lunedì 24 ottobre 2011

PROVA DI ROMANZO

Incipit de "La stanza sospesa"

Rallentò il passo solo quando fu arrivato in Piazza della Repubblica. Gli era venuto il fiatone: tutta la salita di Via IV Novembre e poi Via Nazionale a passi da leone, con la gente che si fermava a guardarlo e poi girava la testa intorno pensando ad una telecamera nascosta, facevano almeno quattro chilometri con un cappuccino e due brioche prese alla stazione tre ore prima.
"Adesso ho bisogno di un po' di aria fresca", pensò, e lì sul marciapiedi non ce n'era. Per questo attraversò il traffico a quattro file in quel punto della rotonda, schivando a pelo macchine e motorini, e sedette sul bordo della fontana sotto una delle Naiadi bronzee di Mario Rutelli.
Lo scroscio dell'acqua copriva in parte il ronzio dei motori, ma il puzzo che usciva dai tubi di scappamento dopo qualche minuto era diventato intollerabile. Riattraversò la marea di macchine, che, pur procedendo a passo d'uomo, davano la sensazione della mandria di bisonti che tutto travolgeva di un film western tridimensionale, che aveva visto qualche anno prima.
Cercò un bar e si infilò nel primo che incontrò. Gli era venuta una fame boia. Ordinò due tramezzini e una birra. A metà birra si fece altri tre tramezzini: se ne sarebbe pappati una decina, ma non aveva abbastanza soldi in tasca. Si era seduto ad un tavolo d'angolo. Di fronte aveva una specchiera alta e stretta. Ci vide riflessa la mimica della sua faccia mentre che masticava. Finì la birra e si deterse la bocca con un tovagliolo. Riguardò nello specchio. Gli apparve il viso di un precario licenziato di fresco e incazzato nero.
"Bel lunedì dei cazzi e dei controcazzi", pensò. "Il degno inizio di una meravigliosa settimana di merda".
Non lo avevano nemmeno lasciato entrare nel suo ufficio.
-Ti vuole il capo.
"Mi vorrà dare del lavoro speciale per tutta la settimana", aveva pensato, "e farmi le sue solite mille raccomandazioni del cavolo". Così era avvenuto all'inizio di ogni settimana da ormai tre anni e mezzo.
Invece si era sbagliato. Lo aveva chiamato per dirgli che il contratto non gli sarebbe stato più rinnovato.
-Ma come? Ho fatto un culo grande così per laurearmi! Mi avevate promesso di assumermi fisso.
-Gradi, io dirigo solo l'ufficio legale della Compagnia. Per quanto mi riguarda lei sarebbe potuto arrivare alla pensione qui dentro. Ma non decido io, e nemmeno il presidente qui a Roma. Le Assicurazioni Generali sono ormai un mostro a quattro o cinque teste e chi decide sta in un altra nazione.
-Io ci facevo affidamento, però. Mio padre ha fatto un credito per restaurare casa: come lo aiuto adesso?
-Gradi, mi dispiace tanto. Si prenda da adesso le sue ferie e si cerchi subito un altro lavoro.
"Un altro lavoro, con la crisi che c'è in giro! Stanno tutti ad aspettare me a braccia spalancate. Adesso che cazzo racconto a mio padre?", aveva pensato mentre scendeva lo scalone.

Il sole cocente di Piazza Venezia gli aveva fatto bene. Gli era venuto in mente di andare a chiedere a sua sorella, sposata con un importante notaio della city, se magari lo aiutava a fargli avere una mano da suo marito.
"Un aiutino piccolo piccolo", si disse; "non deve mica darmelo lui lo stipendio, ma basta che metta una buona parola con una della tante belle persone che conosce. Che gli costa".
E si era incamminato, tanto Via Marco Minghetti stava a due passi.
"Speriamo che sia in casa", pensò; "fa troppo caldo per la bimba fuori".
Ci aveva azzeccato. Eleonora era in casa e Maria Eugenia dormiva. Quello che non aveva considerato erano gli intestini di sua nipote.
-Chiudi piano la porta, Federico. C'è la piccola che dorme e se si sveglia sono dolori...muovi piano la sedia, Federico, ché la bimba dorme...parla piano per favore, Federico, ché la bimba...
-Ma che ha?
-Da ieri fa la cacca brutta.
-Hai chiamato il dottore?
-È venuto ieri sera, ma l'ho già richiamato. E tu perché non lavori?
-Sono in ferie. Ero venuto per chiederti una cosa, ma non è urgente. Ripasso quando la bimba sta meglio.
-Mi raccomando, chiudi piano la porta, Federico. Non me la svegliare.
"Mamma mia, che stronza che è diventata mia sorella!", aveva pensato.
Di colpo si era sentito ancora più incazzato di quando era uscito dal palazzo delle Generali; per questo si era messo a camminare con passi lunghi due metri. Non se ne era nemmeno reso conto, né si era stupito nel vedere la gente che si fermava a guardarlo.

