venerdì 28 settembre 2012

UN MURALE EGIZIO 12 METRI PER 6 METRI

La mattina del 2 maggio 1987 misi mano al mio ultimo "Prospekt" -leggi fondale- nel Badisches Staatsteather di Karlsruhe.
Avevo ormai dato le dimissioni e dovevo solo attendere a luglio la fine della stagione. Avevo il naso pieno dell'arte teutonica di fare teatro, né più né meno un clima da fabbrica: si inizia alle 7 in punto, si stacca alle 16 e si produce "cultura", come se si trattasse di Bruttosozialprodukt. Boh!
L'ultima settimana di aprile quattro Azubi (Aufzubildende, insomma quattro apprendisti) avevano disteso e fissato al pavimento una tela grezza di 36 metri per 18, ma non l'avevano spalmata di bianco.
Era stato Lothar Favre, uno scenografo di Berlino, ospite spesso nel nostro teatro, a pregarmi di non farlo.
-Fammelo all'italiana, Vincenzo.
-Vallo a dire al direttore tecnico e al direttore di sala.
-Già fatto.
-E loro?
-Non ti romperanno le palle.
Farlo all'italiana significava appunto senza "Grundierung", cioè la spalmatura di un denso strato di bianco, elastico quanto si vuole, ma che non permetteva quei begli effetti che Lothar Favre aveva avuto modo di apprezzare nelle scenografie italiane.
-Ma come fate? 
Mi aveva chiesto una volta.
-Semplice: la tela viene impregnata con la pistola a spruzzo da una soluzione di colore in polvere, un grigio chiarissimo per esempio, colla vinilica e molta acqua. Rimane estremamente morbida ed elastica.
-Ho capito tutto; e per gli effetti?
-Niente acrilici, solo colori in polvere, colla vinilica, acqua e tanta abilità.
Quella mattina preparai da solo la miscela: un grigio azzurrino, dato che dovevo realizzare un paesaggio all'alba con tantissimi alberi e un castello medioevale sul fondo. Il fondale dell'ultimo atto della Lucia di Lammermoor di Donizetti.
Venne da me Kubansky, il direttore di sala.
-Vincenzo, vuoi due Lerling per aiuto?
-Sì: Beatrix e Gundula.
Due ragazze in gamba. Due donne, non perché volessi fare il pomicione, ma le donne ascoltano attentamente le tue direttive e le eseguono, venendo a chiedere consiglio se non sanno come andare avanti. Gli uomini si considerano sempre già arrivati, ascoltano poco o niente, fanno di testa loro e combinano gran cagate che poi il pittore deve sistemare.
Appena il telone fu ben asciugato effettuammo insieme la quadrettatura, dopodiché ce ne andammo a casa perché si erano fatte le 16.
L'indomani effettuai l'intero disegno, da solo, perché si deve vedere solamente una mano e non tre.
Mentre lavoravo  mi veniva da ridere. "Guarda un po', mi dicevo, stai realizzando da solo un fondale di un'opera lirica, con due aiutanti che già stanno preparando i colori e la colla. Come un grande maestro dell'antichità. Se qualcuno te lo avesse detto dodici anni fa, quando tutto ha avuto inizio a Francoforte, ci avresti mai creduto?"
Quando mai, mi sarei sganasciato dalle risate.

