giovedì 30 maggio 2013

DOROTHY NO

Vuoi il divorzio, amore mio? Felice di concedertelo. Vuoi che mi prenda io tutte le colpe? OK, mi sta bene, tanto avrei dovuto continuare a mantenerti io visto che non hai un soldo di tuo. Però è di cattivo gusto -non trovi amore?- andare in giro col piffero e il tamburo a cantare vittoria con tutte le tue amiche.
Vuoi il divano del '700 veneziano? Prendilo. Vuoi il maggiolino del '500 fiorentino? Puoi averlo anche subito. Vuoi il Renoir 30 x 20? Pigliati anche quello. Vuoi il Fabretto, vuoi il De Pisis? E portateli via. Però non mi piace che tu arraffi anche l'Enciclopedia Britannica, perché lo fai per farmi un dispetto dato che non conosci l'inglese e non ti servirebbe a niente. E la Divina Commedia con le illustrazioni del Dorè, edizione speciale numerata? Ma se hai sempre detto che non riuscivi ad andare oltre le prime tre terzine?
Hai voluto a tutti i costi portarti via Emma, la pappagallina tailandese, alla quale ho insegnato io tutte le parole che sa, anche quelle in tedesco in onore tuo, come quel bel "leck mich am aaach", che non riesce a dire bene perché, da brava asiatica, non pronuncia la erre.  Puoi portarti via Emma e spezzarmi il cuore, ma Dorothy no.
DOROTHY   NO   NO   NO!!!!!
Dorothy ama me, felino come lei, e odia te. Non ti sei accorta che alla mia micia siamese -stupenda, stupenda creatura- si arruffa il pelo quando la tocchi tu? Deperirebbe con te, morirebbe in quattro settimane perché non mangerebbe più e forse in fondo è proprio quello che vorresti succedesse.
Dorothy no, non l'avrai mai.
Vuoi la Porsche Carrera 911? Puoi prenderla, è in garage e le chiavi sono nel cruscotto. Apri il garage e fila via.
Resterò qui, seduto sulla mia poltrona preferita, ad ascoltare per l'ultima volta la melodia del suo motore spinto su di giri come maldestramente sempre fai tu. So che te ne andrai in autostrada a lanciarla a 200 all'ora per provare l'ebbrezza della velocità. 
Aspetterò qui che passino quei dieci o venti minuti perché tutto l'olio dei freni fuoriesca attraverso i tubi che ho bucato stanotte, e naturalmente reciterò una prece.
Aspetterò che la Polizia mi telefoni la feral notizia accarezzando la groppa della mia Dorothy, felice di essere rimasta insieme a me.
Bon voyage, amore mio.

lunedì 27 maggio 2013

PAUSA POETICA PER RIFARCI LA BOCCA

STANZA  127


Il riscaldamento appena acceso per mitigare 
il gelo della stanza; la sera che scende annoiata
su questo lembo di città; un cortile immenso
e vuoto dove si ammucchiano gli attrezzi e i materiali
di un'impresa di costruzioni; una quercia
altissima che ostacola lo sguardo
verso tetti e verso uno squarcio di cielo.
Sarebbe tutto; e tutto immensamente triste
se mancasse il fischio di un uccello notturno,
un richiamo, un invito forse, un segnale
che la vita anche dentro le mura e il silenzio
gelido di un ospedale vuole vincerla su tutto.


BARBARICA


Alberi gementi sotto il vento; poi la pioggia
che allaga la campagna; poi il sole che
prosciuga la terra; tortore che si rincorrono
nel cielo; nuovi amori che nascono.
Questa poesia non ci interessa più.
Questa poesia non ci basta.
Noi vogliamo creare la poesia nuova, quella
dell'etere, che rimbalza da pianeta a pianeta,
quella che dia risposte a domande ancora
mai poste, ancora mai pensate, che forse
non saranno proferite mai, risposte che
rimarranno sospese nel vuoto dell'aria
come lame pronte a recidere.
Noi vogliamo catturare gli umori di suoli
inesistenti, come lombrichi lanciati nel vuoto
a succhiare sostanze immaginarie,
e che a cercare questa nuova dimensione
sia un uomo che navigando a vista
sta arrivando a doppiare la boa degli ottanta anni
non meravigli nessuno: da giovane ho sprecato
la metà dei miei giorni correndo dietro
a futili chimere e adesso devo rifarmi.
Ma la poesia che vogliamo deve essere 
universale, buona per tutti, anche per chi
non la vuole ascoltare, per chi ci sputa sopra.
Prendete nota quindi e ricordatevene
quando ascolterete parole che non capirete
e suoni che nemmeno riuscirete a distinguere.