Uscì dal bar almeno con lo stomaco tranquillo. Era quasi mezzogiorno e mancavano più di due ore alla partenza del suo treno. Neanche parlare di andarsene a spasso a quell'ora, il sole di giugno è micidiale a Roma. Decise di andarsene alla stazione bello al fresco a godersi le corse affannate dei ritardatari.
Camminò muro muro dove c'era più ombra. All'altezza di Via Cavour con un paio di salti veloci fece la gimkana nel caos di Piazza dei Cinquecento tra autobus di linea, tassisti schizofrenici e guidatori di provincia imbranati.
"Salvato il culo anche questa volta", pensò.
Dopo un po' che gironzolava tra i marciapiedi dei treni in partenza s'era già stufato dello spettacolo. Si trattava di un vecchio copione già visto mille volte: padri in testa, carichi di valige e pacchi, seguiti da madri che strillano e ragazzini che seguono sbuffando e camminando pianissimo.
Era arrivato al marciapiedi del binario 5, dove non pensava che a quell'ora fosse pronto il suo treno. Invece, con sua enorme sorpresa, il Regionale Roma-Pisa era già sul binario a disposizione dei viaggiatori. Guardò il suo orologio.
"Manca ancora un'ora e mezza. Quasi quasi mi faccio una dormita, forse è quello che mi ci vuole per combattere lo stress di questa giornata speciale".
Risalì il treno fino al quartultimo vagone, il suo preferito, perché fermava davanti al bar della stazione d'arrivo: un caffè freddo d'estate, un cappuccino il resto dell'anno e poi di corsa al parcheggio ad infilarsi dentro la sua Alfa un po' vecchiotta e via di gran carriera fino a casa. Monotona conclusione di una serie di giornate tutte uguali, ormai da quasi tre anni e mezzo.
"Mi sa che si è spezzata la monotonia", si disse.
Sedette nel solito posto all'inizio della vettura, il più vicino che c'era all'uscita, accanto al finestrino, col viso rivolto alla direzione di marcia.
Sentì il sonno piombargli addosso. Chiuse le palpebre e dopo un attimo già dormiva. Un sonno agitato con immagini veloci e convulse che gli si inviluppavano nella mente sovrapponendosi le une alle altre, come gli era già capitato quando aveva avuto la malaria con febbre altissima. Anche senza il febbrone, quindi.
Sognò infine una rapida sequenza molto chiara: un losco individuo, che voleva sabotare il treno, nascondeva un grosso zaino contenente sicuramente esplosivo sotto il sedile di fronte al suo. Gli vede introdurre un cell nello zaino e collegarlo con dei fili elettrici.
"Un detonatore", pensa. "Sto sognando un terrorista che prepara un attentato".
L'idea gli fluttua nella mente mentre il terrorista scende dal vagone. Un sogno limpidissimo. Troppo limpido: forse ha veramente intravisto qualcuno attraverso le palpebre semichiuse.
Pensiero lacerante.
Un attimo dopo era sveglio.
Sotto il sedile di fronte al suo lo zaino che aveva visto in sogno.
Socchiuse gli occhi e rivide le immagini come in un remake al rallentatore: una figura d'uomo di spalle, indossava un giaccone di nappa grigia, col bavero alzato; capelli biondi, lunghi, tirati su sotto un berretto scuro. Appoggiava lo zaino con cautela, collegava il telefonino a un detonatore, si allontanava silenziosamente.
Preso da un impulso improvviso si alzò dal suo posto, afferrò lo zaino e risedette stringendoselo al petto. Cominciavano ad arrivare i primi viaggiatori. Chiuse gli occhi ascoltandone solamente lo scalpiccio lungo il corridoio. Una strana abulia si era impossessata di lui: stringeva quello zaino al petto e gli sembrava di sentirne attraverso i battiti del suo cuore. Toccava con le dita la tela grezza dello zaino, di minuto in minuto andava convincendosi di tenere in grembo un ordigno di morte, ma non gli veniva di prendere nessuna iniziativa.
Il tempo passava e il vagone era già quasi pieno delle solite facce. Qualcuno adesso gli sorrideva. Un ragazzo si affacciò a un finestrino.
-Dai, corri! -gridò- Tra un minuto partiamo.
Dei tacchetti picchiettarono veloci in avvicinamento. Entrò una ragazza trafelata.
-Ciao Fede, lo salutò.
Una sua vecchia storia.
Scattò come colpito da una scarica elettrica e schizzò fuori dal vagone col suo zaino in braccio. Lo depose in un cestino dei rifiuti, proprio lì di fronte, spingendolo con forza verso il fondo e si volse per rientrare nel vagone. Tra pochi secondi si sarebbero richiuse le porte; il capostazione aveva già il fischietto tra le labbra.

Un lampo giallo riempì l'aria. Immerso in quella luce accecante Federico rimase un attimo come sospeso, poi udì lo schianto dietro di sé e vide lo sfacelo davanti ai suoi occhi. Vibrò tutto e tutto si decompose: corpi, lamiere, bagagli e oggetti, mentre un'ondata di fumo nero dall'acre odore di bruciato ricopriva tutto.
Come è violento e disperato il suono del silenzio.
Appena il fumo prese a diradarsi, in un'atmosfera sospesa da cui ogni rumore era scomparso, Federico vide l'entità dell'orrore in mezzo al quale era precipitato: corpi morti e brandelli di corpi morti nelle posizioni più sconce; due vagoni sventrati e attraverso i rottami lembi di vite distrutte.
Cominciò a sentire lamenti, poi urla, maledizioni, invocazioni di pietà a Dio e ai santi, e dopo un po' in quel tratto del marciapiedi era tutto un correre e rincorrere, un vai e vieni di gente urlante con le mani nei capelli e gli occhi sbarrati.
L'unico immobile era Federico. L'unico illeso in quel mare di sangue fresco era lui. Cominciava lentamente a rendersene conto. Si palpò dappertutto: petto, pancia, braccia, cosce e gli sembrò di avere tutto sano e di non sanguinare.
"Perché a me non è successo niente?", si chiese.
Eppure era stato il più vicino all'esplosione. Aveva avvertito solamente un po' di calore dietro la schiena, ma non si era sentito nemmeno scosso dallo spostamento d'aria della deflagrazione come tutti gli altri sul marciapiedi, che aveva visto volare come stracci vecchi.
"Devo sparire di qui", si disse. "Ci sarà pure qualcuno che mi ha visto mentre deponevo lo zaino nel cestino dei rifiuti; non sono mica morti tutti".
-Dacci una mano, biondo! -gli gridò uno dei primi soccorritori.
Pensò che gli conveniva fare la faccia atterrita e scappare come alcune donne sul marciapiedi opposto, che correvano urlando istericamente.
"Ma non mi devo mettere a correre, non devo dare a nessuno l'impressione che sto scappando", si impose. "Movimenti lenti e faccia inorridita. Quel che conta è allontanarsi da qui".

