giovedì 29 aprile 2010

DER ALTE MANN

Der alte Mann cammina a piedi nudi lungo la strada sterrata che attraversa il bosco. Lenta guarda la terra sotto i suoi piedi che passa. Der alte Mann è solo sul cuor della terra, nemmeno trafitto da un raggio di sole perché è notte.
Der alte Mann cammina lungo la strada sterrata che attraversa il bosco a piedi nudi, perché la terra gli trasmetta i suoi umori, la sua essenza.
Der alte Mann cammina a piedi nudi perché sta attraversando i paesi della sua anima, i prati della sua anima, sotto i rami incrociati degli alberi della sua anima, sotto i cieli notturni della sua anima.
Der alte Mann cerca i suoi paesi, camminando a piedi nudi lungo la strada sterrata che attraversa il bosco della sua anima.
Der alte Mann è giunto al primo dei paesi della sua anima: le strade sono deserte; appese alle finestre palpebre chiuse; palpebre chiuse di donna. Der alte Mann vede le palpebre chiuse di donna appese a ogni finestra; le può contare. Tante. Ogni finestra due palpebre. Der alte Mann non può sapere, non potrà sapere, non vorrà sapere se le palpebre chiuse nascondano occhi. Solo palpebre chiuse. Da osservare da lontano; da contare passando, se si ha voglia.
Der alte mann cammina a piedi nudi lungo la strada sterrata che attraversa il bosco notturno della sua anima, e arriva al secondo dei paesi della sua anima. Lo attraversa guardando lenta la terra sotto i suoi piedi che passa. Conosce ciò che riveste ogni porta, ogni finestra del secondo dei paesi della sua anima: una gigantografia di donna seminuda.
Der alte Mann non ha bisogno di guardare: conosce quelle nudità. Sono murate nella sua memoria; incarnite nelle cellule più sottili dei suoi muscoli, delle sue ossa, della sua vita.
Der alte Mann continua diritto fino alla fine del secondo dei paesi della sua anima, la dove sa che troverà un precipizio.
Der alte Mann osserva il precipizio dal ciglio: lo riconosce palmo a palmo.
Non si può cadere due volte nello stesso burrone.
Der alte Mann, di paese in paese, arriva all'ultimo dei paesi della sua anima. Solo muri nudi, senza finestre né porte. Solo tetti rossi abbassati sui muri appoggiati ai lati della strada che der alte Mann percorre. Non c'è bisogno di porte o di finestre perché chi sta dentro quelle case è purissimo spirito, è sogno, è intuizione e immaginazione insieme, assolutamente incorporeo.
Der alte Mann sa che non troverà né porte né finestre su quei muri; non troverà palpebre chiuse né aperte; non troverà occhi, né mani, né labbra, né un corpo seminudo da denudare del tutto.
Der alte Mann sa che dentro quelle case c'è solamente il suo pensiero, e -forse- anche quello di un'altra persona.
Forse, perché der alte Mann non ha più certezze.
Per questo cammina lungo la strada sterrata del bosco della sua anima, solo sul cuor della terra, nemmeno trafitto da un raggio di sole, perché i suoi paesi sono soltanto notturni e scompaiono ogni mattino.
Dopo gli ultimi muri piantati ai lati della strada, alla fine dell'ultimo dei paesi della sua anima, der alte Mann sa che troverà una scalinata stretta e ripida, che scende verso il basso, dove più denso è il buio.
Si volta der alte Mann verso gli ultimi muri, verso gli ultimi tetti dell'ultimo dei paesi della sua anima e aspetta. Aspetta colle piante dei piedi nudi salde sul primo scalino.
Der alte Mann aspetta un segno, una voce; aspetta di ascoltare il fremito di una lacrima che scivola lungo una guancia per sapere se e quando iniziare a scendere quella scalinata alla fine dell'ultimo dei paesi della sua anima.

martedì 27 aprile 2010

BLOCCO DELLO SCRITTORE = BRACCINO CORTO DEL TENNISTA

Chi s'intende di tennis conosce la maledizione del braccino corto: capita ad alcuni tennisti, particolarmente emotivi, di sentirsi il braccio che regge la racchetta improvvisamente accorciato in prossimità di un punto decisivo; assai spesso del match point.
Non si raggiunge più la palla che entra nel tuo campo; non si piazzano più i colpi; non si vede più la rete né le linee che delimitano il campo avversario. Risultato: le palle che vanno in campo avverso tutte fuori, palle irraggiungibili e tutte dentro le linee quelle che arrivano nel proprio campo. La partita è persa.
Ricordo una finale femminile a Wimbledon nel 1994 tra Stefi Graf e Jana Novotná.
Jana perse il primo set 7-6, ma vinse il secondo stracciando la Graf 6-1. Al terzo e ultimo set sul 4-1 con la battuta ebbe una crisi di paura di vincere. Le venne il braccino corto: perse cinque giochi in fila, gli ultimi due addirittura a zero. Stefi Graf, come un eisberg, ringraziò e portò a casa il titolo.
Jana cominciò a piangere durante il terzo set, negli ultimi due giochi, dove nemmeno vedeva la palla. Pianse durante la premiazione, mentre la Duchessa di Kent cercava di consolarla. Pianse negli spogliatoi. Pianse in albergo. Pianse in ristorante. Pianse sull'aereo al ritorno il giorno dopo. Pianse tutte le sue lacrime perché intanto sentiva che le si era nuovamente allungato il braccio, ma la finale era andata alla tedesca di acciaio inossidabile.
Uno scrittore è a volte una bestia simile.
Gli viene il blocco quando imbocca il rettilineo finale. Niente più idee; niente più parole; niente di niente. Hai voglia a rileggere tutto da capo; hai voglia a provare a scrivere a mano come ai vecchi tempi, perché dalla penna escono fuori ghirigori e basta. I fogli si riempiono di pupazzetti e parolacce oscene ma il tuo manoscritto, il tuo libro non va avanti. Irrimediabilmente fermo.
Il tempo passa e l'idea se ne è andata. Il filone si è esaurito.
A me è capitato col mio ultimo romanzo.
78 pagine di Word, carattere 12, tirate tutte d'un fiato in poco più di due mesi di lavoro. Mesi pesanti, con le ferie estive di mezzo ad interrompere il ritmo della giornata di lavoro normale. Con i problemi di una casa da vendere al meglio.
Con un delinquente che di notte va in giro a bruciare le auto in sosta -tra cui la mia, la prima, l'unica che mai mi aveva tradito, mai mi aveva lasciato a piedi, la mia prediletta- che mi ha costretto ad affittarne una per 10 giorni e a farmi venire a prendere dal primo dei miei due maschi per poter rientrare.
Quindi nervi a fior di pelle; tempo perduto per trovare un'altra auto che andasse a genio a me e all'altro polo del mio mondo.
E intanto arriva Natale, e Capodanno, inevitabili feste scassacazzi che ti piombano addosso quando meno ti occorrono. E poi il fatidico mese di febbraio col mio compleanno, certamente importante, mai però come quello di mia moglie -il secondo polo...ops...il primo polo del mio mondo- ; nel frattempo si scatena l'inverno, che questa volta ci prende gusto e ci strapazza col suo gelo e con 11 -ich wiederhole- con 11 nevicate 11, con conseguenti 11 mattinate passate a spalare neve nel cortile e sulle scale.
Insomma poca voglia di lavorare sul manoscritto.
Però è un blocco strano, perché scrivo racconti nel frattempo e posto pezzi sul mio blog niente male.
Però il mio romanzo è fermo lì, alle 78 pagine di Word, carattere 12, scritte in poco più di mesi due.
"Resta immobile in ver la terra" dice Guglielmo Tell a suo figlio, che ha già la mela in testa.
Ma il mio romanzo si vorrebbe muovere, sono io la statua di sale che guarda a terra, e non ho nemmeno la mela, o un mandarino, o la buccia di una banana sul testone.
Mi sento umiliato e triste. Non ne parlo nemmeno con le mie migliori amicizie.
Poi, due notti or sono, alle 3,40, spalanco gli occhi nel buio.
"È il finale che è fasullo", dico a voce alta, che quasi sveglio il primo polo del mio mondo.
Certo, perdio! Ho lavorato tutto il tempo pensando di avere da concludere un romanzo di fantascienza, uno di quelli che Mondadori pubblica sotto la classifica "Urania"; con un finale che doveva essere così e così e quindi poi cosà e cosò.
Invece no!
Adesso ce l'ho il finale. Ce l'ho talmente chiaro che potrei permettermi una variazione ancora più brillante. Così avrei una bomba di incipit e un finale ancora più bombastico.
E mi viene da ridere a pensare alla faccia che farà una mia amica, che ha letto il primo capitolo in esclusiva e ha storto il nasino perché a lei la fantascienza fa venire l'orticaria. E me la faccio una bella risata sulla sua prevedibile espressione stupita, tanto ormai sono in piedi in cucina che mi faccio un panino con la nutella, perché a me la produzione di letteratura e di arte mettono fame, e la mia castellana rimasta a letto anche se si svegliasse non potrebbe far altro che riaddormentarsi. In caso contrario potrebbe rimanere sveglia, inutilmente perché io col cavolo che le direi perché mi sono sganasciato dalle risate.
E con questo chiudo: ho ricominciato a scrivere il mio libro.
È una sensazione appagante.
Inoltre ho appreso da poco che appartengo a un gruppo ristrettissimo -saremmo due o tre secondo l'informatore- di scrittori che pubblicano non a pagamento senza avere santi in paradiso.
Che bella notizia, gente!
Ho il cuore caldo, adesso; più caldo di ieri.

