lunedì 29 marzo 2010

PAGINE RACCATTATE DA TERRA DI UN ROMANZO NUOVO CON FINALE MONCO.La

-Lei mi ha svegliato, involontariamente si intende, ma adesso mi deve accompagnare, mi bisbiglia la donna e mi prende sottobraccio.
-Non ho niente in contrario, se però mi dicesse dove vuole che la accompagni, provo un tantino impacciato.
La donna è molto bella e ha un profumo penetrante, non buono ma penetrante.
-Vado alla stazione, ma non so dove sia.
-Proviamo a trovarla insieme, le dico tanto per prendere tempo.
-Lei intanto stia a sentire quello che le vuole dire il bambino.
È spuntato dal nulla, un bambino piccolissimo, strano, come un adulto nano e ha una voce insolita per un bambino, profonda.
-Lo dice anche il mio medico, lo psichiatra, mi fa il bambino, che ho la voce di uno grande
(ma io non ho detto niente)
e poi che penso da grande.
-Lo psichiatra? gli chiedo.
-Sì, risponde la donna; lui va dal suo psichiatra. È in cura da tempo, penso da quando che è nato, mi sussurra per non farsi sentire dal bambino.
-Tu portaci al treno, poi si vedrà, riprende a parlare il bambino. In effetti non so proprio cosa fare con quella lì.
-È tua madre? gli chiedo.
-Mai vista prima, ma lei sa parecchie cose di me, per questo mi irrita tanto, ma la cosa non ti riguarda, capito?
-Qui passa un treno, gli dico; guarda le rotaie per terra, se le seguiamo arriveremo in una stazione.
-È là in fondo, e mi indica una tettoia bassa e verde in mezzo a due palazzi.
-Mi sembra di esserci stato in questo posto, mormoro tra me e me.
-Tu non ci sei mai stato, mi risponde il bambino; ci sono passato tante volte io e sono io che penso di esserci già stato, non tu.
-E tu mi trasmetti il tuo pensiero, gli dico strizzandogli un occhio.
-No, sei tu che pensi per me, lo dice anche il mio medico, lo psichiatra; ma sono io che prendo le decisioni. Non puoi capirci, è difficile anche per lui.
-Per lo psichiatra?
-Me lo dice lui e io gli credo.
-Allora che faccio con questa donna? La porto sotto quella pensilina, cioè in quella stazione?
-Portacela, o sposala o accoppala, ma decidi in fretta, mi sto irritando.
-Avevi detto che le decisioni le prendi tu, mi pare.
-Distruggila.
-E come?
-Esattamente al contrario di come l'hai costruita.
-Io non ho costruito un bel niente: me la sono trovata accanto come per miracolo.
-E allora chiudi gli occhi, voltati indietro e riaprili.
-È un consiglio o è un ordine? Che cosa devo fare?
-Chiudi gli occhi, voltati indietro e riapri i tuoi occhi. Dai, ché mi sto irritando.
Eseguo un po' timoroso, non so dove andrò a finire. Quando riapro gli occhi è tutto esattamente come prima: la donna sta ancora attaccata al mio braccio e mi inonda col suo profumo penetrante; i binari sono sotto i nostri piedi e la pensilina verde è bene in visione davanti a noi, a qualche centinaio di metri.
-Non è successo niente, dico al bambino un po' irritato a mia volta.
-Questo sembra a te, ma se adesso la guardi meglio la potrai riconoscere.
La guardo e lei mi sembra addormentata: ha gli occhi chiusi, la testa leggermente spostata all'indietro in una posa lasciva, inspira aria con forza dilatando le narici. Dio mio, è vero! Ho già visto questo volto in una vecchia foto nascosta in un cassetto della scrivania di mio padre, che ho svuotato dopo la sua morte: è Fedora, la sua amante, la rivale di mia madre.
-Tutto qui è così diafano che quasi non ti vedo, mi dice lei.
-Potrei dire lo stesso, ma in ogni modo non ti perderei, con l'onda di profumo che emani.
-Visto come vi intendete voi due, mi fa il bambino.
-Io la subisco, ed è tutta colpa tua.
-Le ronzavi intorno da anni, non dare adesso la colpa a me.
-Quello che ronzava era mio padre, hai sbagliato bersaglio.
-Fa niente, adesso siete riuniti.
-Tu fai finta di non capire. A me questa femmina non interessa, non mi piace, e trovo il suo profumo insopportabile.
-Spiacente, ma da questo momento farete coppia fissa. Potrei anche andarmene, tanto quando ritorno vi ritroverò insieme.
-Non provare ad allontanarti o ti spacco quel brutto muso.
-Ti conviene sfogarti con lei e portarci alla stazione. Sei stato assunto per questo incarico, non per dare botte.
Non ho niente altro da dirgli, per cui afferro la donna sottobraccio e la trascino sul binario verso quella stramaledetta pensilina verde, che più camminiamo più sembra allontanarsi. Poco più avanti c'è un piazzale con alcune macchine parcheggiate. Ci deve essere un locale da qualche parte, perché sento odore di cucina, un odore molto carico di carni suine e di sughi rovinastomaco. C'è un locale infatti dietro un moro ad angolo, dal nome direi un ristorante croato: "Dubrovnik". Non mi va di entrare, ne uscirei appestando l'aria intorno a me di cipolla fritta e con il fegato ingrossato. La donna che mi sta al fianco volta la faccia dall'altra parte come disgustata da quell'odore intenso e il bambino sembra non avere fame, né sete.
-Guarda che meravigliosa decappottabile, mi dice il bambino correndo verso un coupé Mercedes 350 bianco, vecchio di una ventina d'anni.
-Vecchio? È un Old Mobil, un pezzo da museo; ce ne saranno appena un centinaio in tutto il mondo, e tu lo chiami vecchio.
Sembra adirato il piccolo e a quanto pare se ne intende molto più di me.
-Otto cilindri contrapposti "Boxer"; quattro carburatori doppi a trombetta il massimo per un motore aspirato, 328 cavalli. Lo stesso motore che montavano le Silber Pfeile quando vincevano tutti i Gran Premi in Formula Uno negli anni sessanta.
Prende la rincorsa e salta dentro il coupé, afferra lo sterzo e mima una serie di curve, dondolandosi sul sedile come un vecchio guidatore a 200 all'ora.
-Fammi un po' di posto, gli dico spingendolo di lato.
Adesso mimo anch'io una guida veloce su una strada di montagna. Intravedo una testa di donna dietro una finestra del ristorante e mi sembra che si agiti un po'. Deve essere la padrona dell'Old Mobil, e non mi sembra entusiasmarsi per le nostre corse.
-Sarà incazzata nera, dico al bambino che se la spassa da matti.
-Vedrai che fra un po' esce per romperci qualcosa sulla testa, mi risponde lui.
Ma non succede niente di quello che abbiamo previsto. La finestra del ristorante si apre e la signora, una bella donna sui cinquanta, si affaccia sorridente.
-Ti diverti ancora come quando eri un ragazzino, Federico? mi fa e mi manda un bacio soffiando sul palmo di una mano aperta.
-Sei passato di qui apposta perché sapevi che c'era lei, mi rimprovera Fedora, cercando di tirarmi fuori dalla macchina per un braccio.
Mi accorgo che è furiosa; è livida in faccia e le trema la voce.
-Guarda che io quella lì non l'avevo mai vista prima, le rispondo.
-Non avevi mai visto tua madre prima d'ora! Se vuoi mentire fallo con intelligenza, per favore.
-Così tua madre marciava in Mercedes d'annata, la interrompe il bambino.
-Giuro e spergiuro che quella donna l'ho vista affacciata alla finestra per la prima volta in vita mia.
-E noi ti crediamo e ti benediciamo, conclude il bambino.
-E tuo fratello dove lo hai lasciato? mi chiede Fedora.
-Dorme, non lo vedi? le rispondo indicandole il mio gemello che dorme su un fianco dentro la canadese.
-Perché tu non dormi? chiede il bambino.
-Io sto sognando, non te ne sei accorto? gli rispondo uscendo dall'Olde Mobil.



venerdì 26 marzo 2010

INCIPIT DI UN ROMANZO NUOVO CON FINALE MONCO.

"Una moltitudine immensa. Più della metà certamente soltanto curiosi e sfaccendati, ma quelli appostati sui gradini della chiesa erano fotografi e giornalisti: anche da morto era riuscito a farli accorrere, anche da morto li aveva adunati in doppia fila al suo passaggio.
E da morto finalmente uscì, portato a spalla da otto volontari, mentre dietro di loro altri già tendevano le braccia pronti a ricevere quell'onore.
La moltitudine proruppe in un fragoroso applauso, come ormai era consuetudine: si applaudiva tutti, santi e impostori, galantuomini e delinquenti. Applaudirono anche questo morto e tanti ne scandirono il nome.
Nel momento più sonoro e compatto delle acclamazioni una risata sghignazzante piovve dall'alto dei cieli rendendo la folla all'istante muta e sgomenta. Chi si azzardava a dileggiare un defunto? Cosa c'era di tanto comico in quella dolente cerimonia? E poi, chi aveva tutto quel fiato in gola da sovrastare gli applausi di tutti loro? E già qualcuno preso dallo sdegno cominciava a inveire, ma non ebbe il tempo di organizzare una protesta collettiva perché la bara come rapita da un turbine, strappata dalle spalle dei bravi volontari, venne risucchiata verso l'alto e lasciata a mezz'aria a saltare e ballare, sembrando a volte precipitare al suolo, per poi riprendere slancio balzando verso le nuvole come fosse il rocchetto di un gigantesco diabolo sospeso sopra una invisibile corda.
Nessuno osava fiatare nella piazza, e c'era chi era pronto a giurare che si trattasse del miracolo di un santo protettore e chi invece era certo che il diavolo volesse in quel modo mostrare di aver preso possesso dell'anima del morto.
D'un tratto il furioso ballonzolare cessò: la bara partì verso l'alto come se un mastodontico pugno la serrasse e poi fu scaraventata sulla facciata della chiesa. Andò in pezzi, precipitando sul sagrato. Restò lì, spalancata e vuota; vuota, sicuro, perché del morto non c'era più alcuna traccia: scomparso o forse mai esistito.
A quel punto respirai (respirò) con forza, perché l'incubo era finito: non andava mai oltre e io (e lui) mi svegliavo (si svegliava) sempre quando la bara si spiaccicava sulla facciata della chiesa, e sapevo (e sapeva) che era vuota pur non avendoci mai messo il naso dentro. Facevo (faceva) quel sogno da un paio di anni, quasi all'arrivo dell'alba e mi ero (si era) messo in testa che c'entrava qualcosa con la mia (la sua) morte, col mio (col suo) funerale. Forse qualcuno mi (lo) stava avvisando in quel modo che anche dopo morto mi (lo) aspettava tutta una serie di peripezie e di violenze, come se non bastassero quelle che subivo (subiva) in vita, si può dire ogni giorno."
(Non ho ancora deciso se la narrazione avverrà in prima oppure in terza persona).
Questo sogno/incubo fa A, fratello gemello di F a l'inizio della storia, la notte prima di dover abbandonare la casa e la intera proprietà paterna, perduta da entrambi in una partita di poker probabilmente truccata.
L'attempato genitore si trova in viaggio di nozze. Ha sposato in seconde nozze una ragazza 35 anni più giovane e se la vuole godere. Ha lasciato i due figli a tirare avanti l'azienda agricola e loro in poche ore hanno dilapidato una mole di danaro, perdendo alla fine l'azienda, i poderi, le scuderie e la villa.
Vivono piantando una tenda in un pezzetto di terreno ancora in loro possesso, dove c'è l'imbarcadero di una barca a vela, che è tutto quel che gli è rimasto, che si trova su un fiume.
Ogni sera tentano l'avventura e riescono a volte a riconquistare qualcosa per una notte, spostando poi la canadese di un centinaio di metri, quasi a segnare il nuovo confine, per poi la sera successiva riperdere tutto e qualcosa di più. Continuano questo estenuante avanti e indietro finché non perdono anche l'imbarcadero e sono costretti e risiedere nella barca, legata con una gomena.
Cominciano a pensare seriamente all'ipotesi di eliminare il padre per non venire diseredati e per entrare in possesso dei soldi che il vecchio tiene in banche che lui solo conosce. Fanno mille progetti per un delitto perfetto.
Oramai dovrebbe essere vicino il giorno del ritorno, ma il vecchio se la sta spassando.
Intanto hanno perduto anche la gomena e sono costretti a governare una barca, che la corrente tende a far muovere verso il largo.
Il vecchio non rientra.
Il tempo è trascorso e loro perdono anche la barca e sono costretti a pernottare all'addiaccio nella sponda opposta.
Una mattina la barca prende il largo e torna dopo molte ore, che è quasi sera.
Ne discendono i nuovi proprietari insieme alla giovanissima moglie del vecchio.
Forse il padre è morto, forse ritornerà, forse la bella figliola era d'accordo coi biscazzieri. Ma un giorno il vecchio torna e i biscazzieri lo accolgono con tutti gli onori.
Un barchino con un rematore e la ragazza attraversa il fiume fino ai due gemelli.
"Vostro padre vi farà sapere quando vi riceverà -è il messaggio della bella- dovrete aspettarlo qui."
E inizia l'attesa.
FINE.
Che ve ne pare?

