giovedì 31 ottobre 2013

GLI SCALINI DEL TEMPO



Le avanstrutture dell'inverno gemono
solo percosse per ora e cade
nelle incolori superfici d'ombra

il tempo dell'estate: le sonore
riprese del sole sopra i meli, meno
sonore, ma a te più care amore,
le giornate di luna.

Ora la traccia
dei tuoi gesti non tocca
la terra dei gabbiani, né domani
meno corrosi gli scalini del tempo
appariranno.

Il tuo impetuoso desiderio
è sepolto, amore mio,
perdonami di non essermene
accorto subito:

la stagione è finita.



Milano 1964

martedì 29 ottobre 2013

UNO DEI CENTOMILA, MIO FRATELLO

Questa volta la busta era azzurra, l'indirizzo scritto a mano e mia madre se la stringeva al petto piangendo a dirotto. Non c'era verso di sapere chi le avesse spedito quella lettera né da dove venisse. Mia nonna e mia zia lottarono con mia madre per il possesso di quella busta, che infine volò per terra. E lì le tre donne non avevano scampo, io ero il più pronto e il più veloce. In un attimo lessi: Maria Malavisi Iacoponi - Valentano (Viterbo). Niente altro che un indirizzo; niente di eccezionale all'infuori del fatto che quella era la calligrafia di mio fratello.
Era vivo e ce lo scriveva dopo diciotto mesi di assoluto silenzio. L'ultima busta che lo riguardava era color arancione. Ministero della Guerra del Governo fascista, scritto in alto, nel mezzo, in stampatello. 
Una comunicazione breve, asettica, grigia: "Vostro figlio è disperso in Russia". Tutto qui.
Quant'è grande la Russia? Quanti anfratti ci sono per nascondersi e aspettare che torni il tempo buono? In uno di quelli stava sicuramente rifugiato il mio fratellone.
Con l'arrivo di quella busta arancione era cominciato l'incubo di vedere mia madre impietrita alla finestra, cogli occhi fissi nel vuoto; non diceva più nemmeno una parola. Per farla mangiare dovevamo imboccarla io e mia nonna. Papà veniva solo il sabato e ripartiva alla domenica sera. Mia madre si avvinghiava a lui parlando fitto fitto con parole che non mi arrivavano tanto erano sussurrate. E poi finiva sempre in pianto. 
Io incominciai a sognare mio fratello ogni notte. Al mattino, per darle sollievo, raccontavo a mamma il sogno e lei attaccava a piangere. Ci mancava che la facessi piangere anche io. Allora decisi di smettere di raccontarle i sogni. Ogni tanto mi avvicinavo a lei e le dicevo di stare tranquilla, che Lito era vivo, me lo diceva il mio piccolo cuore di bambino buono. Non lo chiamavo cuoricino, ma cuoretto.
-È vivo mamma, me lo dice il mio cuoretto.
E lei mi metteva una mano sul cuore e mi credeva. Le ho fatto superare diciotto mesi di ambasce e di sofferenze indicibili con quel trucchetto, perché lei credeva nella mia innocenza e si aggrappava a quell'unica speranza. Alla fine credevo anch'io alla storia del cuoretto rimanendo in bilico su un baratro.
Fino a quella mattina della busta azzurra. Veniva da Pratola Peligna, un paese in Abruzzo, dove era arrivato insieme ai reparti di retroguardia dell'Ottava Armata inglese, scriveva, insieme ad un suo amico, altro superstite.
Non so come riuscissero a comunicare, dato che le linee telefoniche erano tutte a pezzi, ma mio padre fece il miracolo e un mese dopo partì in bicicletta per andarlo a prendere.
Raccontò poi come era andato e come erano ritornati, bivaccando nei boschi e usando tutti i mezzi di trasporto possibili, tra cui l'unica bicicletta, dove a turno uno dei due pedalava e l'altro stava seduto in canna.
Venne ad avvisarci il Maresciallo dei Carabinieri. Avevano telefonato dal Comando dei Carabinieri di Canino. Avrebbero mangiato qualcosa e poi sarebbero venuti a piedi per gli ultimi nove chilometri.
Mai sarebbe rimasta in casa ad aspettare mia madre e nemmeno io. Mangiammo un boccone, ci vestimmo e via sulla strada per Canino tenendo d'occhio ogni curva. Un'ora dopo vedemmo venirci incontro lemme lemme due straccioni ricoperti di polvere. Uno reggeva il manubrio di una bicicletta, mio padre; l'altro sembrava un soldato inglese con una divisa troppo grande che gli ballava addosso. La divisa era giusta, ma lui era ridotto uno scheletro.
Mentre mia madre gli saltava al collo e gli gridava non so più cosa, forse soltanto suoni e vibrazioni della sua anima, colsi lo sguardo di Lito puntato dentro i miei occhi.
Il mio fratellone era di nuovo a casa e tutto era tornato come prima.
Tutto proprio no: dov'erano rimasti i suoi capelli ricci foltissimi e neri?
-Se li è mangiati l'elmetto, mi disse.
E perché non rideva mai?
-Ho visto troppe cose brutte, mi rispose.
