
Irene però è qui:
la sua bianca Mercedes
non ha il motore ancora freddo.
Irene la bella, 
Irene la sfacciata
odora certo ancora
dello sperma
del suo ultimo amante.

Il Comandante scende dalla BMW
blu notte. Due poliziotti
in uniforme lo seguono.
Il Comandante sale i sei grigi scalini
e il campanello suona.
Irene apre la porta dopo un attimo.
Il Comandante le parla piano.
Lei rimane in silenzio, 
la mano sulla maniglia
tutto il tempo.
Non un gesto, non uno sguardo
di smarrimento,
non un lamento o un pallore.
Si ritrae,
li invita ad entrare;
li precede camminando spedita 
senza esitare.
Entra nel soggiorno
e siede
composta
nella sua solita poltrona
giallo indiano.
Il Comandante in piedi
si guarda intorno,
poi le fa qualche domanda:
-da quanto tempo il marito è uscito
-dalla mattina a buon ora
-non si è preoccupata per il ritardo
-tarda ogni sera, tarda sempre lui
-se il marito ha nemici
-non lo crede, non può dirlo
 con certezza, pensa di no
-dov'era lei durante la serata
-in casa; ha letto un po'
 ha sentito musica; poi è uscita
 per comperare giornali e sigarette
-sì, è rientrata da poco
-no, fuori non ha incontrato nessuno
-sì, in casa è sempre stata sola.
Il Comandante rimane in silenzio
a guardarla, e lei
guarda lui
dritto negli occhi.
"Lei non mi sembra
 molto addolorata, signora".
"Non lo sono.
 Questa morte non mi sconvolge.
 Tra mio marito e me
 c'era ormai solo un contratto
 firmato insieme
 tanto tempo fa.
 L'amore, l'interesse reciproco
 perduti da troppo tempo ormai".
Il Comandante non fa
nessun commento.
"Sembra un delitto a scopo
 di rapina,
 forse è stato un vagabondo".
Irene resta zitta, eretta nella poltrona.
Il Comandante 
le dice alla fine
che torna l'indomani
per portarla all'obitorio:
c'è da riconoscere il cadavere.
Vanno via senza salutare, 
e lei rimane seduta.
Poi si accende una sigaretta;
la fuma con calma,
con brevi, brevissime boccate,
come fa sempre.

Non voglio ascoltare i suoi pensieri.
Irene
tiene composta in volto
l'immagine fredda
del distacco:
si esercita alla parte
della vedova
non preda dello strazio,
mesta bensì e piena di rispetto
per lo sposo scomparso.
Non voglio ascoltare i suoi pensieri,
non voglio sapere.
La guardo
mentre fuma lentamente,
come la prima volta che l'ho vista
in un Caffè della Goetheplatz.
Un amico comune festeggia
il proprio compleanno.
Lei tutto il tempo fuma,
e ascolta, 
e guarda me
con il suo eterno sguardo obliquo.
Tira boccate brevi,
soffia il fumo in alto
leggermente, 
sollevando un po' il viso,
non parla quasi mai.
Quando vado via
sento il suo sguardo
appeso alla mia
schiena.

Il giorno dopo
entra nel mio atelier.
La porta è sempre aperta,
tutti entrano e escono
come gli pare.
Inizio appena un quadro:
grumo di vite avvinte, inacidite,
non consumate,
forme appena schizzate
emergono.
Non mi accorgo di lei
muta al mio fianco, attenta,
non sento il suo respiro.
Irene guarda
le mie mani veloci
nell'impasto dei toni.
Rapidamente
un volto esangue
dalla verde fronte 
spunta tra secchi
contorni neri, senza armonia,
come per beffa.
Nel profilo di donna c'è un urlo,
quasi un ghigno,
nel fondo viola che si smorza ai lati
dell'acre vuoto della tela.
Io traccio
i segni
obliqui e nudi.
Lei pudicamente
mi rimane di fianco,
cogliendo in ogni mio gesto
la sofferenza
e la gioia della creazione nuova.

Irene è adesso ogni giorno nel mio atelier,
e ogni notte è nel mio letto.
Qui da me tutto sa di lei,
tutto odora di lei,
e l'anima mi si scioglie
in mille gocce di piacere.
Irene prende sempre tutto quello che vuole,
e Irene adesso vuole me
artista mezzo genio e mezzo matto,
oggetto esotico per lei,
carico di temperamento,
di sangue in tumulto
e di umori vitali;
Irene sposa me,
italiano dolce, volgare,
sognatore, scurrile;
amante tenero e violento,
sempre pronto alla lite,
mai monotono, mai quieto.
Irene è irresistibile
e mi mette nella vetrina centrale
della sua collezione di trastulli.
Mi concede di possedere il suo corpo
mille e una volta,
eppure mai mi lascia
sfiorare la sua anima.
Costruisce caparbiamente
cento percorsi differenti
dei quali nessuno conduce a lei,
e nessuno le passa vicino.
In quella rete
di vicoli e di stradette oscure
Irene è irraggiungibile:
appare a un tratto da un canto,
vicina 
nell'offerta,
e subito sparisce
da un altro lato
lontana
nel rifiuto.