martedì 23 marzo 2010

VITE, MORTI E DOLOROSE ISTORIE DI RASCOGNACCO SIGNORE DI ROCCAPISCIOLA

Sarchione nacque in un afoso pomeriggio estivo in mezzo alle zolle di un campo di grano, che sua madre insieme ad altre contadine stava mietendo. Il tempo di pulirlo e si rimise al lavoro. A casa gli diede la prima poppata. Suo padre disse: "Un altro maschio, gli dei non ci amano." Meglio le femmine a quei tempi, rendevano di più a venderle; i maschi se li prendevano gratis per farne combattenti e lui già ne aveva sette e quest'ultimo gli sembrava proprio brutto, con le gambette secche e tozze. "Questo non lo vogliono nemmeno come soldato -bofonchiò- sta a vedere che lo dobbiamo mantenere anche da grande." Così quando furono passati tre volte cinque inverni lo sbatterono fuori di casa. Suo padre dovette rincorrerlo minacciandolo con la roncola perché Sarchione capisse e si allontanasse.
Era grosso modo l'anno 1000 avanti Cristo, ma Sarchione non lo sapeva, perché non aveva mai contato anni in vita sua; anzi non aveva mai contato nulla.
Era ancora più brutto di quando era nato, piccolo, nero e pelosissimo come solo i greci dell'interno dell'Attica possono essere, ma lui non sapeva di essere un greco, anzi un attico, perché piccolo com'era poteva al massimo sembrare un mezzanino.
Girovagò sconsolatamente per l'arida Ellade, sconfinando forse, ma lui andava dove il vento gli portava odore di cucina. Offriva le sue braccia per un pezzo di pane, e poiché era molto vigoroso, c'era sempre qualcuno che in mezzo al pane gli ci metteva un pezzo di montone arrosto.
Era brutto come più brutto non si può, col naso adunco e le narici pelosissime, gli occhi cisposi ed i capelli irsuti sul cranio a pizzo. In compenso era fortissimo, parlava poco e lavorava assai.
Un giorno che vangava un campo arrivò una pattuglia di otto soldati in cerca di uomini giovani e forti. Il capo pattuglia aveva sentito della potenza dei muscoli di quel tipo taciturno; voleva però saggiarne la forza, perché si sa che la gente spesso esagera e quello lì, a guardarlo, non ispirava grande fiducia. Fece cenno ad uno dei suoi uomini: questi si avvicinò a Sarchione e l'apostrofò in malo modo: "Non te l'hanno insegnato che si comincia a vangare da destra e si va a sinistra, pezzo di somaro?"
Sarchione si guardò le mani pensando: lui non lo sapeva qual'era la destra. Sicuramente una delle due; che importava da dove aveva cominciato?
"Mi hai capito, somaro -insistette il soldato- ricomincia da capo dall'altra parte"
Sarchione gettò allora la vanga e gli saltò addosso; mica perché l'altro gli aveva dato del somaro, bensì perché gli voleva far ricominciare il lavoro. Quando gli altri sette intervennero per salvare il loro commilitone da una brutta fine, Sarchione diede mazzate a tutti in parti uguali mettendoli in fuga pesti e sanguinanti. Si rivolse allora al capo pattuglia, che era rimasto a guardare, pronto a dargliene ancora di più.
"Fermati! -gli intimò quello- Sei ingaggiato"
E poiché Sarchione non capiva e continuava ad avanzare, aggiunse:
"Otto dracme al mese, più un coscio di montone e un moggio di grano."
Ma Sarchione avanzava ancora per sentire meglio, dato che non aveva afferrato bene il concetto, e il capo pattuglia, che si vedeva stretto ad un muro e senza via di fuga, gridò mettendo le mani avanti alla faccia:
"Nove dracme al mese, due cosce di montone e due moggi di grano."
E finalmente Sarchione si fermò e sorrise, perché di soldi non capiva niente per cui otto o nove faceva lo stesso, ma di montoni e di grano poteva dare lezioni.
"Allora, affare fatto?", chiese il capo pattuglia ancora non troppo sicuro.
"Affare fatto." gli rispose Sarchione, e riprese la vanga.
"Guarda che da adesso sarai un soldato -gli disse il capo pattuglia- molla la vanga e vieni via con noi."
"Sei matto? La vanga è mia e me la tengo." gli rispose Sarchione e si diede a seguirlo, mentre gli altri si tenevano a debita distanza.
Strada facendo il capo pattuglia fece una specie di relazione sul lavoro che lo attendeva, adesso che stavano per iniziare una guerra importante.
"Il nostro Re si chiama Menelao. Si è fatto portar via la moglie da uno sbarbatello tutto mosse adesso bisogna andarcela di nuovo a prendere quella poco di buono."
"Sta lontano?" chiese Sarchione.
"Dall'altra parte del mare, e quella è gente tosta, dovremo faticare assai per riportarci a casa la nostra regina."
E fu così che dopo un breve periodo di esecitazioni con la spada e con la lancia Sarchione salpò verso Troia.
Cominciò subito a menar fendenti, a mozzar teste e braccia, divenne in breve il terrore dei Troiani, che appena vedevano spuntare quel nanerottolo con le gambe tozze e pelose se la davano a gambe finché erano in tempo.
Sarchione fu alla difesa delle navi, salvando da solo la nave del suo Re Menelao; fu tra i primi all'assalto alle porte Scee coprendosi di gloria. Fu lui ad uscire per primo dal cavallo di legno, altro che quel contaballe di Ulisse, che sortì fuori per ultimo, guardandosi intorno morto di paura.
Ma quando ci fu la spartizione del bottino a Sarchione toccò ben poco, tanto a lui bastavano un paio di cosce di montone e due moggi di grano.
Al ritorno verso la Grecia una tempesta rovesciò la loro nave, e poiché Sarchione non aveva mai imparato a nuotare in pochi attimi affogò.
Disceso nell'Ade, dovette aspettare a lungo prima che fosse il suo turno per essere ascoltato.
"Chi sei? -gli chiese uno dei guardiani- Da dove vieni? Che cosa hai fatto di importante?"
"Mi chiamo Sarchione, il greco; vengo da una terra lontana da qui; sono un eroe, basta che tu chieda qui intorno, mi conoscono tutti almeno di fama."
"Se sei un eroe allora un poeta avrà cantato le tue imprese." -disse il guardiano consultando la nuova edizione dell'Iliade di Omero.
Consulta e consulta, ma il nome di Sarchione non saltava fuori. Omero se l'era proprio dimenticato
"Ma come ha potuto? -gridò Sarchione quasi piangendo dalla rabbia- L'ho anche aiutato quel vecchio scemo a risalire dal porto delle navi fino alle mura di Ilio. Mi ha chiesto un sacco di cose, perché aveva sentito di me dire mirabilie, e adesso nemmeno mi nomina"
Era disperato, ma non c'era niente da fare.
"Se nessun poeta ha cantato le tue gesta non puoi entrare nell'Ade degli eroi, anzi non puoi entrare da nessuna parte" gli rispose il guardiano, che un po' di compassione la provava.
"Cosa posso fare?" chiese Sarchione.
"Una scappatoia ci sarebbe. Devi aspettare da questa parte dello Stige per un po' di tempo, senza farti vedere da Caronte. Poi ti rimando indietro col primo blocco e tu cerchi di trovarti il tuo poeta."
"Quanto dovrò aspettare?" chiese Sarchione.
"Un cinquecento anni, giorno più, giorno meno."
Sarchione mantenne disciplinatamente la consegna e riuscì a non farsi mai vedere da Caronte e dai suoi assistenti. Finché il guardiano non lo chiamò.
"Su da voi stanno per combattere una guerra importante, e poi ce n'è quasi una ogni anno. Datti da fare e trovati subito il tuo poeta."
Così si ritrovò tra le truppe di Milziade schierate nella piana di Maratona a menar fendenti sulle teste dei persiani. Tre ore dopo, a vittoria ormai certa, Milziade chiamò un guerriero che non aveva fatto un granché ma era veloce e leggero.
"Filippide -gli disse- vai ad annunciare ad Atene che abbiamo vinto. Portati questo bravo fante che così bene ha combattuto oggi, di cui mi sfugge il nome."
Sarchione iniziò a correre insieme a Filippide, che ad un certo punto non ce la faceva più.
"Dammi il tuo scudo e la tua lancia -gli disse Sarchione- porto tutto io."
Arrivarono distrutti nella piazza principale.
Sarchione gridò: "Kaírete, kaírete, nikómen" che voleva dire esultate abbiamo vinto. Poi crollò morto.
Anche Filippide arrivò esausto e pronunciò una sola parola: "Nenikékamen", che significava vincemmo e cadde anche lui morto. Ma Filippide era ateniese da sette generazioni e lo conoscevano tutti, mentre nessuno sapeva il nome di quel soldato brutto e peloso.
Chissà da dove viene questo qui, forse è pure malato. Così lo seppellirono subito e quando Erotodo, lo storico famoso, venne a chiedere come effettivamente era andata, gli ateniesi gli parlarono di Filippide, tanto Milziade nemmeno si ricordava quanti messaggeri aveva inviato.
Nell'Ade il guardiano fece un cazziatone a Sarchione.
"Sei un grosso stupido! Quasi quasi non ti rimando più indietro."
Ma visto che l'altro incominciava a piangere, cercò di rincuorarlo.
"Fra più di mille anni ti darò un'altra possibilità. Tieniti pronto, e stai attento a Caronte."
Passati più di mille anni lo chiamò a sé.
"Ascoltami bene, che potrebbe essere la volta buona oppure l'ultima volta: adesso torni sulla terra in Italia, dove c'è una brutta guerra. Avrai trecento anni di tempo. Dovrai cambiarti nome, perché greci ed ebrei non li può vedere nessuno. Ti chiamerai Rascognacco. Vai e che gli Dei abbiano cura di te. Ma cercati un poeta, che decanti le tue gesta. Non ritornare se non lo hai trovato, ma non dimenticare di trovarlo entro trecento anni, non un giorno di più"
Quando Sarchione/Rascognacco fu di nuovo sulla terra, vide che il mondo era cambiato. Tutti indossavano strane brache, come quelle che avevano indosso i Persiani a Maratona. Tutti andavano a cavallo con armature che dovevano pesare chissà quanto.
Mentre se ne stava col naso in aria vide arrivare un gruppo di cavalieri, che dovettero fermarsi perché i loro cavalli erano stremati. Proseguirono a piedi e Rascognazzo si unì a loro.
"Non hai un cavallo?"-gli chiese quello più bello e ben armato.
"No, sono arrivato adesso."
"Sei un contadino?"
"Sono un guerriero, valoroso e forte."
"Lo vedremo subito -disse il bel cavaliere- ecco gli inseguitori. Prendi la mia spada, per lo scudo dovrai arrangiarti."
Rascognacco ripensò alle porte Scee, allo Scamandrio, a Maratona e si fece avanti, incontro alla squadra di cavalieri nemici. Senza dar loro il tempo di organizzarsi, già Rascognacco troncava teste e braccia e gambe e rincorreva veloce i pochi superstiti che cercavano nella fuga la salvezza.
"In fé di Dio mai vidi niente di simile in vita mia -disse il cavaliere giovane e bello- tu ci salvasti la vita. Vieni vicino a me. Io sono Adelchi, figlio di Desiderio, Re dei Longobardi. Quelli che tu massacrasti e mettesti in fuga erano cavalieri Franchi di Carlo di Francia. Io voglio ricompensarti. Mettiti in ginocchio di fronte a me."
E mentre Rascognacco eseguiva il suo ordine, Adelchi si volse intorno e chiese ai suoi che luogo fosse quello dove si trovavano.
"Non sappiamo, mio signore" rispose uno di loro.
Si volse allora Adelchi e vide poco distante un giovane pastore che badava alle sue pecore.
"Ehi, tu, giovane! -gridò Adelchi- Come son queste terre nomate?"
Dovette ripetere tre volte la domanda perché il pastorello non capiva un acca.
"Roccapisciola" rispose alla fine col primo nome che gli era capitato sulla lingua per togliersi dai piedi quella gente pericolosa per lui ed il suo gregge.
"Benissimo! -disse Adelchi, toccando con la punta della spada entrambe le spalle di Rascognacco- Coi poteri del mio rango io ti nomino Cavaliere e Signore di Roccapisciola e ti tutte le terre che dall'alto della torre più alta del tuo castello riuscirai a vedere. Ti conviene costruirtelo subito il tuo castello, e di qui farai la guardia e caccerai indietro tutti i Franchi ed i futuri nemici della mia corona."
Disse. Risalì a cavallo insieme alla sua scolta e spronò velocemente verso il mare.
Ci mise due soli inverni Rascognacco a costruire il suo bel castello con otto torri merlate, e da subito si pose sulla torre più alta scrutando l'orizzonte da dove sarebbero prima o poi spuntati copiosamente i nemici.
Una notte vide avvicinarsi delle fiaccole, tante fiaccole, troppe fiaccole.
"I nemici! " Urlò svegliando i suoi sessantasei uomini, tutta gente da lui scelta ed addestrata.
Discese Rascognacco a cavallo del suo destriero alla testa della sua truppa; uscì dal ponte levatoio ed attese, come aveva visto fare a Milziade a Maratona.
Man mano che il nemico avanzava sentiva Rascognacco canti e nenie.
"Che razza di guerrieri son costoro?"
Quando furono vicini vide che stranamente invece che armature indossavano una veste marrone e un cappuccio fin sopra gli occhi
"Siamo frati, servi del Dio vero, nostro Signore Gesù Cristo. Andiamo a liberarne il sacro sepolcro dalle mani degli infedeli."
"Dove?" chiese Rascognacco.
"In Terra Santa, in Palestina"
"Trovasi al di là del mare?" chiese ancora Rascognacco,
"Si, mio signore; oltre il mare."
"Una nuova guerra di Troia" concluse Rascognacco.
"Dite, buon uomo di Dio, havvi forse un poeta a decantar le vostre gesta in codesta guerra di liberazione?"
"Certamente, si chiama Torquato Tasso, e si dice che già ne abbia scritta la metà anche se non è ancora incominciata, ma si sa è meglio mettersi un po' in anticipo."
"Vengo anche io, allora. Questa sará la mia guerra gloriosa"
Partì Rascognacco da solo, perché i suoi sessantasei dovevano badare al castello.
Appena arrivato in Terra Santa fu condotto dal capo, un certo Goffredo di Buglione.
"Chi sei tu?" chiese Goffredo.
"Rascognacco, signore di Roccapisciola"
"Quante lance hai portato con te?"
"La mia"
"Non hai neanche uno scudiero?"
"Per fare che?"
Goffredo perse subito interesse per quel cavaliere isolato, senza una squadra, senza uno scudiero.
La guerra andava male e gli uomini del Saracino erano migliori, e già qualcuno parlava di farla finita e di tornarsene a casa.
"Fatemi provare da solo" disse Rascognacco durante una riunione.
"Che ci costa? -rispose Goffredo-forse avrai fortuna e riporterai qui la pelle. Per quel che mi riguarda puoi andare, anche subito"
Rascognacco, bardò il suo destriero ed uscì dal campo, galoppando verso l'accampamento dei maomettani.
Appena le guardie ebbero dato l'allarme tutti i guerrieri si precipitarono a vedere quanti crociati arrivavano in sortita. Ne videro solamente uno, piccolo, nero e brutto come uno scarafone.
"È questa l'arma segreta dei cristiani?"
"Ci vogliono far crepare dalle risate"
Ma mentre si sganasciavano dal gran ridere Rascognacco sguainata la spada incombeva su di loro come Achille sui Troiani, solo che i maomettani non lo sapevano.
Se ne accorsero ben presto, perché quelli che stavano dietro e cercavano di vedere la fonte di tanto ridere, cominciarono ad accorgersi che quelle che volavano in alto non erano boccali o borracce, ma le teste dei loro commilitoni delle prime file e rapidamente una spada mulinante seminava morte e distruzione fra di loro.
Quando Rascognacco rientrò al campo cristiano fu portato in trionfo. Goffredo di Buglione gli concesse di stargli al fianco mentre entravano in Gerusalemme.
"Avrai un terzo dell'intero bottino. Sei ricco Rascognacco."
"Scusatemi -gli rispose Rascognacco- ho una cosa urgentissima da fare"
Si precipitò indietro per tornare alla tenda di Torquato Tasso, il cantore della guerra.
Trovò la tenda vuota.
"Dov'è il poeta?" chiese Rascognacco.
"È già partito per Roma, ma se ti affretti lo trovi al porto che imbarca le sue cose."
Di nuovo una corsa disperata. Al porto la nave stava salpando col poeta, che a poppa declamava i suoi versi.
"Fermati! Torna indietro. Io sono Rascognacco, l'eroe che ha distrutto da solo l'esercito del Saracino."
"Si, lo so, me lo hanno detto -rispose Torquato- ma io il testo l'ho già inviato alle stampe un mese fa."
"Un mese fa stavamo perdendo, cosa cavolo ci hai scritto?"
"Che Goffredo entrava da vincitore, e come hai visto è capitato proprio come avevo scritto io."
"E il mio nome?"
"Vedremo quel che potremo fare nella seconda edizione. Abbi fede e non perdere la speranza Rascognacco Signore di Pisciarola."
"No! Roccapisciola! Rascognacco, Signore di Roccapisciola."
Ma già l'alltro non gli dava più ascolto.
Rascognacco allora discese da cavallo e tentò di raggiungere a nuoto la nave, che ormai veleggiava lontana. Ma non aveva ancora imparato a nuotare e morì affogato, per la seconda volta.
"Che cavolo hai combinato in trecento anni? -gli chiese il guardiano dell'Ade- Niente! Sei proprio negato per questo lavoro. Quale poeta ha cantato le tue gesta? Quale?"
"Ero così vicino alla gloria eterna, ma quel vecchio stronzo ha preso il mare prima di tutti. Che cosa devo fare? Mi nascondo ancora qui?"
"Non posso tenerti, sei un crociato, devi andare nel Paradiso cristiano."
Ma appena lo videro gli angeli che stavano sulla porta gli chiesero:
"Come si chiama il vescovo che ti ha battezzato e cresimato?"
"Che vuol dire battezzato e cresimato? Che è sta roba?"
"Da noi non entri. Prova dal Paradiso maomettano."
Da lontano gli fecero segno di andarsene.
"Tu sei quel delinquente che in un giorno ce ne hai mandati giù più di mille. Ci hai provocato un tale ingorgo che non sapevamo come uscirne fuori. Vattene lontano di qui."
Se ne tornò mogio mogio all'ingresso dell'Ade il povero Rascognacco.
"Lasciami qui per altri trecento anni, poi ci riprovo."
"Adesso hanno fatto un posto nuovo per quelli come te. Si chiama Limbo. Puoi starci tutto il tempo che vuoi. Se hai fortuna ti rimanderanno tra mille anni. Così non dovrai trovarti un poeta, visto che non ci azzecchi mai."
"Cosa dovrò cercarmi?"
"Brutto come sei dovrai solo aspettare un po' e qualcuno ti manderá in un reality."
"Che roba è questa?"
"Televisione, ma non ti preoccupare, prima o poi ci riesci a trovarlo qualcuno che esalterá le tue doti e le tue virtù. Resta come sei. Alla prossima fai centro"