Era incominciato tutto una sera in un Eis Cafè, una gelateria di Francoforte, dove avevo esposto un mio quadro, "Die Trinker" i bevitori, che mi era venuto proprio bene. 
Il proprietario della gelateria mi aveva telefonato perché c'era qualcuno che voleva conoscermi.
Si chiamava Anke Fuchs. Dipingeva anche lei, ma non mi disse subito di essere scenografa presso le "Stadliche Bühne" di Francoforte. 
-Hai mai lavorato in teatro? mi chiese.
E io lì feci lo sborone, tanto quella come poteva sputtanarmi?
-In un teatro mai, però ho fatto tre stagioni consecutive all'Arena di Verona.
E dai! Che ne sa questa che io a Verona ci andavo in vacanza.
-Quindi te ne intendi di tecnica teatrale?
-Ma certo, che ti pare? 
Allora lei sparò la botta che mi trafisse il cuore.
-Vieni domani in teatro e chiedi di me. Ti faccio fare una prova e se vai bene ti assumiamo subito.
Beccati questa, Iacopò!
-Domattina?
-Sì, perché, hai impegni?
-No, figurati, me ne libero.
L'unico impegno era con le lenzuola e le coperte del mio letto. Insomma mi ero fregato con le mie mani, anzi con la mia lingua.
"Cercherò di farcela con la mia faccia tosta, pensai; in fondo si tratta di dipingere, mica di volare nello spazio".
Dipingere sì, certamente, ma non una tela su un cavalletto, bensì una pezza di tela ruvida 6 metri per 4, fissata al pavimento di legno dentro una sala immensa dove lavoravano una decina di pittori.
E adesso cosa faccio?
Anke Fuchs mi portò il bozzetto: una foto 24 centimetri per 12 dell' "Annunciazione" del Beato Angelico.
-Mi interessa che tu mi faccia col colore questi archi e i capitelli. Anche il paesaggio, che è molto ristretto. Dipingimi l'angelo dettagliatamente; per la madonna mi basta il disegno. Hai tempo tutto il giorno.
Girò sui tacchi e sparì.
E adesso come cazzo faccio?
Mentre mi rigiravo la foto tra le mani mi si avvicinò uno dei pittori.
-Ho sentito dire che sei italiano.
-Sì.
-Di dove?
-Roma o giù di lì.
-Guardami in faccia, romano. Tu non avevi mai messo piede in una "Malersaal" prima d'oggi, non è così?
-Come hai fatto a capirlo?
-Lascia perdere. Allora impara in fretta ché a me non piace che uno dei nostri faccia una figura di merda. Prima di tutto devi fare la quadrettatura.
-Che roba è?
-Come fai a far diventare l'immagine che c'è in quella foto grande come questa tela?
-Sto pensandoci.
-Come facevano gli antichi. Traccia con una matita una linea perpendicolare nel centro della foto, poi le parallele a destra e a sinistra ogni 4 centimetri. Poi traccia le parallele alla base della foto, sempre di 4 centimetri e alla fine avrai tanti quadratini di 4 centimetri di lato. La linea mediana la ripassi con la biro così ti orienti subito. Mi hai capito?
Annuii.
-Adesso devi fare la quadrettatura della tela. Misura la base, così trovi il punto esatto della sua metà e lo segni con una "M" grande, che vuol dire Mitte, cioè metà. Con la squadra di 4 metri per 4 tiri la perpendicolare e la segni subito sulla tela col carboncino. Poi partendo da questa centrale tracci le perpendicolari parallele ogni metro verso destra; poi ritorni alla perpendicolare "M" e tracci le parallele a sinistra ogni metro. Sono sei in tutto. Poi misuri sul lato destro e sinistro della tela e partendo dal basso, cioè dalla base, segni ogni metro.
Poi tiri le parallele alla base, che sono quattro. Ti servono due che ti aiutino a tenere ferma  a terra la cordella, perché non c'è una squadra di sei metri. Tu segni seguendo la cordella e alla fine hai tanti quadrati di un metro di lato.
-Devo tracciare tutto col carboncino?
-Certo, ma guarda che non ti devi mai chinare, sennò lo capiscono tutti che è la prima volta che lo fai.
Prese un bastone rosso, lungo un metro e venti come seppi poi, che finiva con un morsetto.
-Dentro il morsetto metti il carboncino e lavori col bastone impugnandolo in alto come fosse una matita o un pennello lungo. Tutto lavoro di polso, amico mio. La stessa cosa quando dovrai colorare. Prendi quei pennelli lunghi e lavora stando in piedi dentro il Prospekt.
-Sarà dura.
-Tutto lavoro di polso, come se avessi una spada in mano.
-Ti ringrazio. Se mi serve qualcosa ti chiamo.
-Se il disegno è buono e tu sai anche dipingere puoi chiamarmi, ma se non sei capace io non ti conosco. Hai capito?
Forte e chiaro.
Non ho mai sudato tanto in vita mia, ma dopo circa sei ore avevo già colorato tutto quello che la Fuchs mi aveva commissionato e stavo iniziando a dare il colore al manto della Vergine.
Non li avevo visti arrivare, ma erano dietro di me, Anke Fuchs e due gentiluomini. Me li presentò. Erano il direttore tecnico e il direttore di sala.
-Andiamo nel mio ufficio, disse il primo.
"Sono fregato", pensai. Invece mi chiese quando potevo incominciare a lavorare con loro.