FERIDA


Ferida andava a piedi nudi nei campi,
coglieva tutti i fiori che trovava, ne staccava
le corolle che buttava e infilava i gambi recisi
nella sacca che portava a tracolla.
Ferida calpestava indifferente le tane
dei tassi, lo sterco dei passeri, le pozze d'acqua
sporca e il fango rappreso. Ferida non provava
dolore né schifo. Ferida era una ragazza
che valeva poco; Ferida aveva sedici anni
e non provava dolore se metteva un piede sopra un sasso
o sopra sterpi aguzzi oppure cocci di vetro.
Ferida camminava da più di mezza giornata
senza fermarsi un momento. Ferida
teneva uno zainetto dietro la schiena;
dentro c'era un sacchetto di nylon incartato
in un vecchio giornale, e nel sacchetto il cadavere
insanguinato di un bambino che Ferida
aveva ammazzato appena era nato.
Adesso i seni gonfi di latte le facevano male
ma il bambino non glieli poteva svuotare.
Ferida era una giovane donna disperata
condannata a camminare sempre 
e a non fermarsi mai. Nemmeno poteva
chiedere aiuto a sua madre, che era sempre
ubriaca. Suo padre non lo aveva visto mai.
Ferida sentiva il rumore del fiume
dove voleva gettare il suo fardello e affrettò 
il passo. Ferida era arrivata al fiume
e ci entrò dentro lasciando che la corrente
l'abbracciasse tutta. Ferida non sapeva nuotare.



VERSI  SCIOLTI


Versi sciolti distesi sopra un lenzuolo bianco
appeso ad un balcone; pezzi di un giornale,
di alcuni giornali incollati accuratamente
tra parole e parole, tra punti e virgole.
Qualcuno con un pastello ha zigzagato
da sopra a sotto, da destra a sinistra
e viceversa. Ma le parole resistono
a tutto, imperterrite, mimando i gesti
del poeta che si è liberato di loro, 
con sollievo, ma con grande fatica.