lunedì 22 marzo 2010

LA ESTREMA FRAGILITÀ, DUTTILITÀ, COMPLESSITÀ. VORACITÀ, FUGACITÀ E TUTTE LE ITÀ POSSIBILI DEL QUATTRO DI PICCHE

-Manfred! Non hai ancora annaffiato i fiori sul balcone?
Il signor Blog si scosse dal torpore, rinfilò le ciabatte e uscì a precipizio dalla sua stanza di lavoro, come la chiamava lui, la stanza dei sogni cretini e inutili come la chiamava sua moglie Luise. Inciampò subito sul tappeto nuovo prendendo la scorciatoia per arrivare al bagno, dove era già pronto l'annaffiatoio da riempire d'acqua.
Tornato indietro reggendo l'annaffiatoio con due mani, perché non cadesse nemmeno una goccia sul pavimento, passò davanti alla cospicua mole di Luise. Sentì il suo sguardo frugargli tra le rughe della faccia alla ricerca delle tracce dell'ultimo suo sogno. Il signor Blog fece alla moglie allora un abbozzo di sorriso.
-Le gardenie le faccio io. Tuonò lei e gli volse le spalle. Aveva visto abbastanza. Quell'allocco era di nuovo con le sue sporche fantasticherie sotto le sottane di chissà chi.
Un quattro di picche, pensò; niente altro che un quattro di picche.
Quante volte gliel'aveva sbattuta in faccia quella storia? Un'infinità di occasioni le aveva dato suo marito, che poi aveva sempre il coraggio di chiederle cosa dovesse significare quella sua teoria, che certi uomini sono solamente dei quattro di picche.
La carta più inutile del mazzo, la scartina per eccellenza.
"Conosci la regola del come quando fuori piove? -gli aveva chiesto una volta, che era stufa di vederselo davanti col naso all'insù e la bocca aperta- Le picche sono le ultime nella gerarchia dei semi. Il quattro è la scartina che non piglia mai, nemmeno buona a traversone in mano ad un incapace come te". Come a dire, in mano mia frutterebbe qualcosa.
I quattro di picche sono tutte quelle mezze pugnette che non ce la faranno mai nella vita a combinare un qualche cosa di utile, pensò Luise; solo a sognare di diventare un asso di cuori o almeno un asso di quadri, un fenomeno con le donne oppure un fenomeno a far denari.
Guardò Manfred intento a versare acqua sulle piante e trattenne a stento una risata.
Tu resterai per tutta la vita un quattro di picche, si disse rientrando in cucina.
Versava l'acqua cercando di non affogare le piante; intanto correva dietro alle sue fantasticherie. Ma quale asso di cuori, ma quale asso di quadri, Manfred rincorreva nell'Universo le sue vite trascorse. Ci credeva lui nella reincarnazione e pensava che quella volta gli doveva essere andata proprio buca, perché era nato piccolo, grassottello e non troppo intelligente, non quanto avrebbe preteso lui. Ci sono delle reincarnazioni intermedie, pensava lasciando cadere le ultime gocce d'acqua; come quando durante una corsa ci si deve fermare per riprendere fiato. Questa volta era toccato a lui, ma poteva solo sperare nella prossima, perché ci sarebbe stata una prossima, di questo era sicuro.
Gli sembrò che un po' della sua acqua fosse andata sulla loggia del piano di sotto. Non gli andava proprio di litigare con quella gente presuntuosa e si sporse un pochino per controllare. Gli sembrò che tutto fosse a posto sulla loggia sottostante. Volle controllare meglio e si sporse ancora di più. Un po' troppo sicuramente, perché perdette l'equilibrio e precipitò verso il basso: un bel volo dal quarto piano.
Dopo un po' si ritrovò seduto sopra un esile ramo di un albero della loro strada. Vedeva gente che si dava da fare intorno ad un corpo disteso sull'asfalto, il suo corpo. Si rese conto in quel momento che l'esile ramo che lo sosteneva nemmeno si stava flettendo. Capì di essere morto, ma non se ne rammaricò affatto. Pronto per un'altra reincarnazione, pensò; e speriamo che questa volta mi vada meglio.
Udì un richiamo ed incontrò tanti come lui che si muovevano nella direzione del richiamo. Sorrideva a tutti e tutti gli sorridevano. Finché non si trovarono in un grandissimo prato, senza vento, senza rumori. Si accorse allora Manfred che tutti gli altri gli somigliavano come gocce d'acqua. Che strano, pensò; sembriamo tutti gemelli. Anche gli altri stavano facendo la sua stessa osservazione, ed erano tutti molto sorpresi.
Colui che aveva mandato il richiamo, e che stava al centro del grande prato, era anche lui simile a loro in altezza e corporatura. Perfino nel taglio dei capelli. Una totale uniformità.
-Sì, disse quell'essere; questo è il raduno dei quattro di picche. Rallegratevi gente perché siete i più facilmente sistemabili nel nostro grande ostello e quelli che per primi tornerete a nuova vita.
Tutti si congratularono gli uni con gli altri, dandosi vigorose pacche sulle spalle.
-Mi scusi, chiese Manfred a quel signore dall'aria mansueta e capace; che carta avremo nella prossima vita?
-Il cinque di picche, amico mio.
-Solo il cinque? Disse Manfred un po' deluso. Speravo in qualcosa di meglio.
-La strada per la perfezione è molto lunga, ed è meglio percorrerla a passettini, rispose il signore dall'aria mansueta con voce calma e suadente.
Si girò ed iniziò a camminare verso un punto dell'orizzonte.
Tutti i quattro di picche, dopo un attimo di incertezza, lo seguirono convinti.

