venerdì 31 dicembre 2010

A U G U R O N I S S I M I A T U T T I V O I

Carissimi lettori abituali del mio blog, il mio augurio per l'anno che viene è che ciascuno di voi realizzi ciò che più ha nel cuore; che possa godere per tutti i dodici mesi di una salute ottima, e che non abbia affatto rogne, o il meno possibile.
Divertitevi, brindate insieme ai vostri cari e ai vostri amici ed entrate gloriosamente nel nuovo anno.
Auguri Nik
Auguri Lenny
Auguri Kermit
Auguri Adriano
Auguri Vittorio Ugo
Auguri Graziana
Auguri Tullix
Auguri Fizzi
Auguri Grande Marziano
Auguri Andre
Auguri Paola S.
Auguri Enrico D.T.
Auguri Mammifero Bipede
Auguri Cinzia
Auguri Cristina B.
Auguri Silvia F.
Auguri a tutti quelli che qui passano o sono passati per errore.
Felice 2011, gente!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

giovedì 30 dicembre 2010

EINBRUCH = FURTO CON SCASSO

-Pronto papà, mi sono entrati in casa e mi hanno portato via un sacco di roba.
La prima cosa che mi è venuta da dire è stato un vaffa, ma che sono scherzi da farmi sotto le feste? Invece era tutto vero.
-Due televisori, l'impianto stereo, orologi, qualche gioiello; insomma a occhio sui dieci mille. Più la porta, che adesso compererò corazzata, ma costa minimo quattro mille. Speriamo che l'assicurazione paghi metà della porta nuova e tutto il resto.
La prima cosa che ho detto è stato, vedi combinazione, quel che gli hanno detto i poliziotti:
-Ma c'è qualcuno che ti vuole male?
Cerchiamo di spiegarci, altrimenti qualcuno potrebbe pensare che la Germania è una plaga di pace e di buoni costumi. Naturalmente succedono scassi qui come in Italia e altrove, ma qui -dato che la giustizia funziona fulmineamente, cioè un processo si fa in due o tre mesi, la condanna è certa dai tre ai cinque anni, e la pena è sicura senza sconti- i delinquenti fanno le cose per benino, non si perdono in tentativi, ma pianificano coscientemente cercando sempre ghiotte prede. Adesso non dico che mio figlio abbia le pezze al sedere, sta benone, ma non è un riccone e poi il suo appartamento sta nel centro del centro della città, in una via a senso unico dove è difficile parcheggiare in condizioni normali, adesso poi coi mucchi di neve e ghiaccio dappertutto pressoché inagibile. Dico io, questa gente avrà avuto bisogno di parcheggiare l'auto per almeno un quarto d'ora, forse di più, e nessuno se n'è accorto? E poi come facevano a sapere che non c'era nessuno in casa? Una famiglia con due bambini di tre anni di solito non si assenta per tanto tempo.
Il Criminalista della Kripo che è intervenuto più tardi ha trovato anche lui la cosa strana. Stessa domanda del collega: qualcuno le vuole far del male? Perché certi Einbruch vengono fatti altrove e non in centro città. E se lo dice l'esperto mi sento confortato.
Carino è stato il racconto di mio figlio di come è andata la faccenda. Appena arrivato davanti alla porta e constatato che era stata forzata -con un piede di porco- lui da bravo ragazzo non è entrato ma ha telefonato alla polizia.
-Non entri, aspetti i colleghi.
Tre minuti, tre.
Quattro poliziotti, quattro. Tirano fuori le pistole ed entrano nell'appartamento.
Come nei film. Guardano dappertutto, anche sotto il lettone, anche dentro gli armadi.
-E se fossero stati ancora dentro? Dice il caposquadra. È già successo.
Poi si mettono a lavorare alla ricerca delle impronte digitali.
Nada de nada.
-Con questo tempo tutti portano i guanti, fa uno dei poliziotti; nemmeno provare a chiedere se qualcuno ha veduto gente coi guanti girare qui intorno.
-Controlli cosa manca, fa un altro.
Tutto molto molto professionale.
Quello che però è il danno maggiore, che nessuna compagnia assicurativa può lenire, è il danno morale. La sicurezza è stata infranta, quel senso di benessere che i tedeschi chiamano in due modi "Heim" e soprattutto "Zuhause". Ecco è il Zuhause che si è infranto. L'ho capito dalla voce dimessa di mio figlio, dal tono di cane bastonato.
Ho pensato: e se dovesse capitare qui da noi? Noi abbiamo la porta a vetri, basta un calcio e va giù, nemmeno il piede di porco o di agnellino. Ho letto la paura negli occhi di Annamaria.
-Qui a Maximiliansau non è successo mai niente. Le ho detto.
-Nemmeno nel centro del centro di Karlsruhe però, mi ha risposto prontamente.
Ho cambiato argomento e spero che non legga questo mio post.

mercoledì 29 dicembre 2010

IL CUGINO ADOTTIVO ECCETERA SETTIMA PUNTATA

7

Nei due anni che seguirono John Cally Filiput dovette inventarsi una vita nuova, perché si era accorto che il tempo per lui scorreva in modo diverso, più lentamente e comunque gli sembrava di ringiovanire giorno dopo giorno e non di invecchiare.
Non si era più potuto presentare al suo vecchio posto di lavoro ai Mercati Generali perché non sapeva come giustificare ai vecchi colleghi la sua metamorfosi. Cambiò città, andò prima ad abitare a Wiesbaden, poi a Francoforte dove trovò lavoro come magazziniere in una ditta di lavorazione delle pelli: tutto il giorno a impaccare borse, borsette, cinghie e valige. La figlia del padrone era una ragazza sveglia e molto carina. Teneva la contabilità in un ufficio del secondo piano, e le bastava affacciarsi alla finestra che dava sul cortile interno per chiamare tutti gli operai che voleva; però chiamava soltanto "Johnny" da quando era arrivato lui.
Allora John Cally scendeva la sua rampa di scale, attraversava il cortile e saliva i dodici gradini delle scale degli uffici fino al secondo piano. Lei lo faceva sedere, gli offriva caffè o the a seconda dell'ora, qualche volta anche dei biscotti; poi si metteva a parlargli di qualsiasi argomento senza preferenze, naturalmente in inglese per esercitarsi in quella lingua, gli diceva; ma a lei interessava poco in che lingua parlare, voleva solo che lui si soffermasse nel suo ufficio. Alla fine, quasi per giustificare il tempo che gli aveva portato via, si decideva a commissionargli un paio di sciocchezze, le prime che le saltavano in mente, e lui se ne poteva ritornare alle sue occupazioni tra gli ammiccamenti e i sorrisetti degli altri operai. Lo avevano capito tutti che la giovane e graziosa Anette aveva preso una bella cotta per lui, ma la ragazza viveva insieme con un tedescone alto e segaligno dai capelli rossi come i baffi che gli spiovevano sulla bocca, che sembrava geloso anche delle ombre. Per questo John Cally Filiput non volle farsi illusioni, ma si sforzò di pensare che Anette fosse soltanto curiosa. Glielo aveva pur detto più di una volta: non riusciva a capacitarsi di come un quarantenne potesse essere così asciutto e senza rughe, con tanti capelli in testa e muscoli così sodi; insomma che lui dimostrasse poco più di ventitré o ventiquattro anni (venticinque, gli veniva subito di pensare, proprio gli anni che teneva a Ypres; ma di questo non aveva mai fatto parola con nessuno e nessuno immaginava che lui avesse combattuto nella Grande Guerra).
Curiosità femminile, concluse: d'altra parte se ci è andata a vivere insieme dovrà pur piacerle il suo spilungone roscio.
Ma una mattina Anette lo chiamò per pregarlo di andare col Magirus-Deutz, una motrice da 80 quintali, fino a casa sua in un paesetto dall'altra parte del Meno per caricare dei bauli.
-Chiamo un paio di uomini, disse John Cally Filiput.
-Non c'è bisogno di nessuno. Franz Joseph sta già aspettando, rispose lei; la aiuterà lui.
E così John Cally partì col camion seguendo la Benz 170 grigia e nera della ragazza.
Lei se lo perse due volte e dovette fermarsi perché lui la raggiungesse. La seconda volta scese dalla sua elegante vettura per chiedergli:
-Ha qualche problema col camion?
-Questo camion va a nafta e non a benzina, rispose lui piccato; e poi le marce non sono sincronizzate come sulla sua berlina.
Dal tono della voce lei capì che "Johnny" era molto adirato; non doveva commettere con lui gli stessi errori fatti con Franz Joseph, un uomo non va mai umiliato. Gli chiese scusa e si adattò a trottargli davanti al muso del Magirus-Deutz e non più a galoppare.
Franz Joseph il rosso li aspettava all'ingresso della piccola villa vestito come per andare alla funzione religiosa della domenica. John Cally Filiput entrò nel cortile a marcia indietro, sganciò e ribaltò la sponda posteriore e salì insieme al rosso i pochi gradini della veranda. I bauli erano già belli e pronti, allineati gli uni accanto agli altri, di grandezza media e non troppo pesanti.
Mezzi vuoti, pensò John Cally per via di una acquisita consuetudine alla constatazione statistica. Erano destinati a due persone ma la metà mancava. Quindi il tizio sta partendo, concluse e si sentì più allegro e i bauli gli sembrarono ancora più leggeri.
Dovette aiutare a caricare anche una poltrona di pelle, un paralume coloratissimo e una bassa commode di stile francese.
Sbaraccato, pensò John Cally e assistette tranquillamente al freddo commiato dei due: una stretta di mano come tra due vecchi camerati. Poi Anette chiuse la veranda e il cancello con le chiavi che il rosso Franz Joseph le aveva restituite e si avviò alla sua Benz. Mise in moto e scomparve.
L'uomo dal pelo rosso disse a John Cally Filiput di seguirlo. Aveva un piccolo cabriolet di fabbricazione inglese che guidava molto lentamente. Riattraversarono il ponte sul Meno, poi tutta Francoforte e arrivarono nella Nordweststadt nel quartiere di Heddernheim, in una viuzza nei pressi di un parco alberato.
-Bello qui, provò a dire John Cally Filiput; ma l'altro non voleva attaccare discorso. A lavoro ultimato gli mise una banconota in mano con freddezza.
-Veramente bello qui, esclamò di nuovo John Cally senza nemmeno ringraziare; meglio che dall'altra parte, aggiunse ridacchiando, tanto non doveva più alcun rispetto per il perticone defenestrato.
Anette era sparita anche lei e a John Cally non andava di agitare le acque con domande inopportune. Risolse tutto Adriana, la cuoca napoletana tuttofare, che furba come una volpe da un pezzo aveva capito tutto; ci pensò lei a togliergli l'ansia di dosso.
-Fräulein Anette si è presa una settimana di ferie per riprendersi dallo stress della separazione. Vedrai che quando ritorna sarà freschissima e piena di nuova voglia di vivere e di fare all'amore.
Era appena tornata infatti che lo pregò di andare a casa sua a sistemarle una stanza, che era poi quella usata da Franz Joseph come ufficio. John Cally gliela imbiancò e tappezzò in un fine settimana. Lei cucinò per lui in modo irresponsabile e indecente, e capì in quel momento che il bell'italo americano aveva un palato molto più fine del suo ex, e che pertanto si sarebbe dovuta procurare un ottimo libro di cucina.
Quando tre settimane dopo lui trasferì i suoi bagagli in quella bella dimora Anette volle cucinare la prima cena tutta da sola, lasciandolo in grave imbarazzo: non erano ancora mai stati a letto insieme, e John Cally temeva che quel pasto gli avrebbe rovinato la prima notte d'amore. Lo temeva fino a quando assaggiò il primo boccone di lasagne: assolutamente eccellenti.
-Incredibile, esclamò. Come hai imparato?
-Mi sono fatta aiutare da Adriana; l'ho trascinata qui tutte le sere e adesso credo di potermela cavare anche con piatti complicati.
Aveva ragione: John Cally Filiput sapeva che le lasagne erano un piatto molto complicato, e quelle che stava mangiando erano squisite.
Il risultato della notte d'amore fu ancora più brillante a suo giudizio. Mai provato niente di simile, gli avrebbe risposto Fräulein Anette se lui l'avesse interrogata in merito, ma non aveva bisogno di farlo: sapeva che dall'ultimo incontro con Kurt Marx nell'ospedale di Mainz tutto era migliorato, ringiovanito e rinvigorito, proprio tutto.
Iniziò in modo così eccellente il periodo più bello della vita di John Cally Filiput, ma durò solamente poco più di un anno e mezzo.