venerdì 23 aprile 2010

QUANDO SCRIVEVO ANCHE POESIE

Mi sia concesso un po' di esibizionismo. Me la sono trovata davanti mentre ero intento a cercare qualcos'altro. Ho deciso di farci un post.
Non ha un titolo.


Dal sole e dall'aria,
da una parete vuota pende
il mio silenzio vecchio.
Le mie mani sono aperte sotto le nuvole, il mio
cuore è largo come una vela carica di vento.
Per un tempo lungo quanto una morte autunnale
ho vissuto vita di fiume, scorrendo tra le mie rive verdi.
Dentro di me s'abbeveravano canneti,
e il vento rendeva liquidi i vetri e i fumi
sulle vie della luna.
Così ogni notte; così ogni giorno.
Per un tempo lungo quanto una morte autunnale
la mia anima-ruscello ha dragato il fondo piatto
del ventre della terra,
senza agitare il suo vento sulle madri in attesa,
limitandosi a scorrere
sui seni d'argilla delle donne in fiore.
Così ogni giorno; così ogni notte.
No, adesso non voglio
adesso non mi lascerò morire all'inizio
della nuova estate sui prati dei formicai.
Adesso butto la mia anima-ricovero alle finestre sospese,
al gruppo di donne in lacrime in calzamaglia nera,
allo sterco dei passeri, ai nuovi pollini che s'annodano ai venti,
ai manifesti murali della mia vita diroccata e priva d'ombra,
e vado tra i vagiti e i rantoli di fiori inesplosi
e di uve acerbe; ma vado.
Qui, nel mio Nord, dove ho trasferito la mia esistenza in fuga,
le vite si susseguono.
Se almeno potessi passare di vita in vita scalciando lontano
scorie di pelle consumata e d'anima. Vedere sempre
divenire più triste il nido del sole, e l'anima del fiume
farsi di latte e di pianto tra terra e terra.
Dominano da lontano luci che piovono dal ventre
ripieno della terra, e in mezzo vi navigano paesi, e l'odor
di cucine nel muschio della notte è concime
di speranze che già soccombono vinte.
Adesso potremmo fermarci un istante,
metterci una mano sul cuore,
porre tutte le nostre domande con ferma insistenza;
e si potrebbe adesso anche morire.
Tanto a noi poco importa credere in qualcosa,
purché la vita si trascini come adesso:
una serpe nutrita ogni giorno con molta cura
da mani piene di crimini.
Per quel che mi riguarda,
da quando io ho disceso la mia scala
ho camminato tra genti barbare che coprono la testa al sole,
che non si segnano al suono di campane: ho bestemmiato
e calpestato le fosse dei miei morti che ancora parlano
e sentono la mia voce.
È stato allora che ho scritto col dito nella polvere:
lasciate pure che di me facciano strade,
e fontane in mezzo alle piazze,
e giardini sotto il sole,
e balconi
umidi di umidi tramonti.