venerdì 19 marzo 2010

DE VERA AMICITIA

Innanzi tutto c'è da seguire l'iter del pensiero, che questa volta è importante. Questa mattina alle 5,42 ero in piedi che giravo per casa. Pensavo ad una persona ed alle cose che mi aveva detto. Sono entrato in bagno, perché lì c'è lo specchio della regina di Biancaneve. Io chiudo la porta, accendo la luce interna dello specchio, appoggio i gomiti sulla mensola e fisso gli occhi del volto scavato che mi fronteggia. Di solito gli faccio un paio di smorfie prima di iniziare a parlare dei massimi sistemi. Questa mattina ho cercato nel fondo di quegli occhi se potevo trovare la strada per penetrare dentro...dentro cosa? Dentro dove? Nella sua anima? Nel suo cervello? Dentro, e basta. Dopo un po' vedevo solamente una strada, lungo un campo di calcio. Ma la strada era vuota.
Pensa che bello che sarebbe, mi sono detto, se non ci fossero campi di calcio da undici contro undici, ma infiniti chilometri di prati per giocare tutti contro tutti, diecimila, centomila, contro diecimila, contro centomila.
Ci sono stati, ho pensato, si chiamavano campi di battaglia e i combattenti si giocavano la vita e chi la perdeva la lasciava lì sopra i prati, abbandonata sopra fiori che subito appassivano, sopra erba che subito diventava marcia.
Ma no, niente campi infiniti; solo terra, terra, terra; qualche albero; qualche casolare e poi terra, terra, terra. Dove ho già visto questo paesaggio? Tanti anni fa, in Sicilia ed era una piana sconsolata senza ombra di erba, senza ombra di fiori, senza ombra e basta perché non c'era nemmeno un alberello nano; solo terra arsa dal sole.
Pensa che bello che sarebbe, mi sono ancora detto, se la nostra Italia fosse capovolta a testa in giù, o piedi in su, fa lo stesso. Pensa se al posto della Lombardia ci fosse la Sicilia. Che bello! Te lo immagini Formigoni che si incazza: "Mizzeca picciotti, non capite una minchia! Che avete combenato co sta lista del partito nostro? Aaah!"
E la Moratti che si incazza con gli assessori: "Assessore, pemmette due parole? Anche quattro, sindaco. Allora cunnuto, desonorato, sugaminchia e garruso!"
Che bellezza! Dal Piemonte alla Lombardia, al Veneto e al Friuli Venezia Giulia un'unica terra arsa e desolata, abitata dall'operoso popolo siculo. E la lega Nord sarebbe sicuramente più umana coi disgraziati che vengono a cercarsi un pezzo di pane.
E dove le manderemmo le nostre belle piemontesine di Torino, Chivasso e Pinerolo? E le nostre lombarde di Milano, Como e Lecco? Rimarrebbero dove sono a domandarsi se la vita darà mai loro una ricompensa alle fatiche per il loro mestiere di vivere. Quando arriverebbe sta ricompensa, prima o dopo essere morti? In questa vita oppure in una prossima un pochetto migliore, si spera?
Qui mi sono cominciato a far venire pensieri un poco astratti. Infatti erano oramai quasi le sei del mattino, quando tutti in questa casa, nell'appartamento di sopra al nostro e in quello di sotto, ancora dormivano beati, e io mi ponevo quesiti davanti alla faccia riflessa nello specchio.
Qualcuno mi ha detto qualcosa, perché non avevo ben capito...ma cosa mi ha detto...ma chi era costui, o costei? Cosa non avevo capito, o meglio cosa avevo detto, dimenticando qualcosa di importante? C'entra la vita che finisce? Sì, c'entra ed è la mia che finisce o potrebbe finire, o avrebbe potuto finire. Ecco così va meglio, perché avrebbe potuto finire. Adesso ci sono arrivato: ho scritto un post qualche giorno fa, dove ho raccontato che all'inizio dell'anno scorso avevo ricevuto in regalo, non importa da chi, un bel cartello color rosso veneziano con sopra in caratteri dorati la scritta "2009 das wird main Jahr", e cioè che il 2009 sarebbe stato il mio anno.
Grazie, ho detto, che gentile! L'avevo letto da qualche parte che i nati nell'acquario avrebbero avuto un anno favoloso per via di un passaggio del sole nel loro segno. Io sono un acquario, segno d'aria, segno dello spirito. E già mi vedo sommerso dai soldoni che piovono abbondanti dal cielo su di me e mi basta mettermi sopra un piatto di una bilancia come l'Aga Khan perché sull'altro piatto piovano monete d'oro, e gioielli, e diamanti e perle sopraffine per i miei 85 chili, che non è mica poco, e quindi non mi devo mettere all'ingrasso. Oro e gioielli a palate avrei dovuto guadagnare. E poi raggiungere almeno la quinta o sesta edizione del mio libro, sommerso dalle recensioni tutte bellissime e glorificanti.
Dal primo di gennaio dello scorso anno mi sono messo in attesa del boom!
Ma i mesi passavano e le palate di oro e diamanti non arrivavano. Ogni anno porta dodici mesi, mi dicevo, sarà sicuramente più avanti. Ma verso ottobre, visto che non arrivavano palate di soldi, ma cominciavano ad arrivare palate di merda, ho cominciato a pensare sull'effettivo significato di quel cartello. Cosa diavolo intende questo quando mi dice che il 2009 sará il mio anno? Non è per caso che voglia intendere che questo sarà il numero posto a destra sulla mia lapide, e cioè V.I., nome scritto in stampatello a tutte maiuscole, poi a sinistra 1934 e a destra appunto 2009?
Cacchio! Che giorno è oggi? QUANTO MANCA? Ed ogni alba stringere le chiappe aspettando l'alba successiva, fino al 31 dicembre, quando questa ossessione è finita?
Ho avuto la sciocca idea di parlare di questa mia paura.
Una mia amica mi ha redarguito: come osi dire che non è successo niente?
Perbacco! Ha ragione lei.
Allora diciamolo in chiaro. È stato un grande anno per me quello che è appena finito: posso dire di essere un uomo fortunato, infatti ho trovato non una sola amica ma due, più fortunato di così. E per chi non crede che possa esistere una vera amicizia tra un uomo e una donna, sempre per via di quella piccola differenza come la chiamano i francesi, che poi in fondo scava scava finisce sempre per emergere e guastare ogni amicizia, o sublimarla a seconda dei punti di vista, io risponderò che provino a trovare due donne così diverse e pur così simili nei loro sentimenti e nella capacità di esternarli; due donne che non si sono mai conosciute né mai incontrate, che forse mai si incontreranno, ma che hanno il dono di far sentire un uomo mai solo in questo pezzetto di universo e poi, forse, capiranno.
Una è senz'altro un'amica figlia, l'altra no, anche se per età potrebbe essermi figlia. Amica sorella allora? Nemmeno. Allora? Amica e basta.
Come potevo pensare che il 2009 fosse passato invano? Se è vero che chi trova un amico trova un tesoro, chi trova un'amica trova una serie completa di tesori. Io ne ho trovate due. Chi è più fortunato di me?

mercoledì 17 marzo 2010

DECALOGO DEL MARITO PRUDENTE CHE VUOLE VIVERE A LUNGO TRANQUILLAMENTE

Credete di conoscere bene la donna che avete sposato? Sicuro? Sicuro, sicuro? Siete già passati indenni e coi timpani sani attraverso una giornata delle sue migliori paturnie? Se sì, siete vaccinati, altrimenti tenete presente questo decalogo.
-Come accorgersi che la tempesta si addensa impietosa? Se uscendo dal bagno non ancheggia voluttuosamente; ha i piedi infilati nelle ciabatte più vecchie, coi calzini tirati quasi fin sotto i calcagni; ha i bigodini storti ancora arrampicati sulla testa; non respira ma sbuffa dalle narici innaturalmente dilatate; se poi sbatte tutte le porte che apre allora cominciate col fare tre passi veloci e silenziosi verso l'angolo più buio del vostro appartamento.
-Togliete dal fuoco la cuccuma del caffè e versatene il contenuto nel water -meglio sarebbe sulle sue predilette rose se siete sicuri che la terra assorba bene e prontamente-; sciacquate la cuccuma e fatela sparire dalla vista. Tenete presente che il caffè bollente sul muso fa un male da cani, quindi affrettatevi.
-Muovetevi lentamente, spostando la minima quantità di aria possibile. Non usate deodorante, né dopobarba né profumo che le segnalino la vostra presenza, dandole l'esatta ubicazione del posto dove avete nascosto le vostre chiappe.
-Camminate sopra tutto ciò che è soffice. I tappetti sono ottimi perché attutiscono il rumore. Oppure su tutto ciò che è maledettamente duro, tipo mattonelle di maiolica e affini. In questo caso toglietevi le scarpe. Non lo fate se vi puzzano i piedi: il suo fiuto da cane da caccia vi localizzerebbe all'istante.
-Evitate assolutamente il parquet: c'è sempre una lastrina che stride o scrocchia. Lo scrocchio sarebbe letale e pernicioso.
-Non usate il bagno per nessuna ragione. Farete la pipì in ufficio o nel parcheggio dove avete lasciato l'auto. Capite adesso quanto inumanamente avete deprecato gli altri inquilini dello stabile che pisciavano sul muro? La prossima volta direte, senza salutare ché non serve, "Anche lei ragioniere? Anche lei dottore?" Vi risponderanno che è in arrivo la primavera.
-Se mentre state uscendo dal vostro appartamento udite un ruggito altissimo provenire dal salotto tranquillizzatevi: nessuna tigre è evasa da un circo o dal giardino zoologico -che poi sarebbe il male minore-; tranquilli, non è così. È la vostra dolce sposa che esprime il suo sdegno per il VOSTRO telecomando SKY, dove lei non ha mai capito una mazza a cosa servano quei tasti multicolore.
"E adesso come va via sto Menu?"
-Non commettete l'imprudenza di andarla ad aiutare: sareste in immediato pericolo, il telecomando volante a bassa quota fa un male cane.
-Non aprite bocca. Non ditele "Premi ESCI". Uscite voi di gran carriera, e sperate che se lo ingozzi il telecomando. Un telecomando Sky deambulante nelle budella le procurerebbe molto fastidio.
-Correte più veloci che potete lasciando ballonzolare trippa e sotto trippa. Avete pochi secondi per mettervi in salvo.
Alla seconda o terza occasione vi sarete fatti più scaltri e avrete più frecce al vostro arco. È la prima che è pericolosa. Tanti giovani valorosi e di buone speranze sono caduti alla loro prima. La prima volta che la diletta compagna della loro vita si è mostrata nuda e cruda come la Verità.
E la verità purtroppo è: vostra moglie non è quel bocconcino prelibato che pensavate voi.
Vostra moglie è questa.
Auguri ragazzi.

lunedì 15 marzo 2010

RIPENSARCI OPPURE PARLARE COME CESARE DI FRONTE AL RUBICONE?