Finii il fondale della Lucia a metà giugno, come previsto dal programma, grazie anche alla collaborazione di Beatrix e Gundula alle quali avevo lasciato il compito di dare le luci e le ombre, riservandomi il tocco finale, un pallido rosa per le luci e un marcato blu oltremare scurissimo per le ombre.
Mi spiego: in teatro la luce viene sempre da sinistra, quindi l'ombra sta a destra. Su tutti gli spigoli e le linee di lato (ad esempio le linee esterne dei tronchi d'albero) alla sinistra si passa leggermente un sottile tratteggio rosa -nel mio caso dato che era la luce dell'alba-, dall'altra parte un più corposo segno blu scuro.
Ero soddisfatto di come mi era venuto il lavoro, ma dispiaciuto perché quello era il mio ultimo Prospekt.
Mentre sciacquavo e pulivo i miei pennelli mi arrivò addosso trafelato Markus Prielhofer, lo scenografo ufficiale del teatro, con un librone spalancato a metà nelle mani.
-Vincenzo, bitte, fammi sto lavoro.
Era la foto di un murale egizio di oltre 4000 anni fa, venuto alla luce negli anni cinquanta, Rappresentava una donna semi inginocchiata provvista di grandi ali aperte per tutta l'ampiezza della foto. In alto e in basso in una specie di doppio cassettone una serie di animali stilizzati e di forme strane.
-Io ho finito Markus. Lucia di Lammermoor era il mio ultimo lavoro.
-Ti prego, ti prego, non lasciarmi in merda. Quei somari non me lo farebbero mai bene.
Il guaio era che si trattava di un murale strapazzato dal tempo e dall'assenza di luce per quasi 4000 anni. Considerata la pignoleria asfissiante di Prielhofer, che guardava tutto con la lente in una mano e il bozzetto nell'altra, c'era da diventare scemi. Inoltre per quel lavoro non avrei potuto fare "all'italiana", ma avrei dovuto fare alla tedesca, che significava spalmatura di colore denso e poco elastico.
Cercai di squagliarmela.
-Fattelo fare da Mokross, è lui il primo pittore, mica io.
-Mokross sa fare solo "Nass auf Nass", cioè umido su umido, ma questo va fatto a secco. Ci vuole tanta fantasia. Tu ce l'hai, lui no. E poi nella figura è scarso.
-Ma io ho finito.
-No. Tu finisci a fine luglio, fra sei settimane. Non mi dire che non ti bastano.
-Quanto deve essere grande?
-12 metri per 6. Bastano quattro settimane.
-Lasciami il libro che me lo porto a casa e ci penso su.
-Niente pensare ormai: il lavoro è tuo. Eccoti il libro.

A casa continuavo a guardare quella fotografia pieno di dubbi e con angoscia montante. Quello che mi faceva dannare era che il muro, qua e là, mostrava gobbe e gibbosità; era scrostato in più parti; la veste rossa della donna sembrava essere stata grattata da uno dei loro scarabei sacri. Come diavolo riuscire a rendere l'usura del tempo? 
L'indomani feci un esperimento. Presi una pezza di tela di un metro quadrato, più o meno. La distesi a terra e la fissai al pavimento ligneo della Malersaal. La spalmai con un po' di colore e di Latex, un materiale plastico usato di solito per creare strutture ed effetti speciali, come per esempio le nervature di un tronco d'albero. Su quel materiale, una volta asciutto, passai colori con pochissima acqua. Provai dei verdi scurissimi e del nero, i colori degli elementi di contorno all'interno dei cassettoni e delle ali della mia donna egizia. Il risultato non fu eccezionale, tenuto conto che era una superficie assai limitata, ma non potevo fare altro e che andasse a dar via le chiappe Markus Prielhofer.
Il metodo del Latex apparve subito vincente perché non rimaneva liscio, ma poroso dando la sensazione di un muro scrostato, dove l'intonaco fosse prossimo a cadere a pezzi minato al suo interno da un tarlo invisibile.
Mescolai colori in polvere con molta gomma arabica come collante e poca acqua, il minimo indispensabile, ottenendo una pasta quasi solida. Con un pennello a setole dure, corto, mettendomi ginocchioni dentro il Prospekt, deposi il colore a piccole quantità. In qualche angolo usai le dita della mano destra per lasciare il colore sulla tela. Mi dava una sensazione immensa, come quella che dovette provare Dio mentre creava le montagne, i deserti, le pianure e i boschi.
Col palmo della mano usato a mo' di spatola, una per una, applicai il nero e il verde scuro sulle penne aquiline delle ali. Il viso ieratico e le mani esangui della donna egizia li avevo già finiti. Mancava la veste rossa, quella che mi toglieva il sonno, perché nell'originale sulla foto del libro vedevo striature come se un enorme insetto avesse tentato di strappargliela di dosso.
Fu l'ultima cosa che dipinsi con un colore quasi secco, che impugnai come un sasso e passai sulla tela con grandi gesti del braccio, seguendo le pieghe della veste, senza nessun ripasso, senza nessun ritocco: come veniva, così restava.
Alla fine ero schizzato di rosso fin sui capelli.
Andai in galleria per guardare il mio Prospekt dall'alto.
E li vidi.
Erano tutti lì i miei colleghi, intorno all'opera ultimata, che mi guardavano attoniti. Avevo lavorato quasi tre ore senza sosta e non mi ero accorto di loro.
Ridiscesi lungo la scala e feci fatica perché d'un tratto mi stavano abbandonando le forze.
-Ich gehe nach Hause, dissi a Kubansky; io me ne vado a casa.
Non era neanche mezzogiorno, ma nessuno protestò.
Mentre una volta lavato mi stavo rivestendo, entrò nello spogliatoio Gundula.
-Ti ho fotografato: mi sembravi Michelangelo.

