giovedì 26 maggio 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Seconda tappa


-Beva ancora un po' di caffè insieme a me.
-Per carità! La ringrazio, ma non potrei proprio: sono a stomaco vuoto.
-Perché non lo ha detto subito? Vuole un'omelette al prosciutto?
-Non deve disturbarsi, signora Samenberg.
-Non si può lavorare a pancia vuota, tagliò corto Esther Samenberg; non si può far niente a pancia vuota, nemmeno chiacchierare. Venga di là in cucina, ne preparerò una anche per me.
-Preferirei di no; non mangio mai niente di mattina.
-Non mi dirà che sta facendo una nuova dieta? Benedetta ragazza, vuole diventare un grissino? Alla sua età un po' di ciccia addosso le sta bene.
-Ho trentacinque anni, signora Samenberg, non sono più di primo pelo.
-Faccia come me, che compirò settantacinque anni tra due settimane: mangi, beva e si diverta e vedrà che il tempo le correrà via più lentamente e meglio.
-Beata lei, signora Samenberg.
-A proposito: darò una piccola festa per il mio compleanno e ci tengo che lei vi prenda parte; ci saranno solo un paio di mie vecchie amiche e vorrei non mancasse lei, che è la sola collaboratrice rimastami.
Verena Mutig accettò naturalmente l'omelette perché aveva una fame boia, e accettò l'invito, anche se a collo torto perché già aveva esperienza di quelle serate lagnose in casa Samenberg; ma non poteva dire di no alla sua unica fonte di guadagno con la rata del mutuo della casa che scadeva ogni 15 del mese.
Doveva in effetti a Esther un po' tutto, la casa la macchina e il cospicuo conto in banca, per averle suggerito le trame dei suoi due romanzi storici a carattere religioso che avevano venduto abbastanza bene. Inoltre doveva riconoscere che il congruo assegno mensile era piuttosto esagerato per qualche ricerca nelle varie biblioteche europee e il successivo lavoro di raccolta al computer, abbastanza semplice, tutto sommato. Il fatto era che Esther scriveva ancora tutto a penna, odiava ciò che era moderno e riteneva che lavorare al computer fosse opera di qualificata ingegneria, per cui considerava poco più che una elemosina il notevole emolumento che alla fine di ogni mese elargiva a Verena. Il sodalizio, soddisfacente dal lato economico per entrambe come s'è detto, era ancora più appagante sul piano culturale per Verena, che aveva tutto da imparare da quella che era da tutti considerata la teologa di avanguardia della religione ebraica.
Senza contare l'immensa mole di nozioni che accumulava sul mondo medioevale, che era il terreno dove ambientava le storie per i suoi romanzi. Esther si era poi lasciata sfuggire una mezza promessa per quanto riguardava la trama di una grande saga sulle lotte intestine al sorgere del mondo dell'Islam, che dati i tempi correnti sarebbe diventato materiale ambito da qualsiasi editore. "Si sveneranno per farle firmare un contratto in esclusiva, le aveva detto; ma lei spari sempre il doppio di quanto le offriranno; è il mio metodo e non mi ci sono mai trovata male".
Ce n'era quindi a sufficienza per farle sopportare e digerire una serata noiosa. Che passò invece più rapida e interessante di come avesse previsto.
Adele Pini e Martina Strom erano due vecchiette garrule e arzille, ricche di buon umore, ed erano anche due eccellenti forchette: spazzolarono infatti tutto quel che la signora Samenberg aveva fatto preparare da un Party-service carissimo ma di ottima qualità. Ce ne sarebbe stato da sbafare per dieci, ma a metà della serata erano appena avanzate le briciole per i due canarini della padrona di casa. Considerando che Verena si era tenuta leggerina come suo solito, se ne deduceva che le tre vecchiette si erano rimpinzate come maialini, pappandosi anche la sua parte.
Anche quella festa servì di lezione alla giovane scrittrice: non vista prendeva nota sopra un minuscolo quadernetto scegliendo le frasi più salaci, i pettegolezzi più spinti, lei che non sapeva ancora che le vecchie signore potessero essere così sboccate; ma fu stupita, quando a casa andò a rileggere i suoi appunti, dalla varietà degli argomenti trattati: amore e odio, vita e morte, divinità e demoni, scurrilità e filosofia esistenziale e chi più ne aveva più ne metteva. Dalle sue notizie Verena si accorse di quello che le era sfuggito dal vivo: la signora Samenberg le appariva adesso come la direttrice di un'orchestra, quella che dava il là, la battuta iniziale dei temi che poi le altre due portavano avanti, sviscerandoli, vivisezionandoli. Gli argomenti girarono intorno a se stessi come in una spirale per tutta la serata, fino a convergere ognuno, come se fosse una logica conseguenza, nell'Olocausto. Per essere precisi, conversero tutti su Auschwitz.
Adele e Martina ne erano uscite ancora bambine per quel che si riferiva all'anagrafe, ma vecchie decrepite per quanto riguardava le loro gracili membra, portando fuori da quell'orrendo campo di morte ciò che restava delle loro anime sprofondate nel nulla, ancor più piagate e annientate del corpo.
Quel che a Verena non era molto chiaro era perché mai Esther avesse inscenato e diretto quel melodramma, giacché le appariva non casuale l'invito alle due vecchie dame, e anche la sua presenza in casa quella sera era voluta. Era stato dunque a suo beneficio tutto quel teatrino? E perché proprio lei? Si ripromise di chiedere chiarimenti alla signora Samenberg l'indomani mattina. Rovistò ancora tra i suoi appunti e ne tirò fuori uno stralcio di conversazione che volle mettere per esteso.
Accese il suo PC, cliccò START; nel menù subito apparso fece clic su PROGRAMMI, nel sotto menù aperto fece clic su MICROSOFT WORD e iniziò a scrivere sul documento vuoto che era comparso.
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FILENAME: Adele e Martina.

