giovedì 30 ottobre 2014

GUARDATE CHE DIFFERENZA


Questa non è una barzelletta, né una cosa sognata, questa è realtà tedesca che si può confrontare con quella italiana di tutti i giorni, o meglio di tutti i telegiornali della RAI e di Mediaset.
Non passa giorno infatti che tra le notizie di cronaca non appaia quella di una donna assalita in una strada di Napoli, di Palermo, di Roma, di Milano, di Torino di Vattelappesca dove tra i dettagli, abbondantissimi, non venga messo in evidenza il fatto che nessuno -ripeto, nessuno- degli astanti abbia cercato di impedire la violenza personalmente o chiamando le Forze dell'Ordine. Mai. 
È di ieri la notizia che una madre magrebina, dopo una furibonda lite serale col marito -lite udita da tutto lo stabile, come in seguito molteplici testimoni hanno asserito- durante la notte abbia accoltellato il marito, colpendolo tre volte all'addome e alle spalle. Il marito dopo essersi dato alla fuga è riuscito a recarsi al Pronto Soccorso di un ospedale, dove ha riferito di essere stato aggredito per strada da sconosciuti, per salvare la moglie dall'arresto dato che in casa c'erano le tre figlie della coppia. La donna magrebina invece, rimasta sola in casa, forse in preda alla sindrome di Medea e di Didone, ha tentato di scannare le tre figlie che dormivano ignare di tutto, riuscendo solo in parte nel suo folle intento. Le due più grandi sono morte nei loro letti, la più piccola è miracolosamente sopravvissuta e adesso lotta contro la morte. La donna, certa di averle uccise tutte e tre, si è tolta la vita.
Dal letto dell'Ospedale il marito ferito ha cercato di telefonare a casa, ma non ricevendo risposta ha pregato un suo amico di andare a vedere cosa stesse succedendo. È stato l'amico di famiglia a rinvenire le tre donne morte e la bambina ferita.
Nessuno dei coinquilini dello stabile di cinque piani, pur avendo sentito la concitata lite della sera avanti aveva avuto la bella idea di allertare i Carabinieri o la Polizia. Nessuno. Si fecero tutti i fatti propri. Comportamento tipicamente italiota.
Adesso ascoltate quello che è successo a Saarbrücken, Sud ovest della Germania federale, nella nostra Europa, in questo nostro Mondo.
Mio nipote, che abita in un ostello per studenti universitari, stava nel suo miniappartamento giocando con un suo amico una partita di calcio alla play station. Condivano il gioco con urli gutturali in tedesco, italiano, inglese, francese e chissà quale altra lingua, esultando con urla bestiali ad ogni gol segnato. Quando mia nipote, sua sorella, gli ha telefonato ha sentito queste urla ed ha chiesto allarmata cosa stesse succedendo.
"Giochiamo alla play station, le ha risposto il fratello.
Circa un'ora dopo mio nipote telefonava alla sorella e le raccontava:
"Sapessi cosa è successo. Qualcuno allarmato dalle nostre urla ha avvertito la Polizei che stava succedendo qualcosa di grave. Sono arrivate due auto della Polizei, che hanno immediatamente fatto venire un camion dei Pompieri e un'autoambulanza per il pronto intervento. Poi hanno incominciato a bussare a tutte le porte, chiedendo se avessero sentito urla o rumori di violente colluttazioni. Quando sono arrivate da noi, gli abbiamo risposto che stavamo sentendo musica con le cuffie e che non avevamo sentito niente. Pensa che avremmo dovuto pagare l'intervento di tutti e che ci sarebbe costato bello salato quel gioco alla play station".
Lì per lì, quando mia nipote me lo ha riferito mi ci sono fatto due risate. Poi mi è venuto il magone. Ho ripensato a quello che mi avevano detto appena arrivato in Germania, di stare attento a quello che facevo perché quello tedesco era un popolo di poliziotti e di spie. Allora mi sembrò eccessivo che la gente prendesse il numero di targa di un'automobile che parcheggiava due minuti in divieto di sosta. A conti fatti mi viene oggi da pensare che qui la Polizei conta su un popolo di collaboratori, che hanno il massimo rispetto per la loro divisa e per il loro lavoro; da noi invece si cerca di fregare gli sbirri e quando capita li si riempie di botte, come è successo ieri e c'è subito chi chiede le dimissioni del Ministro agli Interni. Questi comportamenti collettivi fanno anche la differenza e spiegano perché loro siano la locomotiva e noi uno degli ultimi vagoni di questo treno europeo.

martedì 28 ottobre 2014

DESIDERIO RINATO



Si sfoglia l'ombra della luna
sulla parete più lontana della casa.

