sabato 26 giugno 2010

TROTZDEM

Una bella parola del tedesco colto, significa "malgrado ciò".
Non è un granché, d'accordo, ma ci sono tanti modi più semplici per esprimere lo stesso concetto in "vulgata". Trotzdem lo usano coloro che parlano l'Hochdeutsch, il tedesco elevato.
Ci ho pensato ieri pomeriggio, mentre insieme ad AM facevamo la spesa in un supermercato.
Non li abbiamo visti, non li abbiamo sentiti, ma abbiamo captato nell'aria un'onda magnetica, uno schizzare di elettroni, un cozzo di forze uguali e contrarie che riuscivamo a cogliere solo noi, visto che avevamo la pelle d'oca mentre gli altri compratori non sembravano interessati al fenomeno.
Poi li abbiamo visti: mia figlia Stefania e mio nipote Alessandro.
Non parlavano tra loro, ma si lanciavano occhiate come baionette incandescenti.
Al solito, ho pensato; da quando sua figlia se ne è andata da casa, Stefania trascina il figlio in operazioni che lui odia.
L'errore che fa Stefania è lo stesso che faceva sua nonna con me: mia madre se scopriva qualcosa che mi imbufaliva me la tirava fuori in ogni momento e pretendeva di impormela.
Risultato: l'allontanamento progressivo del figlio.
Stefania ha un modo tutto suo di comportamento dentro un supermercato: noi diciamo che soffre della sindrome del triangolo delle Bermuda. Schizza da un lato all'altro del supermercato senza seguire l'ordine delle scaffalature e delle merci in esposizione, ma solo l'ordine della sua lista scritta a casa. Così se avesse scritto il latte alla fine dovrebbe tornare indietro fino al primo scaffale dove sta il latte.
Tutto ciò per tutto il tempo, per minimo tre quarti d'ora.
Alessandro si è avvicinato a noi. Ho cercato di calmarlo, ma sbuffava fumo dalle narici.
Un'impresa calmarlo, ma lui mi sta ad ascoltare, perché mi stima. È lui che ha coniato l'espressione "il nonno più migliore del mondo". Ci sarà un motivo.
"Trotzdem!", ha detto alla fine della mia predica.

Mi ha riportato alla mente la prima volta che gliel'ho sentito dire.
Aveva poco più di tre anni. Suo padre ed io ci piegammo in due dalle risate. Io non avevo mai sentito un piccolo bambino usare quella parola e così a proposito.
Alessandro voleva qualcosa da sua madre e insisteva per ottenerla.
"Nein!" disse lei alla fine.
"Du bist eine Scheissmutter!" esclamò Alessandro. Tu sei una madre di merda.
Stefania gli sparò un pesante manrovescio in pieno muso.
Il bambino rimase col fiato sospeso mentre lei era sempre in fase di attacco.
"Aber...aber...però...però...accennò lui.
"Pass auf!" Sta attento, minacciò ancora Stefania protendendo la mano verso il viso del bambino.
Alessandro guardò un attimo quelle dita piene di anelli che gli sarebbero tra poco riesplosi sulla bocca, poi disse:
"Trotzdem! Du bist genau was ich sagte"
Malgrado ciò, tu sei proprio quello che ho detto.
Stefania non riuscì a fare una mossa, mentre suo marito ed io ci piegavamo in due dalle risate.

Da allora a casa nostra cocciutaggine e capa tosta vengono definite: "trotzdem".

giovedì 24 giugno 2010

MORIRE PER AMORE

Qualche anno fa, giusto alla metà di aprile, quando inizia il disgelo da queste parti, mi trovavo a fare un po' di footing sulla stradella che attraversa per lungo i campi di girasole, allora appena visibili, spuntati qua e là attraverso i residui di neve ghiacciata.
Mi resi ben presto conto di trovarmi in mezzo a una torma di giovani lepri in calore. Sbucavano da per tutto, rimanendo immobili piantati sui posteriori, alla maniera di quelle comiche scimmiette giallognole coi musi a punta scurissimi, che restano ore in semicerchio guardando ognuna verso una porzione di orizzonte.
Stanno attente all'arrivo di nemici, di qualsiasi pericolo.
Le lepri guardavano lontano verso un comune punto dell'orizzonte mentre le orecchie vibravano come antenne e le narici fremevano alla ricerca di un odore, di quell'odore, che li faceva stare tutti all'erta e belli ingrifati.
Già, ingrifati, perché erano tutti maschi.
Me ne trovai uno giovanissimo davanti ai piedi sullo stradello, a non più di due metri. Non badò proprio alla mia presenza, non gliene poteva fregare di meno.
Avrei potuto afferrarlo per le lunghe orecchie o spedirlo a calci in culo in mezzo al campo, ma non feci niente. Dopo un paio di minuti, vissuti nella più totale immobilità, schizzò come un missile verso una direzione dove stavano accorrendo da ogni parte gli altri concorrenti, là dove era l'oggetto del loro desiderio: la femmina pronta per accoppiarsi.
Non ci sarebbe stato bisogno dello schioppo, peraltro assolutamente verboten in Germany; sarebbe bastato un sacco di tela juta, una rete, un coppo per mettere su un allevamento. Non credo se ne sarebbero accorti, né lamentati se insieme avessi portato pure la loro bella pupa vogliosa.

Ci ho ripensato questa mattina, quando ho visto i merli maschi che si sono divisi le pasture e i prati intorno a casa mia, fare cose assurde, cose da pazzi.
Due sono saltati sulla ringhiera del mio balcone, con me che stavo piantato lì in mezzo ben visibile. Nemmeno un'occhiata, solo un comico verso, come se facessero gargarismi.
Guardavano la siepe che circondava il prato del nostro vicino.
Io non ci vedevo niente di particolare.
Ma poi arrivarono altri sei o sette maschi, tutti con quel gorgoglio nella gola.
E finalmente la femmina lasciò il proprio nascondiglio, volando bassa e lentissima a mezzo metro da terra.
La femmina si individua subito: è più minuta, ha un piumaggio marrone scuro slavato e il becco grigio, ben altro dalle orgogliose penne nere e il becco giallo dei maschi, visivamente più grossi.
Lei svolazzava verso un'altra siepe poco distante e il branco in calore dava i numeri, facendo comici saltelli e un minuetto di brevissimi voli, che più che altro erano una manifestazione della loro capacità di sgranare al massimo le penne delle ali e della coda.
Uno dei due che stavano sulla ringhiera del mio balcone decise di esibirsi in una serie di balzi a pochi centimetri dall'asfalto della nostra strada.