ADELE-In che anno è successo?
MARTINA-Vediamo un po': io facevo la terza classe, per cui doveva essere il 1940: Sì, era l'anno in cui è scoppiata la guerra e tutti erano contenti.
A-E questa signora te la ricordi così bene? Sei sicura che fosse lei?
M-Certo che me la ricordo! Come fosse adesso. Era così bella ed elegante, sempre in un cappotto di pelliccia lungo fino alle caviglie, oppure con una stola di volpe argentata sulle spalle. Sempre così sorridente e umile: si fermava a parlare con tutti, era così affabile, una vera signora.
A-E la figlia te la ricordi? Com'era?
M-Quella te la raccomando! Tutto l'esatto contrario di sua madre. Arrogante e presuntuosa, una col naso per l'insù.Se ne stava sempre appartata, perché nessuno la voleva avere vicino, e lei non voleva avere vicino nessuno.
A-Era in classe con te?
M-No, era più giovane di me e andava in prima classe; sempre in pompa magna, appena finivano le lezioni si sfilava il grembiule...
A-Era blu anche il vostro?
M-No, era nero col colletto inamidato e il fiocco bianco.
A-E lei se lo sfilava?
M-Sì; ogni volta quella smorfiosa si sfilava il grembiule per farci vedere i suoi vestiti sempre nuovi e ben stirati; mai una piega lei, mai una macchia, mai una rapa nelle calze.
A-Dentro il campo portava gli occhiali
M-Li portava anche a scuola, due lenti grandi così; era miope.
A-Nel campo era molto dimessa, cercava quasi di passare inosservata.
M-Penso che la cosa peggiore per lei fosse starsene tutto il tempo con addosso lo stesso vestito che aveva quando era arrivata, che ogni giorno diventava sempre più sporco e strapazzato. E poi non sopportava la promiscuità con tanti altri straccioni puzzolenti come lei.
A-Cioè con noi.
M-Cioè con tutti. Per quella smorfiosa antipatica deve essere stato un inferno.
A-Come si chiamava?
M-Non l'ho mai saputo.
ESTHER-Sapete se si salvò?
A-Non credo che ce l'abbia fatta.
M-Io invece penso di sì. Gli ultimi tempi stava sempre insieme con quel bambino tedesco vestito da SS.
A-Quel sordomuto con la benda sull'occhio destro?
M-Proprio quello. Indisponente e antipatico come la sua amichetta; alto parecchio per la sua età, biondo con bellissimi occhi azzurri, cioè con un bellissimo occhio azzurro. Quell'altro non ho mai saputo se fosse malato o se addirittura gli mancasse.
ESTHER-Me ne hanno parlato anche altri superstiti: uno delle SS era un bambino, il figlio di qualcuno di loro, suppongo; era sordomuto, con un occhio bendato e vestiva sempre un'uniforme nuova fiammante.
A-Doveva averne una decina. Si dava così tante arie quel bamboccio.
M-Era l'unico ad andare d'accordo con quella bambina, per questo io credo che l'abbia aiutata a scappare.
A-Se ce l'avesse fatta sarebbe ricomparsa prima o poi, mentre invece se n'è persa ogni traccia.
M-Se è per questo non c'è traccia di lei nemmeno sui registri del campo: nelle liste degli arrivi e nell'elenco generale dei bambini il suo nome manca.
A-Quale nome vuoi trovare se non sappiamo come si chiamava?
M-Il nome di sua madre. Il cognome era Levi Strauss, e con quel cognome c'era solamente lei tra le donne e una trentina di uomini, ma nessun bambino.
A-È molto strano, non trovate? Eppure è esistita, io l'ho conosciuta al campo, e conoscevo sua madre.
M-La conoscevano tutti, era l'interprete perché parlava sei lingue.
A-E tutti sapevano che quella bambina miope era sua figlia.
M-È vero, era noto a tutti. È veramente molto strano che non se ne sia saputo più niente.