Un po' di tempo è ormai passato:
le note dell'allegra canzone
che insieme cantammo
restano sospese nell'aria,
stonate e stridule;
il tempo dorato dell'estate è lontano,
e l'angelo provocatore
già mi chiama
per scacciarmi dall'Eden.
Troppe le differenze di nascita,
di lingua, di intenzioni,
di attese dalla vita, 
di contenuti e di forme
ci allontanano
giorno dopo giorno;
i suoi continui amanti,
successivi e contemporanei,
ci allontanano
notte dopo notte.
Dovevo capirlo prima
che lei è
troppo in alto per me,
privilegiata nella casta
dei ricchi fabbricanti, dei costruttori
di fortune economiche,
dei signori nati signori,
con le chiappe lisce e pulite
nelle mutande di seta
con le iniziali in oro.
Io troppo in basso al contrario per lei:
nato contadino, povero scannato,
rozzo e cupo,
uso a lingua e lazzi plebei,
e minestroni di legumi,
e bestemmie
e scoregge puzzolenti.
Arrivo morto di fame a Francoforte
da chissà quale buco
di culo di questo pianeta,
mezzo artista
e mezzo accattone, 
la puzza del sudore appesta l'aria
e il fiato sa di aglio e di miseria.
È la fine di maggio del 1971, 
nemmeno un cane a salutarmi quando parto.

(continua)   


martedì 16 ottobre 2012

TATORT 2.

2.

Sto alto, 
sopra gli alberi alti,
immobile,
senza ansia,
senza nessun istinto,
privo della gioia
dei desideri appagati,
libero del dolore
dei desideri repressi:
contemplo il lavoro degli ultimi
uomini in uniforme.

Sgombrano
il luogo del delitto.
Portano via i loro attrezzi,
le loro luci;
tolgono gli ultimi 
sbarramenti colorati
di rosso e bianco, 
e caricano tutto
sui loro verdi furgoni.
In gran fretta se ne vanno.

Io prendo tempo.
Alto su questo
lembo di terra,
prolungo l'attesa
di un successivo sbalzo,
e tengo ancora per un po' frenata
la volontà di cercare
interessi nuovi
in questo mio esser qui.
Io prendo tempo 
per intuire e distinguere
questa statura, questa dimensione
che è nuova adesso;
per capire
se ancora
a pensare riesco,
che cosa penso quindi;
per capire
a che mi servono
queste dita
che più nulla toccano,
queste mani
che più nulla accarezzano,
queste braccia
che più nulla stringono, 
e queste gambe
che più non camminano.
E a che mi servono gli occhi?
Non ho bisogno degli occhi: 
li tengo chiusi, eppure vedo;
e sento tutto distintamente
in cento e in mille direzioni,
e tutto chiaramente intendo
in ogni lingua e dialetto.

Volere o non volere.
Questo realizza e rende
tutto diverso
nella dimensione in cui mi trovo.
Voglio: 
stabilisco di volere,
e ho tutto quel che voglio.
Non voglio:
stabilisco di non volere
e tutto allontano da me
qual che non voglio.
Il sacrificio manca,
manca il rammarico,
il dubbio manca e l'incertezza,
l'alternativa tra il bene e il male;
la volontà degli altri non
prevarica la mia,
non conta niente
perché io sono solo
nel mio esser qui.
Da solo mi creo
nello spazio
la posizione e la forma.
Adesso scopro
l'esistenza della mia volontà,
gli spazi illuminati
dove riesco a realizzarla,
e a replicare la forma 
e la condizione
del mio esser qui.
Adesso mi metto
in statura di montagna,
in dimensione di fiume;
mi scopro erba da pascolo
e gregge,
mi lascio andare come vento,
mi lascio andare come luna e sole,
e come nuvola, e come pioggia, 
vento e pioggia di me,
sole e gregge di me.
Il sentimento però
della terra e del cielo,
il sentimento del tempo
abbandono
in quel corpo svuotato, 
lo lascio
alla pietà dei superstiti, 
di chi vorrà averne.


(continua)







domenica 14 ottobre 2012

TATORT

La parola composta Tatort significa in tedesco luogo dell'accadimento, e quindi come in questo caso luogo del delitto.


IL  FATTO

1.