In questo 
squamarsi di vita
rinasce il desiderio:
è una mano che soave accarezza

fresca come acqua 
appena scaturita.


Maximiliansau, 21 aprile 2014


***

sabato 25 ottobre 2014

LA PROSSIMA VORTA LA MACHINA LA PORTO DAR FARMACISTA

Ciò na machina ch'è na bomba, nun se ferma mai, nun consuma ojo, poca benza e va in culo ar monno eppoi ciò er disel che qui in cruccolandia costa poco assà. Dico che voi deppiù? Gnente, m'ariconsolo e poi vaje addì che nun la volevo da comprà perché io co l'Opele nun ciavevo mai camminato e me pareva de fa un torto all'arfa a la mercedesse a la biemmevvù. Invece gnente me la so accattata che nemmeno costava troppo. e poi piaceva a mi moje e se sa a le donne bigna dajelo gni tanto er contentino sinnò nun la fanno mai finita de rompe li cojoni. Eppoi si je tiri giù li sedili davanti te ce fai certe dormite da patreterno. Sì però gni tanto bigna da portalla dar meccanico, che magara bisogna da cambiaje le cinghie de soncazzo che, vabbè allora cambiamojele e non se ne parla più. Primma d'annà in ferie le cambiamo così camminamo tranquilli.
Fanno 800 euri, li mortacci sua. Embè so quattranni che nun te costa 'n cazzo sti sordi li poi puro pagà, no? E l'avemo pagati. So ito drento a n'officina granne, indove che c'ereno puro machinoni come mercedesse, giaguarre, biemmevvù nzomma si ce porteno ste machine vor dì che er meccanico è bbono. Eppoi se sa che si vai all'Opele te peleno.
Nzomma ho pagato e me la so portata via. Partimo e stamo da la mi fija vicino a Udine e la machina nun la movo mai, che tanto la mia fia cellà puro lei e er mi genero puro e ce scarozzeno loro, così se arisparmia. Quanno che tornamo la lasso na nottata ar posto machina nder cortile e ce n'annamo a letto che semo stracchi. A la matina se deve da annà a pijà nunsocché e se parte co la machina. Nun fo manco du metri a marcia de dietro e sotto a la machina mia ce sta un lago nero. E questo che cazzo è? La mi moje è nviperita. Se perde er disele, sta tutto pe tera. Un par de cojoni er disele, questo è ojo der motore. E che vor dì? Vor dì che la dovemo da ripostà ndo l'avemo fatta fa e de gran cariera. Er capoccia me guarda e me fa "succede co le machine, come co le donne, va sempre bene e po na vorta sgareno". Dico guarda come piscia, se lo perde tutto. Me fa adesso nun se po fa gnente perché famo ferie puro noi. Mo te do na machina mia che nun te costa gnente, solo la benza, questa la lassamo qua e quanno tornamo la famo.
Me paresse n'offerta bona e l'aringrazzio puro. Me fo 15 giorni co na Nissan Micra che nun è gnente male, mica come la mia però nun me costa n cazzo.
Quanno torneno me telefona e me fa "ce so tutti li gommini da cambià" e tu cambieli che me lo dichi affà? Ma io nun te la posso fa subbito che ciò er personale ridotto. Quanno? la prossima settimana, tu intanto la machina cellai.
Me la ridà doppo na settimana e m'ariscuce quasi cinquecento euri, che mo me rode er culo de brutto, ma tutto sommato m'è ita bene. Parto da casa mia e vado a casa der mi fijo che sta nemmeno a quindici chilometri e aritorno a casa, nzomma na trentina de chilometri scarsi. A la matina doppo ce sta n'antra vorta na macchia d'ojo sotto ar motore. M'incazzo come un bovo quanno che s'incazza e ce aricorro. Dice nun po esse. Guarda sotto e dimme che cazzo sta a pisciasse l'anima de li mortacci sua? Dice è ojo. E te ce voleva er dottore? Adesso me la fai de corsa che me serve. De corsa nun se po, ciò l'officina piena, portemela giovedì. Così io vado a fette fino a giovedì poi je la porto. Mo guardamo che è successo. Amore mio, guarda che stavorta nun te pago. Bigna da vede quello che è successo. In trenta chilometri nun po succede un cazzo, ve sete scordati quarche gommino. Dice che nun po esse e intanto s'è fatto venerdi e io vado sempre a fette e le bestemmie se coreno de dietro. Ar lunedì m'aritelefona e me fa bigna che arimontamo tutto. E tu arimonta, ma quanto ce metti? Ciò n'omo solo l'antri so ammalati. Che è arivata l'ebbola nell'officina tua? A me la machina me serve. Te la fo in settimana.
Sto ancora a spettà. Jo fatto telefonà dar fidanzato de mi nipote pe avecce un testimone.
Ja arisposto che se tratta de un anello de gomma de l'arbero motore. Me cojoni? Nun era la primma cosa che dovevio da guardà? Eppoi je fa nun se po fa perché er meccanico che la faceva s'è ammalato e l'antri nun ce vonno mette mano.
In sessantanni de guida nun me l'ero mai sentita dì na stronzata come a questa.
Guardate che nun è successo a Roma o a Napoli, nzomma nun è successo nell'Italietta nostra. Succede qui in Germania. Ma si nun lo sapete nun c'é nisuno più stronzo d'un tedesco quanno è stronzo. Va a finì pe avvocati perché io a questo lo denuncio. Nun se po tené na machina ferma drento a n'officina e io me devo da pija er tassì e pagammelo perché tu nun sei bono de fatte rispettà dar personale tuo, che allora me la ridavi e me dicevi portela dall'Opele.
Na cosa bona è che io so assicurato puro pe questioni legali e sta vorta saranno stati sordi benedetti, perché qui l'avvocati so cari assà.
Ma la prossima vorta la machina la porto piuttosto dar farmacista.