ESTHER-La cosa più strana di tutte è che la madre nei suoi romanzi non abbia mai parlato di questa sua figlia, non ne abbia mai fatto il nome, come se non fosse mai esistita.
A-Forse perché sapeva che era morta e voleva lasciarla in pace.
M-Che discorsi sciocchi fai tu a volte, Adele! Che significa volerla lasciare in pace? Ha scritto tre romanzi su quell'inferno, e il primo "Terra di nessuno" è un resoconto quasi giornaliero della sua vita lì dentro, e della nostra. Mi spieghi perché non avrebbe dovuto parlare della sua unica figlia?
A-Per rispetto della sua creatura morta; perché le dava troppo dolore ricordarla in quella situazione...oh, insomma! Io non lo so perché, ma lei non ne ha parlato né in quello né negli altri due romanzi.
M-Vuol dire che un motivo deve averlo avuto, che ne pensi Esther?
ESTHER-Sicuramente, però è lo stesso assai strano, soprattutto perché Edith in tutti e tre i suoi romanzi parla diffusamente del ragazzino sordomuto in uniforme.
A-È vero, ne parla così a lungo.
M-Doveva conoscerlo bene quel bastardo: lei col suo lavoro di interprete se ne stava quasi tutto il tempo negli uffici del comando al calduccio, dova abitava quel moccioso pestifero.
ESTHER-Era per via della traduzione di migliaia di documenti che doveva stare negli uffici. Lo ha scritto.
M-Sì, questo lo ha scritto. Quello che non ha scritto è se ci fosse ancora qualcosa sotto.
A-Perché? Tu pensi che lei...
M-Io non penso proprio niente. Io ho visto quello che tutte abbiamo visto: le più belle e in salute se le pigliavano gli ufficiali delle SS, e Edith era bellissima e godeva di eccellente salute, visto che mangiava sempre alla mensa degli ufficiali, che non dormiva con noi nelle baracche e che non faceva mai servizi all'aperto sotto la pioggia e al freddo.
A-Anche se fosse vero non lo avrebbe mai scritto. Cosa vuoi? Non era mica obbligata a scrivere certe cose: ognuno di noi era disposto a far tutto pur di sopravvivere.
M-Sicuro, e lei lo ha fatto; per questo è uscita viva da là dentro, e per questo sono sicura che sia riuscita a salvare anche la figlia.
A-Ma allora perché non parlarne, non dirlo chiaro e tondo? Una madre fa di tutto per salvare sua figlia.
M-Se ha taciuto un motivo doveva averlo. Forse ci sono cose sotto che nessuno sospetta, compromessi, azioni indegne, chi lo sa.
A-Ma tutti l'avrebbero perdonata se avesse confessato di essersi dovuta prostituire alle SS per salvare se stessa e la bambina, non credete?
M-Questo sicuramente, ma non se avesse tradito qualcuno.
A-Addirittura! Io non ci credo.
ESTHER-Comunque adesso è morta e riposi in pace.
M-Adesso? Sono dieci anni. Hai letto il trafiletto su "Il Messaggero" l'altro ieri per l'anniversario della sua morte? Un vero elogio post mortem: lei fece. lei scrisse, lei visse, lei disse eccetera eccetera. Ma che bello! La verità è che Edith LS Upward fece una vita bellissima, anche a Auschwitz, perché non andò mai a faticare nel gelo insieme alle altre; perché salvò la pellaccia e perché una volta liberata fu accolta a braccia aperte dal suo secondo marito, un generale americano che se la portò in Pennsylvania. E in Pennsylvania visse il lungo resto della sua vita, circondata da amore e da premure, pubblicando libri tradotti poi in tutte le lingue, che le diedero gloria letteraria e quattrini, tanti tanti quattrini; e in Pennsylvania soavemente morì, e in Pennsylvania adesso riposa. Amen.
A-A volte sei tanto cattiva, Martina. Sì, sei cattiva: quella poveretta deve avere molto sofferto anche lei, soprattutto quando è morta sua figlia.
M-Se è morta, ma io non ne sono persuasa.