Passata l'esultanza per il ritrovamento cominciammo a scrutarlo dentro, malgrado lui fosse chiuso a riccio e rispondesse a monosillabi. Risultava evidente che era partito da casa un giovanotto di venti anni, esuberante, giocarellone e pieno di buon umore, mentre quello tornato era un vecchio di nemmeno ventiquattro anni, prosciugato nel corpo e nell'anima, coi nervi a pezzi che bestemmiava e urlava per qualsiasi contrarietà.
L'unico che tollerava vicino a sé ero proprio io, basta che gli rimanessi a contatto fisico, lungo un fianco per esempio, senza fare troppe domande ma ascoltandolo mentre parlava di continuo, su argomenti che avevano un senso solo per lui, perché appena io gli chiedevo spiegazioni lui ammutoliva e fine delle trasmissioni.
Per la maggior parte del tempo dormiva raggomitolato come un gatto. In posizione fetale, disse papà, e non è che io capissi molto, però mamma aveva ricominciato a piangere.
A giugno morì nonna in un baleno. Lito non fece una piega. Al funerale, visto che piangevo di continuo, mi tirò per un braccio.
-Falla finita di piagnucolare. Era vecchia.
Ma io quelle cose lì non le raccontai mai a mamma, che già era tanto addolorata di suo, perché quelle parole mi erano sembrate una cattiveria.
Dovette passare qualche anno prima che mio fratello, di sua iniziativa, cominciasse a parlare della sua esperienza nell'AMIR, l'armata italiana in Russia.
A tozzi e bocconi, mentre io mi prendevo cura di catalogare e riepilogare, mi raccontò come lui, che era un graduato del 9° Reggimento di artiglieria di Corpo d'Armata, si fosse trovato a combattere a fianco dei fanti della Cremona e dei bersaglieri della Celere. 
-Perché il fronte a gennaio del 1943 non esisteva più e si crepava come le mosche.
-E tu che hai fatto?
-Quello che facevano tutti: cercare di salvare il culo e allontanarmi di gran carriera.
-Il culo lo hai salvato, quindi hai corso veloce.
-Prova tu, fratellino, a correre sulla neve ghiacciata a pancia vuota e con 30° sotto zero, mentre vedi russi spuntare da tutte le parti. Loro andavano sui mezzi blindati e noi a fette.
-Per quanto tempo avete camminato?
-C'era un Cappellano giovane che contava i giorni. Secondo lui più di tre mesi, fino al disgelo comunque.
-Che mangiavate?
-I cavalli, finché ce ne furono; poi i muli degli alpini.
-E il pane?
-Quale pane?
-E l'acqua?
-Il ghiaccio scaldato è acqua, cosa credi?
-Che percorso avete fatto?
-Non lo so. Nessuno lo sapeva. Andavamo in colonna, tutti in mucchio come pecore. Qualche ufficiale parlò della Bulgaria. Ecco, stavamo andando verso la Bulgaria, che era nostra alleata.
Avevo una mappa dell'Europa e mi sembrava un giro vizioso, ma non volevo contraddirlo, altrimenti mi avrebbe coperto di male parole.
-Sai che rumore ho ancora nella testa? mi chiese un giorno.
-No, dimmelo.
-Bredan, bredan, bredan, bredan.
-Che roba è?
-Dentro la gavetta tenevamo un coltello e un attrezzo da una parte cucchiaio, dall'altra forchetta. Quando camminavamo faceva quel suono triste e monotono "bredan, bredan, bredan".
-Solo quel suono?
-Solo quello. La neve attutiva il rumore dei passi e nessuno fiatava.
-Ma poi siete arrivati in Bulgaria. Che è successo dopo?
A questa domanda (che gli ho rivolto apposta più volte per controllare se la reazione fosse la stessa) mio fratello non ha mai risposto. Chiudeva gli occhi, tirava su le ginocchia, le abbracciava e rimaneva così, a lungo, senza parlare, come un blocco di ghiaccio.
Quando gli andava raccontava dell'Albania e del rimpatrio a Rodi Garganico, e poi l'esperienza con le truppe dell'Ottava Armata di Montgomery.
Tanti anni dopo a Treviso ho conosciuto un friulano che era sergente della Tridentina. Anche lui mi raccontò del freddo e della grande marcia, dei cavalli ammazzati per sopravvivere e il ghiaccio scaldato che diventa acqua un po' sporca.
Arrivava ai confini della Bulgaria e si metteva a piangere amare lacrime mute.
In Germania, qualche anno fa, ho incontrato un reduce della Monte Pasubio. Stessa dovizia di particolari fino a pochi chilometri dalla Bulgaria, quindi silenzio e labbra morsicate.
Cosa è successo nel 1943 ai confini della Bulgaria? Qualcosa di orribile e indescrivibile, di cui tre uomini adulti, che mai si erano incontrati, non erano in grado di parlare. Cosa hanno visto gli occhi di tre ragazzi di poco più di venti anni, un artigliere del 9° Reggimento, un alpino della Tridentina e un fante della Monte Pasubio?
Sono adesso morti tutti e tre e si sono portati via il loro segreto per sempre.





