Perché in effetti gli storici buonisti hanno falsificato il pensiero del grande Julius: è tutto un cavolo che lui abbia pronunciato quella frase con l'intenzione di dire ai suoi legionari "Ragazzi, mi dispiace, ma vi dovrete fare un culo così perché io stanotte ho dormito male". No, certamente no. Julius Caesar stava giocando a dadi con uno dei suoi generali, a cavallo loro due, mentre i legionari marciavano compatti, così per passare il tempo, velocemente. Per questo era così veloce e sobrio nello scrivere i suoi Commentari, "Veni, vidi, vici" e via veloce, facciamoci un'altra partitina, che poi gli storici lecchini mica ce lo venivano a raccontare quale fosse la posta in palio. Ce la dobbiamo solamente immaginare.
Così quella mattina, proprio sulla sponda di quel fiumiciattolo, un lancio fatto male, magari uno scarto del cavallo e, plaff!, un dado va a finire nell'acqua e mo questo chi lo trova più, ché già allora quel rigagnolo d'acqua era fetido e lercio come appare oggi. "Tira fuori gli altri dadi" imperativamente con uno sguardo cattivissimo al suo generale Gaius Tirolus Quintus.
"Erano gli ultimi due, mio Dux"
"Con uno solo non si può giocare" replica incazzatissimo Julius Caesar.
"Lo so, ma non si può cambiare il corso della storia"
E questo che cavolo c'entra? Tranquilli, deve essere la solita intrusione dello storico lecchino.
"E allora che s'ha da fare?" strilla Julius Caesar sempre più incazzato.
"Li fabbricano a Roma, mio Dux"
"E dillo subito! Andiamo a Roma, allora"
E alla truppa non troppo convinta gridò il grande Caesar la storica frase:
"Lo avete visto, no? Alea iacta est, ma è caduto nell'acqua. Dunque zitti e camminate"
E iniziò il guado del Rubicone borbottando sotto voce "Ma che razza di generali del cavolo, mi tocca fare tutto da solo"
Ma non troppo sottovoce, perché uno scriba gallo sentì le sue parole e le trascrisse in francese antico. Frase che Napoleone usò poi a Marengo alle cinque della sera, quando la battaglia gli sembrava persa.
Mi è venuto tutto in mente questa mattina appena acceso il PC.
Mi ero alzato arzuto e pettorillo...ops, scusate...arzillo e pettoruto, malgrado un mezzo raffreddore, e volevo scrivere una mail a Fuma, perché di mattina ho i migliori pensieri, quelli buoni, così non avrei corso il rischio di adirarla; ma, una volta seduto qui dove sono, forse per prendere un po' di tempo e darmi l'ispirazione per un buon incipit -che in certi casi riesce a condizionare lo spirito e predisporlo a nobilissimi intenti- giocherellando con la mouse ho cliccato una sigla sul deskop e mi è venuto in chiaro il testo del mio terzo romanzo, quello che ancora non ho presentato a nessun editore perché voglio aspettare il risultato del secondo.
Il titolo mi piace, non dice molto ma invoglia. Senti un po' qui: "Rimasti a Suarez". È tutto.
Beh, a me piace. Il fatto è che si tratta di un testo abbastanza complicato nella sua semplicità, ed io allora preferisco tenermelo al calduccio e non esporlo alle intemperie, perché se qualche addetto di una Casa Editrice lo leggesse appena alzato al mattino dopo una nottata poco felice potrebbe rimanergli di traverso e buttarlo nel cestino dopo una quarantina di pagine.
Ho cominciato a rileggere qua e là e mi sono venuti dei dubbi, quei dubbi che Giovanni Pascoli diceva gli venissero sempre quando rileggeva cose che aveva scritto qualche tempo prima.
Dopo averne letto una cinquantina di pagine i miei dubbi consistevano in un dilemma, duplice dilemma: lo butto oppure lo tengo e se lo tengo lo lascio così com'è oppure lo riscrivo?
Riscriverlo? Sei matto? Quattro mesi di mazzo dalla mattina alle sei alle dieci e di nuovo tre o quattro ore nel pomeriggio, ogni giorno senza pausa neanche alla domenica. Non se ne parla proprio.
Poi ho ripreso a leggere il manoscritto verso il finale e mi son detto: "lascialo stare così com'è".
Bisogna credere nelle cose che si fanno, quando sono fatte con grande impegno. "Credere, credere, credere. Resistere, resistere, resistere" dice il mio personaggio principale. Ci deve essere un motivo, ma forse lui sapeva che al suo autore sarebbe venuto il mal di pancia quando lo avrebbe riletto.
Resta così.
L'ho scritto lo scorso anno, mentre sopra la mia scrivania campeggiava un cartello con sopra scritto a lettere dorate "2009, das wird mein Jahr" cioè il 2009 sarà il mio anno.
Avrà pur voluto significare qualcosa, anche se verso la fine dell'anno, visto che non succedeva niente, mi è venuta la paura che volesse indicare qualcosa di sinistro, ferale e funereo: questo sarà il tuo anno, amico; lo scriveranno in grande sulla tua pietra tombale.
Oddio! Quando finisce 'st'anno?
Ho tirato un sospirone di sollievo a capodanno, subito dopo la mezzanotte.

giovedì 11 marzo 2010

MANUALE DI COMPORTAMENTO AI PASSAGGI PEDONALI CON E SENZA SEMAFORO

Due giorni fà me la sono fatta a fette per circa undici chilometri e mezzo, metro più metro meno ed ho potuto fare delle constatazioni che prima, da automobilista incallito e protervo, non avevo mai avuto occasione di fare. C'è gente che cammina leggendo il giornale, mangiando un panino, chiacchierando allegramente col vicino; c'è gente che guida col telefonino attaccato all'orecchio, sollevando la spalla destra (perché poi sempre quella? Dove sono finiti quei bei mancini di una volta?), e naturalmente anche il braccio destro e l'avambraccio destro e la mano destra, che rimane a mezz'aria a dondolare invece di stare dove dovrebbe, e cioè sul volante; altri scherzano con la bella ragazza che hanno al fianco fissando lei con occhi concupiscenti piuttosto che la strada, senz'altro molto meno attrattiva.
Mi è venuto in mente di scrivere un veloce prontuario di comportamento per pedoni ed automobilisti, si capisce. Qui vado ad anticipare solo l'inizio, e speriamo che piaccia ad una amica mia che quando legge gli incipit scritti bene è tutta contenta.
Scriverò in caratteri normali per i signori a piedi, mentre per gli automobilisti userò il corsivo e non a caso, vista la velocità con cui passano sulle strisce pedonali. Come terreno di scontro scelgo la Kaiser Strasse, dove i passaggi pedonali con e senza semaforo abbondano e dove le auto sfrecciano come a Monza durante le prove del Gran Premio; e naturalmente il Piazzale di fronte al "Kühler Krug", la più famosa birreria cittadina il cui nome significa "Boccale ghiacciato", piazzale largo quanto due campi di calcio, che, tra incroci e svincoli da e per la Tangenziale veloce, lascia centinaia di auto al minuto girare da destra a sinistra da sotto a sopra e viceversa, bello da vedere standosene tranquillamente seduto sulla terrazza del locale sorseggiando un boccale di birra freddissima, per l'appunto.
-I signori viaggiatori a piedi, sono pregati di mangiare i loro panini imbottiti, continuando a tenere d'occhio la strada a destra e a sinistra. Nel caso si trovino sulla Kaiser Strasse di fronte ad un passaggio pedonale senza semaforo devono vedere almeno 300 metri di strada libera prima di azzardare la traversata dei sei o sette metri di strada. È consigliata la corsetta rapida senza tentennamenti né ripensamenti. Una volta deciso, buttarsi in picchiata fino all'altra sponda.
-I guidatori di auto, che si trovassero in quel momento a passare, sono vivamente pregati di non affondare il piede sull'acceleratore, perché non tutte le vecchiette sono in grado di tirar via il culo prima dell'arrivo dello spigolo della vostra auto. Parecchie rimangono inchiodate al suolo senza più nemmeno respirare. Pensino lor signori a tutte le peripezie burocratiche in caso di investimento di uno di questi esseri immobilizzati e traggano via il piede dal gas.
-I signori pedoni che si trovino tra le sette del mattino e le venti della sera sul piazzale prospiciente il "Kühler Krug", sia che abbiano fatto il pieno di birra, sia che siano ancora sobri tengano presente, che: qualunque sia la loro direzione di marcia, per o da la Zeppelin Strasse, per o da la York Strasse, per o da la Krieg Strasse, oppure -nel caso abbiano bevuto più di cinque boccali di Moninger- vogliano scendere lungo la Tangenziale sud in uno dei due sensi, debbono tener conto che il semaforo col pupazzetto verde che cammina verso sinistra indica via libera, quello col pupazzetto rosso a gambe larghe impedisce di attraversare l'incrocio, perché significa che qualcun altro -leggi automobilista selvaggio- ha in quel momento il verde e piomberà come una scheggia di lì a qualche secondo. Tenga altresì presente -nel caso insistesse a leggere il suo giornale- che il segnale acustico non dà indicazioni solamente ai non vedenti e quindi io ci vedo e chi se ne frega, ma segnala a non vedenti e leggenti che la strada è libera. Attenzione che non dura in eterno, ma di colpo smette.
I signori automobilisti che nello stesso tempo si trovassero ai blocchi di partenza di una delle direttrici, non importa quale, tengano conto che, una volta avuta via libera, troverebbero alcuni resti di umanità non ancora saldamente sopra un'isola pedonale. Considerino che una sola macchina che viaggi a novanta all'ora sposta una massa d'aria sufficiente ad attirare una "Bierbauch", una panza piena di birra, nel suo risucchio, cioè a dire di fronte al muso della macchina che la segue, e tengano conto dell'imbarazzo del guidatore al pensiero dei grattacapi da affrontare per sapere quale assicurazione pagherebbe i danni. Dal momento che non è bello mettere colleghi nei guai, rallentino un pochettino passando all'incrocio.
Come incipit può bastare, sperando che venga il sole, che mette in tutti tanta allegria.