NOTA BENE: Esther Samenberg non è mai intervenuta direttamente in questa disputa, ma ha lasciato le sue amiche sfogarsi senza perdersi nemmeno una battuta. Sembrava però dispiaciuta di qualcosa. Cosa? Conosceva Edith LS Upward? Oppure era soltanto a disagio per non essere mai stata deportata ed avere salvato, come lei stessa dice, le chiappe?
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Verena rilesse dall'inizio tutto quel che aveva trascritto. Dopo aver salvato il documento su un dischetto nuovo, accese la stampatrice e cliccò il comando STAMPA. Mise in ordine i fogli ottenuti e li raccolse in un classificatore.
Si fece una camomilla e andò a letto. Era stata una giornata interessante, ma faticosa e voleva essere fresca per l'indomani mattina. Aveva un paio di cose da chiedere alla signora Samenberg.


Seconda pausa.


lunedì 23 maggio 2011

24 MAGGIO 1971

Quaranta anni fa esatti, sul far della notte, partivo da Treviso per Francoforte. Doveva essere un viaggio di lavoro per un'attività della durata di qualche mese.
Sono passati 480 mesi ed io sono ancora in terra tedesca, dove ho messo piede verso le sette e mezza del mattino del 24 maggio.
Venti anni dopo, nel 1991, scrissi la poesia che vi propongo adesso, con un pizzico di nostalgia.

Non sa ancora di giugno
quest'aria che respiro acida e molle
come primo latte di donna;
sa di fieno,
di vite recisa,
sa di frumento marcio, sa di terra
esausta che ha partorito da poco
la sua ultima creatura.
È una nottata
triste:
nebbia fitta e a tratti vento, teso e basso.

La Fiat va piano:
il guidatore è stanco, non conosce la strada.
Se adesso hai voglia di controllare
vedi la nebbia
ferma come un muro
intonacato,
tirato giù tra cielo e terra.
Attraverso il finestrino aperto
assaporo e inghiotto le mutevoli essenze
di questa terra che non è la mia.
Qui non ti senti
sulla punta
della lingua il crudo
zampillo della salsedine,
ma il grasso acido
distillato dai prati
incurvati dalla nebbia.
Non ti spacca la faccia
il libeccio,
duro come un coltello;
mareggiante,
malandrino e carogna,
che ti mitraglia a raffiche, ti brucia,
ti molla e di nuovo ti assale
quando non ci pensi più.
Il vento qui è musone:
compatto e lento
t'investe appena di lato,
ti si avvolge intorno,
e tu diventi
tutt'uno col vento, e allora
è come niente.
Per me,
creatura nata tra scogli marini,
dove la notte è tiepida anche d'inverno,
il vento è un elemento
del mio sangue
dentro le vene;
corpo e spirito di vento
hanno diviso a spicchi la mia vita
di stagione in stagione.
Che questo mi mancherà
ora già so.

La macchina va sempre più lentamente.
Il guidatore è stanco,
stanco di eterna fatica
della sua intera razza.
Lui poi che viene da Bisceglie
ha quasi il doppio della nostra strada
dietro la schiena.
Nessuno degli altri quattro uomini
nell'auto si offre al cambio
di guida.
Passeggeri esausti, viandanti muti,
masticano il fiele amaro
di una stanchezza sconfinata,
accumulata in secoli di fatiche sprecate,
mal pagate,
disconosciute.

"Hai letto Francoforte sui cartelli?",
mi chiede all'improvviso.

"No, forse abbiamo sbagliato."

"Quelle luci che sono?"

"Stoccarda, credo. Di sicuro non so.
Prima ho letto un cartello:
stava scritto -Stoccarda 29 Km-.
Dovrebbe essere questa."

"Ma Stoccarda dov'è?
Prima o dopo Francoforte?"

"Io penso prima. Tu però
al prossimo distributore di benzina
fermati. È meglio chiedere
che camminare alla cieca."

"Ma è così piccola 'sta Francoforte
che non la mettono
nemmeno sui cartelli!"