domenica 27 ottobre 2013

AMARE È SOFFERENZA



Amare è sofferenza:
forse  per questo
io ho molto sofferto.

Anche adesso
che non oso dirlo a voce alta,
che mi vengono i brividi
sapendoti nelle braccia di un altro,
anche adesso,
soprattutto adesso,
mi piego in due senza
un lamento.



Civitavecchia,  dicembre 1959
Maximiliansau,  ottobre 2013



venerdì 25 ottobre 2013

ACIDO MATTINO



Acido mattino di cristallo,
sfugge il sentimento dello spazio
in un attimo

si nasconde dietro 
la linea dell'orizzonte,

momento perso.

Aspetto che giunga il tempo:
diventare sabbia
sparsa
sui prati dei formicai.

martedì 22 ottobre 2013

CAMMINANDO



Camminando
sopra una strada assolata
povera di luce e di calore.

Si scioglie l'ombra in mille
rivoli liquidi;
giacciono i pensieri disordinatamente,
lastricano con una pellicola opaca
un percorso senza inizi evidenti
con molteplici soluzioni finali
tutte sbagliate.

La notte non verrà.


Ottobre 2013


sabato 19 ottobre 2013

UNA SCATOLA VITREA



Mi inabisso nel silenzio.

Una scatola vitrea
è la vita.

Traspaiono i colori,
i rumori,
le esistenze degli altri.

Cambia
finalmente
tutto.

mercoledì 16 ottobre 2013

DONNA SCAVATA


Dal mio cuore d'argilla,
purificato,
sorge il dolore come un'aurora ghiacciata;
il tuo muto sguardo vi appende
nodi di pianto
e di latte materno indurito.
Costruisci un nido
inconsumato
sui rami secchi della mia infelicità.

Ti squami
sulle travi della mia vita
e il tuo alito si avvinghia al vento
che mi strappa lembi di dolore.

Mai più sarai libera di me,
donna scavata
dalla creta viva del mio essere.
E tu parlerai
ai tiepidi bambini
della tua anima
solide lacrime mute.


Agosto 2006


domenica 13 ottobre 2013

IL SOLE È IGNOTO




Il sole è ignoto,
il cielo una palude;
un alito di vento 
reca il messaggio
nascosto
tra fogli privi di parole.