mercoledì 19 ottobre 2011

MATTIA NON TROVA LE PAROLE

Il fischio lacerante di un treno che le arrivava alle spalle per un pelo non la fece cadere dalla bicicletta. Traballando sulla sella Marzia controllò la sbandata riuscendo a tenere la bici nello stretto viottolo. Quello sterrato, che per qualche chilometro costeggiava la ferrovia, era la strada più breve per arrivare alla chiesa dei Cappuccini. Mandò all'inferno il treno, che ormai scompariva, e si rimise a pedalare con foga.
Dentro la tasca posteriore dei jeans il cellulare vibrò tre volte: le era arrivato un messaggio. Mise un piede a terra e lesse: "Dove 6?". Marzia digitò la risposta, "arrivo" e premette il tasto di invio.
Cosa aveva di tanto urgente Mattia da comunicarle? Però che idea balorda convocarla laggiù, davanti alla vecchia chiesa. Lì per lì le era sembrata una delle solite stranezze di quel ragazzo indecifrabile, ma si era messa in cammino lo stesso, incuriosita. Era il suo migliore amico, l'unico fin dai tempi delle elementari; di lui si fidava ciecamente e a volte gli aveva rivelato anche segreti intimi. Marzia non aveva un diario come tutte le sue compagne di classe al liceo, aveva Mattia. Un anno più vecchio di lei, proprio due mesi prima era diventato maggiorenne e suo padre gli aveva regalato i soldi per la patente. Un gran bel regalo e adesso lui si dava tante arie, anche se al massimo poteva girare una mezzora con la vecchia UNO di sua madre.
"Avrà conosciuto una ragazza e mi vorrà chiedere un parere", pensò Marzia.
Si era comportata così anche lei quando Luca le aveva fatto la dichiarazione.
-Non lo conosco, adesso mi informo, le aveva risposto Mattia.
Una settimana dopo l'aveva sbalordita con una domanda mai fatta prima.
-Sei ancora vergine?
-Sì, certo...che ti prende?
-Sei sicura?
-Ma che cazzo chiedi? Sai che te ne avrei parlato se mi fosse capitata una cosa così.
-Allora molla il tuo ganzo.
-E perché?
-Perché è uno stronzo. Va in giro a raccontare che ti ha sverginato in riva al lago la prima sera che siete usciti, e che tutte le sere ti ci porta e ti dà una ripassata.
Marzia aveva piantato Luca senza pietà, anche se lui le aveva giurato e spergiurato di non aver mai detto quelle cose. Si era fidata delle parole di Mattia, però in fondo le era venuto il sospetto che fosse geloso di lei e che avesse un po' gonfiato la storia.
Mattia era un tipo strano, sempre stato fin da piccolo, ma a lei piaceva proprio per quello: i ragazzi normali l'annoiavano a morte e lei li scansava come la peste.
Era ormai giunta in coma alla collina, in piedi sui pedali e con la lingua di fuori nell'ultimo strappo. Si fermò prima della breve discesa. Proprio in mezzo al piazzale davanti alla chiesa riconobbe Mattia: fumava appoggiato a una macchina rosso fuoco. La UNO era bianca, suo padre aveva una BMW blu scuro. Chi gli aveva prestato quell'auto?
Mattia le andò incontro appena la vide scendere lungo la discesa.
-Guarda che figata!
-Che macchina è?
-È la mitica MITO a due porta, l'ultima Alfa Romeo: 1600 di cilindrata e 130 cavalli.
Sparava numeri che a Marzia non dicevano niente, ma lui se ne fregava.
-Chi te l'ha prestato 'sto capolavoro?
-Prestata? È mia.
-A chi hai rubato i soldi?
-Mio padre ha messo una firma di garanzia e la Banca ha tirato fuori gli spiccioli.
Ecco cosa aveva di tanto urgente il suo amico, mostrarle la sua auto nuova.
-Non era meglio se passavi a prendermi a casa mia? Gli chiese un po' indispettita. Mi hai fatto venire il fiatone perché ho corso tutto il tempo pensando chissà cosa ti fosse successo.
Altro che fiatone. Adesso che non correva più si sentiva sudata fradicia coi panni appiccicati addosso, lei che odiava puzzare di sudore.
Senza nemmeno curarsi delle sue difficoltà Mattia le aprì la portiera di destra.
-Dai, entra che ti faccio fare un giro.
-E questa la lascio qui? Rispose Marzia indicando la bici.
-Ce la portiamo dietro.
_E dove vuoi metterla, sul tetto?
-Nel portabagagli.
Mattia aprì il portello, tirò giù i sedili posteriori e sistemò la mountain bike per tre quarti all'interno; usciva fuori solo la ruota anteriore. Si sfilò la cinghia dei pantaloni e la ancorò al pianale del bagagliaio, facendone passare una estremità dentro una specie di gancio sul portello. Lo tirò verso il basso e chiuse la cinghia fino all'ultimo buco. Sembrava tutto sufficientemente sicuro.
"Meglio", pensò lei; "così entra aria ed esce la puzza del mio sudore".
Mattia si diede da fare col cambio smanettando come se corressero un rally; lei puntò i piedi e agguantò con entrambe le mani i due lati del suo sedile. Non era per niente tranquilla.
Mattia rallentò immediatamente quando si immise nel traffico della provinciale. La ragazza immaginò che volesse portarla al lago, ma lui invece quando arrivò alla deviazione tirò diritto. Attraversarono due paesi procedendo sempre a buona velocità. Mattia era ammutolito, assorto in chissà quale pensiero.
"Sembra mio padre quando facciamo la gita domenicale", pensò Marzia; "guida e sta zitto, e io e mia madre a lanciarci occhiate".
Attraversarono un altro paese.
"Però mio padre ogni tanto sbuffa, qualche volta borbotta; questo qui non esiste proprio".
-Gratta, disse Mattia all'improvviso.
-Cosa?
-Gratta, non senti?
-Cosa gratta, la bici? Chiese lei girandosi a guardare la sua mountain bike.
-Il cambio, non lo senti sto rumore?
Per questo stava così assorto. Ma lei non sentiva proprio niente oltre il rumore dell'aria risucchiata all'interno dell'auto.
-Non è niente, disse lui; è finito.
Era ormai quasi un'ora che stavano in macchina e Mattia non accennava a tornare indietro né a fermarsi.
-Ma dove stai andando? Chiese lei.
-Qui avanti.
Due parole e basta. Avanti dove? A fare che?
"Vorrà mostrarmi ancora qualcosa", e per un po' smise di preoccuparsi.
Ma i paesi si succedevano gli uni agli altri e Mattia tirava sempre diritto lungo la provinciale. Lo stomaco di Marzia cominciò a contrarsi.