In serata mi arrivò la telefonata di Markus Prielhofer.
-Fantastisch! Sembra proprio quel muro. Sapevo che ce l'avresti fatta.
L'indomani l'egiziana era asciutta, così tolsi i perni e liberai la tela.
-Mi faccia un favore, Vincenzo.
Paulus Flaig, il direttore tecnico, s'era all'improvviso materializzato accanto a me.
-Prego.
-Lo firmi in basso a destra e ci metta la data.
Lo fissai incredulo. Nessun Prospekt viene mai firmato e datato in teatro. Non durano eterni, dopo due o tre anni vengono riciclati o rottamati.
-Ma è un Prospekt, Herr Flaig; nessuno lo ha mai firmato.
-Lo so, ma questo è un capolavoro. Lo firmi.
Così lo accontentai. In basso a destra scrissi in stampatello VINCENZO IACOPONI - 1987.

Due anni dopo andai con Anna Maria a vedere una Bohême. Finito il secondo atto uscimmo per la lunga pausa e andammo nel Foyer. Dal basso lo vidi: incorniciato elegantemente occupava tutta una parete del piano rialzato. C'erano diversi nasi rivolti all'insù sotto il mio Prospekt.
Sta ancora lì, dopo venticinque anni.
So di uno dei mie figli -quello più scorbutico, che telefona solamente quando gli occorre qualcosa- che quando passa da quelle parti entra nel Foyer per andarsi a vedere "il quadro dell'egiziana con le ali" con in basso la firma di suo padre.








domenica 23 settembre 2012

DITEGLIELO COI BOTTI

-È dar comincio de ottobbre che ce stanno a rincojonì co sta pubbricità der cazzo: "ditejelo co li botti". Ma come je lo devo da dì? "Te amo tanto, amore mio", tre tacchette e du girandole; "vaffanculo stronza", du racchette, na girandola e quattro castagnole. Va bene così? Allora semo apposto.
Ma poi a chi je lo dovrebbe da mannà a dì? Da quanno mi moje se n'è annata cor garzone der fornaro so rimasto solo nde sta casa troppo granne pe me. Io a Marianna je lo direbbe co li botti, ma de dinamite. E te credo: doppo 15 anni d'amore e de corna che me metteva lei lassamme così pe sto manzo de fornaro nun sta bene. Io vorebbe da esse Diabbolicche e faje uscì li corni dar bucio der culo a Marianna. E poi annammene co Eva Kant. Embè, semo tutti namorati de Eva Kant.

Ner mentre che penzava a tutte ste cose Romoletto Cecioni, detto "er zombi" pe via de la faccia de morto che se portava a spasso, annava penzanno a come passassela in allegria l'urtima notte dell'anno. 
Li pochi amichi che ciaveva ereno sposati co fiji e socere, manco a penzacce de fasse invità ar cenone. "Chi me ce vo a casa sua co sta faccia? Je porto rogna pe l'anno novo e l'antri che veranno". Così s'era messo in giro pe trovasse un negro, un arbanese, un fio de na mignotta senza casa perché chi sta solo a capodanno sta solo tutto l'anno e a Romoletto nun je sonava propio st'idea.

Gira e riggira l'aveva scartati tutti, chi pen verso chi pe n'antro, e già se cacava sotto pe la paura de n'anno intero de disgrazzie sicure quanno aveva incontrato Hamir. 
Scontrato sarebbe mejo da di, che quello j'era venuto addosso con catorcio de bicicoletta senza freni manco fora de la porta de casa.
"Scusame omo, scusame tanto", j'annava dietro dietro piagnucolanno sto moretto stronzo mentre che Romoletto manco ce la faceva a mannallo affanculo pe le stelle che stava a vede.
"Li mortacci tua!"
Ar moretto je dovette paré na bibidizzione perché je veniveno fora le lacrime de contentezza.
"Meno male, che paura che non parlavi più, omo"
E accussì dopo nparde bestemmie avevino incominzato a chiacchierà, che parevino amichi da na vita.
"Tu cellai na casa?
"Sì, jarispose er moretto. Bè insomma è quasi un buco, omo".
"Fai festa a capodanno?"
"E con chi? So solo io, omo".
"Allora semo in due. Famola nzieme sta festa der cazzo".