martedì 28 dicembre 2010

IL CUGINO ADOTTIVO DI K. M. SESTA PUNTATA

6

C'era però ancora una speranza e John Cally Filiput si aggrappò a quell'ultimo filo. Si recò nella biblioteca municipale di Richmond e consultò tutti i libri che parlavano di Karl Marx e della sua famiglia, un lavoro che gli portò via tre settimane di tempo. Alla fine conosceva tutto della sua filosofia ma poco sulla sua famiglia, troppo poco, quasi solamente accenni. Comunque ora sapeva che il grande Karl aveva avuto tre sorelle e soltanto un fratello, più giovane di lui di alcuni anni, che però era morto tubercoloso ancora ragazzo. Due erano gli zii da parte di padre: il primo era morto a venti anni in guerra, una delle tante combattute in quel secolo, l'altro aveva sposato una lussemburghese ed era vissuto per lunghi anni a Trier. Non c'era scritto se avessero allevato figli del proprio letto o adottivi, ma John Cally Filiput decise immediatamente che doveva cominciare le ricerche da Trier.
Nell'antichissima città renana, l'Augusta Trevirorum degli antichi romani, scartabellando tra polverosissime carte e registri voluminosi, trovò che Ignazio Marx e la sua signora lussemburghese avevano passato la maggior parte della loro vita comune a Limburg, una splendida cittadina dell'Assia posta quasi al centro del Parco naturale dell'Alto Taunus, e che ivi erano morti e sepolti.
Il viaggio in terra germanica di John Cally Filiput terminò nel cimitero di Limburg, dove in una grande tomba a forma di cappellina gotica riposavano cinque salme: Ignazio Marx, sua moglie Annalise nata Gauthier, suo figlio Erbert Ludwig Marx, la moglie di questi Maria Assunta Barbarelli di chiare origini italiane, e per ultimo tale Kurt Marx, nato nel settembre 1891 e morto nel mese di luglio dell'anno 1916. Non c'erano fotografie secondo l'usanza tedesca, ma tanto quel Kurt non poteva certamente essere quello che lui aveva conosciuto.
Un'omonimia, pensò, che aveva fatto venire voglia al suo Kurt di mettere in giro tutte quelle frottole sulla parentela col grande filosofo materialista; oppure chissà come si chiamava e quella piastrina chissà come era finita appesa al suo collo. E questa poteva essere la spiegazione più logica, visto che il suo Kurt sembrava non essere mai esistito con quel nome.
John Cally Filiput si rassegnò e mise una pietra sopra tutta la faccenda. Aveva conosciuto una ragazza di Mainz e iniziò a convivere con lei lavorando come scaricatore e operaio tutto fare ai Mercati Generali di Mainz. In America si era diplomato in computisteria e amministrazione aziendale, ma non conosceva la lingua tedesca tanto bene da poter entrare in una Banca o in un ufficio privato di ragioneria; si adattò a fare un lavoro pesante e umile intanto che imparava la nuova lingua dalla sua Margarete, che era insegnante elementare.
Per cinque anni si amarono, per quattro si sopportarono e all'inizio della primavera del 1929 si lasciarono con gran rumore di stoviglie distrutte e di porte sbattute.
Nemmeno pensare di tornare negli Stati Uniti, dove dopo il crollo della Borsa di New York la disoccupazione dilagava e la gente si scannava per un tozzo di pane. Continuò a lavorare ai Mercati Generali di Mainz, dove i soldi gli arrivavano ogni mese sicuri anche se non riceveva mai aumenti. In compenso adesso che parlava la loro lingua lo avevano messo in un ufficio a tenere registri di carico e scarico delle merci. Faceva quindi il suo lavoro e avrebbe dovuto essere contento, invece deperiva ogni giorno di più, come se non mangiasse abbastanza. Per mangiare mangiava, quel che capitava e dove capitava, soprattutto in quei chiostri che i tedeschi chiamano "Schnell Imbiss", specie di tavole calde, dove per pochi Pfennige ti danno una fetta di pane e una salsiccia arrostita bella calda con sopra un sugo molto piccante. A casa non cucinava mai, troppo fastidio nel preparare e troppa puzza da mandar via. Ottima cosa gli Schnell Imbiss, niente piatti da lavare e dopo aver mangiato buttare giù un paio di birre freschissime e la pancia era piena.
Ma deperiva di giorno in giorno, e quando gli capitava di incontrare gente che non vedeva da qualche tempo si meravigliavano sempre tutti per come si era ridotto. "Sei invecchiato di brutto, gli dicevano tutti: lavori troppo o fai troppo all'amore".
Ma di quello neanche parlare, non toccava più una donna da un sacco di tempo e l'ultima volta che ci aveva provato era stato un disastro, con il suo pezzetto che dopo due o tre miserabili tentativi si era definitivamente afflosciato lasciandolo seminudo alla mercé degli improperi della signora delusa e offesa a morte. Era tornato a casa con un tremendo bruciore di stomaco che non lo aveva lasciato dormire. Da quella volta non aveva più provato ad andare a letto con una donna temendo di fare nuovamente cilecca.
I bruciori di stomaco continuavano però quasi ogni notte, da un po' di tempo anche di giorno, soprattutto appena aveva iniziato un pasto, tanto che si poteva dire che ormai quasi solo bevesse e assai poco mangiasse. Gli si erano molto diradati i capelli e i superstiti erano tutti grigi e secchi, cosicché a poco più di trentasette anni sembrava un vecchio di almeno sessanta.
Lo trovarono una brutta mattina sul pavimento, piegato in due accanto alla sua scrivania, con le braccia rigide avvinghiate intorno ai fianchi e la bocca spalancata alla ricerca di aria. In ospedale gli diagnosticarono molteplici acciacchi più o meno gravi e una perfida ulcera perforata. La sera stessa fu operato, e a notte fonda lo portarono nella stazione di rianimazione.
Fu infibulato e incannulato a dovere, mentre una suora anziana ed efficiente non lo perdeva un momento d'occhio. John Cally Filiput dormiva tutto il tempo e quando apriva gli occhi in qualsiasi momento della notte e del giorno gli capitava sempre di vedere la sua monachina affaccendarsi intorno a lui. Gli dava una sensazione di benessere e di tranquillità sapere che una persona vegliava su di lui, non gli succedeva più dai tempi della sua infanzia. Richiudeva gli occhi e tornava a dormire beatamente. Ma una notte che si era svegliato di soprassalto per il gran rumore, vide che non c'era soltanto la sua suorina accanto a lui ma anche alcuni infermieri e un paio di medici. Lo presero e lo caricarono sopra una lettiga.
-C'è una emorragia, gli sussurrò la sua suora; si faccia coraggio e preghi.
-Mi operano di nuovo? Le chiese.
-E di gran carriera per evitare la peritonite. Io pregherò tutto il tempo per lei.
In ginocchio accanto al suo letto, completamente assorta nella preghiera, la rivide alcune ore dopo, chissà quante, parecchie però perché ormai albeggiava.
-Com'è andata? Riuscì a chiederle con un filo di voce.
-L'operazione è andata bene, gli rispose la monaca in un sussurro.
-Sto morendo, vero sorella?
-La sua vita è nelle mani del Signore.
John Cally Filiput chiuse gli occhi reprimendo un singhiozzo. Adesso che era arrivato alla conclusione dell'ultimo capitolo del suo libro privato si rendeva conto di quanto fuggevolmente ne avesse letto le parole. Chi era stato che gli aveva detto che la vita era un foglio scritto sul quale tutti gettavano occhiate di sfuggita, e se anche riuscivano a vedere bene qualche particolare si lasciavano sfuggire tutto il resto? Chi glielo aveva mai detto?
-Tuo nonno Calogero, disse una voce d'uomo.
Aprì gli occhi di colpo. La suora era scomparsa, ma nella semioscurità della stanza intravide una sagoma alta e robusta.
-Non mi hai ancora riconosciuto?
Quella voce non l'aveva mai sentita, ma qualcosa aveva immediatamente attratto la sua attenzione nel viso dell'uomo che era entrato nella sua stanza, facendogli sobbalzare il cuore: tra gli incisivi superiori c'era un vuoto, un'assenza fatale.
-Kurt! Gridò. Kurt Marx! Allora sei vivo...oppure no, aggiunse immediatamente rabbuiandosi; forse sono io che sto morendo.
-Ascoltami John. Noi non ci vedremo più per un bel po' di tempo, ma tu non devi temere pericoli perché sei sotto la mia personale protezione.
-Non ti capisco Kurt: sei appena arrivato dopo un secolo che non ti vedo e già mi fai capire che te ne riandrai velocemente come sei venuto.
-Tutto di corsa, gli rispose Kurt Marx.
-Ci sono tante cose che mi dovresti spiegare.
-Adesso no, non è il momento. Adesso io uscirò di qui. Subito dopo tu ti alzerai da quel letto e abbandonerai l'ospedale.
Lo vide scomparire in un attimo, mentre avrebbe avuto tanto bisogno di averlo con sé. Gli aveva detto di alzarsi dal letto e di andarsene dall'ospedale, ma come poteva? Era stato operato da poche ore per la seconda volta. Però si sentiva bene, come mai si era sentito, fresco come un ragazzo. E poi doveva aver fiducia in Kurt Marx, che era venuto di persona a rimetterlo in sesto.
Si sfilò gli aghi ipodermici dalle braccia, saltò giù dal letto con una agilità che non aveva più da tempo immemorabile, aprì l'armadietto e ne trasse i suoi vestiti cominciando a vestirsi. Era allegro come un ragazzo che ha marinato la scuola. In un attimo fu pronto, ma pensò che non poteva andarsene senza prima ringraziare la buona monachina che tanto si era data da fare per lui. Si accinse a cercarla in corsia, ma proprio in quel momento la suora entrò. Gli passò accanto veloce col suo solito fruscio e il buon profumo di vesti lavate di fresco, e tirò su le tapparelle facendo entrare la luce del giorno nella stanza. Si voltò e lo vide.
John Cally Filiput provò ad assumere un'espressione adeguata per una persona che prende commiato con dispiacere, ma anche con la soddisfazione di avere salvato la pellaccia. Stava per aprir bocca quando la suorina lo assalì.
-Cosa ci fa lei qui dentro? Non lo sa che le visite a quest'ora sono proibite, e chi l'ha fatta entrare nella camera dei un degente grave?
Non gli lasciò il tempo di rispondere perché aveva dato un'occhiata al letto e si era accorta che era vuoto.
-Oh, Dio mio! Oh, Dio mio! Cominciò a gridare; che fine ha fatto quel povero vecchietto? Dov'è andato? Non può muoversi, è gravissimo, è più morto che vivo. È stato lei, urlò avventandosi addosso a John; lo ha aiutato lei, da solo non ce l'avrebbe mai fatta.
John Cally Filiput fece un passo indietro cercando una parola, una frase, una sillaba che non gli veniva in bocca, mentre la monaca si precipitava fuori fuori dalla stanza gettando l'allarme.
John si avvicinò allora al lavabo e si guardò dentro lo specchio. Ecco perché la suora non lo aveva riconosciuto: il vecchietto grigio, rugoso e spelacchiato che poco prima giaceva nel letto non c'era più. Al suo posto John rivide se stesso com'era ai tempi della campagna del Belgio. Non stette un solo minuto a riflettere sul perché e il percome della sua trasformazione. Intascò la sue cose e uscì velocemente dalla camera. Incontrò infermieri che accorrevano da più parti, ma nessuno si curò di lui. Dopo pochi minuti e alcune rampe di scale arrivò nel cortile e affrettò il passo verso l'uscita.