giovedì 22 aprile 2010

UN BEL GUAZZO DAPPERTUTTO FATTO BENE

Il papà più bello del mondo gli ha portato in regalo un pennellino sottile, un cannello rosso per penna, due pennini, una risma di carta lucida e spessa, una boccetta di inchiostro blu, una boccetta di inchiostro rosso, una boccetta di inchiostro nero.
Il papà più bello del mondo è anche il papà più buono del mondo. Lui riesce ad evitare gli sbarramenti di nonna esse, che è cattivissima e non vuole vederlo con la penna in mano se vicino c'è una boccetta di inchiostro aperta.
"Mi fai un guazzo dappertutto" grida nonna esse.
Un guazzo dappertutto perché tutto si sporca subito: tavolo, sedia, mani, faccia; tutto in un momento.
Ma il papà più bello e più buono del mondo gli ha preparato un tavolo tutto per lui ricoperto di grandi fogli di carta bianca, spessa e morbida, che asciuga tutto il guazzo.
"È carta assorbente; adesso nonna esse sarà più tranquilla" gli ha detto. E gli ha preparato un foglio di carta lucida, ha infilato un pennino nuovo nel cannello rosso della penna e gli ha aperto tutte e tre le boccette di inchiostro.
"Se cade inchiostro sulla carta assorbente non succederà niente" dice, e fa cadere alcune gocce.
Si allargano, si spandono su quella carta morbida e spessa, sembrano nuvole, fiori, piante, orme di uccellini sulla sabbia. È tutto bello quello che fa il papà più bravo del mondo.
"Disegna qualcosa per me" gli chiede.
Disegna allora al centro del foglio coll'inchiostro blu un uccello che vola, con le grandi ali spiegate.
"È un gabbiano, papà"
"Che cosa vede adesso il tuo gabbiano?"
"Il mare"
"Disegna il mare. Guarda come si fa: si prende un bicchierino, ci si versa un po' d'acqua e poi vi si lascia sgocciolare dentro due o tre gocce di inchiostro blu, perché il mare è blu. Adesso si mescola bene e poi con il pennellino si spande sul foglio"
"Il mare"
"Certo, il mare. Adesso continua tu"
"Ma il mio gabbiano vede anche le case da lassù"
"E tu disegna le case, ma pensaci bene: il tuo gabbiano le vede dall'alto"
"Prendo un altro foglio perché non entra tutto"; e intanto pensa.
Che cosa vede il mio gabbiano dall'alto? I tetti delle case. Ma se disegno solo tetti non si capisce che sotto ci stanno case. Bisogna che ci metta anche i muri.
Così disegna sotto ogni tetto un muro, qualche volta anche due che fanno un angolo, protesi in avanti verso il mare. Tetti che si allungano verso il mare; tetti che spingono verso il mare i muri delle facciate come bambini freddolosi, che arrivati in riva al mare immergono le dita di un piede dentro l'acqua per sentire se è fredda. Tetti che immergono il muro della facciata nel mare per sentire se è freddo.
Ma per dipingere il cielo non può usare lo stesso blu, altrimenti nessuno capirebbe. Allora versa due gocce di rosso nell'acqua tinta di blu e mescola. Viene fuori un bel lilla. Dipinge il cielo lilla come quando è sera.
"Bello" dice il papà "il gabbiano sta tornando a casa"
E suo figlio continua a dipingere tetti che allungano i muri delle facciate verso il mare senza sapere che sta realizzando una "prospettiva a volo di uccello". Dipinge un cielo color rosa senza sapere che una bambina sconosciuta, tanto lontana, si incarta felice dentro fogli di carta velina rosa. Macchia di inchiostro blu e rosso i fogli di carta assorbente, senza immaginare che un'altra bambina sconosciuta e lontana si avvolge dentro fogli di carta assorbente ridendo felice.
Anche il bambino adesso è felice perché il suo papà ha capito. Il papà più bello e più buono del mondo ha capito che suo figlio sta dipingendo solamente per lui, perché anche il suo cuore si riempia di gioia.

lunedì 19 aprile 2010

QUELLO CHE MASSIMO FINI AVREBBE POTUTO E DOVUTO DIRE

Ma non l'ha fatto, per imprudente trascuratezza, o più semplicemente per ignoranza. Mi è sembrato infatti che delle donne non abbia compreso poi molto, cercando dentro di loro solamente il veleno, che probabilmente da alcune o da tante aveva ricevuto in cambio della sua presunzione di superiorità.
Ieri mi è capitato di avere uno scambio di vedute piuttosto pepato con un altro abitatore della blog-galassia. Ci siamo scontrati su un terreno di valori calcistici -lui juventino protervo, io interista incallito- e dati i due poli, assolutamente opposti e contrari non potevano che uscire scintille. La tenzone è rimasta sui binari del vivere civile dato che i due contendenti sono persone civili. Ma ce ne siamo dette tra le righe, le 20 righe, quante ne abbiamo volute.
In un primo momento mi sono trovato a pensare quello che sarebbe accaduto se io fossi stato un ultras bastardo e lui un provocatore di cazzottate: ci saremmo dati appuntamento per incontrarci e darcele di santa ragione.
Ma poi mi sono trovato -non so come, non so perché- a pensare cosa avrebbero detto due donne al posto nostro, e soprattutto cosa avrebbero fatto. Avrebbero discusso, con argomenti certamente più sottili e sofisticati dei nostri -che fossero o meno a conoscenza delle regole calcistiche sarebbe importato ben poco in questo contesto, anche se ho conosciuto ragazze che sapevano esattamente valutare un fuori gioco, che, con le nuove regole e regolette fatte da noi uomini, è diventato un gran bel casino- ; avrebbero tirato forse mattina, perché non avrebbero tagliato corto come abbiamo fatto noi, che vedevamo i nostri argomenti in mostruoso esaurimento, ed alla fine...sarebbero rimaste in corrispondenza...si sarebbero incontrate...e sarebbero diventate amiche. Ognuna nella propria fede calcistica, ma amiche, capaci di andarsene sottobraccio a vedere il prossimo Derby d'Italia ognuna indossando la propria maglietta, la numero 10 di Del Piero e la numero 22 di Milito.
Questo mi ha fatto pensare al sistema di difesa che le donne attuano, il quale -rimanendo in ambito pallonaro- non è a zona né a uomo, ma "a donna".
Quando si trovano in una piccola difficoltà non aggrediscono, come facciamo noi per il 95% -l'altro 5% si dà alla fuga- ; non inventano un mare di bugie come facciamo noi per il 98% -il rimanente 2% si trova già in coma-; no, quando si trovano in una piccola, piccolissima difficoltà, o più semplicemente quando si trovano in dubbio se muoversi per dritto o per sbieco, loro non si perdono d'animo, ma chiedono una pausa di riflessione. Fanno, per così dire, un passettino indietro, dietro la linea della palla, rimanendo sempre pronte alla ribattuta, per mandare la palla in corner oppure in fallo laterale. Poi, quando meno te lo aspetti, fanno di nuovo un passettino in avanti senza che tu te ne accorga e così mettono in fuori gioco te, e marameo.
Di questo savoir vivre il buon Fini, Massimo, non sa nulla, non lo ha mai notato, lo ha trascurato di brutto. Se avesse poi pensato che le donne badano soprattutto alla difesa, sapendo che noi maschietti per natura siamo attaccanti e sappiamo solamente attaccare a testa bassa, avrebbe capito certi comportamenti naturali, da lui accidiosamente considerati aspetti negativi della donna.
Io dico che un mondo senza donne sarebbe una iattura, a prescindere dalla riproduzione della specie, ammettendo per ipotesi che avessimo trovato un altro sistema più autarchico ma certamente molto meno piacevole. Un mondo senza donne sarebbe un mondo senza fantasia, perché sarebbe privo della enorme creatività femminile, e naturalmente anche di quella maschile. Che bisogno avremmo di fantasticare, che motivo avremmo per creare marchingegni e sperimentare subdole manovre che, da che mondo è mondo, abbiamo sempre usato per conquistare la nostra dolce compagna della vita, oppure la nostra focosa amante, insomma le nostre donne?
Guarda un po' a che razza di idee ti fa arrivare il sacrosanto tifo calcistico una volta che ci si trovi sul rettilineo finale di un campionato di calcio