Nun je venne da penzà a nisuno de li due a portacce magara na femmina da fassela a mezzo. Hamir era contento d'avé trovato na magnata de robba bbona e Romoletto gongolava perché nun era solo quanno arivava l'anno novo.
Tutto a posto tutto assistemato.

Se misero d'accordo sur menù: pasta, capitone e dorci. Gnente carne perché Hamir adera musurmano e nun voleva rischià co la ciccia de porco. Pe beve beveva, ma solo ar buio così Allah nun se n'accorgeva.
Je pareva d'avé penzato a tutto, ma quarcosa se l'ereno scordata: li botti.
"Si nun sparamo botti adè ngiorno come n'antro" s'incazzò Romoletto e via de corza ar supermercato, ma nun c'era arimasto gnente, manco na castagnola, manco no schizzetto, quelli che accenneno le vecchiette pe li nipotini piccoli assai.
"Un amico mio faceva er minatore -dice Hamir- avevano i razzi de segnalazione, quanno doveveno fa sartà il tritolo. Corro e vedo se cennà uno buono".

Torna dopo na mezzorata con razzo verde da  tre chili, lungo mezzo metro.
"C'è la miccia -dice Hamir- ma l'amico mio nun aveva il picchetto di ferro da infilare a terra".
"Ce penso io"
Romoletto aveva staccato er manico de la scopa e l'aveva nfilato propio davanti de la porta de casa, indove che la tera era npochettino smossa.
"Dovrebbe da regge"
"Speriamo omo; l'amico mio m'ha detto che è pericoloso".
"Adesso però mettemise a magnà, so quasi le dieci e mezza".

Funirono de magnà che già Roma era piena de botti e de razzi che se coreveno dietro ner cielo nero.
Romoletto aveva nfilato la scopa drento er razzo de Hamir, ma quella ce sciacquava ner buco der cazzo.
Romoletto anniede giù drento a la cantina e tornò de sopra co du metri de fir de fero.
"Si ce lo strigno tutto ntorno e ce lo reggo co la mano er razzo nun sguazza. Tu da foco a la miccia".
Ma la miccia doveva da esse umida perché faceva fumo e nun pijava foco.
"Ariprova ariprova Hamir. Tieje la fiamma più vicina. Sbrighete che dev'esse mezzanotte".
"Non sarebbe mejo de rinunciare, omo? La cosa se fa dificoltosa".
"Nun s'è mai visto che Romoletto Cecioni lassa arivà n'anno novo senza salutallo. Daje, appiccia sta cazza de miccia".
E Hamir fece più foco che poté e finarmente la miccia prese foco.

Du siconni e poi via tutto: razzo, fir de fero e manico de scopa, via verso er cielo nero in mezzo a l'antri botti de tutta Roma.

"Bellissimo, omo! Guarda che scia".

"UUUUUUUUUUHHHHHHHHHHH !!! Ajo, ajo ajo !!! Monnaccio zozzo e boia !!!

"Che c'è? Che t'è successo?
"Er detone! Er detone nun c'è più, sta drento ar razzo der cazzo cai portato tu, te possino ammazzatte".

E poi er botto cha ammomenti je demoliva casa e tutti e due longhi pe tera cor cielo tutto un focarone sopra le capocce.
"Che bello, omo! L'avemo fatto solo noi".
"Bello ncazzo! Pia la bicicoletta che dovemo da annà all'ospedale. Lo voi capì che me sto a piscià tutto er sangue de fora da ndo stava primma er detone?"

E così Hamir se lo caricò in canna e anniede via veloce mentre che dar cielo pioveveno de sotto tutte le scintille der più ber razzo che se fusse visto mai in tutta Roma.












lunedì 17 settembre 2012

SABRINA DEI MIRACOLI

Sedette rigidamente sulla sedia che l'altro gli stava indicando. Era madido di sudore.
-Mi dica la verità, professor Befani.
-Ci sono poche speranze per suo padre, ingegnere. Se non si trova un fegato entro sessanta ore sarà la fine. 
-Mio padre non può morire così, professore.
-Tutti i figli dicono questo, ma io e lei sappiamo che la vita spesso tradisce.
-Non parlo da figlio ma da scienziato: solo mio padre conosce i passaggi e i meccanismi per ultimare il suo studio. Sarà una scoperta essenziale per l'umanità. Non può morire adesso.