lunedì 27 dicembre 2010

IL CUGINO ADOTTIVO DI K. M. QUINTA PUNTATA

5

Appena fu in grado di alzarsi dal letto e di rimanere in piedi lo trasferirono a Parigi con un treno della Croce Rossa; di lì in un centro di ricerche a Londra. Era una specie di immenso ospedale, dove i pazienti erano soldati usciti dai massacri delle campagne francese e belga e ammalati senza apparente rimedio: dissenteria senza fine, infezioni che non si riuscivano a curare, forme di pazzia non ancora registrate sui testi di psichiatria.
John Cally Filiput lì dentro era la ciliegina sulla torta, nel senso che era il caso più raro di tutti: lui era infatti l'unico superstite di un bombardamento a base di solfuro di etile diclorato, gas che dal luogo del suo primo impiego passò poi alla storia col nome di yprite.
Gli spiegarono che lui era per loro una specie di fenomeno vivente. La sua uniforme, i suoi scarponi, la maglia e le mutande erano impregnate di quel gas esattamente come gli indumenti dei morti. A costoro la pelle alcune ore dopo la morte si squamava e cadeva a pezzi, mettendo a nudo un ipoderma trasudante liquido vischioso e puzzolente. Tracce di quel gas avevano trovato anche sulle sue mani, sul collo e sulla faccia, depositato come una sottilissima polvere che inaridiva la cute. I primi soccorritori avevano provato con della garza a pulire quella polvere, che analizzata era risultata essere solfuro di etile diclorato in quantità in grado di ammazzare una compagnia intera. Lui però non era morto, non aveva danni all'apparato respiratorio né piaghe sulle mani o sul corpo. Niente gli era successo, se non qualcosa che lo aveva un po' mandato fuori di testa come quella storia che raccontava a tutti del suo camerata che prima lo aveva portato in salvo e poi se ne era tornato indietro a crepare. Ma questo si poteva spiegare: quando uno è passato attraverso un campo di morte come chi sfiora coi piedi un oceano in tempesta senza affogare, vedendo tutti i suoi camerati morire uno dopo l'altro senza emettere un fiato è certo che qualcosa gli va fuori posto dentro il cervello.
-Guarirò? Chiese al medico che gli stava parlando.
-Noi ce lo auguriamo tutti, ma nessuno sa come andrà a finire la tua storia, gli rispose il dottore; tu sei l'unico caso che abbiamo.
A guerra finita nessuno era in grado di dire se il fante John Cally Filiput, il cui nome era entrato di diritto nei testi di medicina, fosse effettivamente a posto con la testa oppure ancora no, e in questo caso nessuno poteva giurare che un giorno sarebbe tornata a posto quella povera testa. Di certo c'era che il paziente aveva sempre continuato a insistere con la sua assurda versione, "il mio amico Kurt Marx mi ha salvato la vita, correndo più veloce del vento"; ma tra i morti di quella mattina non c'era nessuno con quel nome, anzi in quella compagnia, in quel battaglione, in quel reggimento e in tutto il corpo di spedizione americano in Europa non era esistito nessun soldato che si chiamasse Kurt Marx.
John Cally Filiput fu dimesso dopo un anno esatto di ricovero. La guerra era finita da pochi mesi e il contingente americano era quasi del tutto rimpatriato. Rimanevano solo un paio di battaglioni della Sussistenza e della Sanità per ricaricare sulle navi le ultime briciole. John Cally Filiput fu aggregato a un reparto di Sanità, lui che non distingueva un ago ipodermico da una siringa, ma la guerra era ormai un ricordo e poi lui era un personaggio speciale: gli ufficiali si guardavano bene dall'impartirgli ordini, e i sottufficiali gli giravano alla larga.
Dormì durante tutta la traversata dell'Atlantico, quasi due settimane di mare per lo più calmo, mare adatto ai nuovi tempi di pace, ben diverso da quello del suo arrivo in Europa, mare agitatissimo da tempo di guerra.
Iniziò le sue ricerche da Richmond, dove la sua storia con Kurt Marx cugino adottivo di Karl Marx era incominciata; ma il suo reggimento si era sciolto al rientro in patria, e tutti i documenti erano stati spediti all'archivio centrale di Atlanta per truppa in congedo. Ormai era famoso negli Stati, aveva visto a Richmond che non gli facevano fare anticamera. Ad Atlanta gli bastò dire il suo nome perché tutti si mettessero sull'attenti e nessuno gli chiedesse per quale dannato motivo intendeva rimestare in quelle vecchie scartoffie. Gli misero in mano il pesante registro di tutti gli effettivi del 122° Reggimento negli ultimi cinque anni, gli sgombrarono un tavolo e gli misero a disposizione una comoda poltrona.
Non c'era su quel registro nessuna traccia di un soldato di nome Kurt Marx, non era mai esistito in quel reggimento, né risultava partito per la lontana Europa nessuno con quel nome.
John Cally Filiput se ne tornò immediatamente a Richmond, certo che l'unico posto dove poteva avere finalmente notizie del suo amico fosse l'amministrazione dell'ospedale dove era stato ricoverato quando ancora non era un soldato e dove Kurt Marx giaceva nel letto accanto al suo, ricoverato prima di lui in preda a un attacco di itterizia, giallo come un limone; le parole erano della crocerossina Adele, non se le era inventate lui.
Ma neanche lì risultava la presenza di un paziente con quel nome, non nel periodo prebellico, né durante né dopo la guerra. Per di più Adele si era sposata e trasferita altrove senza lasciare indirizzo.
-La maggior parte delle infermiere fa così, soprattutto quando sono molto carine, gli rivelò un sottufficiale; lo fanno perché qualche ammalato o qualche medico che si era montato la testa non le vada a cercare rovinandole magari il matrimonio.