sabato 25 maggio 2013

KARD. BD. STANZA 127

Mercoledì 22 maggio.
Il vice primario, la dottoressa L. K. Lee una ridente grassottella cinese, si mette le mani sui fianchi, mi guarda, sorride e mi fa:
-Che cosa è venuto a fare qui da noi, Herr Iacoponi?
Se non fosse che sono stato trasportato di corsa in OP un giorno prima del previsto cioè soltanto due ore dal mio ingresso nel nosocomio; se non fosse che sono passate le 12 e non ho ancora mangiato, né lo farò fino a stasera; se non fosse che sono seduto sul lettino nudo come un verme con indosso solo un camicione verdolino che non copre niente; se non fosse che io malgrado di natura sia incazzoso a vista e incazzevole al primo impatto oggi misteriosamente giaccio in una calma piatta; se non fosse per tutte queste ragioni io alla "Oberärztin" L. K. Lee sparerei una risata sul muso.
-Guardi che non sono venuto per sfizio, mi ci ha mandato il mio cardiologo, le rispondo.
-Chi è?
-Herr Doktor Lendle di Kandel.
-Perché l'ha mandata qui?
Cazzo! Ma questa mi piglia per il culo.
-Frau Doktor, sta tutto scritto nella mia cartella. Se lei la legge saprà.
-Nella sua cartella c'è solo l'impegnativa per entrare qui dentro; il motivo è "polso irregolare" e altre cosette insignificanti. La documentazione sul suo disturbo manca, e mancano tutti gli EKG.
-Come, manca?
-Manca. Non c'è. Semplicemente così: manca.
-E adesso che si fa?
-Me lo dica lei. Io non metto mano su un paziente se non so quello che cerco.
Le racconto in breve la dolorosa istoria.
1. Ho avuto un'intuizione. Un paio di palpitazioni strane e frettolose mi hanno indotto a rivolgermi a un cardiologo, la prima volta in vita mia.
2. Diagnosi: polso molto irregolare.
3. Il mio cardiologo ha personalmente parlato al telefono davanti a me col Primario, professor Gonska, prendendo un appuntamento per me qui, nel suo reparto.
4. Mi hanno fatto un lungo e laborioso Untersuchung alle coronarie nel reparto di Medicina nucleare, dove non hanno trovato niente di patologico.
5. Un suo collega, il vice primario dottor Riegel mi ha consigliato di fare un catetere. è stato lui a fare l'impegnativa.
Mi taccio e la guardo. Lei tace e mi guarda.
-Dimenticavo: sono stato ricoverato per due giorni nell'intensiva del reparto di Medicina nucleare, dove mi hanno fatto l'Untersuchung della tiroide. Niente anche lì ma forse la documentazione ce l'hanno loro.
Agile rotazione sui tacchi e sparisce veloce.
L'assistente ride.
-Fosse successo in Italia non avrei fatto una piega, gli dico; ma qui in Doiccelandia no! Non può accadere.
-Siamo esseri umani anche noi, mi risponde l'assistente, ma si vede che ci prova un gran gusto perché ho fatto sculettare via la Super Dottora.
Dieci minuti dopo la SD ritorna. Ride tutta: occhi, bocca, capelli, scarpe e manine che mi agita davanto al viso.
-L'avevano al Nucleare. Adesso ho capito perché sta qui, ma prima devo sapere come sono tutti i suoi valori. Adesso un collega le preleverà il sangue.
Di nuovo sparisce veloce. Arriva il collega, un dottore indiano, S. Verne: mi buca un braccio, preleva e si defila.
Questo significa che devo aspettare almeno due ore, il tempo che il Laboratorio impiega per le analisi.
Mi metto a dormire.
Alle 15 mi sveglia la SD.
-Mi dispiace, ma oggi non facciamo niente: i valori renali sono alti e il liquido di contrasto potrebbe danneggiarli seriamente. Le faccio fare un'infusione così li miglioriamo e domani mattina facciamo l'Angriff.
Dice proprio così: "Angriff", cioè attacco, come in guerra.
Me ne torno nella stanza 127, letto singolo con doccia e WC separati, incazzato come un picchio. Non ho mangiato niente e sono le quattro del pomeriggio. Solo un'ora dopo arriva la cena: due fette di pane, yogurt, margarina e un formaggino che non puzza e non sa di niente.
Tutto il resto del giorno attaccato a sta bottiglia con l'infusione e il braccio mi fa male dove ha infilato l'ago il dottore indiano, li mortacci sua.
Personale femminile molto preparato e garbato: poche tedesche, poi cinesi, indiane, turche, polacche, russe, cristiane, ortodosse e maomettane nonché confuciane. Sul braccialetto che mi hanno messo al polso destro c'è il mio nome, l'indirizzo, la data di nascita e poi tre lettere dell'alfabeto: una K, una M, una R. La erre sta per rentner, pensionato; la emme sta per männlisch, maschietto; la cappa sta per katholisch. Se dovessi stare in punto di morte basta guardare e arriverebbe un prete per l'estrema unzione.
Che soddisfazione gente, volete mettere?