mercoledì 22 ottobre 2014

ODE PER UN QUADRO MAI COMINCIATO A DIPINGERE



Una mano di pallida biacca
spalmata. Scompare il brutto paesaggio
dipinto da un artista mediocre.
Alberi come pipistrelli;
il lago un pantano artificiale;
nuvole appiccicate
in alto come un vecchio collage maligno.

Montagne di giornate già scritte, quintali
di sospiri su decametri di speranze tradite.

Adesso una mano copiosa
di carbonato basico di piombo
brucia le narici per ore, per giorni.

Lasciato così, respirare a fondo
la putrefazione di dieci mattinate,
l'oscena oscurità di dieci nottate,
esalare l'odore pestifero
della biacca, tenuto dentro una stanza
mentre finestre serrate impediscono
a nuova aria di depurare
e cancellare e valicare le ombre
immobili, che si accartocciano sopra ogni oggetto,
nascondendone spigoli e superfici piatte
e curvature che si infossano
le une nelle altre.

Intrisa di buio
la tela non trasmette sensazioni
tattili, finché cinto d'acqua
il canneto della mia curiosità mette
in vibrazione le foglie più verdi e aguzze che possiede.

Un'ondata di luce che trabocca dalla
finestra spalancata denuda la pallida tela,
ne scuote al suolo tracce dei segni impolverati
di maldestri colpi di pennello.

Nuda di forme e di colore è tutto.
Si scompone e ricompone,
non accetta di essere di nuovo violentata,

e non c'è ombra di plagio
nella perfezione del nulla.