mercoledì 10 marzo 2010

POCHE PAROLE MA BUONE

Le parole, si sa, sono importanti....Possono essere vere o false, oneste o ambigue, rassicuranti o inquietanti. Puoi decidere se sputarle fuori intatte, con gli spigoli, o succhiarle come caramelle, prima, per levigarle.
Queste bellissime parole, targate "originalità di espressione" e scritte da Fuma 62 in un suo recente post, mi permetto di prendere in prestito come incipit sontuoso del mio breve pezzullo odierno. Perché ci azzeccano con quanto capitatomi ieri, che mi ha costretto a fare una veloce riflessione, e cioè: esistono parole, che, anche se impropriamente usate, riescono a raggiungere con la loro immediatezza e stringatezza l'obiettivo di realizzare una intera concezione di vita, con contemporanea opposizione alla concezione di vita altrui, quello che oggidì viene chiamato razzismo, o meglio, negazione dei diritti delle minoranze.
Ohibò! Sento già Fuma saltare in piedi col ditino proteso verso di me: "Tu mi avevi promesso che non ti saresti mai più occupato di politica, e adesso questo."
Calma, calma gente, che vi racconto.
Ieri mattina, al termine dei miei primi 7200 passi sono arrivato con la lingua di fuori a casa di mio figlio Federico. C'erano solamente i due gemellini, Alessia e Fabio, e l'altro nonno a far da sentinella. Superato con stoicismo l'assalto di quei due meravigliosi farabutti, mi sono seduto, ho accettato un buon caffè per ridare calore al sangue, visto il freddo che mi ero cuccato, e mi sono per così dire rimesso un po' in linea di galleggiamento.
Mentre parlavamo con Luigi del più e del meno, i due gemelli si davano da fare per occupare le migliori posizioni sul divano per vedere alla TV il loro programma di cartoni animati. Mezzora in tutto e poi via di nuovo a urlare per tutta la casa.
Ad un certo punto è scoppiato un fiero certame per la conquista di un pupazzetto di pelouche: Fabio ha avuto la meglio ed è immediatamente corso a mettersi al riparo, lui maschio, tra i maschi adulti. Ma non aveva fatto i conti con l'ostinatezza di Alessia, o forse proprio per quella era arrivato sparato, chi lo sa? Fabio deve aver pensato che lei potesse anche aver ragione a volerne una parte. Ha capovolto infatti il pupazzetto mettendo in mostra la parte che di solito non si vede mai, quando il pupazzetto resta dritto in posizione normale. Evidentemente già l'avevano rotto in precedenza, perché usciva fuori del materiale strano, come carta stagnola, da una fessura. Fabio ha incominciato a tirar fuori questo materiale parlando con sua sorella in modo molto sobrio e niente affatto alterato, dando fondo a tutto le sue conoscenze della lingua italiana. Ne è uscito fuori un colloquio di questo genere.
Fabio, porgendo ad Alessia il materiale estratto dal pupazzetto: "Cacca"; come a dire questa è roba tua.
Alessia, raccogliendo la carta stagnola e indicando il pupazzetto: "Mio"; come a dire quando mi dai il resto?
Fabio, dandole un altro pezzetto di carta stagnola: "Cacca"; come a replicare solo questo ti compete, che altro cerchi?
Alessia, raccogliendo anche il secondo resto e continuando ad indicare il pupazzetto: "Mio"; che vorrebbe dire, se mi dai solo la cacca a me non sta bene.
Fabio, ricominciando a tirar fuori altra carta stagnola: "Cacca"; detto in tono imperioso guardando nonno Enzo e nonno Luigi, come a dire non vedi che noi siamo in tre? Cosa vuoi tu pisciona?
Alessia, alzando il tono e quasi gridando: "Mio, mio", che stava a significare se non mi dai il pupazzetto vedi tu quello che succede qui, minimo un carosello.
Fabio, gridando ingrugnatissimo e sbattendo addosso alla sorella un altro pezzo di stagnola: "Cacca, cacca", che voleva dire in modo inequivocabile la porcheria è tutta la tua e vai fuori dalle scatole.
Alessia, radunando nel pugno tutti i pezzetti di stagnola e sbattendoli in faccia a Fabio: "Cacca, cacca, cacca", che significa in linguaggio infantile se non vuoi darmi il pupazzetto allora tienti la tua merda str....
È finita che abbiamo dovuto intervenire e dividerli perché la discussione era diventata rovente e rischiava di degenerare in rissa.
Vedi Fuma l'importanza della stringatezza dei concetti? Con due parole elementari come "cacca" e "mio" la popolazione infantile può esaltarsi e deprimersi, proprio come certi Catoni di casa nostra, che non è che conoscano poi parole migliori di quelle usate dai miei nipotini, o che ne facciano un uso migliore, ma non con la stessa sincerità e serietà, me paresse.

martedì 9 marzo 2010

7200 PASSI ALL'ANDATA, ALTRETTANTI AL RITORNO

Qui in Cruccolandia bisogna prenotare telefonicamente o di persona tutto: le ricette dal medico, i giornali dal giornalaio, il pane dal panettiere, i fiori dal fioraio e la carne dal Metzger, dal macellaio -cinque bistecche alte un dito senza osso; in tutto un chilo e mezzo, per domani. Ok, Herr Iacoponi. Le vuole di mattina o di pomeriggio? A che ora di mattina? Domattina alle nove? Ho un altro impegno. Allora domani pomeriggio alle quattro. Ok, Herr Kustermann- perfetto! La folle ed assoluta precisione teutonica.
Questa mattina alle otto e mezza dovevo lasciare la mia macchina all'officina per un Grundreinigung, un lavaggio totale, fuori e dentro, compresi i vetri, gli specchietti e la cera sulla carrozzeria. Alle otto meno dieci sono già immerso nel traffico per superare il ponte sul Reno (ottocento metri circa per cui occorrono non meno di 15 minuti, se qualche vecchietto bavoso non si mette di traverso). Puntuale come un crucco entro nell'area dell'officina con un minuto di anticipo.
Guten Morgen, ho un Termin fra mezzo minuto.
Controllo dell'addetto alla ricezione e successivo sorrisone di accoglienza: il signore è nella lista ed è puntuale. Lascio la chiavi e pongo la logica domanda: Quando passo a riprendermela?
Alle quattordici.
Ohibò! Ed io che pensavo in una cosuccia da un'ora. Siamo a più di cinque chilometri dal centro e non mi par di avere sufficienti spiccioli in tasca, solo due fogli da 50 euro. Nell'automatico del Tram non vanno più di 20 euro e non mi pare di vedere locali aperti nelle vicinanze.
Ma questa è la vita. Dovrò farmela a piedi. Il cielo è sereno da incanto, ma la temperatura è bassissima e tira un vento gelido e insistente.
Ce la faccio, ce la faccio, sono ancora giovane e forte; sono un camminatore eccezionale.
Parto e mano mano mi rendo conto che sgambettare sul suolo ghiacciato non è come andare sui prati nel mese di maggio. Sul cavalcavia il vento mi spinge da dietro come un TIR: mi aiuta nel tratto di salita, ma mi costringe a frenare in discesa, perché vedo per terra brillare tutto il ghiaccio che si è accumulato stanotte, e ci mancherebbe anche che scivolo, perché sfigato come sono in questi ultimi tempi mi scasserei l'ultima gamba sana che mi è rimasta.
Penso che sto camminando da un sacco di tempo e che devo ancora trovare un negozio aperto in questa zona periferica. Sono una delle poche anime in circolazione a piedi, tutti in macchina che sfrecciano via senza degnarmi di uno sguardo. Chissà quanti chilometri ho fatto. Forse è meglio se me ne vado a casa di mio figlio. Lui lavora, anche sua moglie, ma i bambini ci sono e c'è pure di sicuro l'altro nonno, il mio collega.
Affronto stoicamente l'assalto dei due piccoli indiani, senza difendermi perché completamente sfiatato. Luigi mi offre un caffè, mai tanto gradito e benemerito. Ci facciamo un mare di chiacchiere in non so più quale dialetto, mentre gli indiani scorrazzano ululando in totale libertà.
Alle 12 il pasto delle fiere: grazie a Dio quei due ingozzano tutto allegramente senza fare storie. Poi cambio dei pannolini e, finalmente, a letto con un po' di pace per i due nonni.
Alle 13,30 saluto il collega e mi rimetto in movimento. Questa volta ho deciso: conterò i miei passi per fare un calcolo approssimativo della distanza.
Sul cavalcavia questa volta il vento ce l'ho in faccia in salita e in discesa e faccio un mazzo grosso così ad arrivare alle prime case dove trovo un po' di riparo.
Quando metto piede nell'area dell'officina e vedo la mia auto, brillante di nuova vita e colore, ho contato appena il passo numero 7200. Minchia!
È tutto già stato pagato da mia nipote Cristina e dal suo ragazzo. Il loro regalino per il mio compleanno; che carini, dopo tutto si tratta di 89 euro, che io col cavolo avrei speso.
Ringrazio, mi riguardo beato la creatura sbocciata a nuova vita; entro, risposto il mio sedile, metto in moto e parto.
C'è qualcosa che non mi convince: questa mattina la lancetta del carburante stava sul pieno, adesso è una tacca avanti. Le ultime tre cifre sul contachilometri sono 782. A casa controllerò, perché io quasi ogni sera segno lo stand dei chilometri. Una vecchia abitudine.
Però, una bella soddisfazione girare con una macchina che luccica al sole, non lorda di sporcizia come quella di questa mattina. A casa mi incazzo come una bestia: ieri sera il contachilometri si era fermato a 620. Aggiungendo i 15 chilometri per arrivare all'officina fanno 635. Qualcuno è andato a spasso con la mia macchina per 145 dannatissimi chilometri, mentre io facevo in tutto 14.400 passi come un cammello sull'asfalto ghiacciato.

lunedì 8 marzo 2010

QUALCUNO POTREBBE SPIEGARMI QUALCOSA, PER FAVORE?

In queste ultimi giorni, in cui, per disgrazia o per grazia ricevuta e ognuno si scelga ciò che preferisce, non ci sono più a disposizione in TV talk show a carattere politico, quindi niente Annozero, Ballarò e quanto di simile fosse a disposizione, nonché sciolta per par condicio anche la terza Camera nazionale, cioè a dire Porta a porta, se da una parte ci si può sentire liberati da un odioso orpello dall'altra ci si rende conto che è rimasto "il resto", e che "tutto il resto è noia", come cantava Califano.
Allora si va a ondate: per prima giunge a riva l'ondata di sterco di Morgan e dei suoi problemi terapeutici a base di cocaina, e se ne discute e si urla e ci si batte il petto come se di vita o di morte dell'intero sistema planetario si trattasse. Poi giunge l'ondata di merda dell'ultima edizione di San Remo, quello canoro non quello ciclistico. E allora giù amenità e sibilline fesserie, che la gente è costretta a bersi perchè tutti sembra che non abbiano altro da fare che pensare a Pupo ed Emanuele Filiberto che recitano poesiole per piccini.
Insomma, come si diceva a Roma alla fine degli anni quaranta, quando la Democrazia era finalmente ritornata sui sette colli, "aridatece er puzzone nostro"; cioé a dire ridateci Bruno Vespa -perdonami oh Signore-; ridateci anche Michele Santoro -mamma mia che tocca da dì-; ridateci anche Fabio Fazio, e pure Giovanni Floris, così alla sera non dovremo più ronfare indecorosamente di fronte al piccolo schermo, che per noi italiani -anche quelli all'estero- equivale all'ultima divinità pagana rimasta.
Io peraltro leggo su Internet anche i quotidiani italiani.
Ma leggo anche i quotidiani tedeschi, in lingua originale, non in traduzione purgata, e seguo la televisione tedesca, i Tagesschau o telegiornali, e qualche talk show.
Vorrei a questo punto che mi si spiegasse come mai nei telegiornali italiani oltre alla politica e alle amene sciocchezze del Pdl nel presentare le liste per le prossime elezioni amministrative, si parla solo ed eslusivamente di morti ammazzati, per mafia, 'ndrangheta, camorra o semplice manovalanza della criminalità, qualche volta anche di fesserie, ma mai di cose veramente serie. Vorrei che qualcuno mi aiutasse a capire perché lo stesso avvenga sulla carta stampata, solo beghe politiche e sciocchezze a gogò.
Perché in queste ultime settimane i telegiornali tedeschi ed i quotidiani tedeschi, parlano solo, e con enorme preoccupazione, del disastro economico della Grecia e del pericolo che una sempre più probabile bancarotta dello stato greco causerebbe un terremoto di proporzioni incalcolabili a tutto il sistema economico e bancario dell'area dell'euro. E ci siamo tutti dentro, non solamente i tedeschi, o i francesi o gli olandesi.
Ma nei nostri telegiornali non se ne parla proprio, e nemmeno sui giornali. Allora sono stupidi e paurosi i tedeschi e noi siamo gli intelligentoni del gruppo?
Uno dei più autorevoli quotidiani europei, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, portava alcuni giorni fà una valutazione di alcuni esperti secondo cui il crollo della Grecia porterebbe uno sconquasso tre volte superiore alla crisi che ancora non è passata del tutto. Dicevano i quattro saggi interrogati, che nazioni deboli come la Spagna, il Portogallo e l'Irlanda sarebbero potute cadere nel precipizio, trascinando nazioni che tanto deboli non sono ma nemmeno forti a sufficienza, come l'Italia, la Francia e la Gran Bretagna. Naturalmnete in quel caso sarebbe sull'orlo del dramma anche la Germania.
Capito? E da noi si continua a parlare di Pupo, di Emanuele Filiberto, delle cosce lunghe di qualche svampita e naturalmente di quella indecorosa trasmissione che è "L'isola".
Siamo noi gli intelligenti o siamo noi gli idioti?
Chi è così gentile da togliermi questo fiero dubbio?