Arido è il campo, duro come sasso.

Cresce nel cuore ombra.

giovedì 10 ottobre 2013

BILIJANA


***

In Voivodina
ti ho conosciuta;
in riva al Reno
ti ho ritrovata,
e in riva al Reno
ti ho
riperduta
perché tuo padre è bosniaco
e tua madre croata.

***

Quando
qualcuno laggiù
ti ha riportata
qualche altro 
qui da me
ha raccontato
che le donne laggiù
ti avevano attesa
e rose ti avevano donato.

("Perché donna
   non scrivi dalla guerra?"

 "E che cosa ti devo scrivere se il
  nostro sangue
  a grappoli imbalsama 
  la terra?")

Ma invece un altro 
ha detto poi che
le donne che ti avevano attesa
non avevano volto,
non avevano 
rose,
ma solo steli
mozzati e secchi, 
ma solo steli
appassiti e marci.

***

In Voivodina
ti ho conosciuta;
in riva al Reno
ti ho ritrovata,
e in riva al Reno
ti ho
riperduta
perché tuo padre è bosniaco
e tua madre croata.

***

Ma in Voivodina
nessuno ti ha vista,
perché in Voivodina
non ti hanno portata, 
in un lager 
ti avevano lasciata:
e niente cibo
ma tanti pidocchi;
e niente amore
ma tanta violenza;
e niente morte
ma solo non vivere
giorno dopo giorno,
e notte dopo notte.

Più tardi però
qualcuno è scappato
da dentro il tuo lager,
e quando gli ho chiesto
di te si è ricordato,
e allora mi ha detto
che ti aveva vista
in un giorno di
ribellione.

***

In Voivodina
ti ho conosciuta;
in riva al Reno
ti ho ritrovata,
e in riva al Reno
ti ho
riperduta,
perché tuo padre è bosniaco
e tua madre croata.

***

Ma un altro ancora ha poi detto
che ti aveva vista morta;
ha detto
che sei morta ammazzata
perché di scappare
ti sei rifiutata.
E infine ha confessato
che tu volevi 
strappargli gli occhi
a chi ti aveva massacrata;
ed è solo per questo
che tu sei restata.

***

E io che ti conosco
gli ho creduto,
e in riva al Reno
non ti ho più aspettata.


Ballata disperata in ricordo di un'amica eccezionale, grande artista figlia di grandi artisti, scomparsa nel nulla a Sarajevo nel corso di un'inutile, stupida, crudelissima guerra fratricida.
Per te, Bilijana.