In quel momento arrivò il nibbio.

Come una palla scagliata dal cielo venne giù a bomba fino a due metri dal suolo, aprendo le ali in frenata all'ultimo momento. Il mio povero merlo ballerino scomparve sotto il bestione, che lo ricoprì tutto con le sue ali.
Mezzo minuto dopo il nibbio riprese quota tenendo tra le zampe quel che restava del merlo innamorato.
Per terra, sul luogo del delitto, un paio di pennette nere ancora frementi.

Gli altri non si erano accorti di niente e continuavano la loro esibizione amorosa.

Se un uomo lasciasse la penne per una femmina si leverebbe un coro unanime: "Che fesso!". Ma per i merli, le lepri e gli altri animali c'è per fortuna un altro metro di giudizio.
Però la regola deve valere anche per i maschi adulti.
Ricordo quando avevo 15 o 16 anni -roba che avveniva nel secolo scorso- ogni volta che mia nonna riceveva vecchiette sue amiche di rosario c'era un coro continuo, sempre lo stesso:
"Quanto sei bello, fijo mio! Statte accorto a nun fatte accalappià da quarcuna de ste pollastre, che vanno in giro a cerca de rigazzi belli come a te".

Volevano certamente dire: attenti al nibbio.

mercoledì 23 giugno 2010

TERZO ATTO UNICO

Tranquilli, è l'ultimo

Stanotte ho sognato elefanti bianchi, albini, a spasso per le strade vuote e assolate di una città a me ignota. Ho sognato cavalli bianchi, albini, al passo, al trotto e al galoppo sulle stesse strade di prima, piene di sole, assetate di aria non pulita, non salubre, non inodore.
Passavano tutti davanti a me 'sti animali albini, a me che stavo seduto in un angolo senza sole né vento -come capita solo nei sogni- come chi cerca di stare solo; come quando stai a casa tua a cercare gli angoli più lontani della casa per non incontrarci, per non toccarci, per non vederci, per non guardarci.
Poi, però, è arrivato il mio vecchio amico di liceo Giuseppe P. con sotto il braccio la prima parte già corretta del suo libro.
L'ho aperta: "Il mattino del giovin vecchio signore".
L'ho letta tutta in un lampo -come capita solo nei sogni- e non c'erano più elefanti né cavalli a passeggiare davanti a me.
Il mio amico Giuseppe P. mi ha detto: "Scrivici un libro", e io allora qualcosa ho scritto, ma stamattina appena sveglio ho pensato che non lo avrei mai pubblicato un libro così.
Ma un piccolo post nel mio blog posso sempre farlo partire.
Proviamo, allora.

Sono un giovin vecchio signore un po' all'antica in certe cose: per esempio in treno o sul tram mi alzo per far sedere le signore, anche quelle senza il pancione. Apro la portiera del passeggero e la tengo aperta se deve entrare o uscire una fanciulla, anche se sta sopra i cinquanta.
Faccio la doccia due volte al giorno: appena alzato e prima di coricarmi. Mi rado un giorno sì e uno no; mi lavo i denti dopo ogni pasto e prima di andare a letto.
Piscio attentamente dentro la tazza e controllo a terra fuori della tazza ogni volta; se ci sono goccette le pulisco ben bene.
SEMPRE dopo aver pisciato mi lavo la mani col sapone; anche l'uccello, perché la puzza di cazzo antico mi da fastidio, visto che sta proprio sotto il mio naso.
Sono il primo a svegliarmi: allora vado in cucina e metto tutto in ordine, lavando i piatti sporchi della sera prima e pulendo poi ben bene il lavello. Asciugo piatti e stoviglie e li ripongo.
Tiro su tutte le serrande, che sono tante e pesanti; le stesse che ho tirato giù la sera prima.
Mi guardo intorno e dico: OK! se è veramente tutto OK.
Preparo la colazione per me e per la bella addormentata.
Qualche volta mi scotto col caffè, o mi tagliuzzo le dita col coltello. Allora bestemmio un pochettino, ma siccome le ho numerate da 1 a 10, la bella addormentata nel letto sente che do i numeri e capisce che anche per questo giorno è tutto in ordine.
Mi vesto per uscire; esco e tiro fuori la macchina dal garage e accompagno la dolce signora a fare la spesa e a gironzolare in città -quando non ci siano visite obbligatorie presso medici e massaggiatori.
Passo il resto della giornata facendo tante cose: più o meno le stesse stronzate da mezzo secolo. Solo che adesso non ci sono -Gott sei Dank- figli e figlie in mezzo ai piedi, solo nipoti, ma sono tanto carini col loro nonno, che è il migliore del mondo.
Alla sera non litigo con la sposa per vedere alla TV il mio programma preferito, perché mi fanno tutti schifo, tranne SKY, dove seguo in diretta la mia INTER -che è anche la sua di lei, e quindi non si incazza.
Pertanto lei si guarda i suoi programmi musicali del ca; le sue serie del ca; io mi leggo un libro e scrivo cazzate sul blog.
Mi faccio la doccia e vado a letto cinque minuti dopo la signora della casa, per darle modo di decidere come vuole continuare la serata. Senza oppressione e senza alcuna ansia. Come vuole lei, ADESSO.
PRIMA non c'era bisogno di chiederglielo né di pensarci. Si finiva sempre in un certo modo: restava il quesito su quale posizione assumere, su come metterci, insomma; ma io avevo tanta fantasiosa fantasia, da vendere e lei se ne è sempre fidata.
In quei frangenti sussurravo TANTE COSE CARINISSIME, soffiandole dentro la sua anima PRIMA DURANTE DOPO:
Non solamente paroline caramellose DOPO, che equivalgono a un "adesso lasciami dormire, bambola".

Non ho mai usato in amore quelle stucchevoli e stronzissime parole del cazzo, quali "tesoro - amore - gioia", che servono solamente ad evitare di commettere errori madornali e catastrofici, tipo chiamare Gianna chi si chiama Antonia, e chiamare Michele chi si chiama invece Roberto.
Dimenticavo: non mi sono mai sentito per i motivi elencati di sopra "el campeon de los campeones", ma sempre e solo Vincenzo Iacoponi. Punto e basta.