sabato 17 aprile 2010

TETTI ROSSI

Un uomo sta di fronte a un cavalletto e lavora su carta da 300 grammi il foglio. Lavora con grafite su carta da 300 grammi il foglio. Lavora con pastelli grassi su carta da 300 grammi il foglio. Lavora una, due ore con grafite e pastelli grassi su carta da 300 grammi il foglio. Poi lascia la stanza, spegne la luce, chiude la porta a chiave e se ne va, lasciando al buio i suoi lavori su carta da 300 grammi al foglio.
Poi ritorna. Riapre la porta. Riaccende la luce. Siede di fronte al cavalletto e ricomincia a lavorare su carta da 300 grammi il foglio. Qualche volta con grafite, qualche altra volta con pastelli grassi.
Soggetti astratti qualche volta, anzi spesso, sempre più spesso.
Linee oblique, forme a volta accennate, a volta impresse con forza sulla carta.
Qualche volta però cambia soggetto. I suoi soggetti diventano tetti, spesso sono tetti, sempre più spesso sono tetti, a volte quasi solamente tetti, a volte solamente tetti. A volte tetti.
Tetti piantati su muri di case. Tetti rossi piantati su muri di case non rossi.
Tetti rossi -perché i tetti sono rossi- piantati su muri di case non rossi -perché i muri non sono rossi.
Tetti rossi su muri non rossi di case senza finestre né porte.
Un uomo siede di fronte a un cavalletto a lavorare su carta da 300 grammi il foglio, dipingendo tetti rossi, piantati su muri non rossi di case senza finestre né porte.
E quell'uomo è felice. Sofferente, ma felice.
Quell'uomo che siede di fronte al cavalletto e dipinge tetti è felice.
Perché i tetti gli scaldano il cuore nel petto. Perché i tetti gli ridanno la sensazione della Geborenheit.
La più bella parola tedesca, a giudizio dell'uomo seduto davanti al cavalletto. Significa "sicurezza", la sicurezza di chi si sente in salvo. Perché Geborenheit deriva da geboren, che significa "nato".
Quindi la sicurezza che ti dà il ventre materno, quando ancora non hai messo il naso fuori, nel mondo e ignori il dolore e la paura.
Un sostantivo che nasce da un participio passato.
Un participio passato che non è un verbo, perché non ha una coniugazione, non ha un presente, non ha un passato remoto, non ha un futuro, non ha un infinito.
Solo un participio passato. Che significa "nato". Ma non si può dire: io nacqui, oppure io nascerò, oppure solamente nascere.
Niente. Solamente "nato".
Sui documenti ufficiali, nome; cognome e poi geboren am, cioè "nato il".
E come possono i tedeschi coniugare questo verbo, che verbo non è ma solamente un participio passato?
Con l'aiuto del terzo verbo ausiliare. la lingua tedesca infatti ha tre verbi ausiliari: haben avere; sein essere, werden divenire.
Con werden si coniuga il futuro semplice e anteriore; con werden si coniuga il condizionale; con werden si coniuga tutto il passivo.
Werden è fondamentale.
I tedeschi dicono: geboren werden, che significa "divenire nato".
Che meraviglia!
Si diventa nati, non si nasce. Fa tutto la madre. Il feto diventa nato, diventa un bambino.
Ciò che conta è geboren "nato" cioè, perché tutti siamo per una volta nella vita diventati geboren. Non nasciamo, diventiamo nati.
Un uomo sta seduto di fronte a un cavalletto e lavora su carta da 300 grammi il foglio.
Con pastelli grassi dipinge tetti e riassapora la Geborenheit, la gioia, la sicurezza che si ha all'interno del ventre materno quando ancora non si conosce il dolore, quando ancora non si conosce la paura, prima di diventare nati.
Poi un giorno quell'uomo -come tutti gli altri- wurde geboren , "diventò nato" e la Geborenheit cessò.
Lui la cerca nei tetti rossi che dipinge su carta da 300 grammi il foglio.

giovedì 15 aprile 2010

HO RICOMINCIATO A SCRIVERE IL MIO LIBRO

Il mio ultimo libro, quello che finirò dopo averlo ricominciato.
Ho ricominciato appunto a scrivere il mio libro, dopo una abbondante pausa di riflessione. Si dice così quando non si ha il coraggio di dire che le buone idee latitavano. Brillavano per la loro assenza; giusto, perché nella presenza erano spente, e così i conti tornano.
Il mio eroe protagonista è impegnato col suo gruppo in una battaglia virtuale, che poi tanto virtuale non è perché ci sono morti e feriti, virtuali si intende.
Morte virtuale: mi piace, non fa male, avviene e via. Come pure la vita virtuale, immobile nel tempo.
In fondo, forse, è proprio così e tutti noi ci diamo tanto da fare per giorni virtuali, mesi virtuali, anni virtuali, traguardi virtuali, amanti virtuali e mal di denti virtuali. Forse è proprio questo il senso della vita.
NASCITA: virtuale.
Chi se lo ricorda il momento della nascita? Avanti il primo che dica "io c'ero". Ah sì? E che hai fatto? "Ho iniziato a respirare". Te lo ricordi? "Non esattamente, ma mi sembra ovvio". Niente è ovvio, tutto è virtuale. Quindi, in parole povere, non ci puoi mettere la mano sul fuoco. "No, non mi ricordo di niente in particolare, ma nemmeno gli altri". Ecco, appunto.
MORTE: virtuale.
Chi può venire a testimoniare di essere morto? Chi se lo ricorda attimo per attimo ed è disposto a venircelo a raccontare?
................................
................................
Nessuno che si faccia avanti?
Nessuno, come previsto.
Posto che la nascita è virtuale, si può anche dire che non è reale.
Posto che la morte è virtuale, si dica allora che non è reale.
Quindi? Alla fin fine come si potrebbe formulare?
Se la nascita e la morte sono virtuali, ne consegue che anche la vita lo è, come logica vuole.
È una buona cosa averlo scoperto adesso. Mi faccio i complimenti, debbo farmeli. Sono così orgoglioso di me stesso che quasi quasi potrei anche morire adesso, tanto è tutto così virtuale.
Come la schifezza che ho mangiato stamattina: virtuale. E il mal di pancia che ho adesso, virtuale, e la prossima imminente diarrea, anche virtuale; espulsa in un cesso virtuale, collegato con una fogna virtuale del paese virtuale dove vivo, accanto ad un ponte inesistente sopra un fiume appena disegnato sul terreno virtuale, anche se classificato virtualmente il terzo di una virtuale Europa.
Ma io volevo chiedermi perché da un po' di tempo sogno di guerra, immagino di guerra, scrivo post di guerra con titoli in latinorum e perché scrivo un libro dove si combatte. Sto per trasformarmi in un combattente di Al Qaeda? Di qualche altra Al? Al di qui, Al di là, Al fatti più in là? Sto per farmi esplodere in qualche supermercato? In qualche ufficio postale? In qualche latrina pubblica?
Bellum necesse est, era il titolo del mio vecchio post.
Facciamola la guerra: è virtuale.
In un post di Giorgio Bardaglio sul suo blog "20righe" ho letto che Giorgio è pacifista convinto. Virtuale, si capisce: anche la pace non è reale se la guerra è virtuale.
Bene: virtualmente il mal di pancia è passato e una gran fame è arrivata.
C'è bisogno di scambi virtuali nel web, di declinazioni virtuali, di mosche che ronzino virtualmente nella testa fabbricando pensieri coi loro voli sghembi e obliqui, i loro ghirigori impazziti nello spazio.
Si è vista mai una mosca balzare da un punto all'altro disegnando nell'aria una linea retta? No, mai: la mosca è la regina della virtualità, il mondo le appartiene.
La vita e la morte: due punti nello spazio, di partenza e di arrivo, dove la mosca si esercita, disegnando parabole misteriose e inventando geometrie inesplorate.
Tutto dipende dalla resistenza alare della mosca. Tutto ciò è rassicurante: genera calma e tranquillità nello spirito.