martedì 8 ottobre 2013

LA CAGNARA

La prima pioggia d'autunno lo beccò all'uscita del bosco in maniche di camicia mentre faceva il suo footing quotidiano. La macchina l'aveva parcheggiata a un paio di chilometri, all'altra estremità del bosco. Mattia ce l'aveva lasciata una mezzoretta prima e il cielo gli era sembrato abbastanza sereno.
Dopo una breve esitazione riattraversò il bosco di corsa e riuscì a infilarsi nella sua auto prima di essere zuppo d'acqua.
Inutile incavolarsi però: dopo trenta anni di Germania ancora non riusciva a capire le mutazioni di un clima matto come i tedeschi. Per lui, nato a Silvana Manzio in mezzo ai monti della Sila, dove di inverno si ammucchia un metro e mezzo di neve e d'estate per tre mesi di fila la temperatura è sopra i 30°, non era possibile stare dietro agli sbalzi d'umore del tempo. Eppure appena arrivato ci aveva fatto subito il callo, forse perché a Francoforte il mese di novembre era gelido come a casa sua. E poi aveva sedici anni, carne fresca che si adatta in fretta. Al clima di sicuro, certamente non alla nuova situazione: accettare l'evento come un tiro mancino del destino non era stato facile. Suo padre lo aveva strappato al suo amato Istituto d'arte di Cosenza, dove sognava di studiare per diventare un artista famoso.
-Abbiamo debiti grossi e la casa è da ristrutturare dalle fondamenta, gli aveva urlato sul muso; a me servono due braccia lassù e non un pittore quaggiù.
Lo aveva messo a lavorare in nero in una Baustelle, un cantiere di costruzioni di un suo amico polacco. Mattia lavorava come elettricista: tutto il giorno a fare buchi su pareti, soffitti e pavimenti e a tirare cavi elettrici. Dopo un po' aveva calli mostruosi sulle dita e sul palmo delle mani. E ancora non sapeva mettere insieme una merda di frase in tedesco, proprio non gli andava giù quella lingua. Il suo unico amico Saverio, un ragazzo di venti anni che aveva fatto le scuole in Germania, cercava di insegnargli almeno le cose elementari, per comprarsi le sigarette ad esempio, e tentava invano di fargli entrare in testa che die Katze in der Kohle non significava un cazzo nel culo ma la gatta nel carbone.
-Ti devi fare una ragazza, gli disse una sera.
-Tedesca?
-E si capisce. Così lei ti insegna parole e pronuncia, e soprattutto ti corregge, perché vuole capire quello che pensi, lo vuole capire bene.
Così era incominciata la passerella: una dietro l'altra, in tutto una diecina. Aveva imparato un sacco di posizioni strane, contorsionismi in macchina per lo più, tecniche di baci perversi con la lingua che mulinava in cavità diverse, ma non c'erano stati sostanziali progressi nell'altro uso della lingua, per cui la comprensione del tedesco era ancora una specie di sogno proibito.
La comparsa di Ursula D. fu per Mattia una scarica elettrica subita senza guanti protettivi. Ursula era diversa da tutte: era la più bella, la più intelligente, la più affascinante, insomma era la più in tutto.
Ursula entrò in pista con l'impeto di un katerpillar e niente fu come prima.
-Tu da domani seguirai i corsi per principianti alla Berlitz Schule e imparerai il tedesco. Poi basta con questo lavoro che ti massacra le mani. La mia manicure te le mette a posto e un amico di mio padre, che ha un ristorante, ti assume come pizzaiolo. Guadagnerai il doppio di adesso e non ti spaccherai la schiena dentro una Baustelle.
Erano tutti imperativi che non si discutevano. Mattia dovette solo discutere a brutto muso col padre, ma ormai aveva deciso e uscì di casa con un borsone pieno di indumenti sbattendo la porta. Iniziò a diciannove anni la convivenza con Uschi, che ne aveva appena compiuti diciotto, a Sachsenhausen, un quartiere chic di Francoforte, il quartiere famoso per i suoi quasi tremila locali, il regno beato di ogni fine settimana dei francofurtensi.
Due anni dopo Mattia aprì a Bockhenheim, il quartiere degli americani, il primo "Pizza Pye", zu mitnehmen, da asporto, con un investimento ridicolo di appena 40.000 marchi. 
Andò subito a gonfie vele. La pizza che faceva Mattia era ottima, gli americani ingozzano pizza quattro volte al giorno e fanno party un giorno sì e l'altro pure. Dopo un paio di mesi il suo unico forno elettrico Morbidelli non bastava più e dovette comperarne un secondo. Arrivò a fare 600 pizze al giorno e ingaggiò un pizzaiolo giovane e capace.
L'idea venne a Ursula, come al solito.
-Apri un altro Pizza Pye a Darmstadt. Anche lì è pieno di Ami che ti conoscono già.
-E come faccio con due?
-Questo lo affitti al tuo pizzaiolo. Nunzio ha un fratello che lo può aiutare e poi sono affari suoi come se la sbriga. L'essenziale è che ti molli 5.000 al mese, per contratto.
L'idea di Ursula risultò vincente e dopo un po' Darmstadt scaricava 500 pizze al giorno. Sei anni dopo in tutta la zona c'erano otto Pizza Pye tutti di proprietà di Mattia, affittati a cinque carte da mille al mese. Lui aveva aperto un grande magazzino dove stoccava le merci. Faceva il grossista per le sue pizzerie, che dopo dieci anni erano diventate trentotto.