E così sono stato ucciso!
In quel corpo disteso per terra
dentro un bosco,
(vederlo lì bocconi 
e inerte
mi fa perfino pena),
con la testa infilata tra sterpi e pietre,
tutto sporco di sangue,
lì dentro dunque
stavo io
per quaranta anni e passa.

Addosso gli sta l'autore del delitto,
la pietra lercia di sangue
ancora in mano:
aspetta da quelle membra
rattrappite
una qualsiasi mossa per colpire
di nuovo, più forte ancora.
Sul collo lo tocca:
segno di vita non trova.
Getta
la pietra allora
e tutto intorno si guarda.
Sassi raccatta e rami secchi
per buttarglieli sopra,
per nasconderlo un po'.
Poi di un passo indietreggia
e di nuovo 
tutto intorno si guarda, e se ne va,
sicuro
senza fretta, lungo il sentiero, 
lentamente
senza voltarsi mai indietro.
Io sempre al fianco gli rimango
e intensamente ogni
sua mossa osservo;
però a vederlo non riesco in faccia.
È alto, 
veste bene, accurato,
camicia e cravatta,
scarpe di marca.
Un cappello di feltro a falde flosce,
un impermeabile chiaro
che rassomiglia
tanto a quello che indossavo io.
Guanti calza di pelle nera,
alzato tiene il bavero
e un foulard di seta gli
copre la faccia
fino agli occhi.
Non mi pare
di averlo mai incontrato:
questo qui deve
essere un sicario
venuto per colpire, per ammazzare, 
e qualcuno per questo
lo ha pagato.

Una moto incontro ci viene
coi fari accesi,
abbastanza veloce su per il sentiero.
Subito si nasconde 
il killer dietro un albero.
Un giovanotto con la giacca rossa
di pelle, senza casco in testa,
guida la moto.
La sua ragazza si appoggia
alla sua schiena, 
lunghi capelli liberi
nel vento. 
Appena passano cerco
il sicario: è sparito,
non lo vedo più.

Immediatamente mi sposto
accanto al corpo dell'ucciso
(non ho bisogno di camminare
per i miei spostamenti, né di volare:
basta che io voglia e sono subito altrove).
Rapida la moto passa oltre,
arriva poco più su, poi il ragazzo
la ferma; il fascio luminoso
si spegne. Ora è
di nuovo buio,
ma qualcuno
rovescia le tasche del morto.
Un vagabondo,
uno straccione che porta via un anello
con brillante da tre carati, 
un Omega d'oro da 4.000 euro, 
il portafogli e le scarpe.
Quando scappa
inciampa
nei sassi sporchi di sangue,
e fa un gran casino.
Spaventa a morte quei due
ragazzi là sopra,
che sono intanto scesi dalla moto.

Mi sposto da loro.
Lai sta appoggiata con la schiena
a un albero,
la gonna tirata su fino all'ombelico,
le mutande giù fino a sotto le ginocchia,
e lui sta sbracato
di fronte a lei
col grosso pene eretto.
Ma la ragazza non ha più voglia di scopare.
"Andiamo via, dice; c'è qualcuno".
E subito le mutande su si tira
e giù la gonna.
Lui è molto giovane e impacciato:
non protesta nemmeno.
Si arrangia coi calzoni
come può,
più svelto che può,
e in qualche modo
ricaccia dentro il suo pene
ancora eretto.
Saltano sulla moto e vanno via, 
con lei che intorno si guarda
e batte i denti.

Scende pian piano il ragazzo,
per un momento illumina
il corpo a terra,
un attimo soltanto
ma che al ragazzo basta.
"Vai via, vai via di qui", lo supplica lei,
ma lui è già fermo.
Guarda fisso in quella direzione
ma non si avvicina.

"Non è normale".
"Che cosa non è normale?"
"Con questo freddo quello
se ne sta sdraiato sotto un albero".
"Andiamocene! Fai come ti dico".
"Forse sta male; non si muove nemmeno".
Solleva la moto sul cavalletto
e scende, ma non fa un passo avanti.
Deve avere una brutta fifa addosso,
però non ci mette tanto a capire
come stanno le cose;
dirige allora il fascio
di luce
sull'immobile corpo.
"Cristo! Ma quello è morto!"
"Come lo sai?"
"Non vedi quanto sangue? dice lui;
e non ha nemmeno le scarpe".
"Allora è un vagabondo,
qui in giro è sempre pieno".
"Sì, però questo è un vagabondo morto, 
morto ammazzato".