lunedì 12 aprile 2010

POLITICA COME LO SPORT IN CASA NOSTRA

L'italiano medio è un gaglioffo. Sono io un italiano medio? Certamente sì; allora sono un gaglioffo anch'io.
Sto cercando di capire come ragioni il gaglioffo medio-borghese, medio ceto-basso, medio ceto-alto: ho a disposizione due campi che sembrerebbero contrapposti e non paragonabili, la Politica, o meglio il cosiddetto impegno politico, e lo Sport, non quello praticato, perché il nostro gaglioffo medio lo Sport lo guarda e lo giudica dal divano buono del salotto, guardandolo in TV.
Ci possono essere similitudini tra Politica e Sport? Direi di no, eppure, guardando bene bene in casa nostra si potrebbe pensare che la Politica sia lo Sport nazionale...ops! scusate, volevo dire che lo Sport sia la Politica nazionale del gaglioffo nostrano.
Sono tante le similitudini. Tutti ricordano "Tangentopoli" e il diluvio che ne seguì, con ondate di arresti eccellenti ed anche qualche suicidio eccellente. Orbene, lo Sport non poteva essere da meno, per cui ecco subito sfornato "Calciopoli"con retrocessioni eccellentissime e gente che in galera ancora non c'è andata perché in Italia i processi si fanno decenni dopo.
E come da tempo si levano lamentazioni e invocazioni per riabilitare i poveri ladri dei passati governi e degli oramai trascorsi partiti della vecchia nomenclatura politica, così adesso un immenso polverone di intercettazioni fasulle viene sollevato ad arte per inquinare le acque e salvare gente dalla galera, farla diventare innocenti martiri, riportare tutto indietro al marciume che c'era prima e possibilmente mandare all'inferno chi con quel casino non c'entrava nulla.
Oggi Luciano Moggi per certi ambienti torinesi è in odore di santità. Un vero peccato che sia morto Giovanni Paolo II, che faceva santi anche i sassi. Oggi si cerca di sporcare la reputazione di un galantuomo, ormai defunto, che da giocatore non fece mai falli cattivi e da dirigente si comportò come pochi, in modo assolutamente pulito. Sto parlando di Giacinto Facchetti, che gli avvocati del Lucianone Moggi vorrebbero mettere sul rogo da morto, perché all'inferno vada Massimo Moratti, quello è lo scopo, e la sua squadra in serie B, e perché non in serie C.
Ieri la Roma ha scavalcato l'Inter in classifica, di un punto; tutta l'Italia calcistica ha gioito. Ma dove erano questi gaglioffi quando l'Inter perdeva campionati per gli imbrogli di manolesta Lucianone Moggi? Dicevano: povero Massimo Moratti, spende tutti quei soldi e non vince mai niente. Anche la presa per il culo! Ma adesso che da quattro anni non ce n'è per nessuno -perché la Roma ancora non ha vinto il campionato, mancano cinque giornate, allegria- tutti pronti a sputare veleno su Massimo da Milano e la sua tribù (mica tanto piccola, se si parla di dieci milioni di tifosi in Italia).
Mi pare di ricordare, come fosse ieri, le felicitazioni a Silvio Berlusconi per essere sceso in politica negli anni 90. Tutti felici che il cavaliere si cimentasse in un campo, che non era il suo e dove certamente -pensava il gaglioffo medio- prenderà robuste legnate sul groppone. E invece vinse, poi perse, ma rivinse, riperse per un pugno di voti e dopo due anni rivinse ancora.
E adesso c'è chi si augura che crepi, visto che malgrado le escort pagate da altri, malgrado le Noemi e le varie puttanelle, malgrado tutte le stronzate escogitate per farlo cadere, malgrado le botte in faccia con le riproduzioni del duomo, malgrado insomma una campagna velenosa che io mai ricordo sia stata fatta contro un uomo politico nel nostro paese, malgrado tutto ciò il suo partito continua a vincere elezioni ed a mietere voti ed il nostro continua ad aumentar consensi tra la plebe. Dice: ma sono dei gaglioffi! Certamente, ma siamo tutti gaglioffi amici miei, e quei voti ve li prendereste e come.
Ieri siamo arrivati al fondo. L'Unità ha pubblicato una vignetta di Vauro, esimio vignettista della sinistra, che si reputa capace di far satira. Riferendosi al disastro aereo avvenuto a Smolensk, un tizio dice: "Hai visto? Sono morti tutti i capi polacchi in un colpo solo"; un secondo babbeo ribatte: "A chi troppo, a chi niente".
Oggi, alla TV pomeridiana "Il fatto" di Monica Setta, c'era chi ha cercato di difendere il diritto alla satira. Ma siamo diventati matti? Me lo chiamate satira questo schizzo di veleno?
Vauro non mi ha mai fatto ridere veramente, perché sputa catarro dalle sue vignette, schizza fuori tutta la sua impotenza di nano intellettuale. Vorrebbe fare satira, ma fa solo schifezze.
Questo fa il paro con le battutacce degli avvocati di manolesta Lucianone Moggi, che tirano fuori dal cilindro, udite, udite, una telefonate di Pairetto, designatore arbitrale dei tempi, a Facchetti per richiedere due biglietti per una partita. "Te li procuro, stai tranquillo", gli risponde Giacinto. E per questa fatal risposta si ritrova a braccetto con Manolesta Lucianone Moggi.
Ma nun ce fate ride.

