La mattina del 2 maggio 1987 misi mano al mio ultimo "Prospekt" -leggi fondale- nel Badisches Staatsteather di Karlsruhe.
Avevo ormai dato le dimissioni e dovevo solo attendere a luglio la fine della stagione. Avevo il naso pieno dell'arte teutonica di fare teatro, né più né meno un clima da fabbrica: si inizia alle 7 in punto, si stacca alle 16 e si produce "cultura", come se si trattasse di Bruttosozialprodukt. Boh!
L'ultima settimana di aprile quattro Azubi (Aufzubildende, insomma quattro apprendisti) avevano disteso e fissato al pavimento una tela grezza di 36 metri per 18, ma non l'avevano spalmata di bianco.
Era stato Lothar Favre, uno scenografo di Berlino, ospite spesso nel nostro teatro, a pregarmi di non farlo.
-Fammelo all'italiana, Vincenzo.
-Vallo a dire al direttore tecnico e al direttore di sala.
-Già fatto.
-E loro?
-Non ti romperanno le palle.
Farlo all'italiana significava appunto senza "Grundierung", cioè la spalmatura di un denso strato di bianco, elastico quanto si vuole, ma che non permetteva quei begli effetti che Lothar Favre aveva avuto modo di apprezzare nelle scenografie italiane.
-Ma come fate?
Mi aveva chiesto una volta.
-Semplice: la tela viene impregnata con la pistola a spruzzo da una soluzione di colore in polvere, un grigio chiarissimo per esempio, colla vinilica e molta acqua. Rimane estremamente morbida ed elastica.
-Ho capito tutto; e per gli effetti?
-Niente acrilici, solo colori in polvere, colla vinilica, acqua e tanta abilità.
Quella mattina preparai da solo la miscela: un grigio azzurrino, dato che dovevo realizzare un paesaggio all'alba con tantissimi alberi e un castello medioevale sul fondo. Il fondale dell'ultimo atto della Lucia di Lammermoor di Donizetti.
Venne da me Kubansky, il direttore di sala.
-Vincenzo, vuoi due Lerling per aiuto?
-Sì: Beatrix e Gundula.
Due ragazze in gamba. Due donne, non perché volessi fare il pomicione, ma le donne ascoltano attentamente le tue direttive e le eseguono, venendo a chiedere consiglio se non sanno come andare avanti. Gli uomini si considerano sempre già arrivati, ascoltano poco o niente, fanno di testa loro e combinano gran cagate che poi il pittore deve sistemare.
Appena il telone fu ben asciugato effettuammo insieme la quadrettatura, dopodiché ce ne andammo a casa perché si erano fatte le 16.
L'indomani effettuai l'intero disegno, da solo, perché si deve vedere solamente una mano e non tre.
Mentre lavoravo mi veniva da ridere. "Guarda un po', mi dicevo, stai realizzando da solo un fondale di un'opera lirica, con due aiutanti che già stanno preparando i colori e la colla. Come un grande maestro dell'antichità. Se qualcuno te lo avesse detto dodici anni fa, quando tutto ha avuto inizio a Francoforte, ci avresti mai creduto?"
Quando mai, mi sarei sganasciato dalle risate.
Era incominciato tutto una sera in un Eis Cafè, una gelateria di Francoforte, dove avevo esposto un mio quadro, "Die Trinker" i bevitori, che mi era venuto proprio bene.
Il proprietario della gelateria mi aveva telefonato perché c'era qualcuno che voleva conoscermi.
Si chiamava Anke Fuchs. Dipingeva anche lei, ma non mi disse subito di essere scenografa presso le "Stadliche Bühne" di Francoforte.
-Hai mai lavorato in teatro? mi chiese.
E io lì feci lo sborone, tanto quella come poteva sputtanarmi?
-In un teatro mai, però ho fatto tre stagioni consecutive all'Arena di Verona.
E dai! Che ne sa questa che io a Verona ci andavo in vacanza.
-Quindi te ne intendi di tecnica teatrale?