*****

Maximiliansau, mercoledì 22 ottobre 2014

venerdì 17 ottobre 2014

SCROCCHIAZEPPI

La prima volta che l'ho vista non l'ho vista, l'ho sentita. Piangeva come una vite tagliata, uggiolava come un cane ferito.
Era il mese di aprile del 1946. Rientrato dallo sfollamento ero andato nel quartiere del porto a curiosare in mezzo alle macerie. Non c'erano che pochi muri sventrati ancora in piedi. Il resto erano cumuli di pietre e ceneri con pali di legno e di ferro che ne spuntavano fuori come braccia spezzate e supplicanti.
Lei era accucciata sotto un grosso masso, che forse un tempo era stato una colonna. Una bambina magrissima che piangeva tutte le sue lacrime.
-Ti sei perduta?
-No.
-Perché ti disperi tanto?
-Qui c'era la mia casa. Era bella. C'era un balcone, si vedeva il mare. Da dove sto adesso vedo solo case.
-Dove abiti?
-In via Traiana.
-Pure io. Al 64, ma non ti ho mai vista.
-Io sto al 58, dopo il vapoforno.
Una trentina di metri da casa mia.
-Ma tu non mangi mai?
-Certo che mangio.
-Sei secca come un chiodo.
-Mia madre dice che ho delle belle gambine. Guarda.
-Sì, però troppo secche.
Aveva otto anni. Non le chiesi nemmeno come si chiamasse.
-Io vado a casa, le dissi. Vieni via con me?
Mi seguì singhiozzando ancora per un po'.
Al 58 la salutai.
-Ciao scrocchiazeppi, e me ne andai.

Non posso dire di averla cercata, magari per curiosità, ma certo un'occhiata, passandoci davanti, dentro il portone del 58 l'ho buttata, magari proprio per curiosità, ma non l'ho più rivista.
Un paio di anni dopo, proprio davanti casa sua, spalarono le macerie residue di un paio di palazzi e costruirono l'Arena Bernini, un cinema all'aperto. Ce n'era un altro al Pincio, anche bello, di fronte al Palazzo del Comune, l'antica sede della G.I.L., Gioventù italiana del Littorio, dove avevo passato tutti i sabati della mia infanzia. Ma l'Arena Bernini era il doppio dell'altra, sempre piena. Anche le finestre e i balconcini del 56, 58 e 60 erano pieni di gente.
Una volta, entrati alle 20,30 per un film in technicolor tremendamente barboso, Com'era verde la mia valle, dove si parlava di Irlanda e di irlandesi, vidi un paio di testine che facevano capoccella, nascoste dietro gli stipiti di una finestra del primo piano. Una testina doveva essere la sua, come mi disse tanti anni dopo, perché quello al primo piano era proprio l'appartamento di scrocchiazeppi.

La rincontrai quattro anni dopo il primo incontro del pianto in mezzo alle macerie. Di nuovo non la vidi ma la sentii: un pianto con altissimi singhiozzi, un pianto doppio perché erano in due.
Alle otto di un mattino, davanti all'ingresso della Scuola Media Statale Padre Alberto Guglielmotti, poco distante dall'ingresso del Liceo classico omonimo, due mocciose con indosso un sinale nero, un colletto inamidato bianco e un vistoso fiocco blu piangevano tutte le loro lacrime perché non avevano fatto gli esercizi di algebra né tradotto le frasette dall'italiano in latino, insomma non avevano fatti i compiti a casa.
Io e mio cugino, alunni bravissimi di quel liceo svolgemmo quei compiti in cinque minuti.
Una delle due ragazzine mi sgranò addosso i suoi splendidi occhi in cui brillavano le lacrime. Era molto magrolina, gracile direi. Qualcosa, forse il suo pianto a singhiozzi disperati, mi disse che era lei la mocciosa del 58.
-Grazie, grazie, mormoravano le due.
-Ma che grazie e grazie! Dateci un bacione.
Scrocchiazeppi divenne rossa come il fuoco, ma mi stampò due bacini sulle guance. Come il muso umidiccio di un cucciolo di cane, la stessa sensazione.
Si innamorò perdutamente di me in quel momento, come scrisse sul suo diario del 1950, che lessi di nascosto otto anni dopo.