Mattia aveva acquistato un attico sulla Zeil, la via Montenapoleone di Francoforte, zona pedonale e locali di gran lusso.
Ursula gongolava in trionfo perenne. Col suo fisico da modella, le gambe affusolate che sembravano fatte apposta per mettere in risalto i vestiti di marca che indossava, i piedi che infilava solamente in scarpe italiane dal tacco altissimo, i profumi penetranti che adoperava, attirava gli sguardi sbavanti di desiderio degli uomini e quelli carichi di invidia delle donne.
Aveva di sicuro tante qualità preziose, ma anche qualche grosso difetto. Era certa di essere non solo la più bella ma anche la più intelligente, l'inarrivabile e l'intoccabile, al di sopra di ogni sospetto. Infatti a Mattia non veniva in mente niente che non fosse perfetto quando pensava a lei e gli sfuggivano tanti particolari, tanti indizi che Ursula, per capriccio e per presunzione, lasciava dietro di sé. Perché a Ursula piacevano i ragazzi giovani e gagliardi. Non se ne lasciava sfuggire uno, tranquilla che tanto a casa aveva un cagnolino che l'attendeva scodinzolando col guinzaglio in bocca per l'uscita serale.
Ma svolazzando di fiore in fiore l'ape regina ne trovò uno assai bello, profumato ma dal sapore agro che lasciava l'amaro in bocca. Gustav non si accontentava di averla nel suo letto un'ora al giorno, la voleva tutta per sé e per sempre.
-Lascia l'italiano e vieni da me.
-Ma tu sei matto!
Gli rispose e fu l'ultima volta che andò a casa sua. Gustav la cercò per telefono; le inviò lunghi e strazianti sms; e-mail accanite senza avere mai risposta.
"Rispondimi o ti rovino la vita" la minacciò nel suo ultimo sms.
Ursula ignorò la minaccia, che poteva mai farle? E poi aveva già annusato il profumo del prossimo fiorellino e a Gustav non pensava più.
Ma Gustav era ferito e inferocito. Scrisse una lunghissima mail a Mattia e gli raccontò tutto quello che faceva la sua donna con abbondanza di particolari.
Proprio a quella mail stava pensando Mattia, bagnato di pioggia all'interno della sua macchina. Non pensava ad altro da quando l'aveva ricevuta.C'era dovizia di notizie, di nomi, di indirizzi, tutti lontano da Francoforte: l'ape regina cercava il suo polline in provincia, Gustav era di Hanau, gli indirizzi degli altri portavano a Bad Homburg, a Nauheim, a Ginsheim fino ad Heidelberg, nessuno a Francoforte, dove Ursula recitava la parte della donna fedele e innamorata del suo uomo. Nella mail di Gustav c'era il suo numero di cellulare. Lo aveva fatto dopo molta esitazione. Una sola domanda: 
-Puoi dimostrare tutto quello che hai scritto?
-Parola per parola, nome per nome.
A Mattia era bastato.
Un'ira sorda e feroce gli saliva dagli intestini fino alla bocca aumentandogli la salivazione. La prima cosa che pensò, da buon calabrese, fu di ammazzarla con le proprie mani. Ma non voleva farsi un giorno di galera per una così. L'idea dell'omicidio andava scartata. Ma doveva distruggerla, colpirla in quello che aveva di più caro: la borsa e la facciata.
Per la borsa era facile, non erano sposati e non avevano figli, pertanto non occorrevano avvocati né tribunali. Bastava dirle la fatidica parola Schluss, è finita, vattene, e lei doveva sgomberare il campo. Lo avrebbe fatto, a malincuore, forse con qualche lacrima, ma l'avrebbe fatto. Quello però a cui Ursula teneva di più era l'opinione che la gente aveva di lei, il rispetto del prossimo. Ci si può lasciare dopo anni per cento motivi, ma la sua immagine di donna perfetta e superiore doveva rimanere limpida e lucente. Invece lui l'avrebbe smerdata e sputtanata al punto che sarebbe dovuta fuggire dalla sua amatissima Francoforte. Ma come fare?
Fu Ursula stessa a venirgli in soccorso.
-Venerdì mattina parto con Lisa e Karola. Andiamo ad Amburgo. Non ti dispiace vero?
Mattia fece la faccia triste per camuffare l'ondata di cinica gioia che gli aveva intriso le visceri.
-Se proprio avete deciso...
Lei gli fece una carezza e si infilò nel bagno. Dopo un po' Mattia sentì il getto della doccia.
Un'idea favolosa gli era balzata in testa. Come non ci aveva pensato subito?
Mentre lei era sotto la doccia telefonò ad un suo amico albanese, che aveva una piccola ditta di traslochi.
-Puoi venire da me insieme a un paio di ragazzi venerdì mattina verso le undici?
-Devo portare un camion? È per via del permesso del Comune, la Zeil è zona pedonale.
-Basta un furgone, ma porta cartoni per imballaggio, una quantità.
Telefonò poi ad un altro suo amico, un siciliano che aveva un'officina da fabbro a Offenbach.
-Devi cambiarmi la serratura della porta di ingresso. Vieni venerdì pomeriggio.
Adesso restavano due cose da fare: aspettare l'albanese e il siciliano e poi andare a cena venerdì sera nel ristorante di Karl Heinz Koblet, il Bei Karl, che stava proprio di fronte casa sua.