-Ho fame, disse a bassa voce.
Mattia non diede segno di averla sentita.
-Ho fame, gridò lei.
-Potevi dirlo subito, rispose lui cupo e continuò a guidare.
-Voglio mangiare adesso.
-Qui vicino c'è un posto. Mi fermo e ti compro qualcosa. Però non gridare che mi disturbi la concentrazione.
In un paio di minuti arrivarono a vedere l'insegna gialla di un "Mc Donald's". Il parcheggio sui due lati dell'edificio era pieno di macchine.
Mattia non spense nemmeno il motore. Saltò giù e in una manciata di minuti era già di ritorno. Entrò in macchina lanciandole in grembo un sacchetto contenente due confezioni di hamburger.
-Ma si può sapere che hai? Si può sapere dove corri? Chiese Marzia con la bocca piena di cibo.
-Mangia e sta zitta. Devo concentrarmi.
-A che ti serve tutta 'sta concentrazione?
-Devo trovare le parole adatte.
-Che significa "adatte"?
-Devo dirti una cosa, ma non mi vengono le parole.
"Questo è matto da legare", pensò Marzia con rabbia, ma finì di spolverarsi gli hamburger senza più dire una parola.
Intanto la MITO correva di nuovo lungo la provinciale. Era scesa la sera e l'aria che entrava dal portabagagli semiaperto non era più molto piacevole. Marzia teneva le braccia strette intorno alla vita perché aveva freddo e perché non era più tranquilla: il suo migliore amico le stava rivelando una faccia tutta nuova, incomprensibile.
Mattia si fermò in una piazzola di parcheggio.
-Non credevo di doverci pensare tanto, ma non mi vengono su le parole giuste.
Stava parlando a se stesso, come se fosse solo dentro quella macchina.
-Puoi almeno dirmi di che si tratta? Provò a intromettersi Marzia. Posso aiutarti?
-No, faccio da solo. È una cosa importante, devo trovarle da solo le parole.
Rimise in moto.
Lo stomaco di Marzia riprese a contrarsi. I due hamburger non erano bastati, perché l'ultimo pasto era ormai lontano più di sette ore. All'improvviso, senza neanche mettere la freccia, Mattia infilò una traversa a destra, poi un'altra, poi ancora un'altra e si ritrovò sulla provinciale ma nella direzione opposta a quella da dove erano venuti. Alla prima piazzola di sosta si fermò e spense motore e fari. Poco più in là stavano parcheggiati due camion. Sembravano abbandonati, non c'era un'anima, solo il traffico sulla provinciale con le sventagliate dei fasci di luce nei due sensi.
-Devi farcela. Trova ste cazze di parole.
Mattia parlava a se stesso.
"Forse si è dimenticato che io sono qui, o non gliene frega più niente", pensò Marzia.
Chissà che parole cercava; quel ragazzo non era stato mai capace di fare un discorso lungo e sensato, dopo un po' finiva per smozzicare le frasi, grugniva e taceva.
Rimise in moto. Passò in mezzo ai due camion e si avviò nel traffico.
-Guarda che sono capace di trovarle le parole. Poi ti dirò tutto, e le lanciò un'occhiata.
Allora era una cosa che la riguardava, una cosa pesante, brutta, bruttissima, visto che non riusciva a mettere insieme uno straccio di frase. Marzia, preoccupatissima, iniziò ad arrovellarsi provando a trovare un argomento, un motivo, un accidente qualsiasi che la facesse star male e che mettesse così in imbarazzo il suo amico nel rivelarglielo. Forse la sua nuova compagna di banco, Elena, stava cercando di soffiarle Marco, che lei dopo tanti sforzi sentiva di essere finalmente riuscita a sedurre. Erano due giorni che non lo vedeva e adesso che ci pensava nemmeno Elena era venuta in classe negli ultimi giorni.
Ma lui come ci era arrivato? Non conosceva né Elena né Marco, però lei come al solito gli aveva già detto del suo interesse per quel ragazzo. Il paese era non molto grande e ci si vedeva tutti alla sera. Forse Mattia li aveva visti insieme e aveva capito tutto, forse li aveva seguiti di nascosto, forse...
"Deve essere questa la cosa che deve dirmi, sennò perché tutti questi indugi?"
Si erano nuovamente fermati al Mc Donald's. Neanche stavolta aveva spento il motore, ma era tornato con due buste, aveva fame anche lui. Entrarono nel parcheggio di un supermercato, vuoto a quell'ora. Lei iniziò subito a mangiare i suoi due hamburger, mentre Mattia teneva la testa appoggiata al volante.
-Non mangi?
-Dopo.
Marzia non riusciva più a trattenersi.
-Senti Mat, ho capito quello che vuoi dirmi, almeno credo.
-No! Saltò su lui come se gli fosse esploso un petardo dentro le mutande. Non hai capito niente. Non puoi aver capito. Non devi.
-Ma io voglio solo discutere con te della cosa.
-Niente affatto. Te lo dirò io quando mi saranno venute le parole giuste.
Rimise in moto.
-Mangia anche i miei hamburger. Non mi vanno.
Marzia avrebbe magari potuto, ma tenne tutto il tempo la seconda busta chiusa tra le mani. Prima o poi gli sarebbe venuta fame a quel testone.
Passarono davanti alla chiesa dei Cappuccini. Mattia fermò nel piazzale, spense il motore e scese dalla macchina.
"Non vorrà mica scaricarmi qui con questo buio?" Pensò Marzia rabbrividendo.
Mattia prese a girare a lunghi e lenti passi intorno alla MITO, con le mani nelle tasche dei calzoni.
"Deve sentirsi niente affatto bene", si disse Marzia. "Dovrei fare qualcosa per lui, ma che cavolo faccio?"
Rientrò in macchina con un balzo.
-Ti porto a casa. Per questa sera non ce la faccio...non ce la faccio proprio...non mi viene...non mi viene su niente.
Per tutto il tempo Marzia guardò truce davanti a sé.
Mattia fermò a poche decine di metri dal suo portone: sfilò la cinghia da dove l'aveva ancorata, tirò fuori dall'auto la mountain bike e la sistemò sul cavalletto. Richiuse il portello senza far rumore e le aprì la portiera.
-Passo a prenderti domani nel pome. Vedrai che la notte mi aiuta a trovarle 'ste parole.
-Ma vaffanculo! Gli sparò Marzia sulla faccia.
Spinse la bici dentro il portone. Si voltò. Mattia era sempre fermo accanto alla macchina con la faccia da funerale. Lei ci mise poco o niente a trovare due parole di conforto.
-OK! Passa dopo le due e mezza, e sparì dentro il portone.