Ecco, appunto otto anni passarono prima che io incontrassi nuovamente scrocchiazeppi. Mi fu presentata a una festa, non so più da chi né perché né dove, ma conta poco. Contava quello schianto di femmina che avevo davanti.
Mi entrò negli occhi, nella testa, nel sangue.
Mi entrò negli occhi nel tempo che mi occorse per guardarla tutta dalla testa ai piedi, una ventina di secondi.
Mi entrò nella testa a metà del percorso di perlustrazione.
Mi entrò nel sangue immediatamente
-Ti ricordi di scocchiazeppi?
-Sei tu? chiesi sbalordito.
Rideva.
-Ah però, vedo che hai mangiato bene negli ultimi anni, tutta roba buona e di sostanza.
"Quelle tette non possono essere sue, pensai; è gomma piuma, troppo armoniose e cospicue"
Tutta ciccia soda invece, e nemmeno portava reggiseno, come appurai un paio di settimane successive nel buio del portone di casa sua, il fatidico 58 di via Traiana.
Un mese dopo eravamo una coppia indissolubile. L'unica donna che sia riuscita a farmi fare qualcosa che non mi piacesse. Amava le uniformi quanto le detestavo io eppure mi convinse a fare l'ufficiale di complemento.
Se è vero che dietro ogni grande uomo c'è sempre una grande donna, nel caso ci fossimo sposati come avevamo in programma sarebbe riuscita a fare di me un uomo di successo.
Ma cambiò idea all'ultimo momento, temendo di dover aspettare troppo tempo e che io mi fossi trovato un'altra.
Sposò un maggiore della Guardia di Finanza, ventun anni più vecchio di lei, che la portò all'altare nell'arco di sei mesi. Vissero infelici e scontenti per quarantun anni, finché rimase vedova e sola.
Ma a lei e alla sua voglia di uniformi devo molto: per merito suo ho conosciuto Anna Maria con la quale litigo costantemente da cinquantun anni, ma che è stato il mio vero colpo di fortuna. Di questo non posso che ringraziare quella mocciosa tutta occhi e ossa, accosciata in lacrime dietro il residuo di un'antica colonna di marmo, che incontrai sessantotto anni or sono.


*****




mercoledì 15 ottobre 2014

OGNI GIORNO



Divento ogni giorno che passa
più giovane; al mattino una squama
della mia vecchiezza si stacca,
alla sera un nuovo
petalo si è aggiunto al mio fiore.

Nuvole all'orizzonte sempre
più diradate, sopra di me
scorrono ruscelli di freschissime acque,

trasparenti e veloci.

Invecchierò di colpo, morirò
in un attimo.

Adesso
però mi lascio
godere fino in fondo la stagione
bella della mia giovinezza
più spontanea.


Maximiliansau, 12 ottobre 2014


***

sabato 11 ottobre 2014

BREVE È IL SOGNO



Tenera febbre discioglie
gli ormeggi
d'inquieta nottata;

cosce, colombe implumi
odorose di prato,

morbidissima pelle,
acerbo pavimento d'amore levigato
da mani impudiche e frementi;

trepidante attesa
nel concerto di un breve sogno
bruscamente
interrotto dall'alba.


Maximiliansau, 19 aprile 2014


***

lunedì 6 ottobre 2014

DISTESO SOTTO LA MIA PELLE


Ho il corpo di una donna
disteso sotto la mia pelle,
che di giorno con pacata lentezza
scorre calmo dentro le mie vene
e di notte mi sveglia e mi percuote

ogni parete, ogni strada, ogni schiuma sottile
fin dentro le travi dell'anima.

Al mio risveglio è lì che sogghigna
e mi fa sberleffi, appollaiato
nel suo ricovero dentro i miei due occhi.

Non mi ama. Non mi stima. Mi detesta.

Aspetta che io consumi il mio fumo
mentre cerco di accarezzare
la sua pelle
ridendo in segno di pace.

Ridi, beato idiota, e piangi
tu che hai imparato come farlo.