Così veniva reciso il cordone ombelicale tra lui e il "tedesco". Non esisteva nessun dato relativo al fante Kurt Marx, di origine germanica ma morto a Ypres per mano germanica con indosso una uniforme americana, e che fosse americano come lui John Cally Filiput non aveva alcun dubbio, perché aveva visto coi propri occhi il nome sulla piastrina scritto in caratteri latini e non in gotico, come i nomi sulle piastrine dei soldati tedeschi morti che qualche volta gli era capitato di raccogliere prima di seppellirli. Non aveva sognato, un sogno non dura per più di un anno. Vero era però che se qualcuno gli avesse chiesto come parlava l'inglese Kurt Marx non avrebbe potuto dare una risposta: non sapeva che lingua parlasse Kurt Marx, non conosceva neanche il suono della sua voce perché Kurt Marx non gli aveva mai rivolto la parola, ma se ne era sempre stato buono buono ad ascoltare quello che diceva lui, dal momento che si erano incontrati in una corsia dell'ospedale militare di Richmond fino a quando lo aveva lasciato spossato ma salvo sopra una collinetta ai margini della nebbia gialla che si era fermata, prima di ritornare nella trincea.

PAUSA BIBLICA MA NON TROPPO

Dopo aver pronunciato le fatidiche parole
"Tu uomo lavorerai con gran sudore, e tu donna partorirai con gran dolore"
Dio, incazzato nero per la disobbedienza dei suoi pargoli, chiamò l'Arcangelo Gabriele e gli disse di accompagnarli fuori dall'Eden senza tante storie.
Eva piangeva, cioè sperimentava se col pianto potesse riuscire ad ottenere uno sconto.
"Piantala! Le disse l'Arcangelo; a Lui le donne non piacciono un gran che.
Infatti Dio si stava già rammaricando. Povero Adamo, pensò; s'è fatto fottere da quella strega, ed è pure colpa mia che gliel'ho messa accanto.
Allora Dio chiamò Adamo.
"Ehi, psss, psss, Adamo vieni qui.!
Adamo accorse sperando nel perdono.
"No, quello no, gli disse Dio; quello che è detto è scritto. Ma ti voglio dare un consiglio da buon padre. Da adesso in poi tu ti devi agitare, ti devi muovere senza far niente, devi fare un gran polverone perché tutti pensino che tu stai lavorando assai, hai capito?"
Ma Adamo non aveva capito niente.
"Alza la voce figlio mio, comanda, va avanti e indietro perché si veda che fai tutto tu, e lei lasciala dentro casa, che affoghi nel sudiciume."
Ma Eva aveva sentito tutto e quando Adamo si allontanò da Dio, corse sfidando la spada dell'Arcangelo.
"Allora, cos'è sta roba? Chiese Eva a Dio. Un complotto tra uomini? Ti ho sentito, sai."
Mannaggia, pensò Dio, ho parlato troppo forte.
"Ho qualcosa anche per te", le disse.
"Cos'è, il parto indolore?"
"Per adesso ancora no."
"Un metodo infallibile contro le rughe e le smagliature?"
" E mo tu che vai a pensare"
"Un mese di vacanze pagate qui nell'Eden?"
"Ma no, ma no: ho qualcosa di molto meglio per te, che ti farà divertire di più."
"Di che si tratta?"
Dio le si avvicinò e le bisbigliò in un orecchio, perché solo lei sentisse.
"Hai visto in mezzo alle gambe di Adamo, sotto il pisellino, c'è un sacchetto con due uova."
"E che ci devo fare con quelle cose lì?"
"Rompigliele. Rompigliele ogni giorno, ogni momento libero che hai. Rompigliele soprattutto quando lo vedi tranquillo, quando lo vedi contento, quando lui si riposa."
"È un consiglio?"
"No. È un ordine."
Un ordine che Eva eseguì alla lettera.

Da allora tutte le Eve si divertono così, rompendo le palle ai loro Adami.
Dopo tutto è stato un ordine di Dio.

PS: a dire il vero anche Adamo mise in pratica il consiglio che Dio gli aveva dato, e dopo di lui tutti i suoi discendenti maschi.
Dopo tutto era un consiglio di Dio.


venerdì 24 dicembre 2010

IL CUGINO ADOTTIVO DI K. M. QUARTA CORTISSIMA PUNTATA

4

Quando alcuni giorni dopo si risvegliò in un ospedale da campo si vide circondato da una schiera di ufficiali medici e da ufficiali dello Stato Maggiore. Gli facevano mille domande, parlando tutti insieme:
-Ti ricordi il tuo nome?
-Ti ricordi il tuo grado?
-Ti ricordi il numero del tuo reggimento?
-Ti ricordi il nome del comandante del tuo battaglione?
-Ti ricordi?...Ti ricordi?...Ti ricordi?
Alzò una mano, fece segno di voler parlare e chiese:
-Dov'è il mio amico? Dov'è Kurt Marx?
-Non ci sono stati altri superstiti, gli rispose un ufficiale dello Stato Maggiore; tu sei l'unico che ha salvato la vita: Adesso dicci cosa è successo.
John Cally Filiput inghiottì saliva e lacrime.
-Kurt Marx mi ha tirato fuori dalla trincea, disse, correndo più veloce del vento.
-È ancora sotto choc, disse uno dei medici più anziani.
-Dicci cosa è successo, fante, gli tornò a chiedere l'ufficiale di Stato Maggiore.
-La nebbia gialla veniva col vento: prima tutti quei flop, flop, flop, poi la nebbia gialla, poi il vento e la gente cadeva senza un grido.
-Cosa vuoi dire con flop flop flop? Chiese quello degli ufficiali più anziano in grado. Cosa significa quel rumore?
-Le granate non sono scoppiate: non si è sentito lo schianto come tutte le altre volte, ma solo quel rumore, flop flop flop, come di una cosa soffice che cade sulla terra smossa, sulla polvere, sulla sabbia e che vi sprofonda senza far del male. Come al mio paese quando fanno i fuochi nelle feste grandi.
-E subito dopo è apparsa la nebbia?
-Io non lo so se è apparsa subito o dopo un po', ma quando ho alzato la testa per vedere quello che stava succedendo ce n'era già tanta, gialla, attaccata al suolo come se volesse entrare dentro i solchi dei campi, e nella trincea la nebbia ci si è proprio tuffata dentro.
-Non avete cercato di scappare subito?
-Io non ho visto scappare nessuno. Quelli che erano stati raggiunti dalla nebbia non si muovevano più, gli altri penso che non avessero capito che quella era la morte, io per lo meno non l'ho capito e credo che nessuno sapesse quello che ci stava capitando.
-Tu però sei riuscito ad alzarti e a scappare in tempo, grazie a Dio.
-Io non ho mosso un solo muscolo, ero pietrificato dal terrore. Poi qualcuno mi ha agguantato e trascinato via di peso. Quando sono riuscito a guardarlo in faccia ho visto che era il mio amico fraterno Kurt Marx. Mi ha portato lontano correndo più veloce del vento finché la nebbia non si è fermata, poi mi ha lasciato lì ed è tornato indietro, dentro la trincea.
Lo stavano guardando tutti con un'espressione di grande pietà, ma nessuno parlava: quel soldato non era ancora rientrato nel mondo della realtà.
-Avrà bisogno di molte cure, disse un colonnello medico; ma poi ritornerà lucido.