-Ma certo, che ti pare?
Allora lei sparò la botta che mi trafisse il cuore.
-Vieni domani in teatro e chiedi di me. Ti faccio fare una prova e se vai bene ti assumiamo subito.
Beccati questa, Iacopò!
-Domattina?
-Sì, perché, hai impegni?
-No, figurati, me ne libero.
L'unico impegno era con le lenzuola e le coperte del mio letto. Insomma mi ero fregato con le mie mani, anzi con la mia lingua.
"Cercherò di farcela con la mia faccia tosta, pensai; in fondo si tratta di dipingere, mica di volare nello spazio".
Dipingere sì, certamente, ma non una tela su un cavalletto, bensì una pezza di tela ruvida 6 metri per 4, fissata al pavimento di legno dentro una sala immensa dove lavoravano una decina di pittori.
E adesso cosa faccio?
Anke Fuchs mi portò il bozzetto: una foto 24 centimetri per 12 dell' "Annunciazione" del Beato Angelico.
-Mi interessa che tu mi faccia col colore questi archi e i capitelli. Anche il paesaggio, che è molto ristretto. Dipingimi l'angelo dettagliatamente; per la madonna mi basta il disegno. Hai tempo tutto il giorno.
Girò sui tacchi e sparì.
E adesso come cazzo faccio?
Mentre mi rigiravo la foto tra le mani mi si avvicinò uno dei pittori.
-Ho sentito dire che sei italiano.
-Sì.
-Di dove?
-Roma o giù di lì.
-Guardami in faccia, romano. Tu non avevi mai messo piede in una "Malersaal" prima d'oggi, non è così?
-Come hai fatto a capirlo?
-Lascia perdere. Allora impara in fretta ché a me non piace che uno dei nostri faccia una figura di merda. Prima di tutto devi fare la quadrettatura.
-Che roba è?
-Come fai a far diventare l'immagine che c'è in quella foto grande come questa tela?
-Sto pensandoci.
-Come facevano gli antichi. Traccia con una matita una linea perpendicolare nel centro della foto, poi le parallele a destra e a sinistra ogni 4 centimetri. Poi traccia le parallele alla base della foto, sempre di 4 centimetri e alla fine avrai tanti quadratini di 4 centimetri di lato. La linea mediana la ripassi con la biro così ti orienti subito. Mi hai capito?
Annuii.
-Adesso devi fare la quadrettatura della tela. Misura la base, così trovi il punto esatto della sua metà e lo segni con una "M" grande, che vuol dire Mitte, cioè metà. Con la squadra di 4 metri per 4 tiri la perpendicolare e la segni subito sulla tela col carboncino. Poi partendo da questa centrale tracci le perpendicolari parallele ogni metro verso destra; poi ritorni alla perpendicolare "M" e tracci le parallele a sinistra ogni metro. Sono sei in tutto. Poi misuri sul lato destro e sinistro della tela e partendo dal basso, cioè dalla base, segni ogni metro.
Poi tiri le parallele alla base, che sono quattro. Ti servono due che ti aiutino a tenere ferma a terra la cordella, perché non c'è una squadra di sei metri. Tu segni seguendo la cordella e alla fine hai tanti quadrati di un metro di lato.
-Devo tracciare tutto col carboncino?
-Certo, ma guarda che non ti devi mai chinare, sennò lo capiscono tutti che è la prima volta che lo fai.
Prese un bastone rosso, lungo un metro e venti come seppi poi, che finiva con un morsetto.
-Dentro il morsetto metti il carboncino e lavori col bastone impugnandolo in alto come fosse una matita o un pennello lungo. Tutto lavoro di polso, amico mio. La stessa cosa quando dovrai colorare. Prendi quei pennelli lunghi e lavora stando in piedi dentro il Prospekt.
-Sarà dura.
-Tutto lavoro di polso, come se avessi una spada in mano.
-Ti ringrazio. Se mi serve qualcosa ti chiamo.