sabato 15 ottobre 2011

POESIE D'AGOSTO PIÚ UNA

Dopo un lunghissimo racconto dal finale amaro e cupo un po' di poesia non guasta. Sono alcune poesie che ho scritto durante le mie vacanze a Bibione.

LA MANO SINISTRA DI DIO

Mi taglio sempre le unghie
davanti allo specchio del bagno;
non guardo le dita mente ci lavoro,
guardo l'immagine riflessa e quindi
recido in differita, perché nello specchio
vedo un mancino che lavora veloce e sicuro,
come Dio quando ha creato l'Universo,
perché Dio è mancino: basta guardare
il cielo di notte quando è sereno
e quando non c'è la luna per vedere
la mano di Dio partita da sinistra
a destra nel gesto divino.
Poi la mano gli cadde sul fianco,
stanca, ne gocciolò via una stilla
di sudore e fu creato il mondo.


BUONA È LA NOTTE

Buona è la notte, che mi fa pensare,
che mi aiuta a subire; bella
è la notte, che mi dà la voglia
di sperare. Da trenta anni la accolgo
in questa casa, vicina
allo scorrere del Reno, dove sono
parcheggiato nell'attesa che tutto abbia fine.
Qui ascolto la notte e il suo respiro,
che trapassa i vetri, le mura
e le tegole del tetto: lo ascolto
unirsi al mio, che a volte è tranquillo,
molto spesso accelerato, qualche
volta agitato. Poi c'è ancora
qualcosa che amo della notte: il tuo
silenzio calmo accanto a me.


L'ANGELO CORRUTTORE

La riconosco dal sapore agro
che mi sgocciola in gola la presenza
dell'angelo corruttore, che ogni notte
si avvicina ai miei sogni
senza penetrarvi mai, per mio assoluto divieto.
Si illude di convincermi che i suoi dogmi
siano i migliori, i più a buon mercato,
i soli che ne prendi due e ne paghi uno,
con qualche orazione ogni mattina
appena alzato e ogni sera appena coricato.
Pretende di convincermi che la sua vita è eterna.
Ti chiederò scusa, amico mio, se dopo
morto ti troverò davanti alla soglia della mia casa
ad aspettarmi; ti chiederò scusa
per non averti dato retta, ma adesso,
per favore, lasciami abitare a modo mio
questo sputo di mondo dove mi hai trovato
e non provare più a parlarmi del tuo paradiso,
piuttosto del tuo inferno, se ne hai voglia.


UN MOZZICONE DI MATITA

Un mozzicone di matita,
un foglio di carta
spiegazzato;
parole sfuse in
girotondo
per una poesia che
muore appena nata.


BERMUDA BIANCHI

Bermuda bianchi e poi soltanto pelle,
la mia pelle infocata di sole
e invece desidero la notte
per pensare in silenzio,
ma la pelle brucia e suda
anche di notte.
Non finirà mai questa estate
di luce asfissiante, di suoni, di colori
che fanno male agli occhi,
che disturbano
i silenzi dell'anima, che a loro
volta mi chiedono
altri silenzi
per ascoltare meglio la vita
che mi si divincola fuori
dalla pelle di ora in ora.


Per PIÙ UNA si intende una poesia che non è stata scritta a Bibione d'agosto, ma qualche mese prima a Maximiliansau. Questa poesia è stata però scelta con altre 99 tra almeno 12000 di 1400 poeti diversi per entrare in una antologia. Ho pensato di aggiungerla qui per i miei amici


AVREI VOLUTO

Avrei voluto che tu fossi
madre a me
e non ai figli miei;
esser la prima
donna della mia vita.

Ti è toccato esser l'ultima,
la definitiva,
quella che mi cammina al fianco,
che mi siede davanti a colazione,
che non mi chiede
più nulla,
perché mi conosce come
mia madre che mi ha messo
al mondo.

Non mi ero accorto,
scusami,
che tu avevi esaudito da tempo
quel mio istintivo desiderio.


domenica 9 ottobre 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Ultima puntata


Verena Mutig iniziò quella sera stessa a gettare le basi di quel nuovo romanzo. Per un inconscio istinto di sopravvivenza aveva una gran fretta di finirlo; non aveva ancora deciso cosa raccontare e cosa no, ma attese che l'ispirazione le arrivasse col tempo.
Tre mesi dopo Esther Samenberg fu ricoverata nella clinica del suo amico oncologo: non parlava quasi più e aveva lunghe pause di torpore, durante le quali a stento si capiva se respirasse ancora. Le ultime settimane entrò in coma irreversibile, ed esattamente sei mesi dopo la sera delle sue grandi rivelazioni a Verena il suo cuore cessò di battere.
Tornata a casa dal rito funebre Verena capì di avere a lungo interrogato la sua coscienza, troppo a lungo, senza voler capire che nel suo cuore e nella sua mente già da tempo era maturata la decisione di raccontarla tutta la verità; di raccontare tutto di Isaia Samenberg e della sua scoperta del magnetismo tra gli universi sopra e sotto quello nostro, che se cade in modo diverso sul mondo manda a spasso il Giappone per mare come un incrociatore senza timone, ricopre di ghiacci l'equatore e di sabbia del deserto tutta quanta l'Antartide; e che tutte queste pazzie stavano scritte sotto un Picasso abilmente falsificato, che chi voleva poteva trovare delicatamente imballato da una ditta francese a Harrisburg, in una soffitta della villa di un vecchio glorioso soldato colpevole di bigamia e forse anche di mania di grandezza. Amen.
Verena fu felice di aver preso una decisione da normalissimo essere umano, e concluse la sua opera raccogliendo tutto in otto dischetti, che contraddistinse dal primo all'ultimo con le prime otto lettere dell'alfabeto greco, dalla Alfa alla Thêta cioè, per distinguerli da quelli che contenevano gli appunti originali, che Esther aveva numerato da 1 a 11.
Fu pronta in meno di un anno e, dopo aver telefonato al suo editore annunciandogli il suo prossimo arrivo, partì da Roma alle sette del mattino con la sua auto perché non si fidava di spedire il materiale per posta. Portò soltanto una valigetta col minimo necessario e due buste contenenti i suoi dischetti e quelli di Esther. Raggiunse l'autostrada A1 in meno di un'ora e diede subito gas perché l'appuntamento a Milano con l'editore era per le quindici e voleva prima andare in hotel a farsi una doccia.