(il seguito dopo Natale)


A tutti i miei amici blogisti e lettori di blog auguro uno splendido Natale
BUON NATALE GENTE, BUON NATALE

giovedì 23 dicembre 2010

IL CUGINO ADOTTIVO DI K. M. TERZA PUNTATA

3

L'eloquenza di John Cally Filiput ricominciò a diluviare parole sotto la tenda dove lui e Kurt Marx dormivano e passavano il tempo libero insieme a quattro altri disperati come loro, e a dire il vero gli sembrò che anche Kurt gustasse i suoi ragionamenti con maggior piacere.
Era venuta la luna buona a entrambi e non riuscirono a fargliela passare nemmeno gli acquazzoni quotidiani e interminabili che li avevano accolti in Belgio. Nella trincea sprofondavano nel fango fino ai polpacci. I vecchi camerati che avevano incontrato in quella valle di lacrime provarono a rincuorarli un po'.
-Non vi preoccupate, disse un caporale francese che doveva avere non meno di cinquanta anni; fra poco arriva l'inverno e tutta questa acqua diventerà ghiaccio.
Ridevano tutti i veterani, ma non sembrava che la Compagnia americana avesse molto gradito lo scherzo.
Dopo un paio di settimane, in cui per la verità non dovettero sparare nemmeno una volta, ebbero due giorni di riposo. Li trascorsero nel paese più vicino, Ypres. John Cally Filiput li passò quasi sempre ubriaco, mentre Kurt Marx lo trascinava da una bettola all'altra. Durante la notte si svegliò e gli sembrò di stare abbracciato a una ragazzotta formosa; gli sembrò che lei lo baciasse mentre facevano all'amore. Il letto dove stavano era assai grande, come il ponte di coperta della nave che li aveva portati in Europa. Sull'altro lato del letto vide Kurt Marx che se ne stava sdraiato a braccia conserte a osservare il soffitto. Non dormiva e non faceva all'amore con la ragazza che gli stava adagiata accanto. Al mattino quando John Cally si svegliò del tutto aveva un gran mal di testa; riuscì comunque a vedere che era solo nel lettone, e pensò di essersela sognata la bella ammucchiata della notte.
Al cader della sera tutta la Compagnia si mise in marcia per raggiungere la linea del fronte. Da come gli uomini camminavano si vedeva che stavano ancora pensando alla buona birra e alle ragazze lascite giù in paese. John Cally Filiput camminò tenendosi d'occhio per tutto il tragitto la punta dei suoi scarponi lucidi. Non gli veniva da dire una parola, e il suo improvviso mutismo lo sgomentava; ancor maggiore sgomento gli proveniva però da una preoccupazione latente, sotto pelle, che non aveva una causa precisa e forse proprio per questo gli metteva paura. Si augurò che la sua agitazione fosse dovuta al troppo alcool ingurgitato che gli faceva sentire le gambe assai pesanti; non ci si abitua mai alle sbronze, pensò. Dopo un po' gli venne il fiatone; si voltò a guardare Kurt Marx, ma non gli sembrò affatto affaticato.
Arrivarono di notte, decisamente in ritardo rispetto alla tabella di marcia prevista, in tempo comunque per prendersi tutte le bestemmie e le imprecazioni della Compagnia inglese che aveva dovuto aspettare il loro ritorno per potersene andare due giorni in licenza.
Alle prime luci dell'alba, grigia e freddissima, tutti gli uomini della Compagnia americana stavano coi nasi poggiati alle feritoie della trincea per vedere spuntare i chiodi degli elmetti dei soldati tedeschi dalla trincea di fronte, una cinquantina di metri dalla loro. Succedeva tutte le mattine, era una specie di saluto tra vittime predestinate: i tedeschi agitavano gli elmetti facendo danzare le punte di qua e di là, gli americani muovevano verticalmente i loro fucili e facevano ballare le baionette inastate con lo stesso ritmo dei crucchi.
Aspettarono a lungo, ma dei tedeschi e dei loro elmi chiodati non videro alcuna traccia. Che se ne fossero andati? Che avessero deciso di farla finita con quella guerra del massacro?
Cominciarono ben presto a serpeggiare le prime risatine, poi le risatone, poi gli sghignazzi e dopo un po' la trincea era tutta in festa. Alcuni si ersero con tutto il busto fuori dai ripari urlando frasi oscene in quella che credevano fosse una lingua comprensibile per il nemico; altri uscirono addirittura dalla trincea e malgrado gli urlacci dei sottufficiali e gli ordini degli ufficiali se ne rimasero fuori, chi sdraiato, chi seduto, chi pisciando, chi mostrando il culo nudo ai fantasmi dei tedeschi ritiratisi e sicuramente già sulla strada per Berlino.
In tutto quel casino udirono il fischio delle granate in caduta all'ultimo momento, riuscirono tuttavia ad appiattirsi tutti al suolo, chi dentro chi fuori dalla trincea. Ma quando le granate toccarono terra ed esplosero non fecero udire il ben noto schianto accompagnato dai vigorosi sibili delle schegge. Si sentirono piuttosto una serie di tonfi attutiti, come se i proietti contenessero bambagia e non esplosivo. I soldati sollevarono tutti istintivamente la testa per vedere e capire cosa stesse succedendo, ma non videro fumo, soltanto una nebbia giallastra che avanzava verso di loro e che ben presto raggiunse la trincea sprofondandoci dentro come risucchiata dal vuoto.
Quelli che ancora non erano avvolti dalla nebbia non potevano arrivare a capire cosa stesse succedendo, mentre quelli che ci stavano dentro erano già morti. Nessuno ebbe il tempo di lasciarsi travolgere dall'orrore, perché la morte correva velocissima per i campi quella dannata mattina. Nessuno sopravvisse, morirono tutti.
Tutti meno John Cally Filiput.
Appena le granate si smorzarono al suolo con tonfi sordi John Cally Filiput si sentì afferrare per il bavero del cappotto e trascinare via fuori dalla trincea da una forza sovrumana: volava a un metro da terra. Si rese conto che qualcuno lo stava portando via sotto un braccio come un pacco, lontano dalla trincea a grandissima velocità, qualcuno che gli teneva una mano davanti alla bocca e al naso permettendogli appena di respirare. Riuscì a girare il collo a metà vincendo la resistenza di quella forza onnipotente e vide Kurt Marx col volto tumefatto, come se lo avessero colpito infiniti pugni, gli occhi resi rossi dallo sforzo e da quella nebbia giallastra che ancora li inseguiva e sembrava avventarglisi addosso. Ma Kurt era più veloce della nebbia, più veloce del vento che soffiava dietro di loro, più veloce della morte che correva sul vento.
Poi di colpo il vento cadde e anche Kurt Marx diminuì la velocità della corsa. Alla fine si fermò e depose John Cally Filiput a terra. John Cally avvertì allora una profonda spossatezza, riuscì appena a vedere che Kurt stava tornando indietro verso la trincea silente. Lo vide immergersi in quella nebbia letale e svenne.


mercoledì 22 dicembre 2010

SEGUITO DE "IL CUGINO ADOTTIVO DI K. M."

2.