Quando l'ingegnere chimico Alberto Cotronei quel lunedì mattina uscì dalla stanza del primario di urologia era distrutto: anni di ricerche per nulla, una valanga di denaro della famiglia e dei soci buttata al vento e l'uomo più importante della sua vita arrivato alle ultime sessanta ore. 
Nemmeno si accorse della giovane dottoressa al suo fianco che gli parlava. Lei lo afferrò per un gomito.
-Cosa? L'apostrofò lui sgarbato.
-Si rivolga a Sabrina. Fa miracoli.
-Non ho bisogno di un miracolo, ma di un fegato buono da trapiantare.
-Appunto. Ci pensa Sabrina. Prenda, questo è il suo numero telefonico.
E gli mise in mano un cartoncino: "Sabrina, 0138773128".
-Non dimentichi di telefonare.
E se ne andò.
Ma lui telefonò a Londra, all'azionista di maggioranza, e poi a New York. Ma nessuno era in grado di risolvere il problema. Aspettò fino alle 22 passate la risposta da New York. Negativa.
Si prese la testa fra le mani. Tutto finiva così. Aprì il portafogli, non sapendo nemmeno cosa cercava. Gli capitò sotto le dita il cartoncino che gli aveva dato la giovane dottoressa.
"Perché no, pensò; cosa costa tentare?", e fece il numero sul suo cellulare.
Dopo tre squilli si attivò la segreteria telefonica. La solita comunicazione di sempre: "Dopo il segnale lasciate un messaggio".
Richiuse. Giornata assolutamente negativa.

All'una di notte squillò il cellulare, tre, quattro, cinque volte, finché l'ingegner Alberto Cotronei si decise ad aprire il contatto.
-Sono Sabrina Ferri, lei mi ha cercato.
-Non sono certo di avere fatto la cosa giusta.
-Che organo le occorre: un cuore? Un rene?
-Fegato.
-Allora dovrà spettare.
-Quanto?
-Minimo quattro mesi.
-Mio padre entro meno di sessanta ore morirà.
E chiuse rabbiosamente il contatto.

Il suo cellulare squillò di nuovo dopo due minuti.
Lesse sul display il numero di Sabrina Ferri.
-Cosa vuole ancora?
-Ci sono casi in cui si può fare tutto in fretta.
-E quanto costa questa velocità?
-Per un fegato non meno di trecentomila.
-E chi mi garantisce il buon esito dell'impresa?
-Io, Sabrina Ferri, personalmente.
L'ingegner Alberto Cotronei sparò una risata nel cellulare e chiuse il contatto. Per sempre, pensava, ma durante la notte non riuscì a chiudere occhio.
All'alba riaccese il cellulare e fece il numero della Ferri.
La donna rispose dopo qualche istante.
-Quando, dove e a chi consegno il denaro? 
Fu la domanda di Alberto.
-Prima è e prima si conclude, rispose la donna.
-Devo portarglieli a casa?
-No, ingegnere: io e lei non ci incontreremo mai.
-E allora come si fa?
-Li darà alla dottoressa con cui ha parlato ieri.
-È così che funziona?
-Sì, ingegnere: è così che funziona. Un ultima cosa, ingegnere.
-La ascolto.
-In contanti...
-Non sono un principiante Sabrina, la interruppe.
-...in fogli da 100 e 50 euro.
-E se dovesse andar male?
-Andrà tutto bene, ma lei si sbrighi, non c'è più tanto tempo.

Un quarto d'ora dopo l'ingegnere telefonò al maggior socio di minoranza. Erano amici d'infanzia, mezzo imparentati per via di un matrimonio.
-Mi occorrono entro stasera trecento mille in fogli da 50 e da 100. Non posso muovermi con la situazione che ho con la mia banca. 
-Chi ti ricatta?
-Nessuno. Mi serve il contante per un fegato nuovo per mio padre. Organizza con gli amici sicuri.
-Non c'è problema, purché funzioni.

Alle otto di sera del martedì l'ingegnere consegnava alla giovane dottoressa del reparto oncologia dell'Ospedale civico una borsa piena di soldi. Un'ora dopo in una clinica privata veniva portato a termine felicemente il trapianto.