Che ne pensi, vecchio amico Giuseppe P., può bastare?
Annuisce sorridendomi, e io mi sento tanto più sereno e duttile.

martedì 22 giugno 2010

DUE ATTI UNICI

Ti frego in volata, bella mia

Da qualche parte ho letto recentemente che sostenere un blog, commentarne i post eccetera, significa partecipare con idee proprie e farsene venire leggendo quelle dei blogger.
Niente di più condivisibile in questi tempi di morta fede e di empietà trionfante.
Leggendo infatti commenti e post che parlano solo del primato della donna nell'universo; del privilegio di essere nata donna; del fatto che la donna lo sa meglio e lo sa prima (penso voglia dire che lo fa meglio e prima); del vantaggio di avere 48 cromosomi con tante belle coppiette di X e nessuna Y infiltrata a infettare il tutto; insomma nell'ascoltare questo concerto di vuvuzela, che finalmente -vivaddio- ridanno a Cesara quel che è di Cesara, mi è venuta una gran voglia, un gran prurito di unirmi anche io al coro di chi applaude generosamente.
Sì, è vero, lo confesso: mea culpa, mea maxima culpa, sono purtroppo nato maschio MA ho sempre desiderato in cuor mio essere donna nel senso globale, come capacità di donare e donarsi che solo la donna-madre-sorella-amante-amica possiede.
Mi torna in mente la donna più donna che ho conosciuto: quella che in una lunghissima notte invernale ha rischiato la vita per me, per farmi venire al mondo e diventare quello che sono.
Di questa mia madre appena acquisita non posso ricordare nulla, ma immaginare il calore dei suoi seni piccoli e sodi -che più tardi amavo carezzare-; posso immaginare la morbidezza della voce; lo sguardo pieno di amore ansioso.
Posso immaginare quel che ha sicuramente fatto e detto per calmare le mie paure di nuovo arrivato, perché lo fanno tutte e l'ho rivisto e risentito fare ai miei figli dalla madre dei miei figli.
La strada che la mia ha percorso poi insieme a me, quella la ricordo ancora oggi, fatta di scappellotti e di buone maniere; di consigli e rimproveri, ma anche di tanto amore e tanta dedizione.
Mi aveva insegnato a fare il segno di croce tenendomi la destra nella sua, e ha continuato quel rituale anche quando ero grande. L'ultima volta che lo abbiamo fatto insieme era un tardo pomeriggio di agosto: mi salutava così, prima che ripartissi, e io avevo 54 anni.
Non l'avrei più rivista viva.
E non lo sapevo.


Amarcord

Però è anche giusto a questo punto sorreggere sotto le ascelle questo maschio barcollante, pieno de bozzi, de ficozze e coll'occhi muffi.
Ce l'hanno tutti con noi.
Perché siamo goffi; perché siamo brutti e pelosi; perché ci puzza il fiato; perché ci puzzano i piedi; perché bestemmiamo; perché ci grattiamo in pubblico; perché pisciamo sui muri; perché non pisciamo dentro la tazza; perché non ci decidiamo a pisciare seduti sulla tazza; perché spesso dopo aver bevuto una birra ruttiamo; perché dopo aver bevuto acqua frizzante ruttiamo; perché dopo aver bevuto acqua dal rubinetto ruttiamo; perché anche senza aver bevuto ruttiamo; perché ruttiamo; perché sbagliamo deodorante e dopo un po' puzziamo più di prima; perché ci ficchiamo le dita nel naso; perché ci puliamo le orecchie con le dita; perché non ci facciamo la barba due volte al giorno; perché...perché...perché...perché siamo maschi.
Dalle stelle alle stalle: mai detto fu più azzeccato.
Penso ai bei tempi antichi, quando le donne tenevano la voce bassa per non disturbare i signori uomini che blateravano tra loro; quando si ritiravano in una stanza a recitare il rosario; quando le trovavi solo in cucina e in lavanderia; quando per farle accorrere bastava un fischio; quando...quando erano mummie e basta.
In quel tempo gli uomini regnavano, comandavano e facevano la guerra; gli uomini legiferavano, pontificavano e facevano la guerra; gli uomini pilotavano aerei, comandavano navi, conducevano treni e facevano la guerra; gli uomini costruivano città, costruivano ponti sui fiumi, costruivano grattacieli e dighe e facevano la guerra.
E quando gli uomini -quelli che riuscivano a tornare a casa dalla guerra- entravano a sera tarda nella stanza da letto dove la sposa fedele aspettava in silenzio, facevano il loro dovere coniugale senza far troppe chiacchiere, poi si giravano e si mettevano a dormire. Non dicevano nemmeno "buona notte", ma la sposa fedele non si lamentava.
Fino alla prossima partenza, fino alla prossima guerra.
Belli, straordinari, magnifici tempi antichi che purtroppo non torneranno mai più.

