martedì 30 luglio 2013

GELO

Gelo addosso
come febbre malarica.
Nebbia
davanti agli occhi,
nebbia dentro il cuore.
Sapore amaro
di terra marcita in mezzo
ai denti, la mastico
e la inghiotto:
è la mia vita che se ne va,
che mi abbandona,
delusa di me,
imbestialita contro
di me.

venerdì 26 luglio 2013

RIMPINZIAMOCI DI POESIE

Meglio ritornare alla poesia, si fanno incontri più leggeri in questi tempi di calura soffocante. Ve ne propongo sei, una dopo l'altra. Non ve ne abbuffate però: la digestione col caldo è molto più lenta che con temperature normali.



QUESTA  NOTTE

Questa notte qualcosa mi  sveglia di soprassalto:
sento piangere un neonato,  
penso a te, che mi canti nell'anima.  
Sento il fruscio dei rami del grande albero 
davanti a casa 
a fianco del parco giochi: 
penso a te, che mormori dentro la mia quiete.
Intanto due gatti in agguato sulla tettoia che protegge
le nostre auto parcheggiate miagolano aggressivamente:
penso a te che  ami i gatti.
Il silenzio della notte  beve vita: 
quella che conosco.  Penso a te che muta ti allontani
proprio quando avrei bisogno della tua voce. 



I  VERSI  CHE  NESSUNO  HA  MAI  IMMAGINATO

Da una vita mi sforzo di scrivere i versi
che nessuno ha mai immaginato.
Mi dico: forza, spremiti,
cacciali fuori i versi  
che hai sulla punta del pennino, cosa
aspetti? Da una vita rincorro
il tempo che  porta lontano da me quei versi
maledetti che non mi vengono mai.
Li sento: cominciano  con due parole
semplici come lo sono le cose sublimi,
devo scrivere in fretta
qualcosa, ché poi sarà più facile farli venire
su dalle budella del mio inferno
questi pochi versi che nessuno
ha mai immaginato, che stanno lì
da quando ho cominciato a inseguire un sogno.
Devo scrivere quello che mi viene su,
senza pormi domande,
tradurre in parole
i suoni gutturali che mi si accavallano in gola 
e aspettare tranquillo.



AMORE  E  ODIO

Amore e odio sono gli unici inquilini
del mio palazzo; escono sempre insieme sottobraccio,
non si parlano mai, ma ascoltano ognuno
il rumore dei battiti del cuore dell'altro.
Io credo che siano fratelli gemelli, partoriti
da una madre già stanca, io credo che vivranno
sempre insieme e che la morte dell'uno
spalanchi la porta a quella dell'altro.
Sarà per questo che non posso fare a meno di amarti
quando più ti odio, e che incomincio a odiarti
quando più intensamente ti amo.



SCAGLIE  DI  VITA

Scaglie di vita abbandonate ai lati
della strada. Inconsapevolmente forse?
Abbandonate e basta, senza porsi domande,
senza pretendere di dare sempre risposte.
Il vagabondo è stanco, cattura le pulci del suo cane,
immerge i piedi pieni di vesciche in una pozza
d'acqua piovana, nemmeno cerca
più soldi per una elemosina.
Si chiude baracca, gente, la stagione è finita.



QUESTA  MATTINA

Avevi gli occhi stanchi stamattina
e non ti andava di parlare
così mi sono ritirato in un angolo del balcone;
ma una lampadina in bagno non si è accesa
e tu hai trovato subito il colpevole
per sfogare sull'unico marinaio
della tua ciurma il tuo malumore.
La postina ha portato reclame
di un mobilificio e una lettera.
non ho nemmeno  aperto la busta. 
L'ho buttata nel bidone
verde della carta. Non ne va bene
una stamattina, amico mio,
fattene una ragione e aspetta
che venga notte.