Quasi alla stessa ora, a bordo di un aereo che sorvolava il Mediterraneo diretto a Genova, Filippo Noceroni si teneva la testa fra le mani. Sua moglie Miriam, che all'andata sedeva accanto a lui, adesso stava nel reparto bagagli chiusa in una cassa di mogano sigillata, e non c'era dubbio che la colpa fosse tutta sua, pensava Filippo. Aveva la bocca piena di saliva ma non poteva sputarsela in faccia.
Miriam odiava volare; Miriam soffriva d'asma fin da bambina e non sopportava il caldo afoso; Miriam aveva orrore degli insetti, soprattutto degli scarafaggi; Miriam aveva bisogno di quiete e di tranquillità.
E lui, per festeggiare il terzo anniversario di matrimonio, l'aveva costretta a volare in un aereo di una di quelle compagnie a basso costo che pullulano ormai nei cieli; l'aveva portata a Tunisi nel caldo torrido dell'estate africana; trascinata in strade e stradine maleodoranti, dove gli scarafaggi stavano sicuramente nascosti dietro ogni pietra; in mezzo a gente che non parlava mai ma gridava sempre.
Quattro giorni infernali finché le era esplosa quella schifosa malattia. Un'infezione irreversibile, mortale che l'aveva stroncata in meno di 24 ore.
Nell'ospedale gliel'avevano fatta vedere solo un attimo mentre la portavano via con tutto il lettino, spinto da due infermieri imbacuccati in tute bianche dalla testa al suolo, anche le scarpe dentro le tute, come si era dovuto imbacuccare Filippo per mettere piede nel reparto.
Miriam cogli occhi semichiusi affondati nel cranio; Miriam smunta e pallida come se non avesse mai mangiato; Miriam infinitamente immobile.
In meno di un mese avrebbe compiuto 25 anni.

Arrivato al Cristoforo Colombo, mentre firmava documenti alla dogana, Filippo riaccese il suo cellulare. C'erano alcuni messaggi, condoglianze per lo più. Gli ultimi due portavano solo un numero telefonico: 0138773128, e l'invito a mettersi subito in contatto.
Lo fece una volta giunto nella sua stanza d'albergo.
-Sono Sabrina Ferri; non ci conosciamo, ma io ho una brutta notizia da comunicarle.
-Dopo quello che è successo non può più addolorarmi niente. Spari pure la brutta notizia.
-Lei ha riportato in Italia una bara piena di sassi.
A Filippo occorse più di mezzo minuto per assorbire bene la notizia.
-Ma che cazzo dice?
-Quella che si appresta a tumulare al suo paese è una cassa piena di pietre.
-E mia moglie dove sarebbe, secondo lei?
-È rimasta nell'ospedale.
-L'ho vista morta.
-La sua salma non si è mai spostata da quell'ospedale.
Filippo non riusciva a capire il senso di quelle parole.
-E che se ne dovrebbero fare di un cadavere?
Sentì un lungo respiro dall'altra parte.
-Gli organi di una giovane donna di 25 anni sono un bene prezioso. Valgono un capitale.
-Non valgono niente, invece. Mia moglie è morta di una malattia infettiva fulminante.
-Questo è quello che hanno detto a lei. Non era morta quando gliel'hanno fatta vedere per l'ultima volta.
Filippo in un attimo la rivide lontana, lontanissima da lui, affondata in un lettino. Ma non voleva darsi per vinto. Sarebbe stato troppo.
-Non le credo, non credo nemmeno a una parola.
-Lei ha portato indietro una bara piena di sassi. Questa è la verità.
-Va all'inferno, strega!
Chiuse il contatto e sbatté il cellulare sul letto furiosamente. 
Ma quella notte non dormì.
Al mattino aveva gli occhi gonfi e rossi. Chi lo vide pensò che avesse pianto. Normale, se ti muore una moglie giovane e bella di cui sei innamorato matto.
Duecento chilometri accanto al guidatore del furgone funebre senza spiccicare parola. L'uomo c'era abituato e non disturbò il suo dolore con chiacchiere inutili.
Fino al cimitero del suo paese, dove c'era una folla ad aspettare.
Strilli e pianti, come Filippo si era aspettato. Condoglianze che nemmeno sentì e pacche sulla spalle che nemmeno avvertì.
E Andrea Squitteri, il custode del cimitero, vestito di nero. Era amico di Filippo. Stessa classe; giocava terzino nella squadra dove lui aveva giocato sette anni.
Andrea lo abbracciò, senza dire una parola e lo accompagnò alla camera ardente, dove il giorno dopo avrebbero fatto la funzione religiosa.
-Questa sera vengo a casa tua, gli disse Filippo. Ti devo chiedere un favore.