La cosa comica fu, e tutte le volte che ci ripensava la trovava sempre più comica, che non si stupì affatto della coincidenza, perché non la considerò una coincidenza ma una logica conseguenza di eventi verificatisi negli ultimi mesi. Tutto era incominciato con delle cadute ridicole: ma perché proprio a lui che era sempre stato il più veloce dei suoi coetanei e anche di maschietti due o tre anni più vecchi di lui (il più veloce almeno nella scuola, tanto che il preside intendeva mandarlo alle selezioni regionali per il reclutamento di giovani atleti da avviare alla carriera sportiva), ebbene perché proprio al piè veloce John Cally era venuto in mente di doversi sempre affrettare per stare al passo con gli altri? Un'idea ben strana, che forse era un avvertimento di qualche cosa che stava per capitargli. E gli erano capitate infatti le cadute rovinose e la mezza frattura della tibia; come conseguenza era stato tradotto in un ospedale, che doveva per forza degli eventi essere un posto per soli soldati e futuri soldati. Di qui l'arruolamento forzato e il trasferimento in quel Battaglione. Perché stupirsi adesso se ritrovava lo spilungone senza un dente esattamente nel posto dove avrebbe dovuto incontrarlo?
John Cally Filiput sentiva che c'erano un sacco di cose che doveva raccontargli e così ricominciò a parlargli di continuo, e questa volta gli sembrò che una specie di sorriso avesse preso forma sulle labbra del tedesco. Gli parlava a colazione, a pranzo, a cena; gli parlava durante le marce, nel mezzo delle esercitazioni militari, mentre sfilavano in parata, perfino durante i tiri col fucile al poligono, e qui doveva strillare perché Kurt Marx lo arrivasse a sentire; continuava anche dopo che era suonato il silenzio, anche se doveva abbassare la voce quasi a un sussurro per non disturbare chi aveva sonno, ma soprattutto per non farsi beccare dal sottufficiale di servizio. Ogni tanto qualcuno nella camerata sacramentava, ma Kurt Marx non si lamentava mai, mai protestava e lo ascoltava con occhi sgranati pieni di interesse senza mai aprir bocca.
-Ti sto dicendo tante di quelle cose che agli altri basterebbero per due vite intere, e se tu le potessi riscrivere tutte di seguito penso che ne verrebbe fuori un romanzo di quelli che si vendono bene, gli disse un giorno. Ma adesso viene la parte più difficile: domani ci imbarchiamo per l'Europa e là dovrò parlarti più in fretta che potrò perché dovremo stare attenti alle pallottole che ci spareranno addosso i tuoi paesani.
Si morsicò la lingua per essersi lasciato scappare fuori quella battutaccia. Lo guardò di sottecchi, ma non gli vide apparire sulla faccia nessuna smorfia. La bocca di Kurt Marx rimase serrata.
Nei dodici giorni di mare tra New York e Le Havre, in acque troppo mosse a suo giudizio, John Cally Filiput fu molto impegnato a mangiare e vomitare, rimangiare di corsa e rivomitare immediatamente, e di nuovo rimangiare per poter nuovamente rivomitare come gli era stato raccomandato da alcuni vecchi marinai durante le operazioni di imbarco.
-Mai rimanere a stomaco vuoto, ragazzi. Mettetevi nei pressi della cambusa e mangiate di continuo, qualsiasi cosa, non importa cosa tanto la risputate in fretta. Questa è la regola d'oro per non soffrire troppo il mal di mare.
Arrivati nel porto francese John Cally Filiput pensò che la regola nel caso loro aveva funzionato egregiamente, ma gli dispiacque di non aver avuto il tempo e la voglia tra un conato di vomito e l'altro di commentare dovutamente quel viaggio insidioso e dondolante che lo riportava nel continente dei suoi antenati una settantina di anni dopo che il padre di suo padre, Giovanni Calogero di cui portava il nome, si era imbarcato a Genova a bordo di un tre alberi scozzese con una valigia di cartone pressato e una sacca di tela grezza con dentro le quattro cosucce che possedeva. Lui ci sbarcava adesso con una divisa da fante nuova nuova, che una bella ragazza della Sussistenza gli aveva stirato fresca fresca prima di portargliela in caserma a Richmond. Lo aveva abbracciato e baciato con veemenza, piangendo come una vite tagliata ed era fuggita via lasciandogli le gote bagnate dalle sue lacrime e sul torace il tepore dei suoi seni, che ci aveva tenuti premuti con forza.
-Guarda Kurt quante francesine sono arrivate a portarci fiori, gli aveva detto mentre scendevano la passerella in fila indiana. Fai un sorriso a queste belle pupe, dobbiamo sfruttare tutte le occasioni.
Ma "il tedesco" era rimasto muto e impassibile come sempre; aveva guardato le fanciulle in festa con una espressione truce come quella che dovevano avere i suoi avi quando scorrazzavano nelle pianure d'Europa portando distruzione e terrore nei tempi bui del medio evo. Durante il periodo di addestramento a Richmond aveva incominciato a lasciarsi crescere i baffi, che adesso aveva folti e spioventi e che gli davano proprio un'aria marziale.
Kurt faceva bene a tenere la bocca chiusa, pensò John Cally, perché quel buco nero che si apriva nel mezzo avrebbe guastato inesorabilmente il suo aspetto da guerriero antico. Invulnerabile, pensò John Cally, ecco come sembra; invulnerabile e predestinato alla vittoria. Gli starò sempre vicinissimo, così mi cadrà addosso un po' della polvere dorata del suo immancabile trionfo.
Ma l'unica polvere che in gran quantità gli toccò di ingoiare fu quella degli innumerevoli camminamenti scavati dai soldatini francesi nelle retrovie per portare ordini e contrordini alle truppe di prima linea.
Per un periodo di tre o quattro settimane toccò sempre alla bella coppia formata dal "tedesco" e da John Cally Filiput portare dispacci e lettere sigillate: John Cally portava sotto la camicia, a pelle, gli ordini del Generale ai comandanti dei reggimenti mentre Kurt gli faceva da scorta; al ritorno Kurt Marx portava lui a pelle le risposte dei colonnelli comandanti e John Cally Filiput gli faceva da scorta, da buoni fraterni amici, e tutto filava via liscio, ma era una cosa assai pericolosa, perché a parte le granate tedesche che in quel tratto di strada fioccavano, dovevano stare bene attenti a non farsi scivolare fuori dalla camicia quei preziosi documenti, ché altrimenti sarebbero andati a finire davanti a un plotone di esecuzione. Perciò erano diventati tristi e taciturni, cioè John Cally Filiput era diventato triste, ché Kurt Marx lo era per natura; taciturno poi poteva diventare solo John Cally, ché "il tedesco" doveva essere muto per dote congenita. Dover tacere però faceva star male il povero John Cally più di un attacco di dissenteria. Per questo gli sembrò di riprendere vita quando nel tardo autunno di quell'anno il 122° Reggimento fu trasferito sul fronte belga.

URGE UNA NUOVA SERIE

Penso che dopo tanta poesia un racconto -a tappe, a rate, a porzioncine- possa passarci giusto dentro questo mio blog.
Anche perché non si può ad ogni costo VOLER scrivere poesie, che vengono rigurgitate solo quando l'intruglio dei sentimenti e delle sensazioni le impasta e le fa schizzare fuori.
Non s'ha da avere fretta.
La fretta abbisogna di molto tempo per essere ben fatta.
Ho deciso di trascrivere un racconto inedito del 2007, intitolato:

IL CUGINO ADOTTIVO DI KARL MARX

1.