Quando Mattia entrò nel ristorante erano le 20,30 e il locale era pieno, come aveva immaginato. Karl Heinz gli indicò immediatamente il suo tavolo privato nell'angolo più tranquillo del locale. Era quello che Mattia si era augurato. Mentre sceglieva sul menù venne Karl Heinz a sedersi davanti a lui, come previsto.
-Ho visto che pagavi quel trasportatore stamattina. Hanno portato via un sacco di roba, anche mobili.
-Solo una commode di Uschi.
-Lei è andata via stamattina alle sette con un taxi.
-Va ad Amburgo con due amiche per un paio di giorni.
-Poi è arrivato il furgone di una Schlosserei. Tutto oggi. Mi spieghi che succede?
Stava friggendo. Andava a meraviglia.
-Se mi garantisci che tieni tutto per te.
-Come in una tomba.
Sì, pensò Mattia, una tomba scoperchiata.
Karl Heinz aveva due soprannomi: Rundschau dal titolo del telegiornale del secondo canale tedesco, e DDF terzo canale appunto. Era notoriamente la lingua più veloce dell'Assia, capace di ampliare una notiziola fino a farla diventare un romanzo. Prima di domenica tutti avrebbero saputo  tutto nei minimi dettagli, veri e inventati da Karl Heinz. Proprio quello che occorreva per il totale sputtanamento di Ursula.
-Avvicina la testa, disse Mattia, ché certe cose non si possono dire a voce alta.
Gli spifferò tutto dalla a alla zeta, facendogli anche leggere la mail di Gustav dal suo Samsung. Karl Heinz era così agitato che non gli fece nemmeno pagare il conto.
Rientrato a casa Mattia inviò un sms a Ursula.
"Tutta la tua roba è conservata nei magazzini della ditta Donatri di Neu Isenburg. Qui di tuo non c'è più niente".
Schiacciò l'invio e accese la TV.
"Adesso ci pensa Karl Heinz a mettere su una immensa cagnara e a sputtanarti ben bene, grandissima troia", pensò Mattia e si mise a seguire uno spettacolo musicale dopo aver spento il suo cellulare. Dopo una mezzoretta ronfava beatamente.
Si era liberato di un gran peso, ma alla fine di tutto sarebbe riuscito Mattia a salvarsi dalla dannazione?



































domenica 6 ottobre 2013

SENTIMENTO DI INUTILE ATTESA



La gabbianella sospesa
sul pelo dell'acqua
lentamente palpita
con ali trasparenti nel raggio
pieno della luna;
la corrente del grande
fiume la sfiora
appena,
luminosa vibrazione di piuma 
di cristallo.

Questa notte la guardo
insonne dall'angolo più tranquillo
della casa.

Sentimento di inutile attesa.

giovedì 3 ottobre 2013

COME UN FUNAMBOLO


Sto
come un funambolo
in equilibrio sopra una fune
distesa
in una serata
di vento.

martedì 1 ottobre 2013

SOGNA


Sogna il poco
che è ancora rimasto
da sognare.
Ricorda poi ogni forma, ogni
colore, non dimenticare
nulla quando
ti risveglierai
e aspetta che torni notte
per continuare a sognare.