Giovedì 23 maggio.
Nemmeno il tempo di mandare un sms a casa che piombano dentro in due:
-Si metta la veste in fretta ché lei è il primo.
Indosso la tunichetta da gay (chiusa davanti e aperta dietro) e mi infilo nel letto. Le due infermiere -Germany +  Turchia- mi scarrozzano per il lunghissimo corridoio come se il mio letto fosse una formula uno. Subito in sala d'attesa. Cinque minuti, poi arriva un'assistente donna, giovane e decisamente troppo carina, che mi chiede se posso camminare.
-Sì? Bene, allora venga.
La seguo nella OP, grande e spaziosa dove c'è che attende la superdottora L. K. Lee col suo miglior sorriso.
-Visto che ce l'abbiamo fatta?
Mi sdraio sul tavolo operatorio. Sopra di me un disco volante con un occhio puntato sulla mia faccia. "Non mi sfuggi" mi dice. Di fianco, alla mia sinistra, 7 monitor 7. Spero di vedere qualcosa ma alla fine sarò appena riuscito a leggere numeri sul primo e una serie di linee saltellanti rosse, gialle e verdi sul secondo. Gli altri sono troppo lontani da me.
Mi tolgono il camicione. Il re è nudo con intorno 6 donne 6, quasi tutte carine. Una ha il contenitore col sale, un'altra quello col pepe, la terza una bottiglia di aceto, la quarta quella dell'olio, la quinta il parmigiano grattugiato, la sesta forchette e coltelli, mentre la Super Dottora ha indossato un grosso bavagliolo....no, è un camicione antisettico, antimicrobico, antimafia, anticarro, anti uomo nudo.
Mi spruzzano un disenfettante gelido all'inguine cavità destra.
-Adesso la pungo, dice la SD, ma non sento niente. Dopo un po però ho preso fuoco là in basso, mi bruciano le palle e la sacra cappella.
-È normale? Chiedo.
-Sì, sì: è l'effetto del liquido iniettato per l'anestesia locale.
Tutto chiaro, ma mi va a fuoco l'uccello.
Cinque minuti dopo è passato. Spero che sia tutto ancora lì, possibilmnte non carbonizzato.
-Adesso introduco il catetere, dice la SD; farà un po male.
Ma non sento niente, proprio niente: ha manine di fata la cinesina paffutella.
Lei fa il suo lavoro, io non vedo una beata minchia e questo mi disturba. Sui monitor ci sono degli sbalzi improvvisi.
-È preoccupato? Mi chiede la SD.
-No, perché?
-La pressione si è alzata di colpo.
-Veramente ho un problema,
-Sarebbe?
-Non è risolvibile.
-Mi dica.
-Dovrei fare pipì.
-Non esiste il problema: le passiamo una Urinflasche.
Intendeva un pappagallo.
Arriva una delle sei, forse la più carina. Vorrei fare da solo ma fa tutto lei, veloce e pratica.
-Lasci andare il liquido tranquillamente, mi dice.
Non so se voi maschietti che mi leggete avete mai pisciato tranquillamente stando sdraiati sulla schiena, con un nugolo di belle ragazze intorno e con una che ve lo tiene con due dita. Beh, che ci crediate o no, io ce l'ho fatta.
Dopo una quarantina di minuti, calcolati a naso, la SD L. K. Lee mi fa:
-Le vene interne del suo cuore sono a posto. Adesso le provochiamo artificialmente un'aritmia per vedere che succede e capirci qualcosa.
Bene, penso, che sarà mai.
Mi inocula il contenuto di una siringa nel braccio. Incolore, sembra acqua. Mi diranno poi che era una super concentrazione di adrenalina. Con quel quantitativo Husein Bolt farebbe i 100 metri in 2 secondi netti.
Lì per lì non succede niente. Poi incominciano una serie di battute veloci, velocissime, terribilmente veloci, fino a 190 al minuto. Non fa ancora male ma ho la gola che brucia e mi si è seccata la lingua.
All'improvviso comincia a far male, e che male! Fossi donna mi metterei a piangere, ma porca puttana zozza sono un uomo, della vecchia guardia eccheccazzo, piangere non si può!
Dentro la cassa toracica ho la pallina di un flipper che sta battendo il record interplanetario: schizza come impazzita. Un'assistente viene a chiedermi se sento qualcosa.
-Qualcosa? Ci tengo le due mani sopra perché non salti fuori.
-Cosa prova esattamente?
-Sto in una stanza buia senza finestre, ho una mazza nelle mani e picchio su una parete metallica e l'onda d'urto mi trascina via.
-Solo questo?
-No. C'è la pallina di un flipper che sbatte dappertutto e spacca dappertutto. E poi da qualche parte c'è un uccello che cerca di uscire dalla gabbia, forse per evitare di essere accoppato dalla pallina.
Lei ripete a voce alta alla SD che sta in un'altra stanza col resto della tribù di assistenti, certamente davanti a un monitor.
-Ancora un paio di minuti, mi grida da lontano.
Gente, sono stati nove minuti e mezzo! Un'eternità. Ho capito il significato dell'espressione "der letzter Kampf" l'ultima lotta, quella che si fa prima di morire.
Senti che la vita finisce, che il tuo cuore sta esaurendo la spinta. Senti entrarti dentro come un liquido gelido la paura e apri la bocca cercando aria.
Io sapevo che era una finta, ma immagino cosa succederà quando non sarà più una finta, ma una storia vera, la tua storia che finisce. Adesso ho capito perché tutti muiono con la bocca spalancata.