INCESPICARE  È  FACILE

Incespichi sempre sulla stessa pietra,
tanto che ormai cammini
quasi zoppo, ma ancora non hai 
imparato che un piede piantato stabilmente 
al suolo tiene meglio il tuo peso in equilibrio.
Ci si muove meglio se la terra non ti balla
sotto i piedi e meglio si respira
se non sollevi un polverone
scivolando a ogni passo.



Fatto, Euri, e non è stato tanto doloroso, né difficile. Basta avere un po' di intelligenza e un po' di sana umiltà. E un editor in gamba come te.









mercoledì 24 luglio 2013

IPPOLITO

Ippolito nella sua vita aveva seminato cazzate da tutte le parti al punto di non capire più se fosse nato sfigato o appena appena stupido. Era un impasto mal riuscito di genio, incoscienza, sregolatezza e idiozia con l'aggiunta di un pizzico di infantilismo. Quando gli andava di giustificarsi faceva di colpo diventare pregi i suoi difetti capitali: "sono un genio che si ciba del suo infinito talento, diceva a se stesso; di tutto il resto non mi può e non mi deve fregare di meno. Chi mi rimprovera e mi disprezza lo fa perché quando alza gli occhi al cielo vede le suole delle mie scarpe". In parte era vero, lui camminava una diecina di passi sopra il cielo, mai sfiorando il suolo sudicio per non inzaccherarsi. Per la maggior parte però il suo comportamento era dovuto al non sapersi adattare al tran-tran del resto della gente, all'ovvio, al quotidiano che aborriva, viziato da una madre tenerissima e protettiva che da sempre gli aveva ripetuto che lui dovesse essere il numero uno nella vita. 
Ippolito quella madre l'aveva amata e odiata, un sentimento strano che non era riuscito a governare, ma era convinto che almeno qui avesse avuto ragione: lui era un numero uno e questo gli imponeva di marciare alla testa del gruppone distaccandosene a ogni passo, Jack Frusciante ante litteram. Un sentimento ambiguo di sudditanza da sua madre e di dominanza sulla stessa, che lo aveva condotto a trovarsi sempre di fronte a un bivio quando si trattava di donne, con lui che di istinto imboccava la strada sbagliata, tanto da convincerlo di essere sfortunato nelle scelte, tutto qui, perché cadeva sempre sulle mele marce.
Aveva però avuto il gran culo di incontrare Maria Grazia e di farsi sposare da lei. Maria Grazia era mite e tenera, creta da manipolare a piacimento, assorbiva tutti i continui sbalzi di umore di Ippolito, le sue lune, i suoi tormentoni, lasciandolo libero di cercare sempre nuovi traguardi al suo immenso ego, alla sua incontenibile enorme ambizione. Perché Ippolito era un artista, un pittore dell'ultima avanguardia che ambiva ai massimi vertici, lassù, in vetta al suo cielo, irraggiungibile da tutti gli altri.
Però col tempo il suo rapporto con Maria Grazia si era irrigidito, più da parte di lui che da parte di lei, perché secondo Ippolito sua moglie non lo seguiva, non lo sapeva coadiuvare nei suoi tentativi di decollo, non gli dava il contributo che lui si aspettava. Non si era mai chiesto se fosse possibile a una persona normale sostenere quei ritmi spirituali e intellettivi e nello stesso tempo essere una perfetta moglie, un'eccellente madre della loro figlia e di notte una focosa amante.
"Io riesco ad essere marito, padre e amante, nonché artista. Allora dov'è il problema?"
Ma oramai la loro unione si era sfilacciata e mostrava strappi qua e là, tendendo verso una monotona e relativamente pacifica routine, verso quello che Ippolito detestava: il grigiore della normalità, del déjà vu. Si sentiva oramai solo di fronte alla montagna che intendeva scalare per appagare la sua smisurata ambizione e lasciare libero sfogo al suo talento.
A ricontarli adesso si accorgeva che erano trascorsi in quel limbo anni senza scatti, senza precipitare di colpo, ma nemmeno senza arrampicate eccellenti. Inorridì quando si rese conto di avere preso un modus vivendi nuovo e inatteso: lasciava passare giorno dopo giorno senza incazzarsi più per la noia, per la contezza dell'inutilità dei suoi sforzi, e questo sapeva che sarebbe stato un pericolo mortale. Avrebbe significato la rinuncia alla realizzazione del sogno della sua vita; avrebbe significato il mesto riassorbimento del fuggitivo nel ventre del gruppone, che ti risucchia e ti ingoia, ti digerisce e ti deposita ai bordi della strada come fetido letame. Una morte da vivo.