Maximiliansau, 6 ottobre 2014

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giovedì 2 ottobre 2014

LE TRE RACCHIETTE DELLA TIRINDERA

Quando avevo quattro anni ero un bambino tanto carino e tanto sexi, eternamente incazzato nero. Lo si deduce dalle mille e passa foto che papà, grande artista della fotografia nel tempo libero che gli lasciava il suo lavoro in Banca, mi scattava in ogni momento della giornata. A guardarle si capisce perché adesso sono some sono: ero sempre ingrugnato, e ce l'avevo sempre con qualcuno. Però ero tanto carino, con la frangetta e la riga in mezzo salomonica e diritta, mia mamma ci metteva cinque minuti almeno ogni mattina a pettinarmi; io chiudevo gli occhi e la lasciavo fare. Ogni tanto una sbirciatina al suo bel viso -ero innamorato cotto di lei- per vedere come andava l'operazione. Quasi sempre la sorprendevo con lo sguardo intenso e la punta della lingua un po' fuori dalle labbra, segno di massima concentrazione. Dopo tutto ero il suo ultimo capolavoro, il primo lo aveva partorito tredici anni prima di me ed era veramente bello, troppo bello ma io non lo invidiavo perché lui era il mio idolo.
Che fossi sexi me lo diceva il fatto che tutte le mie coetanee della nostra via e di quella vicina facevano passa e spassa sotto il balconcino dove mia nonna mi teneva parcheggiato, qualche volta inchiodato, perché non combinassi guai tutta la mattinata. Faceva caldo ma non c'era sole, che stava dall'altra parte della casa, dove era la nostra cucina, quindi non correvo il rischio di beccarmi un'insolazione.
Naturalmente nessuno usava nel 1938 quella parola inglese, "sexi". Proibito, come tutte le parole di estrazione non latina. Questo lo dico oggi io, ma allora il passa e spassa lo faceva capire, e mia nonna borbottava sempre contro le madri della ragazzine, che non sapevano educarle. A me sembravano tanto bene educate, sempre col sorrisino e la manina agitata davanti al visino e quel "ciao Enzo", che dicevano strusciando quel ciao che sembrava una carezza sulla groppa di un micetto.
Poi c'erano le tre cugine del piano di sotto. Cioè, due erano sorelle e in più c'era  una cugina che abitava con loro. Avevano quindici anni le gemelle e un anno di più la cugina. A me sembravano tanto carine. Mi facevano le mossette, mi mandavano baci con la punta delle dita, ma io non mi sono mai montato la testa perché sapevo che mi si volevano comprare per via di mio fratello, quello tanto bello, insomma l'unico che avevo e che mi sembrava un dio. Ma a sentir lui non erano poi tanto carine, e che me ne stessi tranquillo perché io di donne non capivo ancora niente, invece ci capivo e come, che Elena me l'ero scelta io ed era la più bella di tutte e aveva anche un anno più di me. Mio fratello diceva della tre cugine che erano pelose come le scimmie e le chiamava le tre racchiette della tirindera, che nessuno mai ha saputo, nemmeno papà, che cosa volesse significare. Comunque io lo so: non significava niente e a lui era piaciuto come suonava sto "tirindera", così gli aveva appioppato sto soprannome e con quello si andava avanti.
Che a lui piaceva tantissimo Mimì Villotti se ne erano accorti tutti, anche le tre racchiette, che ci sbavavano di rabbia. Ma Mimì era un sogno. Aveva sedici anni, bruna di capelli e con gli occhi azzurri come sua sorella, che era Elena, la mia Elena vedi caso.
Così succedeva che il mio fratellone quasi un giorno sì e uno no di pomeriggio mi portasse a fare un giro in canna alla sua bicicletta da corsa, una Viscontea viola meravigliosa. Lui partiva con la Viscontea con mamma che urlava dal balcone a me di tenere la bocca chiusa e a lui di andare piano. Fatto l'angolo e spariti dalla sua vista lui pigiava sui pedali come Bartali e io strillavo a tutta ganassa "dai, dai,dai, dai!!". Si andava di fretta perché avevamo l'appuntamento con le nostre ragazze. Quando eravamo alla Chiesa dei Cappuccini Lito si fermava e mi lasciava scendere, che mi faceva male il sedere su quella canna dura. Dopo un po' arrivavano Mimì con la sua bella bici da donna con la retina sulla ruota di dietro e seduta sopra una comoda sella più piccola collegata al piantone c'era Elena, che già diventava rossa come il fuoco appena mi vedeva. Ve l'ho detto che ero sexi.