venerdì 9 aprile 2010

ASSULIMMIA E IL RESTO seconda parte

Furono il destino e la sua voce a rovinargli la vita e condurlo alla fine.
Fumava molto e cantava sempre Amleto Iacoponi, con gli amici, nelle feste, la sera dopo aver mangiato -casa mia era un teatro, venivano sempre altri amici ed amiche canterini- ogni sera una serata, uno spettacolino, come adesso alla TV, ma senza pubblicità a rompere. Papà cantava di tutto, dalle canzonette in voga, a quelle napoletane molto più impegnative, ai pezzi d'opera.
Finché un brutto giorno, anzi una brutta mattina, papà si svegliò afono. Provò a parlare e sentì la bocca piena di sangue: aveva una faringite acuta e le corde vocali rosse come il fuoco. Una brutta martellata su un dito per lui non poter cantare. Fu costretto a parlare a bassa voce per qualche settimana, ma la faringite piano piano diventò cronica, per cui poteva cantare solo in falsetto, solo alcune arie "morbide", come appunto "una furtiva lacrima", che oramai insieme al "lamento di Federico" costituivano tutto il suo repertorio. DESTINO, numero CINQUE. Sì, perché anche queste cantatine continuarono lentamente a ledere le sue corde vocali giorno dopo giorno.
In più, per una specie di contrappasso, arrivò a fumare quasi 50 sigarette al giorno. Certi conti si pagano alla fine e si pagano salati.
Una brutta mattina, un'altra e la più brutta, mio padre fece un colpo di tosse e si ritrovò immediatamente la bocca piena di sangue. Si pulì con un fazzoletto -non esistevano ancora i Tempo- e nascose il fazzoletto in una tasca di vecchi pantaloni, invece di portarselo dietro e farlo poi sparire. Mia madre -il segugio della famiglia- aveva visto tutto purtroppo, e appena lui fu uscito corse a controllare e trovò il fazzoletto sporco di sangue "vivo". DESTINO, numero SEI.
Non pensò alle corde vocali, ma immediatamente -chissà poi perché- pensò alla TBC, e iniziò la sua personale "campagna di salvataggio del marito in pericolo". Se si fosse fatta gli affari suoi mio padre sarebbe campato "benissimo e in perfetta salute" almeno altri 30 anni; ma lei si mosse per ogni dove, si dimenò, si impegnò con tutte le sue forze e tanto fece che mio padre fu ricoverato al Policlinico Universitario di Roma in osservazione. Ai raggi Roentgen erano apparse strane macchie ramificate, che apparivano ogni volta diverse, più estese. I medici scrissero sul loro referto "sospetto Ca.", sospetto cancro e stabilirono di operarlo immediatamente.
Non era cancro, ma qualcosa andò storto quella mattina e furono costretti a togliergli tre quarti del polmone destro. Da quel momento era iniziato, senza che noi lo sapessimo, il Calvario di mio padre: un continuo entrare e uscire da ospedali vari, che si concluse 15 anni dopo alle 21,30 dell'ultima domenica di agosto.
Ci avevo parlato quella mattina al telefono -lui era a Civitavecchia, io a Treviso- era in forma smagliante e chiacchierò quasi sempre lui. Quella notte lo sognai. Non sapevo che fosse già morto, avevo staccato il telefono perché non si svegliasse mio figlio che aveva poco più di due mesi. Mi disse in sogno di non correre in auto e di frenare. "Frena quando devi, frena". Non lo avevo mai sognato prima e non lo avrei più sognato dopo.
Al mattino arrivò il telegramma.
Due anni dopo in una città vicino Francoforte, alle due di notte, mentre volevo attraversare in piena velocità un incrocio a semaforo spento, sentii dentro la mia testa la voce di mio padre.
Una sola parola, un imperativo gridato con la sua voce stentorea: "FRENA!".
Io ho inchiodato.
In quel momento dalla mia destra lungo la strada che incrociava un altro pazzo a bordo di una grossa Mercedes a fari spenti attraversò l'incrocio a 1000 all'ora. DESTINO, numero SETTE, riguardava me, questa volta.
Così, con la sua voce, Amleto Iacoponi aveva di nuovo salvato vite: quella di suo figlio, e quella di suo nipote Federico, che non era ancora stato concepito.
Per questo io credo nel destino, ed in altre cose ancora.

L'ELISIR D'AMORE prima parte

Amleto Iacoponi, il mio papà, aveva una bellissima voce da tenore di grazia, solo troppo esile, forse perché non aveva studiato canto al Conservatorio; ma riusciva a cantare tutte le romanze famose. Due erano quelle che ricordo meglio -perché le cantava a me per farmi addormentare, con scarsi risultati, perché io lo ascoltavo a bocca aperta fino alla fine e poi gli chiedevo il bis- : una era "Una furtiva lacrima" da L'elisir d'amore di Donizetti, l'altra "Il lamento di Federico" da L'amico Fritz di Mascagni. Ogni volta che papà attaccava
"È la solita storia del pastore,
il povero ragazzo volea raccontarla,
ma s'addormì.
C'è nel sonno l'oblio
come lo invidio...
Io attaccavo a piangere.
Mi commuoveva quel suo singhiozzo nella voce alla Beniamino Gigli, calcolate le dovute distanze.
Quando ero già grandicello mio padre cercò di insegnarmi a prendere le note, con poco successo, data la mia voce metallica da baritono tendente ai suoni scuri.
Amleto Iacoponi credeva nel destino. Me ne ha raccontate di cotte e di crude, che avevano tutte a che fare col destino e con la sua bella voce, che una volta gli avevano salvato la vita.
Un'altra volta però gliela distrussero.
Mai avrei creduto, scrivendo il post dell'altro ieri, cui ho dato -guarda caso- come titolo quello di una famosissima opera verdiana, che provocasse una discussione così ampia, variegata e bene articolata. Allora ho deciso di aggiungere quest'altro post, dal titolo donizettiano in onore al mio papà, seguito di quello dell'altro ieri e diviso in due parti, perché sembra che sia di moda postare a rate, quindi mi adeguo.
Wie gesagt, come ho detto, mio padre credeva nel destino e nella sua voce "un dono di Dio" l'aveva battezzata.
"Una volta il destino prima, la voce poi mi hanno salvato la pelle", e iniziava il racconto, che io -pupo di quattro o cinque anni- ho mandato a memoria.
A 20 anni, nel 1916, Amleto Iacoponi era sul Carso. Si era arruolato tra gli "Arditi", una specie dei Commandos di adesso. Sotto le stellette avevano una fiamma rossa che avvolgeva un pugnale dall'impugnatura dorata. Avevano tutti seghettato la baionetta lungo il lato più tagliente della lama, per crudeltà: se trafiggi un uomo con la baionetta normale, questi ha qualche probabilità di cavarsela, ma se la lama è seghettata, quando la estrai strappa dentro tutto quel che trova e il nemico è fregato. Muore tra atroci dolori. Gli austriaci ammazzavano subito un ardito fatto prigioniero, per quella ragione.
Quella notte mio padre doveva andare a tagliare reticolati insieme ad altri tre arditi, nella terra di nessuno tra la loro trincea e quella nemica. Non trovava il suo cinturone con la "sua" baionetta. DESTINO, numero UNO. Si fece prestare il cinturone da un fante che stava lì vicino. Non era un ardito e la sua baionetta era normale. DESTINO, numero DUE.
Poco fuori dalla loro trincea il nemico li avvistò; qualcuno lanciò alcune bombe a mano. Mio padre fu ferito ad una coscia e rimase a terra; un altro compagno fu anche ferito, gli altri due si diedero alla fuga perché stavano arrivando gli austriaci. La prima cosa che i nemici fecero fu quella di estrarre le due baionette: quella dell'altro ardito era seghettata, quella di mio padre no. DESTINO, numero TRE. Uccisero subito l'altro, ma non Amleto Iacoponi, che fu riportato nelle loro linee a calci nel culo, ma vivo. "Erano soldati bosniaci, cattivissimi -raccontava papà- ne avevamo tutti paura".
Comunque era sempre un ardito, anche se col suo faccino sembrava più un bambino un po' cresciuto che un soldato d'Italia; pertanto doveva considerarsi più morto che vivo.
"Mi riempirono il sedere di calci e la faccia di schiaffi -continuava papà- finché arrivò un graduato. Sai cantare, italiano? mi chiese. Feci cenno di sì. Allora canta"
Ad Amleto Iacoponi, un po' per la paura, un po' per la gamba ferita, usciva dalla gola un filo di voce. "Assulimmia, Assulimmia!" gridavano quei soldati.
Non so proprio come mio padre poté capire, ma gli cantò O sole mio, e vide che mentre cantava facevano la faccia sorridente, beata.
"Avevo salvata la pelle con quella canzone" finiva il mio papà ridendo. DESTINO, numero QUATTRO. Vale doppio, perché aveva salvato anche la mia.
Fine della prima parte.