Scivolava sempre più in basso Ippolito e non si accorgeva di non stare muovendosi affatto: uno strappacore giornaliero ormai indolore e invisibile, di cui si accorgeva lui solo, ma il suo maledetto orgoglio gli impediva di chiedere aiuto, il suo stramaledetto ego gli vietava di venire a patti con la realtà.
La modernità gli venne incontro come una locomotiva in piena corsa. Si trovò nel mondo dei blogger e ne aprì uno tutto suo per sfogare le proprie ansie e le ambizioni frustrate, badando a non lasciar trapelare la crisi esistenziale che lo stava ingoiando.
Scoprì di avere uno stile piacevole che attirava commentatori e commentatrici. Dapprima solo curiosi, perditempo e cacasentenze, ma una fresca mattina di un novembre Ippolito lesse un commento arguto e succulento scritto in punta di lapis da una donna, che aveva l'agilità mentale di una gatta selvaggia e la saggezza di un elefante indiano.
Si firmava Hera, come la mitica madre degli dei, la padrona di casa dell'Olimpo, la gelosissima sposa di Zeus.
"Sei una scrittrice?", le chiese Ippolito nell'immediato controcommento.
"Ho pubblicato qualcosa, ma lo faccio per hobby", fu la risposta.
Ippolito era in fibrillazione: il suo istinto, il suo fiuto di randagio gli aveva messo in agitazione tutte le cellule più nascoste e più in tranquillità del suo spirito, che credeva perdute per sempre nella nebbia della monotonia quotidiana. Di colpo era tornato uccello da preda in caccia di sensazioni nuove, era tornato caterpillar, era tornato a vivere.
La sua produzione artistica ebbe una vigorosa impennata: era di nuovo uscito dal gruppo e scalava in solitudine la vetta del suo Izoard.
Anche Hera da parte sua aveva qualcosa di speciale, era un bulldozer e glielo disse subito: "Ti sta arrivando addosso una slavina e non so se ti salverai", gli scrisse.
Nessun pericolo di innamoramento per entrambi: quasi il doppio degli anni da parte di Ippolito; migliaia di chilometri di distanza, nemmeno uno di quei fremiti che lui ben conosceva. Nacque un profondo legame di amicizia, dove nessuno dei due sapeva quando fosse iniziato. Ippolito trattava Hera come una nuova figlia e le voleva bene.
Ma era pur sempre un numero primo, tormentato dalla solitudine, che contagiava tutto e tutti quelli che si avventuravano nei suoi paraggi, anche Hera, che non sopportava certi suoi atteggiamenti gigioneschi. 
Adesso c'erano a commentare sul suo blog altre belle persone e Ippolito, senza nemmeno accorgersene, faceva il gallo del pollaio. Un po' puttana era sempre stato per indole, dai tempi della sua infanzia, per attirare l'attenzione di sua madre prima e di qualche ragazza poi, fino a farlo con Maria Grazia all'inizio della loro relazione d'amore. Però non era mai stato un paraculo, come lo definiva senza mezzi termini Hera. No, paraculo non era mai stato. Forse solamente autolesionista per eccesso. Adesso però la stava provocando e deludendo, incapace di smetterla, nemmeno lui ne capiva il perché. Eppure vedeva che Hera si stava inesorabilmente allontanando da lui.
Una notte, nel chiuso del suo studio, Ippolito riprese le fila dei corsi e ricorsi storici della sua vita strapazzata. Da quando per orgoglio e stupida incoscienza aveva distrutto la grande amicizia con Rosalba P., la sua dolce e bellissima compagna di infanzia, di giochi e di studi, fino alla maturità e dopo all'Università. Per una banalissima ripicca l'aveva spinta fra le braccia di Eros, il bullo che l'aveva usata e mollata distruggendone l'anima.
Lentamente Rosalba si era rifatta una vita, ma non aveva dimenticato, anche se era stata capace di perdonarlo. A 54 anni un male incurabile se l'era portata via. Al funerale Ippolito piangeva. Pensava che avrebbe dovuto essere lui il vedovo inconsolabile, lo stupido che non aveva capito allora quanto Rosalba lo amasse.
E ricordò la breve, brevissima tragica poesia, l'ultima che lei gli aveva mandato, le cui parole erano impresse a fuoco nella sua mente:

"Sono venuta alla tua porta, era chiusa;
ho bussato e non hai aperto.
Adesso sto sola nella bufera"

Ora Ippolito stava nuovamente rischiando di divorare un'amicizia, per non avere il coraggio di ammettere di essere debole e bisognoso di aiuto, dell'aiuto di Hera, che glielo aveva offerto sponte sua, con quel suo modo un po' scontroso e ruvido.
Quella notte, la notte del ricordo doloroso di Rosalba, Ippolito aveva gli occhi umidi, stringendo nella mani un foglio aperto davanti al viso: una poesia che Hera gli aveva inviato.
"Leggila e dimmi se ti piace", le aveva detto con nonchalance. Non avrebbe mai ammesso di averla scritta per lui, ma Ippolito lo aveva immediatamente saputo. Non aveva bisogno di leggere, la sapeva a memoria.

"Non stai per arrivare.
Scostare la tendina con il tocco leggero di un gesto inutile
gettando lo sguardo alla cieca
con l'illusione di mandarlo lontano
-arco lanciato nel folto di una radura,
lenza gettata nel fiume, sasso scagliato nel pozzo-
Ma niente!
La visuale si arresta subito, all'inizio della salita.......
..............

Ippolito non riuscì ad andare oltre. Strinse il foglio tra le dita e se lo portò sul cuore.
No, non ti lascerò sparire nel folto di una radura, pensò; non ti scaglierò nel pozzo; non ti lascerò morire all'inizio della salita.
No, tu no.




 








venerdì 19 luglio 2013

TRE POESIE TRE

SENZA  TITOLO


Solo un bestemmiatore protervo e accanito,
coniatore di insulti fantasiosi
da centodieci et cum maxima laude,
poteva un giorno, o forse era una notte,
porsi un quesito urgente sulla divina natura
di quel Cristo che dileggiava, dissacrava
e violentava ogni momento.
Sei entrato dentro me come un colpo di vento
spazzando via foglie secche, stracci, cartacce
sporche insieme alle mille miserie
che lastricano l'anima mia da quando
ho incominciato a intendere e volere.
Ora dovrò fare i conti anche con te,
asso pigliatutto, che già hai agguantato e tieni stretto
tutti gli angoli di luce e di ombra
di una vita monotona, banale, senza forme,
senza picchi, tutta baratri, tutta fetore e liquame,
come la mia fino a ieri. Il dubbio resta
ancora, lo tengo in vita per testardaggine,
per non capitolare, per illudermi di potere
ancora vincerla questa impari battaglia senza più scopo.