Venerdì, 24 maggio.
Da ieri alle undici circa indosso l'apparecchiatura dell'Horter, l'elettrocardiogramma di 24 ore. Non si dorme tranquilli con tutti quei fili attaccati addosso. Il giorno inizia col digiuno, tanto per non cambiare perché se l'esito dell'Horter non fosse buono mi dovrebbero fare un TEE, vai a capire cosa significa, ma si tratta di ingoiare un cavo con una telecamera che arriverebbe al cuore attraverso i polmoni e lì mi farebbero un Ultraschal. Spero mi venga risparmiato perché non lo sopporterei.
Ma che cazzo! Ieri stavate con un catetere dentro e potevate vedere tutto. Mi avete fatto ballare per 9 e 1/2 come la Basinger e adesso la sonda? Ma sto a Karlsruhe o a Roma?
Alle 10 però entra in stanza un'infermiera con il vassoio della mia colazione. Ho capito prima che parli che la sonda non la dovrò ingoiare, visto che posso mangiare. Mi dice che non serve perché tutto è OK! Adesso non resta che attendere il colloquio con un medico e conoscere l'ora del rilascio.
Questo alle 10.
Mangio la colazione, più tardi mangio il pranzo e sono felice e beato.
Alle 14,30 entra la dottoressa di mio riferimento. Si chiama Anna Merkel ma non è culona, né antipatica. Non ha la puzza sotto il naso e mi stringe subito la mano. Poi però diventa come Angela Merkel e mi bastona.
Tutto OK? Alla faccia del cazzo!
Io soffro da alcuni anni, secondo lei, di una fibrillazione ventricolare saltuaria, non acuta ma assai insidiosa. Si formano improvvisamente dei flussi di sangue arbitrari che tornano indietro dalle pomonari e agitano le acque per così dire. Dura poco ma il tempo sufficiente per formare un trombo o un embolo. Il rischio è lo Schlaganfall, il colpo apoplettico, più o meno grave ed invasivo, ma non una sciocchezza da sottovalutare.
-Cosa devo fare, Frau Merkel?
-Prendere ogni giorno una serie di medicine; controllo assiduo da un cardiologo; eparina o simili per diluire il sangue e impedire trombi ed emboli. Nel caso persista o peggiori tornare qui dentro.
Mi spiega che mi farebbero un pronto intervento andando a inserire con un catetere una specie di filtro sulle polmonari per impedire flussi di ritorno. Nel caso non bastasse si ricorrerebbe ad uno due o più bypass.
In culo alla balena Iacopò. Il tempo di rimettermi dallo scock e arriva Cristina: si torna a casa.
Mi sono sentito improvvisamente giovane. Strano, mi sarei dovuto sentir decrepito. Che era successo?
Mi ero chiesto: vuoi vivere i pochi anni che ti restano come un vecchio montone arruginito e inutile cui ogni pecora e ogni agnello pisciano addosso?
Mai! Una vita intera, un anno, un mese, una settimana, un giorno da tigre, mai mille anni da pecora.
Sopravviverò così come sono vissuto fino all'ultimo battito di questo cuore del cazzo che mi vuole fregare, ma sarò io a fregare lui, adesso che ho imparato a combattere "meinen letzten Kampf".    