*

Cominciarono alle undici e un quarto ad arrivare alla Centrale della Polstrada di Firenze le telefonate degli automobilisti che avevano assistito allo spettacolare incidente. Le due pattuglie della stradale inviate sul posto sapevano che era successo tra l'uscita di Roncobilaccio e quella di Pian del Voglio, prima della galleria, come avevano detto quelli che sostenevano che la Mercedes viaggiava diretta a Bologna; dopo la galleria, come invece dicevano altri che erano convinti che l'auto fosse diretta a Firenze. Unica cosa certa: la macchina era volata giù da un cavalcavia e si era schiantata accanto a un pilone di cemento dopo un volo di settanta metri. Le due pattuglie sbagliarono a imboccar strade un paio di volte, ma finalmente arrivarono sul posto.
Della giovane donna al volante c'era ben poco da riconoscere. Doveva aver avuto un malore, perché quando riuscirono a ricostruire la dinamica dell'incidente in base alle raschiate lasciate dalla carrozzeria sull'asfalto e sul guardrail, si capì che la guidatrice viaggiava diretta al Nord, e che l'auto improvvisamente sbandata aveva saltato lo sbarramento centrale tra le opposte corsie, attraversato diagonalmente la carreggiata diretta a Sud e dopo aver saltato anche la protezione esterna era precipitata nel vuoto.
"Sembrava che qualcuno avesse dato un gran colpo allo sterzo, dissero alcuni testimoni; è schizzata via acquistando sempre più velocità dopo la sbandata".
In effetti non c'era alcuna traccia di frenata. Motore, sterzo, freni e sospensioni erano in ordine; la donna era morta sul colpo in seguito all'urto. Non era possibile andare oltre l'ipotesi del malore, ma non si poteva escludere un colpo di sonno, o forse era stata solo la volontà del destino.
Le pattuglie raccolsero tutto quello che trovarono in un pacco; due giorni dopo il contenuto era tutto sul tavolo di una giovane ispettrice. A parte gli effetti personali e i documenti c'erano solo due buste pieni di dischetti: per l'esattezza una ne conteneva undici, numerati progressivamente partendo da uno; l'altra conteneva otto dischetti con sopra scritto a mano Verena Mutig-Alfa e poi di seguito, seguendo l'alfabeto greco che l'ispettrice conosceva, fino all'ultimo dischetto Verena Mutig-Thêta.
L'ispettrice prese il primo di questi ultimi e lo inserì nel suo PC; cercò di aprirlo, ma era vuoto, e così via tutti gli altri contenuti in quella busta. Che razza di scherzo è questo? Si domandò la giovane ispettrice di polizia. Inserì comunque anche i dischetti coi numeri progressivi della seconda busta, non nell'ordine numerico ma così come le venivano fuori. Anche questi, manco a dirlo, erano vuoti, e la giovane ispettrice stava per rimetterli nella loro busta quando si accorse che quello col numero uno le era scivolato sotto le carte che aveva sparse sopra la scrivania.
Sarà certamente vuoto anche questo, pensò la ragazza, ma per scrupolo lo infilò nel computer, e quasi per un miracolo nello spazio "nome del file" comparve un titolo: "Dopo la morte di A.".
C'è un morto, pensò l'ispettrice, e speranzosa fece clic sul titolo del file.

Filename: DOPO LA MORTE DI A.

Mentre Alessandro moriva a Babilonia nel 323 a.C., attorno alla sua tenda stava acquartierato il resto dell'esercito che tutto aveva vinto al suo comando: poco più di seimila uomini. Già sufficientemente ricchi per essersi divisi un bottino di cinquantamila talenti dopo la battaglia di Arbela, attesero in rispettoso silenzio la morte e i funerali del loro re. Dopodiché si spartirono i tesori che ancora avanzavano, e una volta sciolti i reggimenti e le brigate si divisero in tribù, sotto tribù, gruppi e gruppuscoli preparandosi a tornarsene a casa.
Parecchi di loro rimasero lì per sempre, sepolti sotto dei massi, perché scoppiarono risse furibonde per invidie e vecchi rancori con morti e mutilati. Tanti creparono strada facendo; molti si ammogliarono con le bellocce donne assire e persiane; qualcuno più fedele o di bocca meno buona dei camerati tornò alle mogli lasciate in Macedonia una decina di anni prima. Di tutti quei soldati i cronisti del tempo furono in grado di dare notizie sicure fino al loro ritorno in patria; dopo se ne disinteressarono perché non avevano più valore di notizia da prima pagina, e anche a me non interessano più. Proprio di tutti quei soldati, come ho detto sopra, i cronisti non ce la fecero a conoscere la fine, e questo va precisato: di cinque di loro, un colonnello e quattro capitani, che si mossero nottetempo appena morto il re insieme a due giovani donne fenice, si perdono quasi subito le tracce. Una delle due donne era incinta, e dato che era stata l'amante del re quello che dopo poco avrebbe partorito doveva essere il figlio di Alessandro. La donna mise al mondo un bambino sordomuto, ma di straordinaria bellezza, con un occhio nero e uno azzurro, e nessuno alla vista di quel marchio di fabbrica osò più mettere in dubbio l'origine regale del marmocchio. Come si è detto, dei sette più uno, (o per meglio definire, dei 5+2+1, anche se puzza di modulo calcistico), non si seppe più nulla, ma ricompaiono qua e là nel corso dei secoli in modo però assai nebuloso, almeno fino a Auschwitz, dove qualcuno giura di averli visti uscire vivi da una camera a gas, e altri invece sono convinti che fossero in uniforme da SS, compreso il bambino.
Di questo gruppo di eroi-carogne e di puttane-sante e del loro bastardo si occupa il libro che sto per scrivere. Unica notizia certa: i cinque ufficiali erano tutti nati a Pella, e appartenevano alla stessa brigata di cavalleria con la quale Alessandro combatté gloriosamente a Cheronea nel 338 a:C.. Stesso squadrone di Alessandro, furono sempre fianco a fianco con lui, la sua guardia del corpo per essere esatti, i suoi amici più fidati.
Le due donne erano scampate alla distruzione di Tiro, e nel massacro ebbero salva la vita per la loro bellezza. Erano sorelle gemelle, identiche come due gocce d'acqua. Alessandro le amò entrambe, come era facile immaginare.

Bella storia, pensò la giovane ispettrice, ma non interessa per la soluzione del mistero di questo incidente. Si sentì a posto con la coscienza; mise le buste coi dischetti di nuovo dentro il cartone insieme ai documenti e agli effetti personali; chiuse il cartone e vi incollò sopra di traverso un'etichetta dove scrisse con un pennarello: "Da destinare ai parenti".
Rimise il cappuccio al pennarello e passò alla pratica successiva.