domenica 4 aprile 2010

LA FORZA DEL DESTINO

Ultimamente al mio orizzonte sbuca con prepotenza il Destino, con la D maiuscola; per meglio dire si eleva dalla linea sottile all'infinito il "concetto di destino", di cui si reclama l'onnipotenza e la preesistenza, e perché no la post esistenza.
Vorrei citare un autore, che a me piace molto, Alessandro Baricco, che nel suo primo romanzo "Castelli di rabbia" dice: "...è molto bella l'immagine di un proiettile in corsa: è la metafora esatta del destino. Il proiettile corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque. Lo vede il destino? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere."
Ad una persona a me cara piacerà di sicuro. Io sono rimasto affascinato dall'idea del fucile. Sì, perché per poter correre così velocemente il proiettile è dovuto passare all'interno della canna di un fucile, avvitandosi lungo le otto scanalature elicoidali scavate lungo la sua anima. Espulso violentemente dal vivo di volata della canna, continuando la sua corsa folle avvitandosi intorno al proprio asse, il proiettile è cieco e quasi muto, ignaro della sua meta, che è già là, dice Baricco, muro qualunque o cuore di un uomo qualunque, pronto per essere scheggiato il primo, spappolato il secondo.
Una bella immagine, non c'è dubbio, che però avevo già sentita in qualche posto, qualche tempo fa. Siamo tutti degli scopiazzatori, dice una mia amica, e forse ha ragione lei, gliene do atto.
Proviamo però a ragionare su questa storia del destino, per quello che si può senza apparire saccenti e logorroici.
Credere nel Destino è come credere in Dio.
Ciò posto, possiamo dividere il genere umano in: credenti a prescindere; non credenti a prescindere; credenti o non credenti per un distinguo.
Coloro che credono in Dio, e quindi nel Destino che da Lui proviene, per un atto di fede, sono quelli -secondo me- che non hanno la forza, il coraggio, la spudoratezza, la goffaggine di mettere in dubbio che Dio esista, quindi che il Destino esista tout court. Che siano cristiani, musulmani, giudei o buddisti, sono quelli che non hanno dubbi, perché non si pongono dubbi.
Coloro che non credono in Dio, e quindi non credono neanche nel Destino, per una negazione assoluta, a priori "perché non può essere, perché nessuno lo ha mai visto, perché dopo la morte c'è il Nulla", sono -secondo me- i più deboli, perché in mancanza di elementi di discussione procedono per esclusione.
Restano i credenti e i non credenti per uno o più distinguo. Coloro che dicono "potrebbe essere, ma; potrebbe essere, se; potrebbe essere, qualora". Sono, in fondo, gli ottimisti, quelli propensi a concedere al misterioso futuro sempre un alibi, una possibilità, una scorciatoia verso una via di uscita la più indolore che si possa accettare.
Io appartengo a questa categoria, per mille e una ragioni: sono e sono sempre stato ottimista sul mio futuro, sul futuro di tutti, perché voglio crederci -è anche questo un atto di fede- ostinatamente voglio crederci; ho avuto alcune esperienze straordinarie, che terrò per me, non rivelerò a nessuno, ma io so di averle avute; ho avuto un contatto con mia madre un mese dopo la sua morte -ho detto contatto, non ho detto di averla sognata- cosa che non ho mai messo in dubbio.
Penso che la parte intellettuale di tutto questo discorso stia a monte, mentre io qui in pianura -e con me tutti quelli che vogliono seguire il mio esempio- debbo tirar fuori dal torace il mio cuore, strizzarlo come un limone e vedere cosa mi suggerisce: mi dice di credere nella presenza di qualcosa di misterioso e difficilmente spiegabile a parole. Dio, il Destino, il Proiettile è già partito, è uscito fuori dalla canna del Grande Fucile: sopra c'è scritto non solamente il mio DNA, ma tutta una serie di DNA, che appartengono a me, al mio passato e al mio futuro, ai miei futuri.
Questo è quello in cui credo, e se qualcuno pensa che io sia un imbecille, uno che ciurla nel manico, un sognatore, prego, che si accomodi: non muoverò un muscolo per impedirgli nulla, e non sprecherò più parole per contraddirlo.