L'UOMO  CHE  DIPINGEVA


L'uomo seduto al cavalletto dipingeva acqua
limpida con rapidi tocchi orizzontali del pennello
intriso d'acqua raccolta in una bacinella
da uno stagno vicino; l'uomo dipingeva cielo
sereno con veloci pennellate trasversali dal basso
verso l'alto, da sinistra verso destra senza mai
accavallare l'una all'altra. Immergeva il pennello
nell'aria sopra il suo volto e tagliava la tela
in tanti tratti obliqui. L'uomo dipingeva spazi
senza limite sulla sua tela bianca e poi col carboncino
ai quattro lati disegnava un occhio, sempre
lo stesso e immaginava fosse il suo occhio destro,
messo lì come un suggello, una firma, un attestato
di autenticità. Voleva concludere la sua
carriera di artista dipingendo spazi di acqua
e di cielo sulla sua tela nuda, all'infinito.
Ogni tanto si alzava dallo sgabello, indietreggiava
alcuni passi e rimirava l'opera che prendeva forma. 
In quei momenti immaginava che il suo patrimonio
genetico di origine divina, la sua cellula
eletta che Dio gli aveva data in prestito venisse
messa finalmente in azione, dopo tanta
inerzia. Chiudeva gli occhi e sognava.



IL  CAVALLO  CHIAMATO  BUCEFALO


Ho un occhio azzurro e uno nero
ma non mi chiamo Alessandro, né mio padre
si chiamava Filippo: galoppava sui monti
della Macedonia il mio genitore quando scoprì
la grotta dove s'era rifugiata mia madre
stremata dalla corsa. Mi chiamarono Bucefalo
e per anni ho servito il mio re, mentre lui
onorava me a cavalcioni della mia groppa.
Cheronea, Granico, Isso, le praterie persiane, giù
fino alla costa dell'India, finché lui morì.
Da quel giorno galoppo senza più cavaliere
cercandolo ovunque, finché ne sento la voce,
che mi precede e mi guida come
un filo invisibile nei prati infiniti
di questo universo che diventa sempre più
ristretto. Se mai ci incontreremo? Non importa:
quello che importa è che duri questo anelito
di ritrovamento, che questa speranza non crolli
distesa inerte su prati che diventano grigi e insonori.




giovedì 18 luglio 2013

LA SCOREGGIA PERFETTA

Capita solo all'intenditore di musica di captare e di isolare dal coro dell'orchestra il "do" del trombone, netto, sonoro, ottenuto con la giusta emissione di fiato da un musicista diplomato in un Conservatorio. È un suono perfetto a tutto tondo, migliore a mio parere della identica nota dell'oboe o dello staccato di un clarino, che sempre vibra e sconfina. Il "do" del trombone è una secca e breve esplosione, non a forma di cono ma di cilindro. I musici dell'orchestra la chiamano "la scoreggia perfetta". È infatti un tuono esploso a mezzodì, senza preavviso alcuno. Ci si allieta della sua intensità, plasticità, sobrietà del colorito; ci si rallegra, a volte senza cognizione di causa oserei dire, per puro amore di un'armonia. Ci si rallegra e basta: lo si gode in silenzio, socchiudendo gli occhi, mentre il volto spesso inciampa in un sorriso un po' sciocco, di beota beatitudine come si suol dire.

Ad una simile estasi mi ha elevato domenica pomeriggio l'aulico suono nel momento e nel luogo dove io meno me la potessi aspettare: un orinatoio pubblico della piscina comunale di Rappenwörth.

Mi chiudo sempre in una celletta, monaco della pisciata, per proteggere la mia pudicizia e sonnecchiare un po' nella beatitudine del rilascio idrico, e ci resto qualche minuto godendomi i rumori plebei e senza volto che avvengono nella latrina.

Mi ha sorpreso pertanto sospeso nel mio limbo il crepitare maestoso e sontuoso del più perfetto strumento umano: il buco del culo maschile dilatato il giusto per emettere quell'acuto a tutto tondo, apparentemente senza sforzo alcuno, senza sbavature né gorgoglii. Un "do" naturale, centrato all'interno del pentagramma, una autentica "scoreggia perfetta" che più scoreggia non si poteva.

Ho messo fine immediatamente alla mia minzione per avere il privilegio di vedere l'autore della splendida nota, ma ahimé era già via, come se avesse voluto lasciare anonimo il suo capolavoro.