F I N E

martedì 4 ottobre 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Undicesima puntata


A casa Verena accese il suo PC, introdusse il dischetto numero 4 nell'apposita fessura e aprì il file.

Filename: VOLO UNITED AIRLINES 93

Le due ragazze entrarono all'interno dell'aereo separatamente, una delle due trascinava per mano un moccioso riottoso che inforcava un paio di occhialoni scurissimi. Da sotto i suoi jeans sdruciti spuntavano due stivaletti neri lucidissimi. Le due ragazze sedettero ai lati opposti del corridoio, un paio di metri l'una dall'altra. Quella di destra spinse con forza a sedere il ragazzino nel posto accanto all'oblò. Il bambino si divincolò e mugolò qualcosa incomprensibile. La giovane Stewardess teneva già d'occhio da quando erano entrati lui e la ragazza; si avvicinò con un largo sorriso. Era una donna alta e graziosa con occhi e capelli neri e sapeva di apparire magnificamente nella sua divisa; il suo sorriso e la sua gentilezza la vincevano con tutti, uomini donne e anche bambini.
-Forse ha fame il nostro piccolo uomo, disse chinandosi verso il bambino e gettò un occhiata al suo orologio, non erano ancora le sette e mezza. Fra mezzora decolliamo e subito dopo ti porto la colazione.
-Non è la fame, le rispose la ragazza; è soltanto un po' nervoso.
-Paura di volare?
Per tutta risposta il bambino le mostrò la lingua. Poi si alzò di scatto e prese fra le dita la targhetta col nome appuntata sul petto della donna, avvicinandosi come per leggerla meglio.
-Io mi chiamo Cee Cee Ross. lo aiutò lei; e tu come ti chiami?
Il ragazzino la fissò senza aprire bocca.
-Ho visto che la lingua ce l'hai, perché non vuoi dirmi il tuo nome?
-Non può, intervenne la ragazza; è sordomuto dalla nascita.
-Oh, mi dispiace.
-Si figuri, mi fa diventare matta anche senza parlare.
Cee Cee voleva rifarsi un po' col ragazzino. Gli sparò un sorriso speciale.
-Perché non ti togli quegli occhialoni? Visto che non riuscivi nemmeno a leggere il mio nome? Chissà che begli occhi che hai.
Il sordomuto ci pensò su un attimo poi si tolse gli occhiali. Il sorriso scomparve dalla bocca di Cee Cee Ross.
-Che strano, mormorò, poi si scosse. Scusatemi, ho un sacco di cose da fare, e si allontanò rapidamente.
Cinque minuti dopo entrarono quattro uomini e sedettero nei posti liberi che trovarono. Per ultimo entrò un quinto uomo molto alto e dall'aspetto severo. Percorse tutto il corridoio fino in fondo all'aereo guardando i pochi passeggeri come se cercasse qualcuno. Sfiorò appena con lo sguardo i due arabi seduti in prima fila e un altro seduto quasi al centro, che era arabo anche lui ma sembrava non avere niente altro in comune coi primi due. Arrivato in fondo al corridoio l'uomo alto e severo tornò indietro e sedette una fila dietro alla ragazza col bambino. Giusto in tempo per stringersi la cinghia di sicurezza ché l'aereo era già pronto a rollare sulla pista.
Alle 8,01 il Boeing 757 del volo UAL 93 si staccò dalla pista del Newark Airport diretto a San Francisco alzandosi in un meraviglioso cielo blu. Venti minuti dopo l'arabo seduto al centro si alzò avviandosi verso le toilette anteriori. Afferrata la maniglia aprì la porta, ma subito la richiuse precipitandosi sullo Steward che gli dava le spalle. Era comparso qualcosa nella sua mano destra forse un trincetto o una lima per le unghie. Sapeva comunque farne un uso estremo perché un attimo dopo lo Steward crollò sgozzato a terra. Un passeggero delle prime file grande e grosso, forse un militare, reagì con prontezza cercando di afferrare il braccio armato dell'arabo, ma fu sopraffatto dagli altri due arabi che adesso brandivano ognuno attrezzi da taglio simili a quello dello sgozzatore. Il passeggero robusto fu ripetutamente pugnalato sui reni e sui fianchi; cadde a terra e morì poco dopo. C'era sangue da per tutto. Sovrastando le urla di panico il primo arabo gridò ai passeggeri:
-Questo è un dirottamento! Andate tutti in fondo e sedete tutti negli ultimi posti.
Estrasse un oggetto tondeggiante da una tasca dei pantaloni.
-Questa è una bomba a mano. Può fare spaccare in due la fusoliera. Sedete in fondo, maledizione, o morirete tutti!
I due suoi compagni erano già entrati nella cabina di pilotaggio e si sentivano provenirne urla e il rumore di una colluttazione mortale; ma l'arabo con la bomba non si curò di quello che avveniva alle sue spalle. Diede uno spintone a Cee Cee Ross scaraventandola verso il fondo. Lei perse una scarpa nel corridoio, arrivò in mezzo agli altri ostaggi claudicante e con gli occhi pieni di lacrime; si lasciò cadere in una poltroncina, si sfilò la scarpa rimasta e la scagliò lontano da sé. Un attimo dopo si coprì il volto con le mani emettendo un grido strozzato. Attraverso la porta della cabina spalancata i due arabi trascinarono fuori i corpi senza vita dei due piloti. La testa del Comandante Jason Dahl penzolava di lato, quasi del tutto staccata dal busto.
I tre confabularono tra loro, poi uno di quelli che avevano ammazzato i piloti rientrò nella cabina. Alcuni secondi più tardi l'aereo iniziò una grande virata a sinistra.
-Stiamo tornando indietro, esclamò Cee Cee. Poi estrasse di tasca il suo handy, chiamò il marito e gli riferì quel che era successo. La stessa cosa fece Laureen Grandeola; Jeremy Glick telefonò a sua moglie Lizabeth. Alcuni minuti dopo telefonavano tutti.
-Un aereo pochi minuti fa ha centrato una delle Twin Towers a New York, urlò una donna; mia figlia mi ha detto che sta su tutte le televisioni.
-Cristo! Questo è un commando suicida, esclamò Mark Bingham e chiamò subito sua madre Alice al telefono.
-Non è possibile, gridò qualcuno; non spargete il panico.