giovedì 17 giugno 2010

17 GIUGNO 1970

Per tutti coloro che amano il calcio e le statistiche questa data è storica: una delle date d'oro, da rammentare ai figli, che non erano ancora nati quel giorno.
"Pensa, piccolino, tuo padre se l'è vista in TV, quella di allora in bianco e nero e si vedeva tutto grigio, non a colori.
Cosa, papà?
La partita del secolo: ITALIA - GERMANIA 4 - 3, semifinale dei mondiali di Città del Messico."
Noi non la dimenticheremo mai, per ovvie ragioni; nemmeno i tedeschi, che sempre la ricordano per dire -beati loro che se ne contentano- noi c'eravamo.
Sopra la parete esterna dello stadio Atzeca hanno messo una targa, dove sta scritto, più o meno così: in questo stadio il 17 giugno del 1970 Italia e Germania giocarono la partita del secolo.
Io la chiamerei la partita del millennio, tanto a chi può dar fastidio?
Segnò al 20' del primo tempo Boninsegna, con un sinistro al fulmicotone.
Da quel momento i crucchi cominciarono a macinar chilometri e tirar bombe verso la porta difesa da Albertosi, che forse è vero che aveva le corna come dicevano i fiorentini ma parava da dio.
Overath, Grabowski, Uwe Seeler e compagni sembravano avere grappoli di polmoni dentro la cassa toracica.
Ma il tempo passava e i crucchi stavano sempre sotto di uno.
Al 91' e mezzo il loro libero, Schnellinger che giocava nel Milan, si avviò mestamente verso la nostra area di rigore, perché le porte dello spogliatoio stavano proprio lì dietro. Oramai era finita, e mentre si trovava lì di passaggio gli capitò tra i piedi un traversone che Grabowski aveva fatto con l'anima tra i denti. Schnellinger allungò la zampa destra e in spaccata la buttò dentro.
Tutto da rifare. Tempi supplementari.
A quel punto una partita bruttissima divenne la più bella di tutte.
Subito in gol i crucchi su paperaccia di Albertosi, quello con le corna, e Robotti.
Ma dopo un paio di minuti Tarcisione Burgnich da Ruda, Friuli, si trovò a tu per tu con Sepp Mayer, il mitico portiere crucco e lo fece secco con un sinistro al volo -lui che col sinistro appena ci camminava, pensa tu- su punizione del Gianni nazionale, Rivera per l'anagrafe.
Poi finalmente Giggirriva ridivenne per un attimo quel Rombodituono che era il suo appellativo e scaricò un sinistro da favola. E stiamo 3 - 2 ma mancano ancora 15 minuti.
Tutto un batti e ribatti fino a tre minuti dalla fine, quando su calcio d'angolo Uwe Seeler incorna per Gerd Müller , che era capace di segnare anche al buio e senza una gamba. Gerd si butta di testa e la manda a fil di palo. Lì stava piazzato il Gianni nazionale, Rivera per l'anagrafe e milanista per disgrazia, che essendo un attaccante e non un difensore fece una bella mossa di minuetto scostandosi dal palo quel tanto che bastava per farla entrare.
Albertosi quasi se lo mangia. Per farlo star buono il Gianni -quello nazionale- disse ad Alberosi: "tranquillo, adesso gliene vado a fare uno"
Detto, fatto. Domenghini con le ultime forze porta avanti un pallone, Boninsegna lo trascina in area crucca e poi traversa. In mezzo ci sono Gianni Rivera e Giggirriva Rombodituono. I crucchi aspettano il botto del Rombodituono e invece Gianni finta, spiazza Sepp Mayer e infila di piattone destro.
Dal 3 - 3 al 4- 3 non erano passati nemmeno 30 secondi.
Un orgasmo nazionale gente!

Io stavo a Treviso. Non avevo nemmeno mangiato per vedermi sta partita in un bar insieme ad alcuni amici miei. Quando finì dovevano essere le nove di sera, penso.
Cosa tornavo a fare a casa mia?
Mi sentii il magone nella pancia e partii per Cervignano del Friuli, dove avevo parcheggiato moglie e due figlie.
Perché AM aveva il pancione e aspettavamo da un giorno all'altro che se ne disfacesse.
Avevo lavorato tutto il giorno per la provincia di Padova -ero rappresentante di commercio- e non c'erano telefonini allora, grazie a Dio.
Come ho detto mi sentivo il magone nella pancia e feci una volata. Un'ora e mezza dopo ero a Cervignano.
Casa vuota, nessuno da vedere né da sentire.
Qualcuno, non ricordo chi -una vicina, penso- ma era una donna di sicuro, mi dice che la signora è stata ricoverata a Palmanova in ospedale. Via di corsa. Certamente mentre io andavo là, mia suocera con le bambine ritornava a casa, perché all'ospedale non c'era nessuno.
Cioè c'era AM. Attraversando un corridoio buio, data l'ora, del reparto maternità, sentii un psss, psss e non stavano chiamando un gatto, ma chiamavano proprio me. Vidi AM sdraiata sopra un lettino sotto una finestra e guardai immediatamente verso il pancione: non c'era più.
"Ciao, come stai?
"Bene; è un maschio stavolta.
"Sei sicura?
"Sì, sì sono sicura.
"Hai guardato bene?
Sentito che stronzata a quell'ora della notte?
Ma ero immensamente felice. Avevo segnato il mio 2-1. Non sapevo che poi avrei segnato il 2-2, anzi il 3-2, dato che gli ultimi erano gemelli. Ma il terzo me lo hanno annullato per incapacità dei medici di mantenere in vita un bimbo che aveva fatto di tutto per nascere. Porcacciavaccaboia!!!
Un uomo in quei casi si comporta assai spesso come un imbecille. Ho visto mio fratello ridere come uno scemo quando è nata Barbara. Io stesso ho dato i numeri.
Il fatto è che un uomo si sente padre -qualche volta- quando gli mettono in braccio quei tre chili di ciccia. Ma non sempre. A volte deve aspettare la prima volta che il bamboccetto gli sorride, o -meglio amcora- quando lo chiama pa-pà pa-pà. Allora l'orgoglio maschile monta a cassetta e il nostro padre se ne va in giro a decantare le lodi di SUO figlio, quel maschio tanto atteso e finalmente arrivato.
Una donna si sente madre quando capisce di essere incinta, cioè alla prima mancanza. Poi se lo comincia a sentire dentro, che le si muove dietro i battiti del suo cuore; e lei parla col figlio, con la figlia, perché una donna non fa distinzione tra figlio e figlia, mentre invece il suo uomo la fa e come, anche se dice il contrario "Per me va bene tutto, maschio o femmina, perché vuoi mettere una figlia!"
Ma non è vero niente.
"Speriamo che sia femmina; ma se è maschio tanto meglio"
Oggi, a pranzo, ho ricordato ad Alessandro questo fatto, che cioè lui era nato proprio il giorno che tutti in Italia considerano sacro.
"Hai visto? -ha detto- Ho avuto culo"
Questa mattina, appena svegliato, avevo fatto gli auguri ad AM.
È una mia bella abitudine: ad ogni anniversario della nascita dei nostri quattro figli, faccio gli auguri alla madre, perché è anche la festa sua, penso io.
Lei, sorniona, mi ha chiesto: "Perché mi fai gli auguri?"
Gliel'ho spiegato, pazientemente.
"Ah! Me ne ero dimenticata"
Che furba! Vuoi vedere il casino che montava su se mi fossi dimenticato IO di farglieli.
Minimo tre giorni di muso. Ma io ho avuto un buon maestro.
Il mio papà infatti diceva:
"Ci vuole poco a far contenta una donna: basta non respirarle sul collo quando lei non vuole, e respirale forte sul collo quando vuole lei".
Meditate maschietti, meditate.