E poi non vi ho detto che io la baciavo sempre sulle guance, di qua e di là, tutto il tempo, e lei era come un peperone maturo. Ma non mi allontanava mai, insomma ci stava. Poi mi raccontava quello che aveva fatto tutto il giorno, mentre io nemmeno la stavo a sentire. Mi piaceva il suono della sua voce e l'odore della sua pelle. Confesso che mi capitava anche qualcos'altro che non mi capacitavo di capire, ma qualcosa succedeva.
Di notte mentre dormivo mi facevo come la pipì addosso, ma non era pipì, perché non bagnava le lenzuola, ma rimaneva tutta attaccata alle mie mutandine. Al mattino, quando mia mamma mi veniva a cambiare e vedeva sta roba non diceva niente, solo mi metteva mutandine nuove. A me che le chiedevo cosa fosse rispondeva: "Non è niente, solo catarro della vescica". Trovavo veramente strano che mia madre fosse così tranquilla mentre io avevo il catarro dentro la vescica. Doveva essere una cosa seria e lei non reagiva nemmeno. Eppure per una febbricola era capace di tenermi a letto una settimana e adesso col catarro dentro la vescica niente. Davvero incredibile.
A cinque anni quando andai in asilo feci subito una grande amicizia con Enrico Mignanti e Linceo Tacchi. Loro mi hanno insegnato tutte le parolacce che ho usato fino ai miei quindici anni e tutti i trucchi per non farmi pestare da mia nonna. A loro raccontai la storia del catarro della vescica.
"Dì un po', mi chiese Linceo, è una roba bianca, molla molla?"
"Non lo so, risposi. Quando è mattina è dura e secca, ma non ha colore alcuno"
Quei due si guardarono un attimo e poi scoppiarono a ridere.
"Scemo, mi disse Linceo, tua madre ti prende in giro."
"Non è catarro?" chiesi impaziente.
"No, rispose Enrico, è sbora"
"Sbo...che?"
"SBORA!" tutti e due gridando.
"E che roba è?"
"È una cosa che esce dal pisellino quando che sei stato con una donna", mi disse Enrico.
"E perché esce sta roba?"
"Perché tu sei maschio e loro sono femmine, e poi da grandi ci si fanno i bambini" aggiunse Linceo.
"Come si fanno i bambini?"
"Ci impastano roba insieme e le donne se la mangiano e poi fanno i bambini", finì con lo spiegare Enrico con una voce che non ammetteva repliche.
Tornai a casa con Lito, che era venuto a prendermi, ma a lui non dissi niente.
Fuori dal portone di casa nostra c'erano le tre racchiette della Tirindera che mi fecero un sacco di complimenti perché avevo un vestito nuovo. La scusa per attaccare bottone con mio fratello, ma eravamo in ritardo per il pranzo e così lui tirò dritto. Io da parte mia, adesso che sapevo cose importanti sul conto loro e che loro mangiavano quello che io fabbricavo di notte, le diedi un'occhiata di superiorità. Le guardai bene, aveva forse ragione il mio fratellone, erano proprio racchiette.
A pranzo dovemmo mangiare in silenzio io e Lito perché i grandi stavano facendo un discorso molto difficile. Appena smisero io dissi alla mia mamma:
"Non avrei mai creduto che tu sei una bugiarda"
"Cosa?" esclamò lei, mentre il mio papà mi guardava con occhi grandi così.
"Non è catarro della vescica"
"E cosa è secondo te?"
La guardai aggressivo.
"SBORA" le urlai in faccia.
Mi arrivarono due pappine, una di dritto da mia mamma e una di rovescio da nonna.
"Domani lo accompagno io il bambino all'asilo, disse mia nonna con voce cattiva; poi mi sente suor Ada, che permette che là dentro si dicano queste porcherie".
Misi il muso sul piatto e non dissi più niente, mentre il mio fratellone faceva una fatica enorme a non schiattare dalle risate.


***