venerdì 2 aprile 2010

BELLUM NECESSE EST

A Roma la settimana scorsa una banda di quindicenni italo-rumeni ha sequestrato e violentato una ragazzina di tredici anni. L'hanno gonfiata di botte perché dopo essersi sfogati per la via naturale, lei si era rifiutata di sollazzare ciascuno di loro col sesso orale. Non c'è bisogno che torniate indietro, avevate letto bene: la ragazza aveva tredici anni, il più vecchio dei suoi violentatori quasi sedici, il più giovane tredici. Tutti presi perché la ragazzina ha avuto il coraggio di confessare ai suoi e poi ai carabinieri; il sedicenne è in galera, altri tre agli arresti domiciliari, il tredicenne non è condannabile perché sotto i quattordici anni; però il suo pisellino lo ha intinto nel brodo anche lui.
In una scuola italiana, scuola media suppongo, di una città italiana tre o quattro ragazzi di circa quattordici anni hanno violentato -durante una lezione, mentre il professore seduto in cattedra interrogava un alunno- una bambina di tredici (risulta essere l'età più pericolosa al momento). Un gruppo di altri ragazzi faceva da barriera perché nessuno vedesse e potesse intervenire. La Preside non ha denunciato il fatto. La ragazza ha confessato quanto le era capitato alla sorella più grande. La Preside si è difesa adducendo come scusa la tutela del buon nome della scuola; l'insegnante presente in aula durante lo stupro, ha testualmente fatto mettere a verbale di non essersi accorto di nulla, dato che era concentrato nella interrogazione. Doveva trattarsi sicuramente di una interrogazione sui massimi sistemi.
Preside e insegnante sono stati denunciati e sospesi -vivaddio- dai loro incarichi.
A Roma, Firenze, Torino, Milano coppiette che un tempo andavano in camporela, come quasi tutti noi abbiamo fatto nei nostri tempi più liberi e felici, non lo possono fare più. Bande di extracomunitari assatanati di femmine sono ovunque, nascoste nel buio. Nemmeno in macchina è più sicuro. Resta la solida camera d'albergo a ore, per chi ha soldi da buttare, altrimenti andarsene in chiesa a recitare una novena: non si sfogano i sensi ma si guadagnano bonus per la vita eterna.
Non passa giorno che le nostre TV, nazionali, regionali o commerciali, non ci diano notizie e ampi particolari di ammazzatine in ogni angolo di strada. Per futili, extra futili, magari inesistenti motivi. Basta non augurare "salute!" a chi starnutisce per trovarsi con una pallottola calibro nove in testa: il raffreddore se l'era preso quello sbagliato, incazzato e feroce da mattina a sera.
Per non parlare di delitti contro il capitale: effrazioni, scassi, furti rapine e chi più sa più racconti. Le ditte che fabbricano porte e infissi corazzati fanno affaroni, non c'è stata crisi per loro, né si prevede in futuro una congiuntura.
Mia figlia, che vive in una splendida cittadina in provincia della civilissima Udine, ha speso una cifra per due porte ed infissi per sei finestre super corazzati. Hanno un cane e non si sentono al sicuro. Ogni volta che vengono a trovarmi qui in Germania dove abito a lei e a suo marito cadono le mandibole per terra: noi abbiamo le porte col vetro smerigliato. Basterebbe una pedata e i malfattori sarebbero dentro casa nostra. Tutte le porte sono così a Maximiliansau, a Karlsruhe, a Francoforte ad Amburgo, insomma qui in Germania nessuno teme quello che temono gli italiani a casa loro. Forse non ci sono delinquenti in Germania? E come se ci sono, e quanti ce ne sono, specie adesso che con le frontiere senza più controlli dalla parte della Polonia entra mezzo mondo: Russi, Rumeni, Bulgari, extraterrestri, insomma tutto il meglio ed il peggio del genere umano che sta all'Est. Dalla Francia e dall'Austria entrano tutti quelli che ancora mancano per completare il quadro generale delle popolazioni. Allora? Tutti buoni, con la tessera da boy scout e le bandierine nazionali da agitare nei prossimi mondiali? Ma per carità! Tantissimi lazzaroni e figli di puttana. Però qualcosa non quadra: perché allora questi lazzaroni e figli di padre ignoto non delinquono trovando un terreno così fertile e nessuna resistenza blindata?
Per una serie di motivi.
Primo: se un cittadino di questa nazione prende un telefono o telefonino e fa il 113, non si sente rispondere "mi descriva il rumore che ha sentito"; oppure "quanti pensa che siano fuori della sua porta che tentano di entrare?". Al probo cittadino tedesco basterà tenere aperto il telefono o il cellulare e loro già sanno chi è che chiama e il suo indirizzo, via computer, via satellite. In meno, molto meno di cinque minuti arrivano almeno due auto a fari spenti e senza sirene.
Secondo: una volta in manette, i malfattori vengono portati in galera e lì restano fino al processo, che di solito in caso di flagranza non tarda più di tre mesi. Nessuno si sogna di scarcerarli e mandarli a prendere il sole sui monti, o in un albergo del Mar del Nord, in attesa del processo.
Terzo: al processo si beccano dai tre ai cinque anni e se li fanno in galera, e nessuno protesta.
Quarto e forse primo motivo: nessuno meglio dei malfattori sa dove debba delinquere per essere sicuro di farla franca. Qual'è il paese del bengodi per tutti i delinquenti? Dov'è che possono tranquillamente borseggiare, rapinare, stuprare e tutti gli altri are che ci sono, non rischiando altro che un paio di settimane di carcere? Dov'è che una volta condannati possono continuare a stare a piede libero aspettando il processo d'appello? E poi quello ci Cassazione? Dov'è che possono aspettarsi da un momento all'altro la scarcerazione per condono?
Queste cose i nostri amati politici vincitori e vinti le sanno oppure sono troppo presi a raccontarci cazzate alla TV pubblica e privata?
Ma non sono solamente loro i colpevoli di tutto questo degrado, colpevoli siamo noi, genitori e maestri che abbiamo mollato i pappafichi e calato le brache. Figli che girano con le macchine dei padri, che devono andare a piedi al lavoro, non sono cose che accadono saltuariamente, direi invece assiduamente e con regolarità quasi quotidiana; insegnanti che cacciano la testa sul registro pur di non vedere quello che a pochi metri da loro sta succedendo, che non ascoltano gli strilli di una disgraziata e della sua amica che tenta di salvarla non sono più un'eccezione; poliziotti forse esausti dal troppo lavoro, o schifati dal non essere pagati a sufficienza né sufficientemente protetti, che al telefono girano in tondo invece di scattare come molle verso la più vicina auto di servizio sono diventati la regola dolorosa; carceri stracolme, giudici stanchi e sfiduciati (tanto tra qualche mese questi sono di nuovo liberi), che lavorano male, sono ormai la maggioranza nei nostri tribunali.
E i politici? Fanno i politici, cioè fanno chiacchiere, chiacchiere e chiacchiere.
Io appartengo alla generazione degli anni trenta, quelli che eravamo troppo giovani per andare in guerra, in quella guerra di distruzione, e troppo vecchi per non capire cosa stava succedendo. La mia era la generazione dei "nasi per aria". Questa la possono capire soltanto i miei coetanei. Ma ve lo spiego: in quei tristissimi anni la morte veniva dall'alto. Non te ne accorgevi, ma all'improvviso sbucando fuori da una nuvola bassa o da dietro una collina quasi senza far rumore ti piombava addosso il caccia americano. Prima di sentirne il rumore vedevi le due fiammelle ai due lati dell'elica circa a metà delle ali: poi il lacerante crepitio, e contemporaneamente tu sentivi le pallottole sibilarti intorno alle orecchie, che dopo alcuni minuti ancora fischiavano ossessivamente. Buon segno, voleva dire che ancora eri vivo. Così tutti noi, ragazzi degli anni trenta, andavamo a scuola, o tornavamo a casa o insomma sempre mentre ci muovevamo all'aperto, tenevamo la testa alta e il naso all'insù, verso il cielo che era diventato nemico e assassino.
Ci abbiamo messo qualche tempo alla fine della guerra a riportare il naso in basso. A guardare i disastri, le macerie, le case distrutte, i ponti crollati, le strade impraticabili con buche dappertutto, non come le buche di oggi dovute alla trascuratezza e alla noncuranza degli amministratori locali, ma buche delle bombe. Ed eravamo felici, noi ragazzi degli anni trenta, felici di avercela fatta, di essere ancora vivi, e quando siamo tornati a scuola e ci siamo contati -mancava qualcuno, troppi- avevamo solo voglia di imparare e di fare bene e nessuno chiedeva soldi a papà, perché soldi ce ne erano pochi. Studiavamo, andavamo sempre a piedi e ringraziavamo il Signore, che ci aveva salvata la pelle.
A voi sembrerò un bastardo, ma io vi dico che quello che oggi occorrerebbe è proprio tornare a desiderare di vivere dopo una guerra; cioè occorre una bella guerra che ci faccia capire, anzi che vi faccia capire, perché io lo so e lo ho capito allora, quanto sia bella la vita.