-Se il disegno è buono e tu sai anche dipingere puoi chiamarmi, ma se non sei capace io non ti conosco. Hai capito?
Forte e chiaro.
Non ho mai sudato tanto in vita mia, ma dopo circa sei ore avevo già colorato tutto quello che la Fuchs mi aveva commissionato e stavo iniziando a dare il colore al manto della Vergine.
Non li avevo visti arrivare, ma erano dietro di me, Anke Fuchs e due gentiluomini. Me li presentò. Erano il direttore tecnico e il direttore di sala.
-Andiamo nel mio ufficio, disse il primo.
"Sono fregato", pensai. Invece mi chiese quando potevo incominciare a lavorare con loro.
Finii il fondale della Lucia a metà giugno, come previsto dal programma, grazie anche alla collaborazione di Beatrix e Gundula alle quali avevo lasciato il compito di dare le luci e le ombre, riservandomi il tocco finale, un pallido rosa per le luci e un marcato blu oltremare scurissimo per le ombre.
Mi spiego: in teatro la luce viene sempre da sinistra, quindi l'ombra sta a destra. Su tutti gli spigoli e le linee di lato (ad esempio le linee esterne dei tronchi d'albero) alla sinistra si passa leggermente un sottile tratteggio rosa -nel mio caso dato che era la luce dell'alba-, dall'altra parte un più corposo segno blu scuro.
Ero soddisfatto di come mi era venuto il lavoro, ma dispiaciuto perché quello era il mio ultimo Prospekt.
Mentre sciacquavo e pulivo i miei pennelli mi arrivò addosso trafelato Markus Prielhofer, lo scenografo ufficiale del teatro, con un librone spalancato a metà nelle mani.
-Vincenzo, bitte, fammi sto lavoro.
Era la foto di un murale egizio di oltre 4000 anni fa, venuto alla luce negli anni cinquanta, Rappresentava una donna semi inginocchiata provvista di grandi ali aperte per tutta l'ampiezza della foto. In alto e in basso in una specie di doppio cassettone una serie di animali stilizzati e di forme strane.
-Io ho finito Markus. Lucia di Lammermoor era il mio ultimo lavoro.
-Ti prego, ti prego, non lasciarmi in merda. Quei somari non me lo farebbero mai bene.
Il guaio era che si trattava di un murale strapazzato dal tempo e dall'assenza di luce per quasi 4000 anni. Considerata la pignoleria asfissiante di Prielhofer, che guardava tutto con la lente in una mano e il bozzetto nell'altra, c'era da diventare scemi. Inoltre per quel lavoro non avrei potuto fare "all'italiana", ma avrei dovuto fare alla tedesca, che significava spalmatura di colore denso e poco elastico.
Cercai di squagliarmela.
-Fattelo fare da Mokross, è lui il primo pittore, mica io.
-Mokross sa fare solo "Nass auf Nass", cioè umido su umido, ma questo va fatto a secco. Ci vuole tanta fantasia. Tu ce l'hai, lui no. E poi nella figura è scarso.
-Ma io ho finito.
-No. Tu finisci a fine luglio, fra sei settimane. Non mi dire che non ti bastano.
-Quanto deve essere grande?
-12 metri per 6. Bastano quattro settimane.
-Lasciami il libro che me lo porto a casa e ci penso su.
-Niente pensare ormai: il lavoro è tuo. Eccoti il libro.
A casa continuavo a guardare quella fotografia pieno di dubbi e con angoscia montante. Quello che mi faceva dannare era che il muro, qua e là, mostrava gobbe e gibbosità; era scrostato in più parti; la veste rossa della donna sembrava essere stata grattata da uno dei loro scarabei sacri. Come diavolo riuscire a rendere l'usura del tempo?