Ho rispettato la sua privacy e sono riuscito al sole e all'aria aperta con un immenso senso di benessere nel mio cuore e una gran voglia di vivere appieno fino in fondo una vita capace di regalarti tali sublimi e inaspettati momenti.


domenica 14 luglio 2013

DUE POESIE DUE

QUASI PER GIOCO

Darti un nome è stato facile
me lo hai scritto tu, quasi per gioco;
darti un volto è stato facile
me l'hai mandata tu una tua foto,
quasi per gioco; per darti
una voce è bastato comporre un numero
sulla tastiera del telefono, quasi per
gioco; difficile creare l'odore
della tua pelle e farlo penetrare dentro
le mie narici. Ma non è stato 
un gioco: sono convinto che fosse
il tuo odore quello che ho annusato
una sera dentro un bosco, un odore selvatico,
sottile, che custodisco ancora, mi basta
tirare un po' su col naso, quasi per gioco.



UN UOMO SOLO, DINANZI A NOI

Ma cosa stiamo facendo? Chi vogliamo
dissanguare? Cristo è morto da venti secoli,
non torna più. In piedi dinanzi a noi
c'è un uomo solo, nudo, trafitto, umiliato e sconfitto.
Non vale la pena salvarlo, non vale la pena
scannarlo, neanche muore più chi è vittima di una
morte eterna, cambia ogni volta il modo di esecuzione
e la sentenza, anzi ormai non serve più 
sentenziare né giustiziare, nemmeno accorerebbe
il grande pubblico, tutto in famiglia sotto silenzio.
Dobbiamo dunque lasciare perdere tutto senza
intervenire? Dobbiamo lasciarlo lì, solo e distrutto
nel suo lembo di Golgota il nostro Cristo di tutti i giorni?
Tanto la sua vita non serve a nessuno
e la sua morte non redime il mondo.
Allora meglio ignorarlo: andiamocene via,
stappiamo una bottiglia di birra fresca,
prendiamoci una ragazza, divertiamoci un po'
e che lui si rivesta e se ne vada.


(Cosa hanno in comune queste due poesie? Innanzi tutto l'autore, poi la data di nascita, entrambe venute al mondo il 13 luglio 2013, la prima alle ore 02,44, l'altra alle ore 14,17, circa mezza giornata dopo).



venerdì 12 luglio 2013

EN PASSANT

Mi dice Anna Maria en passant ridendo assai:
"Non stare lì sdraiato sul letto come un uccello
sul ramo più alto dell'albero pronto
a gettarsi in picchiata". "A quale
uccello stai pensando?" Chiedo facendo finta
di niente. "A un grosso uccello notturno,
a un gufo predatore col becco ricurvo 
come il tuo naso". Così sono servito:
lei ha scambiato tutto l'odio che nutro adesso
verso la mia pigra persona, tutto il furore
che monta contro la mia cosciente ingenuità
per vorace bisogno di cibarmi di vittime
innocenti e certo ignare. Neanche a colei
che più da presso mi vive da mezzo
secolo riesco a rivelare il tormento
di delusione e di rabbia che mi brucia dentro.