sabato 12 giugno 2010

MORTE NATURALE

-Devo sapere come è morto mio marito; ho il diritto di saperlo.
Stava tormentando la borsetta che teneva convulsamente stretta tra le mani, seduta sull'orlo della seggiola come se sotto il sedere avesse tizzoni ardenti. Il commissario Melloni non perdeva d'occhio le sue mani.
-Non avete ancora aperto un'indagine -insisté la donna.
-Non c'è niente da indagare, signora: si tratta di morte naturale. Ho qui il referto dell'ospedale, che parla di collasso cardiaco.
-A quarantadue anni?
-Può capitare anche a venti, mi pare. Dipende dal cuore, se uno ce l'ha debole...
-Aveva un cuore fortissimo. Eravamo sposati da dodici anni e lo conoscevo da venti: non ha mai avuto problemi col suo cuore.
-A volte succede che una malattia cova sotto la cenere, come si dice -provò a controbattere il commissario.
-Fate fare l'autopsia, allora.
Il commissario sgranò gli occhi e frenò le imprecazioni che gli erano salite fino alla punta della lingua.
-Signora, in caso di morte naturale accertata non si fa l'autopsia.
Camilla Barnabò si alzò di scatto e si avviò alla porta senza nemmeno stringere la mano protesa del commissario. Afferrò la maniglia e si girò.
-Non volete farmi sapere la verità e io allora mi rivolgerò a un avvocato. Buongiorno.

Il commissario Melloni tirò un sospiro di sollievo. Accidenti! Capitavano sempre a lui i parenti isterici delle vittime; questa poi lo aveva strapazzato peggio della borsetta che teneva fra le mani. Alla larga dalla fresche vedove, che ti inondano l'ufficio di lacrime. A pensarci bene, però, questa Camilla non aveva pianto affatto. Schizzava tutta la sua bile, pensò il commissario; certe volte molto meglio lacrime e strilli.
Squillò il telefono di servizio. Era il giudice Donati, quello che aveva firmato l'atto di morte di Giovanni Bernabò.
-Dovrei vederla urgentemente, Melloni. Può venire al bar di fronte al Tribunale fra una ventina di minuti?
Che diavolo gli sarà successo? Pensò Melloni mentre entrava nella sua macchina.

-Qui dentro no. Usciamo fuori e passeggiamo tranquillamente -disse il giudice.
Si allontanarono di una cinquantina di passi lungo il marciapiedi senza dire una parola.
-Mi ha telefonato Concetta -disse il giudice- Mi ha detto come è andata l'altra sera.
-Mi ha chiamato sul cellulare. Ero quasi arrivato a casa. Ho tirato dritto e mi sono precipitato a casa sua.
-Ha avuto un'idea geniale, Melloni, a portarsi via il morto.
-Per dirle la verità non credo fosse ancora morto: stava male assai. Mi sento un groppo qui in gola a pensare che se avessi chiamato un medico, forse...
-Ha fatto benissimo, invece -lo interruppe il giudice- ha fatto l'unica cosa possibile, data la situazione. Come avremmo potuto far star zitto il medico, e poi quelli della Croce Rossa, senza pensare che se poi gli moriva sotto le mani avreste dovuto intervenire ufficialmente con tutta la squadra. No, Melloni, ha fatto la cosa migliore.
-Sì, però ho commesso un reato.
-Melloni mi stia a sentire: Concetta deve rimanere fuori da questa storia. Dopo quello che è successo ultimamente coi Trans chi ci salverebbe? Si rende conto?
-Me ne sono reso conto subito e ho portato via il corpo. Era vestito da jogging, così l'ho portato in un boschetto abbastanza lontano dalla casa di Concetta. Il più difficile è stato trovare una cabina telefonica con apparecchio funzionante, non potevo chiamare il 118 direttamente col mio cell.
-Bravo! È andata bene.
-Ma io mi sento un verme, signor giudice.
Donati lo afferrò per un braccio, guardandolo fisso negli occhi.
-Melloni, se saltasse fuori che Concetta c'entra in questa storia quella tirerebbe fuori dalla sua boccaccia tutti i nomi dei suoi clienti: il mio, il suo, quello di un paio di ministri e di chi sa chi. La mia carriera sarebbe finita e anche la sua.
-Camilla Bernabò è venuta da me un'ora fa.
-Che voleva da lei?
-Sapere come è morto suo marito.
-Gli è venuto un colpo, punto e basta.
-Quella vuole un'autopsia.
-Non se ne parla proprio.
-Andrà dal suo avvocato, ha detto.
-Vada da chi vuole. Sono io che devo concedere l'autorizzazione a procedere e non la concederò mai.

Camilla Bernabò guidava con calma nel traffico. Non vedeva l'ora di arrivare a casa per telefonare a Michele la bella notizia.
-Hanno chiuso il caso -furono le sue prime parole- non ci sarà autopsia.
-Sei sicura?
Lei si allungò mollemente sul divano.
-Sono convinti che sia stata una morte naturale.
-Anche io; solo tu pensi il contrario.
-Soffriva di tachiaritmia. A Zurigo, dove eravamo fino a un anno fa, il suo cardiologo lo teneva costantemente sotto controllo, ma da quando eravamo qui ancora non si era deciso a cercarsi un buon medico. Diceva di sentirsi meglio, che l'aria della sua terra lo aveva rimesso a posto; ma la tachicardia era rimasta. La mia salsetta a base di concentrato di peperoncino ha fatto il resto: un paio di gocce nel caffè prima delle sue serate di jogging e via col tango. Da un po' di tempo lo vedevo rientrare sempre più rosso, sempre più affaticato. Se ne andava subito a letto, gli girava la testa, camminava come un ubriaco. Se non avessi saputo cosa c'era sotto avrei pensato che si fosse drogato.
-Beh, adesso te ne sei liberata; ma io non credo che sia stata la tua salsa al peperoncino rosso.
-Lascia stare. Adesso possiamo vederci più tranquillamente, dopo i funerali si capisce.
-Certo, certo.
-Poi potremmo fare anche dei piani, dei programmi.
-Che programmi?
-Non penserai che lo abbia fatto così, tanto perché non sapevo come passare il tempo. Io voglio te, Michele, per sempre.
-Si capisce Milly, mi hai già.
-Così non mi basta più: io ti voglio sposare.
Non sentì nemmeno il respiro di Michele dall'altra parte.
-Cosa fai? Sei fuggito?
-Cercavo di riprendermi dalla sorpresa.
-Una bella sorpresa, spero.
-Certo, certo...ma adesso devo rimettermi al lavoro. Ho tutti i consuntivi dell'anno da fare.
-Quando saremo sposati ti aiuterò io: sono capacissima, e lavoro senza stancarmi mai.
-Magnifico, mi ci vuole proprio.
-Quando possiamo vederci, Michele?
-Non devi dare nell'occhio; sei rimasta vedova da due giorni, non puoi darti alla pazza gioia.
-Voglio solamente vederti per una decina di minuti, mica pensavo a quello.
-Abbiamo tutto il tempo che vogliamo.
-Ti telefono.
-Quando vuoi.
-Così fissiamo un appuntamento.
-OK! Per me va bene.
-Ciao, amore mio.
-Ciao, ciao, ciao.