Senza sapersene dare una ragione dall'inizio di quell'anno faceva tutte le sue cose di corsa, e poiché era molto veloce ma piuttosto maldestro John Cally Filiput cadde tre volte prima che arrivasse la Pasqua. La seconda volta in modo così rovinoso da incrinarsi il terzo medio superiore della tibia sinistra. Di conseguenza alla successiva caduta fu ricoverato per precauzione in un ospedale militare, una quindicina di chilometri a Nord di Richmond, anche se non aveva mai indossato una uniforme; ma erano tempi di guerra e i giovani acciaccati venivano rimessi a posto e spediti nella più vicina caserma. Fu in quell'anonimo e asettico ospedale che incontrò "il tedesco", come tutti chiamavano uno spilungone di quasi due metri calvo e con un incisivo superiore assente. Per notarne l'assenza però bisognava aspettare che mangiasse, perché "il tedesco" non parlava mai, nemmeno per dire si o no, ché per quello gli bastava un secco movimento del capo.
Il nome lo portava appeso al collo sulla piastrina di riconoscimento: Kurt Marx. Sul foglio delle sue generalità, che lui stesso aveva compilato, alla voce titolo di studio aveva scritto in stampatello e a tutte maiuscole "CUGINO ADOTTIVO DI KARL MARX", che secondo lui doveva equivalere a un diploma scolastico. Era insomma il suo titolo nobiliare, o meglio, dati i tempi, il suo marchio di fabbrica.
John Cally Filiput cominciò a parlargli fitto fitto fin dal primo giorno. L'altro non poteva sapere che lui si comportava così con tutti da una vita, perché non riusciva a star zitto, ma sembrò gradire: non chiudeva infatti gli occhi come faceva di solito con tutte le altre persone, compresa la crocerossina Adele, che era la più carina e procace di tutte. Lo guardava invece con fissa intensità come se gli piacesse quel diluvio di parole. E così John Cally Filiput continuò a parlargli, infervorandosi in soliloqui grandiosi ogni giorno più lunghi, man mano che cresceva in lui il convincimento che "il tedesco" non volesse parlare solo per via di quella vigorosa assenza nelle bocca.
-Forse non capisce un accidente di quello che gli stai dicendo, provò a suggerire la graziosissima Adele rimboccando le coperte allo spilungone sdentato. Può darsi che sia sordo, può darsi che sia muto, potrebbe addirittura essere tutte e due le cose.
-Ma non lo hanno visitato quando è arrivato qui dentro? Se ne sarebbero dovuti accorgere se era sordo oppure muto.
-Aveva un attacco di itterizia: era giallo come un limone e non poteva parlare per via della febbre altissima.
-Adesso non ha più febbre, potrebbe tentare di parlare se potesse.
-Quando ha avuto tra le mani il modulo informativo che tutti devono riempire non ha chiesto aiuto a nessuno, come hai fatto tu per esempio che ti sei fatto riempire il questionario dalla suora perché non capivi le domande. Lui invece zitto zitto ha risposto a tutti i quesiti per benino, ha ripiegato il modulo, lo ha appoggiato sulla sua sedia e si è messo a dormire. Io ti dico che questo qui proprio non vuole parlare, concluse la crocerossina. Data la sua nazionalità gli conviene.
Era infatti l'inizio del 1917, stava per finire febbraio e in Europa tedeschi e francesi, inglesi e austro ungheresi si stavano massacrando, mentre in America tutti i maschi giovani facevano la conta per vedere a chi sarebbe toccato andarsi a fare scannare laggiù. Era chiaro che in quei tempi a nessuno sarebbe andato a genio di avere per vicino di letto in ospedale un tedesco, per di più malato di itterizia; per cui sembrava logico che chiunque fosse tedesco tenesse chiusa la bocca, dato che per lo più è dall'accento che si riconosce la terra di origine della maggior parte della gente.
Così "il tedesco" tacque e ascoltò le lunghe chiacchierate di John Cally Filiput finché guarì e dovette lasciare l'ospedale e il suo compagno di ricovero. Non scucì bocca nemmeno in quell'occasione: fece un abbozzo di inchino con la testa, gli strinse la mano, raccolse il suo sacco di tela e se ne andò.
Passò un po' di tempo prima che John Cally Filiput si riprendesse dalla sorpresa provata nel trovarselo improvvisamente davanti non più vestito col camicione bianco dei ricoverati ma in uniforme. Niente di strano trovare un soldato in un ospedale militare, ma era strano che "il tedesco" indossasse una divisa dell'esercito americano.
Un mese dopo toccò anche a John Cally Filiput di essere dimesso. Gli fecero togliere il camicione anche a lui, gli lasciarono di nuovo indossare i suoi abiti borghesi, ma non gli permisero di ritornare al suo paese. Gli Stati Uniti erano ormai prossimi a dichiarare guerra alla Germania, i cui sommergibili mandavano da un po' di tempo a fondo tutte le navi mercantili americane dirette in Inghilterra, e proprio per questo motivo John Cally Filiput fu accompagnato in una caserma alla periferia di Richmond, sede del 122° Reggimento di fanteria.
IL sottufficiale furiere lo assegnò alla prima Compagnia del secondo Battaglione, e un caporale del suo reparto lo condusse alla sua momentanea casa, una camerata, e al suo alloggio, un posto letto e un armadietto metallico. Accanto alla sua branda, sdraiato sulla propria coi piedi fuori perché era troppo lungo, John Cally Filiput ritrovò "il tedesco" Kurt Marx, il cugino adottivo di Karl Marx.

sabato 18 dicembre 2010

PAROLE SOLTANTO PAROLE

In un breve ma concitato diverbio in rete il mio interlocutore, esprimendo un opinione opposta alla mia, ha sostenuto che nel web ci si scambiano "soltanto parole", cioè fumo senza arrosto.
"Soltanto parole" detto quasi con dispregio, come se si trattasse di vermi da schiacciare o di pustole da estirpare.
Amici miei, io che con le parole ci vivo e ci lavoro quando scrivo i miei libri e le mie poesie, io che trasformo le parole in colore e segni quando dipingo, a sentirne parlare così come fossero roba da mercatino dell'usato e dell'inutile mi sono venuti i brividi.
La parola distingue l'uomo dalla bestia, che bela, abbaia, grugnisce, barrisce, ruggisce, raglia ma non parla.
Con le parole si può fare tutto. Mettendo insieme quelle cinque vocali e quelle sedici consonanti si costruiscono appunto parole, con cui si sviluppano frasi, che consentono al pensiero di prendere una forma visibile, leggibile, comprensibile.
Con le parole si può imprecare, maledire, benedire, blandire, supplicare, dileggiare, elogiare, schernire.
Si ama con le parole: meglio dire ti amo che spedire fiori.
Si odia con le parole: piuttosto che spedire un pacco contenente uova merce e merda essiccata, meglio dire a piena voce va all'inferno. Vuoi mettere?
Poi ci sono le parole degli artisti, dei poeti, degli scrittori, gente diversa, dotata di sensibilità che può sembrare eccessiva, ma che occorre loro per reperire le parole adatte ad esprimere i propri sentimenti.
I sentimenti!
Ecco cosa esprimono le parole degli artisti: i sentimenti.
Lasciate parlare gli artisti e i poeti e ascoltatene la voce: usano parole, è vero, ma per lasciare che i loro sentimenti si materializzino.
Ascoltateli quei sentimenti, che sono la parte più nobile dell'animo umano, e non trattate le parole degli artisti come fossero pietre bagnate dall'urina dei cani randagi.

giovedì 16 dicembre 2010

UN DEMONE NOTTURNO

È come avere una casa di quattro stanze
e le prime due sono occupate da estranei, solo
le ultime due sono le mie,
ma per arrivarci devo sgomitare
tra gente e mobili ammucchiati
a casaccio -gente
ammucchiata a casaccio; mobili
ammucchiati a casaccio- e io
non trovo spazio,
non trovo il corridoio e rimango
impastoiato tra gente e mobili
estranei, ammucchiato
insieme a loro.
E il tempo passa e si fa notte fonda
ma non raggiungo le mie stanze.

Di notte poi,
di notte un demone
si impossessa di me.
Mentre che io ignaro e senza colpe
dormo tra calde coperte,
lui usa il mio corpo
per tutte le turpitudini
che solo lui conosce.

Alla mattina scopro
vistose cicatrici sulla mia pelle;
sapori disgustosi sulle mie labbra;
tracce misteriose di percorsi notturni
nei miei pensieri.

Mi è facile dire; io non c'entro;
ma le tracce sono lì
sotto gli occhi di tutti,
e c'è qualcuno pronto a scommettere
che io sapevo tutto fin dall'inizio
e adesso cerco un comodo alibi.


Concepita a luglio, messa in gestazione il 13 settembre e partorita la sera del 16 dicembre 2010 a Maximiliansau.

domenica 12 dicembre 2010

UNA FACCIA STRANIERA

Una faccia straniera allo specchio
stamattina, strapazzata e impacciata;
occhi che non frugano dentro,
ma che guardano appena.
Ce n'è quanto basta
per spegnere la luce e uscirmene
dal bagno, e togliere subito dopo
quei quattro specchi che ho sulle pareti.

Qualcuno o qualcosa
ha sollevato il bizzarro coperchio
di omertà con me stesso,
che avevo ben avvitato al vaso
dei miei vizi e dei miei stravizi:
quante bestemmie non ho mai dette
per menefreghismo;
quanti delitti ho pensati,
mai fatti per viltà,
per pigrizia;
quanti conti non pagati,
quanti tradimenti occultati
a viva forza in fondo al vaso.

Ne salto fuori
precario dentro la mia pelle,
analfabeta e sciatto,
non più impertinente,
solo villano, unicamente blasfemo.

Vita puttana:
ti agguanta e balla stretta
finché ti sei arrapato
e poi ti molla.
Vita maligna:
la cellula divina in dotazione
è andata stand by
un secondo prima
che io nascessi;
andrà di nuovo in funzione
un secondo prima che si concluda
questa vita rubata.


Scritta in Maximiliansau la mattina di domenica 12 dicembre 2010.

venerdì 10 dicembre 2010

ANCORA DI NOTTE



Ho consumato tutta la sera
cercando di parlarmi
perché avevo bisogno di trovare
nuovi convincimenti,
di ritrovare
vecchie certezze,
ma dentro
il mio cuore cercavo
solamente il silenzio.

Una cappa tetra sopra di me
come un mantello senza buchi:
non passa aria,
non trapassa luce.

Può darsi che quanto
un uomo è più triste
tanto meglio riesce a esprimere
se stesso, e allora per me
proprio adesso
sarebbe arrivato il momento,
ma non ho voglia di esprimere
niente, ho voglia
solo di trovare
la remunerazione del silenzio.