Era la prima conversazione
dopo sei ore.
L'ultima volta al Caffè italiano
al Passo del Brennero.
M'aveva chiesto da dove venivo;
se ero sposato;
se avevo già un lavoro lassù.
Neanche come mi chiamavo
m'aveva chiesto.
No. Non avevo un lavoro, ma solo
un indirizzo con un nome:
un amico di un amico
doveva abitare
a Neu Isenburg, Lindenstraße mi pare.
Non avevo un lavoro, né casa, né famiglia
ormai più. I volti della mia donna
e dei miei figli già fatti trasparenti,
e sabbia dentro il cuore
non più sangue.

La notte sembra non aver mai fine;
attraverso la nebbia adesso filtra
qualche luce giallo-arancione.
S'è fermato: è sceso; sta chiedendo qualcosa.
Molto gesticolano lui e il suo
interlocutore,
come mulini olandesi.
Ritorna; si riparte.

"Che ti ha detto?"

"Non ho capito granché. Una sola
parola però è chiara: geradeaus."

"E che vuol dire?"

"Sempre avanti."

Così, geradeaus! Ormai che importa,
questa notte non potrei mai dormire.
Voglio vedere che farò domani con le 1500
lire che ho in saccoccia. Tanto
la mia vita è stata
finora una roulette, e la pallina
sempre al posto sbagliato.
Mi distendo; provo a rilassarmi,
a rileggere nella memoria per capire
il perché sono nato perdente, se è vero che è così;
sennò cos'è che c'è di guasto,
di insanabile;
e l'idea che ho di me
mi scivola dal cervello alla gola,
e poi giù, giù fino agli intestini,
e poi di nuovo su;
e più cerco di trattenerla
più si rende
impalpabile.

"Bevi questo, è vino buono."

Mi caccia in mano un bottiglione scuro
mezzo vuoto. Come un martello
nello stomaco, come il crollo
di un muro sul selciato.
Ride. Mi vede dalla faccia
che non riesco a ingozzare
il suo vinaccio schifoso.

"Se hai fame, mangia queste,
e poi vedrai che pure il vino è buono."

Olive nere secche.
Umide e piene di croste,
scivolano nella gola
come vermi.
In questo momento
sono cibo da re,
e il vino adesso ha un corpo
di donna con forti fianchi larghi
e cosce grosse e solide;
ha l'anima di un vecchio contadino:
svelle radici antiche
di una quercia.
Mi si è scaldato tutto lo stomaco
ad un tratto,
e la testa mi gira forse un po',
e certo devo aver anche dormito,
perché tutto mi è sembrato
più rapido l'ultimo tratto,
e forse anche lui
pigiava un po' più forte sul pedale
del gas.

Ci fermammo alle prime case
di un paese. Non era Neu Isenburg,
ma lui, che aveva letto, disse
che era un poco più in là.
Tanto valeva dormire un po'
e presentarsi freschi alla mattina.

Ci lasciammo a Neu Isenburg, alla
Lindenstraße, dove m'aveva portato.

"Passa di sera all'Eis Cafè Venezia,
sennò al Tivoli: c'è anche un biliardino.
Lì vanno tutti gli italiani."

Non l'ho più incontrato.
Nelle cento contrade dove la vita
qui mi ha trascinato,
ogni tanto, all'inizio, mi pareva
di riconoscerlo.
Adesso non ne ricordo più nemmeno
il colore dei capelli.
Fumava sigari puzzolenti,
e le sue olive nere
le potevi inghiottire solamente
bevendo quel suo vino grasso
come petrolio greggio.

E quel sapore amaro nel palato
m'è rimasto di lui,
testimone
di quella lunga notte
passata insieme.

venerdì 20 maggio 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

PRIMA TAPPA

FILENAME: UN UOMO HA ASSOLDATO
(Un uomo ha assoldato un gruppo di killer, che lo devono uccidere davanti a un pubblico di sei intenditori, che pagheranno poi i suoi debiti. I killer eseguono ma alla fine l'uomo non è morto)