sabato 6 marzo 2010

LE MIRABOLANTI IMPRESE DEI MESI DI INVERNO IN CRUCCOLANDIA *

Ieri sera sono andato a letto incazzato nero come una Foca Monaca. Tutta colpa della connessione vietata di Kabel Deutschland, che -ed è la terza volta in meno di un anno- quando meno te l'aspetti ti pianta nella merda e non ti passa più Internet con annessi e connessi. Si resta stronziti o stronzati, non ci si è ancora messi d'accordo tra romani e napoletani su quale sia la forma giusta del verbo stronzire di nuovo conio, che al passivo dovrebbe fare essere stronziti oppur stronzati, da qui la diatriba. Comunque niente da fare; ha da passà a nuttata, diceva Eduardo. Domani è un altro giorno, si vedrà, canzone degli anni ottanta di Ornella Vanoni; frase celeberrima con cui Vivien Leigh/Rossella O'Hara conclude il polpettone nato dalla pregiata ditta Victor Fleming-Margaret Mitchell nel lontanissimo 1939.
Ieri era stata, malgrado la mia incazzatura, una splendida giornata, con sole radioso tanto da costringermi a tirar fuori i miei Persol D19. Una giornata che suggellava una settimana di bel tempo che aveva fugato le ultime tracce delle nevicatone di febbraio. Avevo preso la macchina e portato Anna Maria a spasso. Avevamo scelto il parco sul Reno di Rappenwörth, dove sorge la piscina all'aperto che frequentiamo ogni anno nei mesi di giugno e luglio. Ad agosto siamo in Italia.
Vederla d'inverno e riconoscere i posti dove di solito ci si sofferma all'ombra per non venire arrostiti mentre adesso ci si crogiola a questo solicello da 7 gradi, forse 7,5 fa un po' tenerezza. Non c'eravamo mai stati nei mesi invernali ed era tutta una novitá quella che stava davanti ai nostri occhi. Innanzitutto solo coppie di vecchietti pensionati al sole come lucertole. I meno vestiti eravamo AnnaMaria ed io: avevamo lasciato i cappotti in macchina e ce ne andavamo in giro coi pullover di lana aperti fino allo sterno. Pensavamo già alla primavera, al sole estivo, alle vacanze a casa nostra. Beatamente.
Dimenticata per una sera la televisione -troppo melenso il programma di Pupo ed Emanuele Filiberto, toh chi si rivede, la strana coppia-; giocato a scala quaranta con Anna Maria, che ha più fortuna di una madre badessa, per cui spianata la strada alla seconda incazzatura della giornata dopo quella del mancato internet; deciso finalmente per mancanza di stimoli di andarcene a letto, si concludeva così in un buio soporoso ed accogliente una giornata così così.
Alle 02,34, ora tedesca e quindi di assoluta precisione ero in giro per l'appartamento, come mi capita da una diecina d'anni. Attraverso la finestra del corridoio, che non si può chiudere mai del tutto perché sul davanzale c'è la cassetta di coccio contenente la terra che attende in aprile i gerani di Anna Maria, ho intravisto la strada: mi è sembrata bianca. Cavolo, ho pensato, ha brinato. Ma non me la sono sentita di fare gli scarsi tre metri e di tirar un po' su la serranda, tornandomene a letto con l'amara consapevolezza che l'inverno, almeno di notte, non era ancora passato.
Dovevano essere le cinque quando mi sono risvegliato. Il silenzio infatti era assoluto e poi oggi era un sabato e qui lavorano in pochi. Non avevo nessuna intenzione di alzarmi e guardare se la brina fosse ancora distesa su prati, strade, alberi e case. Ho cominciato a fantasticare, un po' ad occhi chiusi un po' ad occhi aperti, che fa quasi lo stesso perché al buio non c'è poi tanta differenza.
Credo che si siano fatte le 7,30. Doveva essere quell'ora lì, perché Anna Maria si è alzata per andare in bagno. Lo fa tutte le mattine da una vita. E da una vita tutte le mattine tira su la serranda piccola, quella della porta che dà sul balcone. Ho sentito un "Ooooooooohhhhhhhhh!"; ha emesso un "Ooooooooohhhhhhhhh!". Ha trattenuto il respiro, poi mi ha detto: "Enzo, vieni a vedere."
Ma non ci penso proprio a quest'ora antelucana. "Che dovrei vedere?" Ma lei non molla: "Vieni a vedere, ti dico"
Quelle due stronze del piano di sopra hanno buttato giù un armadio, o un baule, oppure un amante poco esperto. Ma Anna Maria tieni i pugni sui fianchi e mi guarda con aria bellicosa; conviene alzarsi e vedere 'sto strazio che tanto l'ha colpita.
Arrivo alla finestra dove lei garbatamente mi fa posto e vedo pezzetti di carta che vengono giù dal balcone delle due stronze.
"Ma che ca...! Ma che fanno quelle di sopra?"
Hanno buttato giù un mare di carta, il prato ed il balcone ne sono pieni, e anche la strada che ci passa davanti ed i tetti delle case sono pieni e...ma questa...ma questa è neve!
Esco sparato sul balcone, mentre Anna Maria mi grida non so quale giaculatoria dietro. Affondo le mani sul piano del tavolino che sta all'angolo: la mia mano tocca il tavolo, ci si adagia e la neve mi arriva dieci centimetri sotto il gomito.
"Sono più di 30 centimetri!"
"Ma quando ha incominciato? Chiede lei. Dovresti saperlo tu che sei sempre in piedi a metà della notte."
Penso alla brina della 2,34.
"Alla faccia della brina! Esclamo. Era neve."
Le spiego quel che ho visto e torno a letto.
"Paese del cavolo, inverno del cavolo, mese del cavolo. Da noi non succederebbe una porcata così; e pensare che qui marzo è un paese normale ed aprile è quello matto, infatti loro cantano "april, april". Figuriamoci che sarà tra un mese."
Ma non mi sta a sentire: sta rovistando tra le sue cose, dove tiene anche le foto 13x9 della sua giovinezza, in bianco e nero, quelle dove io non sono mai, che da un po' di tempo guarda troppo, come se avesse nostalgia di qualcosa. Se scopro cosa!
"Ecco guarda queste due." Mi dice offrendomi due piccole foto dove sua zia Carmen l'ha ritratta assai dilettantescamente da troppo distante. Si vede Anna Maria a 17 anni, alta e magra, sorridente come sempre, ignara ancora dell'incontro fatale che avrebbe fatto di lì a cinque anni. È una ragazzina ben sviluppata che ride beata in mezzo alla neve. In fondo la sua casa di Cervignano.
"Leggi dietro la data". Mi fa.
Giro la due foto e leggo, scritto di sua mano: "5 marzo 1955". Cacchio e controcacchio. Guarda che coincidenza, cinquantacinque anni orsono quasi lo stesso giorno c'erano in un paese della Bassa Friulana più di trenta centimetri di neve, come da noi oggi.
E io che pensavo fossero scherzi tedeschi!
Ma avevo dimenticato una mia avventura.
Tanti anni fà, infatti, a Francoforte, il 27 dicembre 1978 -notare la data, giorno e mese por favor-
c'erano 25 gradi +. Una specie di estate postuma. La gente girava in maglietta. Io dovevo andare a visitare un cliente a Darmstadt. Allora ero un rappresentante di vini Bolla nell'Assia. Non misi la cravatta, ma indossai un vestito leggero, da mezza stagione come si diceva una volta, presi la mia 24 ore, salutai Anna Maria e i bambini, promettendo che sarei stato di ritorno con certezza per l'ora di pranzo. Erano da poco passate le 10. Decisi di evitare l'autostrada, troppo incasinata di sabato, e scelsi la strada provinciale: Sachsenhausen, Neu Isenburg, Sprendlingen, Langen e poi Darmstadt dal mio cliente. Mentre attraversavo uno dei ponti sul Meno vidi dalla parte di Darmstadt salire su un banco di nuvole livide come piombo fuso. Fra oggi e domani finisce la pacchia, pensai. A Neu Isenburg il cielo era completamente coperto e bisognava accendere i fari per vedere la strada, ma il caldo dentro la macchina era ancora soffocante. Appena lasciate le ultime case del paese di colpo venne giù il diluvio. I tergicristallo spinti al massimo non riuscivano a spazzar via la montagna d'acqua che si stava rovesciando a terra. A un certo punto si fermarono del tutto, mentre la macchina, che io tenevo a regimi bassissimi in seconda, fece due sussulti e si fermò.
Non vedevo assolutamente niente attraverso i finestrini. Nemmeno vedevo fari di altre macchine in avvicinamento, né sentivo motori di altre macchine approssimarsi, solamente lo scroscio violentissimo dell'acqua e il rumore del vento. Un Uragano! Pensai. Ne avevo già sentito parlare, ma mai mi ci ero trovato dentro. Inconcepibile per chi vive a sud delle Alpi credere che possano esistere uragani invernali, ma quello era uno ed io ci stavo dentro.
Di colpo cessò il rumore del vento, cessò la pioggia e fu tutto silenzio.
Provai a mettere in moto, inutilmente. Provai a far muovere i tergicristalli, ma non si mossero.
Allora decisi di vedere dove cavolo stavo; pensavo di trovarmi in mezzo alla strada e quindi tanto valeva uscire fuori e spingere la macchina a lato della strada. Provai ad aprire lo sportello dalla mia parte, ma non ce la feci. Dopo inutili tentativi riuscii solamente ad aprire lo sportello di destra, quello del passeggero, poggiandovi sopra i piedi e spingendo con le gambe fino a scoppiare.
Finalmente sentii un crock! come di un grosso ramo che si spezza. Pensai di saltare fuori, ma arrivato alla porta vidi quello che era successo. Non acqua era venuta giù, ma ghiaccio, a tonnellate: le ruote erano tenute bloccate dal ghiaccio fino ai mozzi, e come me altre trenta o quaranta macchine messe nelle posizioni più strane, così come erano finite erano rimaste.
Faceva un freddo boia e io ero coperto di niente. Il motore non partiva e quindi il riscaldaménto non poteva avviarsi. E non esistevano telefonini!
Dopo una mezzora, che mi sembrò eterna, arrivarono due gatti della neve della Polizei. Portavano caffè bollente e coperte. In un'ora tutti i pompieri di Neu Isenburg e di chissà quale paese erano impegnati a sbloccare ruote ed aprire una strada in mezzo al ghiaccio. C'era una macchina con una enorme cremagliera davanti che spaccava il ghiaccio e si doveva andare tutti dietro. Il problema fu di rimettere in moto il motore. Ci pensarono, nel mio caso, due giovani poliziotti, che sembrava fossero del mestiere. Non fui nemmeno in grado di dar loro un'occhiata di ringraziamento. Ero intirizzito, come se avessi soggiornato dentro una ghiacciaia per un giorno intero.
Tornai a casa alle 18,30 trovando delle faccette stravolte e terrorizzate.
Per fortuna ho il fisico di un elefante e non mi sono preso nemmeno un raffreddore. E quella è stata la mia avventura al Polo Nord.
*) Il termine "Cruccolandia" è ancora usato per gentile concessione di Fuma, che ne detiene sempre il Copyright.