Michele chiuse il cellulare e guardò nel vuoto, oltre la finestra.
-Col cazzo! -urlò.
Si alzò furioso e si affacciò alla finestra. Cinque piani di sotto la gente non si preoccupava del suo nuovo problema; camminavano tutti frettolosamente per via del freddo.
Ma sentila 'sta matta, pensò Michele rabbiosamente; il peperoncino rosso, lo jogging e tutte le sue stronzate e adesso questa: mi vuole sposare. Ha ragione il mio amico Enrico: non ti puoi mai fidare delle donne, prima o poi ti fregano.
Prese il cellulare e digitò il numero di Enrico a Düsseldorf.
-Stammi a sentire, Enrì: mandami una e-mail...no, meglio un telegramma...sì, mandami un telegramma...anzi, no: mandami un fax con la carta intestata della tua ditta. Scrivici che sono convocato d'urgenza in sede con l'intero staff del nord Italia per un summit.
-Chi hai messo incinta, Michè?
-Ti spiego dopo.
-È una cosa grave, vedo.
-Molto grave, Enrì. Ci incontriamo a Milano, o a Zurigo, oppure a Francoforte.
-A Düsseldorf, Michele. Io lavoro qui e non posso andarmene a spasso, tu invece puoi muoverti come un uccellino...un bell'uccellino peccaminoso.
-Ridi, ridi, Enrì, ma mandami subito 'sto fax.
-Non sarebbe meglio che te lo scrivessi in tedesco?
-Non la parla 'sta lingua.
-Allora in inglese.
-OK! Lo parla benissimo. Andata per l'inglese. Sei un amico che pensa a tutto tu.
-Mi ci hanno abituato gli amici come te. Allora arrivederci a presto.
-Arrivederci, Enrico.
Richiuse il cellulare e indossò il cappotto. Voleva andare al bar dell'angolo a bersi un cognacchino. Sentiva di esserselo meritato. Oltretutto la cassiera era una bomba.

venerdì 11 giugno 2010

SENZA TITOLO

Sono solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole, ma la sera è lontana; è appena mattina.
C'è tempo per peregrinare; c'è tempo per rivangare il passato; c'è tempo per soffrire nuovi dolori; per riesumare dolori antichi.
Sono solo nell'universo: trascino i miei vizi stanchi come le mie giornate, che da un po' abbandono dietro di me spalmandole su vecchi asfalti, su decrepiti prati, sotto cieli di ora in ora più senza colore, sotto un sole di ora in ora più senza calore.
Vorrei fermarmi; cambiare le scarpe; pettinare i capelli; forse farla finita per non più ascoltare, per non più vedere, per non più dire.
Niente ascoltare; niente vedere; niente dire.
Entrare nella sfera del vuoto, del senza luce, del senza odore, del senza sapore, del senza rumore.
La sfera del nulla.
Ma non è facile entrare: l'ingresso è nascosto; l'ingresso è vietato; l'ingresso è impenetrabile; l'ingresso è proibito.
Allora avanzare ancora, ancora un po'; trascinare i vizi antichi spalmandoli su nuovi asfalti, sui prati dei formicai ancora incontaminati dalla mia presenza; sotto le vette degli alberi che non danno più ombra, dai quali non cadranno più foglie; percorrendo strade che mai verranno lastricate, perché stanno soltanto nella mia fantasia.

Allora affanculo la civilizzazione;
affanculo la virtù;
affanculo l'onore;
affanculo la letizia;
affanculo quello che si conosce;
affanculo quello che si ignora -s'ignora, anche detto così può andare-;
affanculo il bello;
affanculo il buono;
affanculo il giusto;
affanculo la giustizia;
affanculo l'ingiustizia, che è sua sorella gemella omozigote;
affanculo tutto quello che riluce;
affanculo il fuoco che è acceso;
affanculo il fuoco che è spento;
affanculo la pioggia che cade e tutto bagna;
affanculo la siccità che tutto secca;
affanculo il pederasta;
affanculo il pedofilo;
affanculo il pais-paidòs, il bambino violato;
affanculo il bambino inviolato;
affanculo chi lo difende;
affanculo chi non lo offende;
affanculo la decenza;
affanculo l'ipocrisia di chi fa tutto per bene per ricevere gli applausi degli altri;
affanculo gli applausi;
affanculo gli altri, tutti gli altri, i buoni e i cattivi;
affanculo i cugini, le sorelle e le mogli;
affanculo i mariti;
affanculo i fratelli e gli amici dei fratelli;
affanculo le amiche delle sorelle;
affanculo su tutto e su tutti me, che mando affanculo il mondo.

Nel primo pomeriggio sono arrivato sulla sponda del fiume; sulla sponda del Vater Rhein, e lì compare un cigno, mentre io mi riposo e aspetto che il fiume esondi e inghiotta tutto.
Ma il cigno viene a riva con aria regale da cigno regale, e aspetta cibo da me, che non l'ho nemmeno per me stesso.
"Non sono il tuo Lohengrin -gli dico- hai mancato il bersaglio. Chi ci porti adesso sull'altra riva?"
Aspetto sempre che il fiume esondi, ma lui non aspetta più cibo da me. Comincia a spidocchiarsi, a massaggiarsi col becco dovunque arriva col suo lunghissimo collo snodabile.
Si spidocchia ancora quando me ne vado via.