"Per prima entrò una delle due donne. Si diresse da mister BB e gli porse un biglietto. Mister BB lesse e storse il naso. La donna se ne disinteressò e si appoggiò con le spalle al muro, guardando fisso con uno sguardo inespressivo l'uomo che dovevano ammazzare, l'uomo che li aveva già pagati per questo. A lei non gliene fregava proprio niente.
La seconda donna entrò cinque minuti dopo e offrì un altro biglietto a mister KK, con sopra scritto qualcosa in stampatello. Mister KK tirò fuori gli occhiali da una tasca interna della giacca, lesse e subito scosse la testa. Prese una penna, appoggiò il biglietto sul tavolo che gli stava davanti, cancellò un paio di parole e in loro vece scrisse qualcos'altro. Restituì poi il biglietto alla donna. Dopo avergli dato una breve occhiata si appoggiò anche lei al muro accanto alla prima. Non guardò nemmeno una volta dalla parte dov'era l'uomo che dovevano ammazzare.
I cinque uomini che allora entrarono uno dopo l'altro trasportavano ognuno uno zainetto rigonfio e si disposero dalla parte opposta, di fronte alle due donne, accanto all'uomo che doveva morire. Dopo che si furono allineati lungo il muro mister GG si alzò e si avvicinò agli ultimi spettatori rimasti in un angolo: scambiò poche parole con mister JJ e con mister VV; diede uno sguardo a mister TT che si limitò ad annuire. Mister GG si avvicinò allora alle due donne e riferì brevemente gli accordi presi, poi ritornò a sedersi.
La donna che era entrata per seconda si recò allora da quello che sembrava il capo del gruppo. Gli consegnò il biglietto con la correzione di mister KK e gli sussurrò qualcosa in un orecchio. Non aveva altro da fare e ritornò accanto all'altra ragazza.
Quello che sembrava il capo si sfilò dalle spalle lo zainetto. Lo aprì e ne estrasse alcuni pacchetti che distribuì a tutti gli altri. Le due donne disfecero il loro per prime e indossarono le tute di plastica che c'erano contenute, coprendosi la testa col cappuccio e tirandone i laccioli in modo che solo il viso rimanesse scoperto e tutto il resto fosse protetto. In fondo a ogni pacchetto c'era un paio di guanti di latice che ognuno di loro indossò, calzandolo accuratamente.
A quel punto due dei killer presero per le braccia l'uomo che dovevano uccidere, gli sfilarono la giacca, lo fecero sedere su una sedia e gli legarono i polsi dietro alla spalliera; dopo avergli tolto le scarpe legarono le sue caviglie alle gambe anteriori della sedia. Quello che sembrava il capo estrasse dallo zainetto otto tubi di alluminio lunghi una trentina di centimetri, del diametro di poco meno di un centimetro, che avevano la filettatura a entrambe le estremità. Li avvitò insieme due a due formando quattro sbarre di circa sessanta centimetri, ad ognuna delle quali avvitò un ultimo corto elemento che finiva con una punta aguzza. Allineò tre lance sul tavolo con le punte rivolte verso l'uomo legato. La quarta la tenne impugnata nella sua mano sinistra. Girò allora lo sguardo lentamente sui sei spettatori, si avvicinò alla schiena dell'uomo legato e col pollice della mano destra premette sulle spalle dell'uomo ai due lati del collo, immediatamente dietro alle clavicole. Uno dei suoi compagni gli passò un mazzuolo.
Quello che sembrava il capo fece tutto assai velocemente: poggiò la punta della prima lancia dietro alla clavicola sinistra dell'uomo legato; torse vigorosamente verso l'interno il polso della mano che reggeva l'asta mentre premeva in basso in modo che la punta già penetrasse per qualche millimetro e immediatamente colpì la base della lancia con violenza. la punta penetrò profondamente sfiorando il deltoide e la clavicola, perforò il muscolo pettorale e riemerse attraverso la camicia lacerata.
Il sangue schizzò abbondantemente verso l'esterno attraverso le due vie aperte irrorando l'asta e la camicia del condannato, il quale riuscì a fare appena una smorfia nel tempo che il suo carnefice gli infilava la seconda lancia dentro l'altra spalla.
L'uomo che doveva morire mugghiò cupamente, mentre quello che sembrava il capo con estrema velocità gli trapassava i piedi con le ultime due banderillas inchiodandolo al pavimento.
Quando le urla del condannato diminuirono di intensità, quello che doveva essere il capo si rivolse con un gesto energico agli spettatori, e stropicciando entrambi gli indici contro i pollici espresse in modo eloquente ciò che voleva.
Mister BB estrasse allora da sotto la sua sedia una valigia: la depose sul tavolo e ne fece scattare la serratura. Girò poi la valigia verso il capo dei killer mostrandogliene il contenuto. Il capo fece un gesto con la testa e due dei suoi uomini cominciarono velocemente a controllare. Visto che i conti tornavano, richiusero la valigia e si rivolsero verso il capo aspettando ordini. Ricevettero un cenno della testa; allora presero la valigia e se ne tornarono al loro posto. Uno dei due estrasse dal suo zainetto un'ascia e la porse al capo. Questi afferrò per i capelli l'uomo inchiodato a terra e glieli tirò indietro con forza in modo che la sua gola fosse bene in vista. Passò leggermente sulla base della gola il filo dell'ascia come per prendere le misure, poi la sollevò in alto con un gesto lento e solenne. Prima di vibrare il colpo girò gli occhi sulle facce dei sei spettatori.