martedì 9 luglio 2013

IL CANE RANDAGIO E IL RESTO DI UOMO

Il cane raggiunse l'uomo e si fermò a qualche passo da lui:
aveva annusato la morte, ma l'uomo non era malato.
Si era fermato solo per prendere tempo, perché
era in anticipo sull'orario del treno. Ricominciò a camminare
con passo lento, strascicando un po' i piedi. Il cane lo seguì
tenendosi a qualche passo da lui. Non voleva
arrecare disturbo, ma nemmeno voleva rimanere
a tiro del suo bastone, o di qualche pietra: era un randagio
e conosceva la vita. L'uomo non sembrava dispiaciuto
della presenza del cane: camminava a fatica
appoggiandosi al grosso bastone, non era ammalato
ma zoppicava in modo vistoso. Arrivò sul ponte
di ferro che scavalcava il grande fiume e sedette
in terra, come fa un viandante quando è tanto stanco,
e lui era sfinito. Il cane si accosciò e attese,
attese che quel resto di uomo prendesse una decisione,
attese finché arrivò il treno, sferragliando veloce.
Quando l'uomo tentò di rialzarsi gli mancarono le forze.
Il treno passò oltre con gran fracasso; il cane sentì
dentro il suo corpo tutte le vibrazioni del ponte, ma non
abbandonò la sua posizione di guardia.
La notte esaurì pian piano il suo silenzio e le prime
luci dell'alba invasero il cielo rivelando colori.
Allora laggiù in fondo comparve il primo treno del mattino.
L'uomo lo aspettava in piedi e attento; scelse perfettamente
il momento e si gettò davanti alla motrice in corsa.
Il cane udì distintamente tutti i rumori mortali di distruzione
e lo stridio dei freni. Rimase immobile, attento; anche
quando arrivarono le squadre dei vigili del fuoco e della polizia
il cane non si mosse, tanto che tutti si convinsero che fosse
appartenuto al suicida. Qualcuno si prese cura di lui
 forse adesso gli avrebbero dato una casa e una persona
pietosa che lo consolasse per l'abbandono. Ma al mattino 
successivo il randagio era sparito e nessuno lo vide più.

(Poesia nera, scritta ieri 08 07 13 alle ore 20.49 su imprimatur di Silvia)


venerdì 5 luglio 2013

QUESTO TUO VOLTO


 Questo tuo volto duro, scabro, che buca le mie notti,
che riesco solo a scolpirmi nella immaginazione,
questo tuo profilo affilato che incide
il silenzio dello spettacolo muto della mia
giornata, percorrendone i contorni
senza penetrarla mai, questa eco
ovattata della tua voce per un'unica volta
brevemente ascoltata, è tutto quello che ho di te
e che solamente nel sogno prende vita.
Sei depositata dentro di me,
respiri nel mio respiro, navighi nel mio sangue.

mercoledì 3 luglio 2013

IO ERO DIO

Credevo  fosse un sogno questa notte
mentre mi rotolavo zuppo di sudore tra le lenzuola
e cercavo di svegliarmi per riprendere sonno
più tranquillo, invece ero sveglio da tempo,
anzi non avevo mai dormito e tutto quello che mi
ero fatto passare davanti agli occhi era reale,
da toccare, da cogliere, da temere, da scansare,
da non lasciarsene sopraffare. E allora si ha da
far di conto e ricominciare da capo. Da dove?
Ma dall'inizio, che domanda. Da dove insomma?
Da quando ho capito che io ero dio e tutti gli altri
erano al mondo per distruggere me.
Questo l'ho capito mille volte mille, ogni giorno
di vita, ogni notte, come ho capito che nessuno
poteva riconoscere la mia divinità, e tutti
l'avrebbero osteggiata, negata e bestemmiata.
Potevo solo donare amore, perché se avessi tentato
di dare odio non ne avrei avuto la capacità.
Odiatori si nasce, non si diventa, come donatori di amore,
quelli che subiscono soprusi e delittuosi attacchi;
gli inchiodatori alla croce sono merce diffusa
e coloro che forgiano nuovi chiodi, ed ereggono
nuove croci sono molti di più. Allora ad ogni colpo di martello
liberare dalle vesti un braccio, una mano, un ginocchio,
un piede da offrire in cambio della loro serenità,
perché gli altri sono lieti solo se procurano sofferenza
a questo dio che bestemmiano, cioè a me che li lascio
fare per vederli felici, per sentirli appagati;
e badare che si realizzi quanto sta scritto nei sacri
libri, che cioè coloro che sono i più amati diano
i colpi di martello più feroci e violenti; perché io ero dio,
io sono dio e loro soltanto così potranno ricongiungersi con me.

Maximiliansau, 3 di luglio 2013 ore 04,31 della notte