giovedì 4 marzo 2010

LA DUCAZZIONE SESSUALE

"Consiste tutto 'n quella fijo mio, diceva er mi padre gni vorta che me doveva da spiegà come se campa ne sto porco monno; si cellai avuta bbona poi core, sinnò cammini zoppo tutta la vita".
Che mo er probbrema adera propio quello: a me la ducazzione sessuale me l'aveveno data la mi madre e la mi nonna, la madre de la mi madre, te poi figurà.
"Punto primmo, diceva la mi nonna; te devi sta a sentì SOLO quello che te dice la tu madre. Punto siconno, de quello che te dicheno l'antri nun te ne deve fregà gniente. Punto terzo, adesso va da la tu madre che te deve da parlà".
Dovevo da restà 'n piedi come 'n sordato fino acché je pareva a lei, che ciaveva sempre quarche servizzio urgente da spiccià.
"Allora sturete le recchie, che io parlo na vorta sola, m'ai capito bbene?"
"ssssi....", che adera na sfiatata che me sortiva dar bucio der culo, perché si sbajavo ereno botte.
"Adesso noi dovemo da annà a casa de la sora Itoletta, e tu devi da venì commé, che se' troppo puzzone e nun te pozzo lasciá a quela pora donna de la tu nonna, sinnò je fai venì er mar de core. Allora famo a capisse: la sora Itoletta nun cià fij, nun je so venuti, fortunata a lei, e cià la casa piena de coccetti e de pupazzetti, mica come da noiartri drento casa, che ciai sfasciato puro li mobbili, bruttinfamone. Mo quella appena arrivamo je se pija 'n corpo, ma tu me devi da sta sempre vicino ammè, che si te movi e je sfasci 'n pupazzetto quella me piagne addosso disgrazzie pe' diecianni, e io poi te sgaro 'r culo. Ai capito ammè, bello de mamma tua?"
Annava a finì che io ce provavo, ma loro dopo mezzora de chiacchiere appena doveveno da comincià a parlà de cose serie e io me dovevo da move, e poi me veniveno le puzze e nun ce riuscivo mai a tenelle, che me pareva d'avecce er culo come na galleria, e più strignevo e più sortiveno loffette. Annava a finì che me diceveno "vai ar cesso, bello, vai" e io ciannavo, ma era buio e c'ereno tutti sti mobbiletti ciuchi ciuchi, che si nun li vedevi nder corridore bujo ce nfrociavi drento co li piedi e doppo sentivi solo strilli de la sora Itoletta e de mi madre, ma de quelli de la sora Itoletta nun me fregava tanto, invece de quelli de la mi madre me li dovevo da ricordà che prima de cena m'arivava er conto.
Inzomma quella adera stata la ducazzione sessuale mia, che la mi madre un core pe la mi moje già cellaveva puro prima de sapè chi era. E mo se spiega perché io co le donne nun ciò mai capito 'n cazzo, perché pemmè donne voleva da dì solo botte a la sera prima de magnà e si mi padre se voleva mette 'n mezzo "Zitto tu, che nun se' bbono a dije gniente" je diceva mi madre e lui poveraccio s'ingozzava er minestrone e zitto.
Che poi me l'ha detto 'n par d'anni prima de morì, che na vorta c'erimo messi a discute 'n po' così su li probbremi grossi de noiartri ommini.
"Te posso solo consijà de statte zitto co tu moje, er silenzio nun tradisce mai. Si parli te freghi sempre, perché tu sei onesto e dopo 'n po' te sei scordato quello che j'ai detto, ma loro, ste infamone, nun ser lo scordeno mai. E doppo fanno come faceva la tu madre, te rinfacceno tutto magara so passati du' anni e tu manco sai de che te sta a parlà, ma lo sa lei"
Così quanno che l'antro giorno è venuto a trovamme mi fijo, l'urtimo, quello più longo de tutti, Chicco pe capisse, e me voleva da dì quarche cosa, ma nun je veniva fora, allora l'ho aiutato.
"Che ciai probbremi co tu moje?"
"E tu come hai capito?"
"È la sperienza, daje, sputa er rospo"
E lui l'ha sputato, le solite stronzate de li primmi anni der matrimoggnio, che nun sai mai ndò mette le mano che te le scotti.
C'é da dì che co Chicco adè dificile da parlà, perché devi da trovà er modo de 'nfilattece drento ar discorso suo mentre che rifiata sinnò nun te lassa scampo, va via a manetta pe du ore.
Appena ciò avuto mezzo seconno de spazzio je l'ho detto quello che j'avevo da dì.
"Co le donne, tutte le donne, o te stai zitto, ingozzi e campi da schiavo 'na vita intera e nun conti un beato cazzo nde la famija tua, oppure - e stamme bene attento fijo mio che te sto a recità er quinto vangelo- oppure je dici de si, quarsiasi cosa che lei vo, je dici de si eppoi fai quello che cazzo te pare. E quanno lei t'aricorda, ma tu m'avevi promesso, tu te sbatti na mano su la fronte mannaggia mannaggia me lo devo da esse propio scordato: ciavevo tanto da fá stamatina; ma domani lo fo promesso, giurin giurello o come cazzo voi dì. "
"Eppoi lo devo da fa?" me chiede er fijo.
"Ma c'ai capito? Nun fai 'n cazzo de gniente e sempre sta mano sbattuta su la fronte, mannaggia mannaggia"
"Ma lei s'incazza"
"E fa du fatiche, una a montacce e una a scegne"
"Ma lei s'incazza de brutto"
"E fa du fatiche grosse assai"
"Eppoi come va affinì?"
"Va affinì che se lo fa da sola e doppo è felice e contenta, e tu pure"
"Ma poi nun me parla pe tre giorni"
"Se' fortunato. Tu madre me rompe er cazzo pe tre giorni"
Ma nun lo vedo convinto. Allora je devo da da er consijo paterno, er mejo der mejo.
"Mettite bbene 'nde la capoccia quello che è fondamentale ner matrimoggnio. Nun te devi MAI da scordà la festa sua, quanno che é nata lei, ma questo è facile: nun te devi MAI da scordà er giorno che l'hai incontrata la primma vorta, er giorno che j'ai dato er primmo bacio, eppoi er giorno de la primma vorta, me so spiegato? Tu te presenti co cinque rose rosse 'gni vorta. Che so sti fiori? te fa lei co la voce da mignotta che nun sa gniente. Er primmo bacio, jarisponni tu, la primma botta, insomma quello che adè stato eppoi la sera drento ar letto ce metti er timbro su sta riccommannata. Ma la devi da lassà coll'occhi 'ncrociati. Allora vedrai che tutto andrà bbenone e te potrai puro scordatte de compraje er latte".
Me so sentito 'n po' mejo. J'avevo dato un pochettino de ducazzione sessuale, quella che conta ne la vita cogniugale.

mercoledì 3 marzo 2010

QUANDO LA PERVERSIONE DIVENTA FOLLIA

In questi giorni a Darmstadt, centro industriale dell'Assia distante circa quaranta chilometri da Francoforte sul Meno, si sta celebrando un processo per pedofilia. Non è il primo e purtoppo non sarà l'ultimo. Sembra che sia un'aberrazione molto diffusa in Germania e un po' in tutti i popoli nordici, molto più diffusa che da noi, anche se in questi ultimi anni sia in atto in Italia una rincorsa verso la testa della classifica. Comunque qui in Germania ogni anno si può leggere di uno o più processi per casi di pedofilia, di stupro di bambini con omicidio alla fine dell'atto sessuale, perché la giovane vittima non possa più denunciare e riconoscere il suo martirizzatore.
Insomma niente di insolito; una cosuccia che non meriterebbe nemmeno la quarta pagina dei grandi quotidiani. Questa invece sta su tutte le prime pagine e ne ha dato notizia perfino il Tagesschau delle 20 su ARD, il più seguito qui. Eppure non c'è stato omicidio finale; la bambina vive, anche se in condizioni psichiche da ricovero, ma non è stata ammazzata, fisicamente intendo, perché psichicamente si teme che tutte le vittime porteranno per sempre dentro di loro il marchio di un sopruso così vile.
Cosa c'è di straordinario nel processo a Daniele K. di 30 anni, camionista, che ha abusato per tre anni della figlia di primo letto di sua moglie Janine K. anche lei trentenne?
La presenza sul banco degli imputati della donna, della madre della vittima., questo c'è, ma non è tutto così semplice.
Capita che certe mogli, quasi sempre di ceto medio basso come i loro mariti, non siano in grado di intervenire, vuoi per paura fisica, vuoi per viltà o per coprire con il manto del silenzio ciò che avviene all'interno delle mura domestiche, e che per questo vengano considerate mitschuldig, corresponsabili dell'accaduto e trascinate in giudizio.
Non nel caso di Justine K. però, che forse non ha avuto percezione di quando e di come la cosa avesse avuto inizio -però sua figlia aveva solo sei anni, per cui una madre un pochino attenta avrebbe dovuto vedere comportamenti almeno strani se non anomali della bambina- ma ha dovuto scoprirla in flagranza l'orribile tresca, come confessa Daniele K., rientrando all'improvviso in casa e trovandosi di fronte marito e figlia impegnati sul divano buono in un atto di sesso orale.
Sempre secondo la deposizione davanti alla Corte di Daniele K., non contestata da Janine K., la donna non si è messa a urlare, né ha fatto altro intervento all'infuori dall'impugnare il proprio handy e filmare la scena. Fino alla fine dell'atto, filmando per ultima l'espressione beata sulla faccia del marito, penso.
Da quel momento, per circa tre anni, Daniele K. ha continuato a violentare la piccola Marie, nome cambiato sui giornali come ovvio, e Janine ha continuato a filmare tutto, creando poi una cartella particolare sul loro PC, dove poi la polizia ha trovato tutte le prove, ed ancora circa 15.000 foto di pornografia con bambini.
Rischiano dieci anni. Affari loro, ma si sa già che usciranno fuori, soprattutto lui il violentatore, niente affatto guariti; e non fra dieci anni, bensì fra cinque, perché qui contano i soldi dei contribuenti, e non si deve tenere in carcere un condannato per più della metà della pena. A meno che non abbia in quegli anni dato fuoco al penitenziario, viene riconosciuta a ciascuno un po' troppo benevolmente la buona condotta, gli viene fatto il cosiddetto processo di revisione e posto in libertà. Libertà di delinquere di nuovo.
Ogni sistema ha le sue vergogne: pedofili assassini, che prendono venti anni e dopo dieci, rimessi in libertà, tornano a violentare ed uccidere è un caso che purtroppo si ripete troppo spesso. È avvenuto recentemente vicino Ulm: il pedofilo uccise la sua prima vittima a 21 anni. Condannato a 22 anni di carcere, fu revisionato e messo in libertà dopo undici anni, Aveva 32 anni. Tre mesi dopo uccise una bambina di 13 anni, dopo averla violentata. Condannato a 24 anni, esce di nuovo dopo 14 anni, a 46 anni. Tre giorni dopo -avete letto bene, solo tre giorni dopo- violenta ed uccide un bambino di 12 anni in un bosco di fronte alla casa del bambino.
Ora gli faranno un nuovo processo; gli daranno altri venti anni o giù di lì e prima che compia 60 anni sará ancora libero di ammazzare un ragazzino, che oggi ha soltanto due anni e gioca ignaro del suo destino.
Secondo la legge tedesca non si può sterilizzare un uomo se non è consensiente. Altra legge inconcepibile, ma nata dopo lo sfacelo del nazismo, per contrapporsi a ciò che i nazisti facevano con estrema facilità e senza processo: la castrazione forzata.
I tedeschi hanno voltato pagina, per cui è tutto lecito adesso quello che era assolutamente proibito in quei maledetti tredici anni. Lo sapevate che gli zingari non pagano un centesimo di tasse, di nessun tipo? Conseguenza di 1.500.000 di zingari gasati nei campi di sterminio. Risarcimento postumo per i sopravvissuti ed i loro discendenti.