Le espressioni erano le più varie, dal disgusto, all'orrore, alla paura; il capo si soffermò un po' più a lungo sulla faccia di mister BB che gli stava proprio di fronte: teneva la testa insaccata nelle spalle, il mento proteso in avanti, la bocca semiaperta e guardava la scena strizzando gli occhi, come se la luce lo accecasse.
Il capo sogghignò, irrigidì i muscoli della spalla destra pronto a lasciar cadere la mannaia e rimase un attimo in quella posa, misurando mentalmente la distanza. Poi di colpo abbassò il braccio e scaraventò l'ascia contro la faccia di mister BB.
La lama spaccò in due la mandibola e il mascellare superiore, infilandosi come un cuneo tra gli incisivi; penetrò nel cervello dopo aver solcato e inciso come un rasoio le ossa del palato e terminò la sua corsa sprofondando nelle vertebre cervicali.
Mister BB schiattò all'istante, mentre un'ondata di sangue investiva la parete alle sua spalle.
Dopo tutto avvenne in rapida successione.
Mister GG scivolò dalla sua sedia cadendo ginocchioni senza difesa davanti ai killer schierati. Mister KK, superata la sorpresa iniziale, sfilò da una tasca un revolver, ma tirò fuori la mano tenendolo per la canna; cercava di prenderlo per il verso giusto quando la donna che era entrata per seconda fece scattare la molla di una frusta d'acciaio telescopica: l'asta durissima e flessibile come un bambù si abbatté sul polso di mister KK spappolandogli il carpo. Il revolver finì inservibile sotto il tavolo mentre un secondo colpo di frusta quasi tagliava in due l'avambraccio dell'uomo all'altezza del gomito.
L'altra donna aveva a sua volta estratto la sua frusta telescopica: senza farne scattare la molla la usò come un randello d'acciaio, colpendo di dritto e di rovescio mister GG ai due lati del collo. Al quinto o sesto colpo troncò di netto una vertebra e il cranio quasi del tutto reciso crollò abbandonandosi sul petto di mister GG. La donna rovesciò a terra con una ginocchiata il corpo ballonzolante dell'uomo, che continuò a sussultare ancora per un po'; ma lei non se ne curò più preoccupandosi di aiutare la sua compagna, che sembrava in difficoltà con mister KK.
Malgrado potesse utilizzare solo un braccio si difendeva energicamente. Aveva afferrato una sedia e con quella teneva a bada la frusta che la donna non riusciva a maneggiare con efficacia per via dell'angusto spazio. La sua collega capì al volo la situazione e con due robuste mazzate mandò in frantumi le ossa della mano con cui mister KK reggeva la sedia. Senza più il suo scudo rimase a mister KK solo il tempo per un respiro, sommerso sotto una scarica di mazzate e di frustate da tutti i lati. Mentre cadeva col busto in avanti l'ultimo fendente lo colse con l'estremità della frusta, per questo la parte più sottile e tagliente, e gli fece perdere la testa, che ruzzolò sotto il tavolo fermandosi tra i piedi dell'uomo inchiodato al pavimento.
Mentre quello che era il capo aveva continuato per tutto il tempo a tenere tirati indietro i capelli dell'uomo che avrebbe dovuto uccidere, i suoi quattro uomini, estratte dagli zainetti delle corte roncole dalle lame affilatissime, avevano letteralmente fatto a pezzi gli ultimi tre spettatori che si erano rifugiati nell'angolo più lontano della stanza tenendosi avvinghiati l'uno all'altro.
Si erano sentite poche urla di terrore e di dolore, solo il rumore dei colpi delle fruste e delle roncole, l'ansimare degli assalitori e i tonfi dei corpi e delle parti dei corpi degli assaliti. Tre o quattro minuti di rumori infernali seguiti dal silenzio.
Le due donne uscirono dalla stanza per prime spogliandosi delle tute e dei guanti. Dopo di loro anche gli uomini si tolsero i loro indumenti lordi di sangue.
Quello che doveva essere il capo estrasse dapprima le due lunghe aste che tenevano i piedi del suo uomo inchiodati al pavimento, poi sfilò con estrema cautela le due banderillas dalle sue spalle, provocando altre emorragie e sicuramente altra sofferenza, ma non poteva fare altrimenti. Sciolse per ultimo i lacci che tenevano legate le mani dell'uomo tra loro, e le sue caviglie alle gambe anteriori della sedia; prese da terra la valigia coi soldi, la aprì, ne valutò la metà a occhio infilandola dentro il suo zainetto. Richiuse la valigia e con un calcio la fece arrivare accanto all'uomo ferito. Si sfilò la tuta e i guanti gettandoli per terra accanto ai cadaveri, e raggiunse la sua gente che lo stava aspettando in fondo al corridoio. Senza proferire una parola si allontanò velocemente con tutta la squadra."