Nel tardo pomeriggio sono arrivato alle prime case. Sotto i primissimi tetti passeggia un gatto soriano di razza purissima.
È bello come il mio bellissimo gatto di un tempo, di una stagione felice, ormai morta, non ne senti il fetore?
Una torma di cani, sbucati dal nulla, aggredisce il soriano di razza. Lui fa il gatto e schizza via, planando con quattro balzi su un tetto irraggiungibile per i cani.
Il soriano di razza siede sui posteriori e incomincia subito a leccarsi, a lavarsi le zampe, la pancia, le cosce, la coda; lava tutto con cura disinteressandosi dei cani ululanti e beffati sotto il suo tetto. Lava lo sporco e lava la paura che gli era rimasta attaccata.
Io sono gatto; adoro questo meraviglioso animale. Mai avrei potuto essere cane, attaccato alla coscia di un padrone, fedele a lui fino alla morte.
Sono gatto, il meraviglioso individualista; adesso più che mai, nella mia nuda solitudine.

Ma la sera ancora è lontana e sono costretto a scavare nel mio passato; ancora scavare per nulla trovare? Per poco trovare? Per cosa trovare?
Io ero un artista; io ero un pittore; io ero l'occhio e il braccio del mondo; io ero la mano del mondo.
-Questo è un albero, gente.
-Ma non è un albero quell'insieme di scarabocchi -Qualcuno protesta.
-D'accordo: tutti possono vedere un albero coi loro occhi, vederne il tronco, i rami, il fogliame; ma il pittore coglie attraverso quell'unica forma visibile a tutti anche forme, infinite forme, che altri non sono capaci di vedere, che solo lui scopre.
E allora Qualcuno ha scritto di recente:
-Mi piace la frase "l'artista vede ciò che altri non vedono" (mi dispiace Qualcuno, ma non è di Aldo Carpi; è di Paul Klee).
Però Qualcuno insiste:
-Ma direi di più: l'artista mostra agli altri, con folle generosità, ciò che loro non riescono a vedere se non attraverso i suoi occhi; l'artista è un ausilio alla nostra disabilità, sopperisce alla nostra cecità creativa.

Oh belle, bellissime parole che nessuno ha mai detto per me; nessuno ha mai sprecato il suo tempo per dirle a me. Anche adesso queste belle parole sono andate da tutt'altra parte.
E Qualcuno ha mancato il bersaglio.
È come se Qualcuno cercava i delfini e si è recato sui monti a cercare delfini, sperando -chissà- che il vento impetuoso li strappasse dal mare e li appendesse ai rami degli alberi montani.

Sono solo nell'universo a trascinare con me i miei vizi stanchi, e non incontro delfini né balene appese ai miei alberi, ai lati delle strade dei miei paesi.
Sono solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole e aspetto con ansia che scenda la sera.


martedì 8 giugno 2010

GIOVANNI DA CAPOTECASSIO ALLA RIBALTA

Mi sta addosso da una vita e non sono mai riuscito a guardarlo in faccia.
Quando avevo 15 anni e studiavo il medio evo europeo gli ho trovato il nome adatto a lui: Giovanni da Capotecassio.
Penso che lo abbia gradito, infatti non se ne è mai lamentato. Eppure non è uscito sul proscenio, ma se ne è rimasto tranquillamente nascosto, riparato, al sicuro.

Per me il desiderio di vederlo in faccia è diventato bisogno assoluto di guardarlo, ansia spasmodica di fissarlo da presso.
Devo farlo -mi sono detto- devo farlo adesso, prima che l'Alzheimer mi ghermisca.
Così mi sono fatto prestare da Chicco la sua telecamera digitale.
Mi sono chiuso nel buio del bagno, ho acceso il faretto e ho ben fissato la telecamera.
Ho dovuto acrobaticamente agire, questo è vero, ma ne valeva la pena.
Finito il filmato, ho fatto scorrere sul monitor del mio PC l'intera sequenza, fotogramma per fotogramma.
Così l'ho finalmente guardato negli occhi il mio ineffabile, nettatissimo, purissimo, altissimo e leggerissimo Giovanni da Capotecassio, il mio unico e amatissimo buco del culo.

Immagine dopo immagine mi appare in tutta la sua levigatezza e verginità, mollaccione e riposato, direi sorridente come una divinità indù.
Perché qualcosa di divino la contiene: la divinità dello smaltimento, dello sgravio, della liberazione.

Quanta blasfemia a suo carico:
vai a dar via il culo, dicono i nordici. E dopo come si fa?
Va a cagare, dicono in tanti. Ma della successiva pulizia nessuno aggiunge motto.
Vaffanculo, il lezioso omaggio dei meno imbranati (anche qualche leggiadra fanciulla, di tanto in tanto).

Me lo contemplo e penso: quanti oltraggi gratuiti ti vengono fatti ogni momento. Dovresti serrarti come un muro di cemento per chi così ti dileggia e disprezza, onde fargli capire una volta per tutte la tua immensa importanza.

Guarda che ti riguarda, immagine dopo immagine, mi par di scoprire qualcosa di anomalo...di inconsueto...di non previsto.
Torno indietro e riguardo tutti i fotogrammi, uno per uno.
Dio mio! Non ho più dubbi, purtroppo.
Giovanni da Capotecassio -il mio nobilissimo buco del culo- non sta al centro: è proditoriamente spostato a sinistra, appoggiato sulla chiappa mancina.
Come è potuto succedere?
Ho un buco del culo comunista?
Lo guardo meglio, e dato il suo colorito, direi che ho un buco del culo milanista, che per me sarebbe la disgrazia peggiore. D'altra parte -a pensarci bene- con quello che ci passa ogni giorno non poteva che diventare milanista.

Mi do un pugno sulla fronte: forse sono stato proprio io a spostarlo da quella parte, perché per pulirlo, lavarlo, grattarlo quando prude -e prude tanto (me rode er culo si dice a Roma)- insomma per fare ogni operazione a suo carico io uso sempre la mano destra.
Quindi l'ho spinto proprio io dall'altra parte, me infame!

Adesso m'è sorto un dubbio e vado subito a controllare...eh, sì accidenti!
Anche l'osso sacro -ovvero il coccige- gli è andato dietro e si è spostato a sinistra insieme a lui.
Che mi succede? Ho una deriva a sinistra?
Adesso che ha incominciato Giovanni da Capotecassio si tirerà dietro tutto il resto?
Posso solo sperare che l'Alzheimer arrivi prima.

domenica 6 giugno 2010

C'ERA UNA NAVE NEL PORTO

C'era una nave nel porto
di un mare lontano.
Il comandante in coperta sedeva:
acquistava viveri per
un lungo viaggio;
assoldava
uomini giovani e freschi
per equipaggio.
La visiera del berretto teneva
rovesciata all'indietro
a coprire la nuca;
i grigi peli della barba
tagliati male e arruffati
si intrecciavano ai lunghi capelli
che aveva sul collo, arricciati.