Riparte subito, 
con lei seduta dietro.
Questa volta guida più svelto
fino alla cabina del telefono,
giù in fondo ai margini del bosco.
Gli sto vicino
quando chiama la Kripo.
Dice nome e cognome,
scandendo bene le lettere, 
e quello che ha trovato 
là di sopra.
"Sì, resto qui", risponde, 
e riattacca il telefono.
La sua ragazza è infelice adesso:
mette in ordine la gonna, 
che è di nuovo salita
un po' troppo.
Tiene il muso lungo fino ai piedi:
maledice di sicuro
l'idea di venire nel bosco
questa sera
per farsi una sveltina.

La Kripo si sente da lontano
con tutti i suoi suoni di sirene e trombette,
e da lontano si vede
con le sue luci intermittenti blu.
Ma forse adesso ho perso
molti dei sensi che avevo prima
quando in quel corpo stavo;
chissà, forse anche tutti quanti.
Può darsi invece che adesso
riesco a concentrarmi
su quelle cose
che prima
non erano importanti,
che nemmeno vedevo,
che neppure ascoltavo.
Adesso per esempio rimango
ad ascoltare
il suono dei pensieri della ragazza
con la minigonna:
il suo desiderio soffocato,
e l'ira per il suo amico
che a fare l'eroe sta giocando.
Rimango pure ad ascoltare
il trambusto della paura e dell'ansia
nel cuore del ragazzo
con la moto: 
resta lì, ma si piscia addosso
dalla tremarella.
Per questo non mi accorgo
che i poliziotti sono arrivati;
ma dopo pochi minuti
c'è più luce e più gente
in questo angolo di bosco
che al Luna Park nei giorni di festa grande.
Piantano fari tutto intorno,
tutto cercano e tutto
tastano e fotografano.
Un gruppo con un nastro
plastificato bianco e rosso
recinta la zona.
Dischetti numerati depone un altro gruppo:
accanto al sasso sporco di sangue,
a un ramo spezzato, e a chissà cosa ancora,
uno, due, tre e così via.
Qualcuno scatta foto,
atri scrivono,
e tutti parlano nel telefono portatile.
Girano intorno a quel corpo,
vanno, vengono, rivanno
e poi di nuovo ritornano indietro.
In mezzo a loro c'è uno che sembra
essere quello che comanda: 
appartato se ne resta
senza dar l'aria di far niente,
ma tutti
ogni cosa a lui riferiscono,
tutto gli fanno vedere
quello che trovano,
e lui tutti ascolta
e poi con cenni brevi della testa
indietro tutti rimanda.

Il Comandante comincia a parlare
coi due ragazzi della moto.
A voce bassa fa le sue domande:
"Che facevate qui?"
"Vi conoscete da tanto?"
"Di dove siete?"
"Tu che lavoro fai?"
"Apprendista meccanico."
"E tu?"
"Io non faccio niente,
volevo dire che vado ancora a scuola."
"Perché, quanti anni hai?"
"Sedici, quasi fatti."
"Stai attento tu a portarla nei boschi,
ché questa è minorenne."
Gli prende un braccio,
negli occhi lo guarda, che sono grandi
e pieni di paura
in tutta quella luce.
"Dimmi quello che hai visto."
"Ho viso anch'io", dice minigonna.
"Va bene: tu confermi se è il caso,
oppure lo correggi."
Il ragazzo gli racconta
quel poco che sa:
del rumore che hanno sentito,
come qualcuno che inciampa,
cade e poi scappa:
e del corpo che poi ha visto
disteso per terra.

Il Comandante subito via li manda, 
ha altro per la testa adesso.
Agli uomini chiede se documenti
hanno trovato,
qualunque cosa per identificare quel corpo
e dargli un nome.
Qualcuno fruga ben bene nei vestiti
e porta di corsa
al Comandante
un portamonete mezzo vuoto.
Lui ne tira fuori
una scheda gialla di plastica:
il tesserino di socio dell'ADAC.
Così adesso sanno che nome dare
a quel corpo.
È facile come un gioco
trovare l'indirizzo.
Il Comandante chiama un paio di uomini
e vanno via insieme sgommando
con una macchina veloce.

Ancora un po' rimango
a guardare quel corpo tutto imbrattato.
Lo hanno girato sulla schiena, e stanno
per portarselo via
in una grigia bara di lamiera.
Prima però devono infilarlo
in un sacco di plastica nero con cerniera.
Guardo la faccia del morto,
e mi sorprende vederla
così serena,
rilassata.
Non c'è traccia di orrore,
né di strazio:
è la faccia di un uomo che ha pagato
il suo prezzo al destino
e in pace è adesso.
È la faccia di chi è libero
da un peso,
da un rimorso,
che so io, da una vendetta
incombente.
È la faccia di un uomo
che non è più infelice.
La guardo ancora a lungo
quella faccia,
e quasi mi sembra
ci non averla vista mai.

(continua)