L'indomani feci un esperimento. Presi una pezza di tela di un metro quadrato, più o meno. La distesi a terra e la fissai al pavimento ligneo della Malersaal. La spalmai con un po' di colore e di Latex, un materiale plastico usato di solito per creare strutture ed effetti speciali, come per esempio le nervature di un tronco d'albero. Su quel materiale, una volta asciutto, passai colori con pochissima acqua. Provai dei verdi scurissimi e del nero, i colori degli elementi di contorno all'interno dei cassettoni e delle ali della mia donna egizia. Il risultato non fu eccezionale, tenuto conto che era una superficie assai limitata, ma non potevo fare altro e che andasse a dar via le chiappe Markus Prielhofer.
Il metodo del Latex apparve subito vincente perché non rimaneva liscio, ma poroso dando la sensazione di un muro scrostato, dove l'intonaco fosse prossimo a cadere a pezzi minato al suo interno da un tarlo invisibile.
Mescolai colori in polvere con molta gomma arabica come collante e poca acqua, il minimo indispensabile, ottenendo una pasta quasi solida. Con un pennello a setole dure, corto, mettendomi ginocchioni dentro il Prospekt, deposi il colore a piccole quantità. In qualche angolo usai le dita della mano destra per lasciare il colore sulla tela. Mi dava una sensazione immensa, come quella che dovette provare Dio mentre creava le montagne, i deserti, le pianure e i boschi.
Col palmo della mano usato a mo' di spatola, una per una, applicai il nero e il verde scuro sulle penne aquiline delle ali. Il viso ieratico e le mani esangui della donna egizia li avevo già finiti. Mancava la veste rossa, quella che mi toglieva il sonno, perché nell'originale sulla foto del libro vedevo striature come se un enorme insetto avesse tentato di strappargliela di dosso.
Fu l'ultima cosa che dipinsi con un colore quasi secco, che impugnai come un sasso e passai sulla tela con grandi gesti del braccio, seguendo le pieghe della veste, senza nessun ripasso, senza nessun ritocco: come veniva, così restava.
Alla fine ero schizzato di rosso fin sui capelli.
Andai in galleria per guardare il mio Prospekt dall'alto.
E li vidi.
Erano tutti lì i miei colleghi, intorno all'opera ultimata, che mi guardavano attoniti. Avevo lavorato quasi tre ore senza sosta e non mi ero accorto di loro.
Ridiscesi lungo la scala e feci fatica perché d'un tratto mi stavano abbandonando le forze.
-Ich gehe nach Hause, dissi a Kubansky; io me ne vado a casa.
Non era neanche mezzogiorno, ma nessuno protestò.
Mentre una volta lavato mi stavo rivestendo, entrò nello spogliatoio Gundula.
-Ti ho fotografato: mi sembravi Michelangelo.
In serata mi arrivò la telefonata di Markus Prielhofer.
-Fantastisch! Sembra proprio quel muro. Sapevo che ce l'avresti fatta.
L'indomani l'egiziana era asciutta, così tolsi i perni e liberai la tela.
-Mi faccia un favore, Vincenzo.
Paulus Flaig, il direttore tecnico, s'era all'improvviso materializzato accanto a me.
-Prego.
-Lo firmi in basso a destra e ci metta la data.
Lo fissai incredulo. Nessun Prospekt viene mai firmato e datato in teatro. Non durano eterni, dopo due o tre anni vengono riciclati o rottamati.
-Ma è un Prospekt, Herr Flaig; nessuno lo ha mai firmato.
-Lo so, ma questo è un capolavoro. Lo firmi.
Così lo accontentai. In basso a destra scrissi in stampatello VINCENZO IACOPONI - 1987.
Due anni dopo andai con Anna Maria a vedere una Bohême. Finito il secondo atto uscimmo per la lunga pausa e andammo nel Foyer. Dal basso lo vidi: incorniciato elegantemente occupava tutta una parete del piano rialzato. C'erano diversi nasi rivolti all'insù sotto il mio Prospekt.
Sta ancora lì, dopo venticinque anni.
So di uno dei mie figli -quello più scorbutico, che telefona solamente quando gli occorre qualcosa- che quando passa da quelle parti entra nel Foyer per andarsi a vedere "il quadro dell'egiziana con le ali" con in basso la firma di suo padre.