Andrea aveva appena finito di cenare quando Filippo suonò al citofono.
-Arrivo subito, gli gridò dalla finestra.
Scese e se lo trovò davanti coi vestiti strapazzati. "S'è buttato sul letto vestito, pensò Andrea. Devo fare qualcosa per tirarlo su".
-Prendi la macchina, gli disse Filippo.
-Da che parte vado? Gli chiese Andrea appena acceso il motore.
-Al cimitero.
Andrea lo capiva. Filippo giocava in porta e ogni gol che pigliava gli veniva da piangere. Non si incazzava come gli altri, lui piangeva e si dava la colpa di tutto.
"Come adesso, pensò Andrea. Si starà dando la croce addosso per la morte di Miriam, e chissà se troverà mai pace".
Mentre parcheggiava la macchina lo vide correre verso il cancello d'ingresso. Rimase lì impaziente. Andrea affrettò il passo.
-Alla camera ardente, gli disse Filippo.
-Lo avevo capito, ma adesso calmati.
La bara era lì, nuda; i ceri a quell'ora naturalmente spenti.
-Prendi un cacciavite e aprila.
"Oh Dio, pensò Andrea; gli ha dato di volta il cervello".
-Stammi a sentire, Filippo...
-Apri la cassa e non dirmi niente.
-È morta, Filippo! Non torna in vita.
-Apri Andrea!
-C'è l'involucro di zinco dentro...non la potrai rivedere.
-Apri sta cassa del cazzo!
Furioso contro se stesso per non riuscire a rifiutargli quella pazzia, Andrea prese da un armadio degli attrezzi un cacciavite elettrico e lo mise in moto. Svitò tutte le sedici viti e sollevò il coperchio.
-Che cazzo è questo? e guardò Filippo, che gli stava davanti a bocca spalancata.
-Dov'è Miriam? Che fine ha fatto? Filippo, questi sono sassi.
-Richiudila, riuscì a dire Filippo.
Piangeva a dirotto.
-Bisogna avvisare i carabinieri. Sai che casino.
Filippo gli afferrò le mani.
-Tu non dirai niente. Niente di niente, hai capito? Rimarrà una cosa tra me e te. Domani la mettiamo nella tomba di famiglia.
-Ma cosa ci mettiamo, le pietre? Che è successo a Tunisi?
-Mi hanno fregato. Se la sono tenuta per tirarle via gli organi e farci un pozzo di quattrini.
-Ma era una malattia infettiva. Che ci fanno con quegli organi? Sono marci.
-Non era vero niente, non capisci? Forse non era nemmeno morta a l'hanno ammazzata dopo che sono partito.
-E tu che vuoi fare adesso?
-Non lo so, ma c'è chi mi aiuterà.
-Torni laggiù?
-Non lo so, ma questa persona mi aiuterà.
-Vengo con te.
-Non se ne parla. Me la sbrigo da solo. Adesso chiudi sta cassa Andrea, e non dire mai cosa hai visto.

La sera del giorno dopo, con la cassa tumulata nella tomba, tenendo gli occhi a terra per non incontrare quelli di Andrea che lo cercavano disperatamente, quando l'ultimo dei soliti rompipalle si fu accomiatato, fece immediatamente il numero di Sabrina.
Rispose al terzo squillo.
-Cosa devo fare, Sabrina?
-Vuoi giustizia? Vuoi sapere la verità o cosa vuoi?
-Voglio i suoi resti.
-Allora devi tornare a Tunisi: sono lì, nell'ospedale dove è morta.
Filippo Noceroni aveva mille cose da chiedere. L'impresa gli sembrava impossibile. Sabrina capì al volo il suo disagio.
-I medici ti faranno vedere una serie di documenti dove sta scritto che la salma è stata cremata e le ceneri disperse in mare per via dell'infezione. Tutto falso.
-E come faccio allora? Non ho una chance. Forse all'Ambasciata...
-Non ti darà retta nessuno. Per loro la pratica è chiusa e tu oggi hai seppellito tua moglie.
-Allora?
-Al tuo arrivo all'aeroporto ti avvicinerà un giovane medico: è francese, si chiama Paul Silvestre. Ti dirà lui cosa devi fare.
-Grazie di tutto Sabrina.
-Figurati.
Sabrina chiuse il contatto e se ne andò a dormire.

Due giorni dopo, in un ristorante del centro all'ora di pranzo, il cellulare le vibrò in una tasca. Lesse sul display: "Paul". Aprì subito il contatto.
-Dimmi.
-Tutto sistemato.
Sabrina chiuse il contatto con un sorriso.
Fece immediatamente il numero di una clinica di Zurigo.
-Sono Sabrina, disse al suo interlocutore. Maschio bianco, sano, di 28 anni; organi perfetti. Saranno stasera al vostro aeroporto con un aereo taxi, come previsto.
Chiuse il contatto soddisfatta e ordinò una bistecca al sangue con patate al forno.