Un mezzo sigaro spento nell'angolo destro cacciato
della bocca piegata a metà verso il basso;
la voglia di chiuder bottega
e andare in pensione,
le scarpe sempre bagnate e il cazzo
in perenne erezione.

"Voi mi piacete, signore -mi disse-
e a me serve un Secondo",
mentre io tutto
scetticamente scrutavo
e intorno
lentamente mi guardavo.

"Ma come va questa vostra nave,
ché vele non vedo,
né ciminiere?" -gli chiesi
irritato.
"E dove sono le eliche,
e dove avete il timone,
e dove il ponte di comando?
del vostro comando, signore?"

"Questa nave va col pensiero:
col vostro, col mio,
col pensiero di Dio,
col pensiero di Satana;
questa nave è la vostra nave, Secondo."
Pacatamente rispose.

"Scendete sotto coperta, guardate,
cercate, osservate,
prendete possesso della
vostra nave, Secondo."

Tornai rapido sulla tolda
con cento domande:
"Dove sono stivati i viveri
che vi ho visto acquistare,
signore?
Dove sono gli uomini
che vi ho visto assoldare,
signore?
Dov'è il vostro equipaggio, signore?
Il nostro equipaggio dov'è?"

"Non ci occorrono viveri, Secondo,
non ci occorre equipaggio per il nostro viaggio;
confermate, Secondo?"

" Se voi sarete il comandante e io
il vostro Secondo,
se voi guiderete il vascello
su questo mare infinito,
io confermo, signore."

"Io sarò il vostro comandante se voi sarete
il Secondo
e noi guideremo il vascello
su questo mare infinito.
Confermate, Secondo?"

"Confermo, signore."

"L'ordine allora è:
ritirare l'ancora a bordo e salpare.
Confermate, Secondo?"

"Confermo, signore."

Fu ritirata l'ancora a bordo
e la nave salpò,
nel mare infinito.




sabato 5 giugno 2010

BOCCA CHIUSA : NIENTE DA DIRE

Oggi non ho niente da dire: testa vuota o palle piene, non lo so. Per questo tengo la bocca chiusa.
Mi prendo un buon libro e me lo leggo.
Non è un obbligo postare sul proprio blog.
Non è un obbligo provocare commenti, per poi dare risposte.
Non è un obbligo dare risposte.
Non è obbligatorio proprio fare niente.
Si fa se si ha voglia.
Ci si risente, fratelli e sorelle.
Tschüß

venerdì 4 giugno 2010

IO E TE SOLI NELL'UNIVERSO

E così oggi sono venuto da Te, la prima volta in questo paese dove vivo da più di trenta anni. Ma negli ultimi quaranta sono entrato solo tre volte nella Tua casa. La prima volta il primo di settembre del 1970. Non Ti ho nemmeno salutato; ho parlato mentalmente tutto il tempo con l'uomo che giaceva nella bara, posta ai piedi del tuo altare, mio padre.
Ancora il sette ottobre del 1988, quando ho parlato mentalmente tutto il tempo con mia madre, distesa anche lei in una bara.
L'ultima volta il 24 luglio di nove anni fa, quando nella bara c'era il mio unico fratello, il mio fratellone adorato. Un lunghissimo colloquio a bocca chiusa che ancora dura.
Sono entrato nella Tua casa solo per i funerali delle persone che amavo di più.
A Te nemmeno un saluto; un inchino; niente.
E adesso sono qui e non c'è per fortuna nessun funerale. Sono qui -ascoltami bene- per pregare, per chiedere un favore a Te.
Di nuovo pregare, dopo più di sessanta anni. Un record.
Eppure non provo vergogna e Ti affronto senza paura.

Innanzi tutto, come Ti devo chiamare?
Ihwé? Dio degli eserciti, che ha fatto un patto con un popolo che è appena un 30° dell'Umanità contro tutti gli altri popoli della terra?
Sei Tu che consenti al popolo eletto di opprimere un altro popolo da 62 anni, dimenticando che il mondo si è spaccato in due per proteggere i figli di Israele?
Non posso crederci. Tu non sei Ihwé.

Ti devo chiamare Allah, il Compassionevole, il Misericordioso?
In Tuo nome viene invocata la Guerra Santa.
Sei Tu che proteggi costoro?
Sei Tu che guidi le stragi?
Non posso crederci. Tu non sei Allah.

Ti devo chiamare Dio Onnipotente, Uno e Trino?
Ma io questa cosa qui non l'ho mai creduta.
In quanti siete lassù?
E in Tuo nome si sono susseguiti gli orrori delle Crociate, dell'Inquisizione, della Caccia alle streghe? Il sacrilegio del "Gott mit uns", con cui le orde delle SS marciarono e sterminarono?
Eri Tu che guidavi costoro?
Non posso crederci. Tu non sei Dio Onnipotente, Uno e Trino.

Non Ti chiamerò, allora, e Chiunque Tu sia mi ascolterai.
Che diritto ho io di rivolgermi a Te, mi chiedi?
Nessuno.
Ma che diritto hai Tu di rifiutare di ascoltarmi?
Così siamo pari: nessun diritto per entrambi.

Vuoi sapere cosa voglio?
Nulla per me, nulla per la mia famiglia, nulla per la mia gente.
Getta, Ti prego, uno sguardo su un ragazzo ventenne, che non ho mai incontrato, con cui non ho mai parlato, che ho solo visto in un paio di foto.
Ha un volto onesto, uno sguardo pulito e un ginocchio sfasciato.
Oggi è un giorno importante per lui: gli operano quel ginocchio.
Getta un solo sguardo sopra di lui e sopra sua madre che soffre.

Se penso a quanto avrebbe sofferto mia madre se io fossi stato malato o in pericolo, mi vengono le lacrime agli occhi.
Se penso a quanto ha sofferto la madre dei miei figli quando Federico era ricoverato in ospedale con una malformazione cardiaca, mi vengono i brividi come se avessi una febbre da cavallo.

Non abbandonare il cuore di una madre, Chiunque Tu sia, perché Tu sei l'Indivisibile, l'Incorruttibile, l'Unico, il Solo che la possa aiutare.

Qualcuno ha detto che la preghiera di un ateo vale il doppio.
Non credo che valga nel mio caso, perché io so che Tu sei Colui che È.
Non Colui che Esiste -bada bene- Colui che È.