In Maximiliansau, durante la notte del 10 dicembre 2010

domenica 5 dicembre 2010

VIAGGIAVO SOLO DI NOTTE


Viaggiavo solo di notte,
a fari spenti,
perché tanto conoscevo la strada:
era sempre la stessa
con cadenza ossessiva.

A fari spenti
per non vedere nulla intorno a me;
con gli occhi chiusi
nel profondo buio,
trascurando tutti gli oggetti vicini,
ignorando tutti gli orizzonti
allineati lontani
con un monotono disinteresse;
e l'infinito
non stava più davanti,
ma lo lasciavo allontanarsi
dietro di me.

C'era qualcosa di divinamente
infernale in quel movimento
ormai senza traguardo,
in quello spostarsi
rimanendo immobile.

Quando non me lo aspettavo più
quando più non ci pensavo
ho sentito un lembo
di spiaggia sconosciuta
sotto i piedi.
Ho aperto gli occhi
e in quel momento ho visto te,
seduta sul mio orizzonte
più lontano,
che mi stavi attendendo.

Anche adesso viaggio solo di notte:
tengo però gli occhi aperti
e i fari accesi
per vedere te che diventi
sempre più vicina.

Scritta di notte -quando altrimenti- dalle due alle tre, a Maximiliansau il 5 dicembre 2010.

giovedì 2 dicembre 2010

CREDEVO DI AVER SENTITO

Credevo di aver sentito qualcuno
suonare alla mia porta.
Ho disceso a precipizio
le scale,
ma ho trovato solo l'aria
buia della notte.
Da warst Du nicht.

Ho cercato allora di afferrare
il profumo del tuo alito,
ma ho inspirato solamente
odore di neve calpestata;
nemmeno un suono
nemmeno un'eco.
Schon war alles verschwunden.

Mi ero illuso di avere abbracciato
il mondo, stringendo a me
il pensiero di te,
ma avevo stretto
una bracciata d'aria
tutto il tempo,
nichts anders.

Si suole dire
che un uomo viene al mondo
con i pugni chiusi,
ma muore con le palme aperte:
genau so wie meine Hände jetzt.


Scritta a Maximiliansau poco prima di mezzanotte del primo giorno di dicembre 2010.

domenica 28 novembre 2010

FREUNDSCHAFT VOM WEB

Hier stinkt es.
C'era puzza di vecchio dentro casa
e ho aperto una finestra.
È entrato il profumo del tuo alito
che non ho mai sentito.

Adesso fluttui qui dentro
amicizia di web, leggera
più leggera
ma non meno vera:
non ti ho mai toccato,
nie angefassen,
non ti ho mai parlato,
nie gesprochen,
non ho mai guardato
dentro ai tuoi occhi,
mai visto
la tua bocca muoversi
mentre che parli con me,
nie gesehen.

Non conta nulla la bellezza qui,
das spielt keine Rolle:
siamo tutti i più belli del mondo
dentro il web.
Non conta l'età qui,
das spielt keine Rolle:
siamo tutti i più giovani del mondo
dentro il web.
Wir sind ehrlicher:
siamo tutti più onesti
e più sinceri
dentro il web.

Aufwiedersehen
Freundschaft vom web.


Scritta stanotte alle quattro, e come poteva essere altrimenti, l'ora dei lupi mannari e dei poeti che non riescono a dormire.

lunedì 22 novembre 2010

HINTER JEDE LANGE EHE STECKT EINE KLUGE FRAU

Una trentina di anni fa raccolsi tutte le mie poesie in un manoscritto, che intitolai "Lettera familiare".
Anche se tutti mi consigliavano di trovare un editore lasciai cadere la cosa, perché non credevo di essere un poeta. Gente, io sono fatto così: prendere o lasciare.
Concludevo quel manoscritto con una poesia dal titolo assai eloquente: "Epilogo", sottotitolata -ad Anna Maria Turolo Iacoponi-
Questa poesia mi è ritornata in mente leggendo su un quotidiano di Cruccolandia la frase con cui do il titolo a questo post, che significa: dietro ogni matrimonio che dura a lungo si nasconde una moglie intelligente.
Ho deciso su due piedi di trascrivere quella poesia di tre decenni fa, aggiungendovi quella che ho scritto questa notte alle quattro.

EPILOGO

Un giorno, spero, arriverò a fermarmi
in questa lunga, estenuante corsa senza traguardo;
e tu sarai già lì, pronta a ricevermi
col tuo sorriso arioso dentro gli occhi.
Arriverò sfinito ed ansimante
un attimo prima di morire, credo.
Dicono che in quel momento
breve ed eterno
la vita ti si ripete davanti agli occhi tutta intera:
senza pietà gli errori e le menzogne,
i tradimenti e i delitti,
forse anche le gioie;
e tu sei la vittima e il boia,
protagonista dell'ultima recita e spettatore attento,
ma non puoi alzarti ed andartene
se il pezzo non ti piace.
Dicono. Non so se è vero; ma comunque
a chi ha saputo accanto a me soffrire
senza negarsi mai,
lascio la poltrona di centro in prima fila.

Non credere di conoscere la storia,
non ti distrarre, c'è molto che non sai.
Anche la strada che facemmo insieme,
e di cui tutto conosci, pietre polvere e sangue,
la nostra immensa parabola infinita
è diversa
se la racconti tu,
forse più sobria,
ma questa volta li racconto io
i miei giorni ed i tuoi,
proprio a mio modo,
come li ho vissuti io,
senza ritegno e pieni di ironie,
insieme a te,
che mai capisti il gusto
della battuta secca e mozzafiato.

"Sei come tutti i romani!
Solo scherzi sai fare! Non sai parlare
una volta seriamente?"

Parlare seriamente non so che voglia dire.
Ridere seriamente, questo so; e piangere;
forse anche morire, fra un po' vedremo.
Per ora ti sia chiaro che io della mia vita
tutto ho regalato, niente rubando,
e niente mi fu dato
se non da te.
Io ho sempre interamente interpretato
solo il mio ruolo:
protagonista o no, il personaggio mio
non l'ho tradito mai.
Non mi piaceva neanche molto, devo dirlo;
ma tutti gli altri che potevo avere,
solo cambiando lato della faccia,
mi piacevano anche meno.
Questo era onesto, questo era sincero;
viveva intensamente
momenti belli e brutti senza scegliere mai,
e niente compromessi o mezzi toni.
Pittore e ancor poeta, padre e marito, fratello e figlio,
tagliato da una creta che era acerba,
su cui non piovve mai,
tale io mi feci
e tale io mi conosco:
dovessi cominciar tutto da capo
non cambierei una virgola,
né un punto.

In particolar modo
gli errori, i peccati, i cattivi pensieri,
vorrei riavere tutti insieme,
perché quella del peccatore protervo non pentito
fu la mia parte più seria,
fu la mia parte più vera:
vivere rifiutando tutti i falsi
catechismi,
e le melense balordaggini di chi
sapeva tutto, e tutto
aveva previsto
e prevedeva.

E soprattutto mi sarebbe caro
tornare indietro per rincontrare te,
quando tu ti lasciasti
scegliere da me
avendomi già scelto.

La gioia di sentire al primo ballo
dopo un attimo
che tu adeguavi il tuo agile passo
al mio goffo da orso,
il braccio destro tuo sulla mia spalla
sinistra, e la tua mano
mi sfiorava il collo,
quasi per caso.
Fu quella volta credo
che io ti dissi:
"penso che diventare vecchio
accanto a te
sia la cosa più bella
che possa capitarmi".
E tu ridevi:
e ti vibrava tutta la schiena e i fianchi
nelle mie braccia, e il ventre
che al mio aderiva,
trasmettendogli l'onda del tuo riso.

Una vita intera abbiamo avuto
di liti e zuffe e amori
senza fine,
e musi lunghi
e silenzi di settimane;
mezzo amanti e mezzo antagonisti,
coniugi forse mai,
procreatori
di molti figli,
sol nel sonno tranquilli.

Io e te, statue antiche
e prosciugate
dal sole;
ognuna nel proprio canneto,
le nostre corone di fiori
e di insetti, parallele
si toccano qua e là.

Come ho già detto, questa notte alle quattro ho scritto di impeto i primi tre versi di una poesia. Il resto è venuto a rimorchio, rapidamente.

AVREI VOLUTO

Avrei voluto che tu fossi
madre a me
e non ai figli miei,
esser la prima
donna della mia vita.

Ti è toccato esser l'ultima,
la definitiva,
quella che mi cammina al fianco,
che mi siede davanti a colazione,
che non mi chiede
più nulla,
perché mi conosce come
mia madre che mi ha messo
al mondo.

Non mi ero accorto,
scusami,
che tu avevi esaudito da tempo
quel mio istintivo desiderio.

(Maximiliansau, 22.11.10)

Tutto in onore di una donna, che mi porta sulla schiena da quasi mezzo secolo.
Prosit, Anna Maria!