-Invece deve essere così, disse un altro, altrimenti non avrebbero ammazzato i piloti.
-Non possiamo rimanere inerti e aspettare la morte, esclamò Thomas Burnett; dobbiamo batterci. Forse non salveremo l'aereo ma almeno non lo faremo precipitare dove vogliono loro. In che direzione stiamo andando? Chiese a Cee Cee.
-Credo che vogliano arrivare a Washington, grosso modo questa è la rotta.
-La Casa Bianca! Esclamò Jeremy Glick.
-Cristo, è vero! Dissero in molti.
-Vogliono ammazzare il Presidente, disse Thomas Burnett, e cominciò a telefonare a sua moglie.
-È sicuro, è sicuro! Gridò Laureen Grandeola; me lo ha detto adesso mio marito: un altro aereo ha centrato la seconda delle Twin Towers. Dio mio, moriremo tutti!
Il limite del panico era stato ormai superato, ora erano tutti entrati nel grande campo della disperazione fredda, calma che ogni condannato a morte conosce pochi attimi prima dell'esecuzione.
-Saltiamogli addosso, sono solo in tre.
-Non avete una chance contro quella gente, disse la ragazza che teneva tra le braccia il piccolo sordomuto; lasciate fare a loro, e indicò i cinque uomini che se ne erano rimasti tranquilli e in silenzio come se la cosa non li riguardasse.
-Possiamo aiutarli, disse Thomas Burnett; siamo uomini anche noi.
-Non basta amico, disse quello dei cinque che era entrato nell'aereo per ultimo. Quei tre sono professionisti e anche noi lo siamo.
-Da come parli direi proprio di sì, disse Thomas, ma due o tre di noi possiamo esservi di aiuto.
-Occupatevi delle donne e state alla larga, disse quello entrato per ultimo che parlava come un capo.
Si avvicinò al piccolo sordomuto e gli aprì davanti al viso il palmo della mano destra. Il ragazzino si rimboccò i pantaloni, estrasse da dentro i suoi stivali gli speroni e glieli mise nel palmo aperto. Poi si tolse la cinghia di cuoio dei pantaloni e offrì anche quello all'uomo che sembrava il capo. Questi passò gli speroni a due del suo gruppo e si arrotolò la parte terminale della cintura intorno al polso destro, lasciando pendere circa mezzo metro di cuoio con in fondo una fibbia dalla foggia strana, ma tagliente come un rasoio.
-Stiamo già sorvolando la Pennsylvania, disse una delle due ragazze.
-Ancora pochi minuti, aggiunse l'altra.
L'uomo che si comportava come un capo emerse dal mucchio degli ostaggi e si incamminò lungo il corridoio centrale del velivolo muovendosi con estrema circospezione. L'arabo gli mostrò la bomba a mano come terribile monito, ma visto che l'altro continuava ad avanzare gli urlò:
-Mi basta allargare le dita, ho già tolto la sicura. Vattene bastardo! Anche gli altri devono andarsene. Via tutti! Indietro!
Ma i quattro uomini avanzavano di lato scavalcando le spalliere delle poltrone. Quello che camminava lungo il corridoio era ormai a pochi passi dai due arabi, che aspettavano l'attacco con apparente sangue freddo. L'uomo che sembrava il capo allargò le braccia come Cristo, lasciando la cinghia penzolare bene in vista.
-Bada cane che allargo le dita!
-Fallo! Gli rispose l'uomo che stava nella positura di Cristo sulla croce; tanto non arriverete mai a Harrisburg.
Vide un lampo di sorpresa negli occhi dell'arabo e lasciò guizzare la cintura di cuoio che gli si svolse velocemente lungo il polso mentre la taglientissima fibbia cercava gli occhi dell'avversario. Li trovò e li fece esplodere entrambi in un attimo. L'arabo cacciò un urlo di morte lasciando cadere di mano l'innocuo oggetto di legno dipinto con vernice metallica che fino allora aveva stretto. Cieco e trafitto da dolori atroci fendette l'aria col trincetto mentre un secondo guizzo della fibbia gli tranciava giugulari e carotidi. Morì in pochi istanti. L'altro arabo aveva ingaggiato una impari lotta contro i due armati degli speroni del sordomuto. Uno dei due gli infilò il suo sperone nella gola fulminandolo all'istante.
Mentre dal fondo dell'aereo provenivano selvagge urla di giubilo, il capo spalancò la porta della cabina di comando. L'arabo che pilotava in quel momento l'aereo si girò a metà, ma non ebbe il tempo nemmeno di capire che qualcuno era entrato nella cabina: morì quando la lama della fibbia gli troncò di netto le vertebre cervicali. Si afflosciò sulla cloche e l'aereo abbassò subito il muso iniziando a precipitare.
-Via di qui! Ordinò alla sua gente il capo. Tutti verso il fondo!
-Salvali, lo pregò la ragazza che si teneva vicino il piccolo sordomuto; puoi atterrare, è tutta una pianura.
-Non è possibile, rispose il capo; ci hanno visto e non si dimenticherebbero più di noi.
Il Boeing mantenne il muso verso il suolo ancora per pochi secondi, poi si abbatté ai limiti di un giovane bosco.
Due contadini che si trovavano a circa quattro chilometri dal punto dell'impatto, pur correndo arrivarono sul posto più di un quarto d'ora dopo. Buon per loro che non fossero più vicini altrimenti avrebbero visto e raccontato cose che nessuno avrebbe mai creduto. Avrebbero raccontato di aver veduto uscir fuori dal rogo un gruppo di superstiti, cinque uomini, due donne e un bambino, che si erano allontanati chiacchierando come se fossero usciti da un cinema commentando il film che avevano appena veduto. Non avevano nemmeno i vestiti bruciati, un miracolo. Quei due poveri contadini avrebbero a lungo marcito in un ospedale psichiatrico. Fu una vera fortuna per loro essere arrivati in ritardo sul posto.
Subito dopo la caduta dell'aereo i componenti del gruppo di intervento uscirono uno alla volta dai rottami in fiamme; dovettero aspettare un paio di minuti il piccolo sordomuto che si era attardato a recuperare la cinghia di cuoio e i suoi speroni splendenti cui tanto teneva. Quando il piccolo arrivò si allontanarono rapidamente e sparirono in pochi minuti.