PRIMA PAUSA



giovedì 19 maggio 2011

AVVISO AI NAVIGANTI

Cari amici miei, frequentatori assidui o casuali del mio blog, vi avverto che da domani inizierò a postare un mio racconto dello scorso anno in dodici puntate e undici pause per riprendere fiato e meditarci sopra -o dormirci sopra, la scelta è assolutamente individuale-, perché a me. che sono un individuo di media intelligenza, è costato fatica scriverlo, mantenendolo nei limiti angusti della credibilità. Ho pensato che alla maggioranza di voi sarebbe potuto costare la stessa fatica nel seguire lo svolgersi della matassa di filo da me lanciata all'inizio. Per questo la suddivisione in tante tappe. Perché vi voglio bene e non mi garba l'idea che possiate annoiarvi, o peggio averne gonfia la testa. C'è sempre la scappatoia di non più "leggerlo avante", ma penso che siate lettori veraci, come me, che volete arrivare sempre al finale, come capita a me.
Insomma, fate voi e che la vostra buona stella vi accompagni.
Ciao.

giovedì 5 maggio 2011

5 MAGGIO 1963

Quarantotto anni fa Anna Maria Turolo ha scelto liberamente di diventare mia moglie.
Da allora ce ne sono capitate tante che la metà sarebbero bastate per quattro coppie normali. Ma noi non eravamo una coppia normale, non è vero Anna Maria?
Noi eravamo speciali: Special One e Special Two, e siamo rimasti speciali. Una bella combinazione.
Chi ti conosce ti loda e ti apprezza; i tuoi figli e i tuoi nipoti ti ringraziano di esistere.
Io ti ho scritto e dedicato una poesia.
È un buffetto su una guancia, un batuffolo di ovatta dentro una scatola di buona cipria. Sono soltanto parole, ma a volte le parole sono come le pietre sul fondo di un fiume di montagna: il fiume scorre, l'acqua ruzzola a valle e le pietre restano lì, in eterno.
Grazie per avermi scelto e per non essertene mai andata via.

DEDICATO A
(Per Anna Maria Turolo Iacoponi)

Un giorno, penso, arriverò a fermarmi in questa lunga
estenuante corsa senza traguardo, e tu sarai già lì,
pronta a ricevermi col tuo sorriso arioso dentro gli occhi.
Arriverò sfinito ed ansimante,
un attimo prima di morire, spero.
Se fosse vero quello che dicono, che in quel breve momento
la vita ti ripassa davanti agli occhi tutta intera,
mi piacerebbe tanto tornare al giorno di quel gennaio
quando ti ho incontrata, quando tu ti lasciasti
scegliere da me, avendomi già scelto.

La gioia di sentire al primo ballo, dopo un attimo,
che tu adeguavi il tuo agile passo al mio goffo da orso,
il braccio destro tuo sulla mia spalla sinistra,
e la tua mano mi sfiorava il collo, quasi per caso.
Fu quella volta, credo, che io ti dissi:

"Penso che diventare vecchio accanto a te
sia la cosa più bella che potrebbe capitarmi."

E tu ridevi, e ti vibrava
tutta la schiena e i fianchi nelle mie braccia.

Una vita intera abbiamo avuto di liti e zuffe e amori
senza fine, e musi lunghi e silenzi di settimane;
mezzo amanti e mezzo antagonisti, coniugi
forse mai, procreatori di molti figli,
solo nel sonno tranquilli.

Io e te, statue antiche e prosciugate dal sole;
ognuna nel proprio canneto, le nostre
corone di fiori e di insetti parallele
si sono sempre toccate, qua e là,
dandosi ombra l'una con l'altra.