lunedì 20 maggio 2013

PROCUL EORUM

Che cosa succede quando muore un papa?
La stessa cosa che succede quando muore un accattone, un contadino, un rubagalline.
Infatti di sicuro i casi sono due: non esiste nulla dopo la morte, e allora cosa volete che succeda?
Oppure esiste una forma di vita eterna, ma esiste pure una giustizia superiore e allora non succede altro che una semplice ascensione nei terreni misteriosi di una vita che non possiamo nemmeno immaginare, ma uguale per tutti, papi e ladri di galline.
Ci pensavo in questi giorni, in cui, volere o volare, il pensiero mi corre sempre alla fine che ognuno di noi vorrebbe allontanare da sè. Chissà perché proprio adesso. Una specie di presentimento? Di paura piuttosto? Ma che cavolo ne so, comunque sta specie di febbre c'è e sarebbe stolto negarla.
Mi scoccia, cavolo se mi scoccia, mettere il punto su tutta la mia storia. Certamente un punto ce lo dovrò mettere prima o poi, ma diciamo poi, che sarebbe sto "prima"?
Allora mi sono guardato un po' intorno e un po' indietro.
Ho vissuto come ho voluto. Ho fatto quel che volevo fare: ho dipinto quadri, i miei quadri; ho scritto libri, i miei libri; ho amato donne, le mie donne.
Volevo essere un artista ed ero nato artista. I quadri che ho dipinto lo dimostrano. Fossi stato un accademico avrei fatto scuola, avrei creato una direzione tutta mia, che volere di più. Anche se non sono un accademico so di miei quadri che stanno su pareti di gallerie di un certo livello.
Volevo scrivere le mie storie, pensate da me a dispetto di tutto: le ho scritte e alcune addirittura pubblicate. Pochi lettori? Ma buoni, intelligenti, capaci e affezionati.
Volevo amare ed essere amato? Ho amato e sono stato amato. Non ho avuto centinaia di donne, solamente otto, Sì, otto, compresa mia moglie. Sono poche? Perbacco sono tutte quelle che volevo avere, nessuna esclusa. Però nessuna di loro mi ha dimenticato. Lo so per certo: ricordano il mio nome, il mio volto, le mie mani e il mio cuore.
Volevo amici e amiche, ed ho avuto amici fidati e amiche che non mi hanno tradito, né mi tradiscono, cui posso confidare le mie più intime cose, senza paura di venire da loro preso in giro.
Volevo avere una famiglia ed ho una famiglia: la mia gente mi ha dimostrato alcuni giorni fa l'amore che ha per me. In questi giorni razzolano tutti inorno a me, nessuno pone domande, ma vedo nei loro occhi la trepidazione. Da un lato mi fanno pena, dall'altro, credetemi, è una immensa soddisfazione.
Adesso che sono arrivato al momento in cui devo affrontare una prova di cui ignoro la pericolosità mi rendo conto che mi scoccia terribilmente rinunciare a tutto quel che ho costruito, rinunciare alla mia gente, rinunciare a voi, amici miei.
Per ora mi allontano per un po'. Rimarrò per un po' -ignoro quanto- "procul eorum", lontano da voi, ma credetemi vi porto tutti nel mio cuore.
Basta, che sennò divento troppo piagnucoloso e non mi piace.
Arrivederci gente. Conservatevi come siete: ho avuto la fortuna di capare dal mazzo bella gente come voi. Tutti quanti siete.
Ciao, alla prossima.

venerdì 17 maggio 2013

FRANCESCO ESSE E LA SUA NUOVA SPOSA

Di tutti i miei amici del liceo Francesco Esse era di sicuro il più educato e il meno rompiscatole. Sedeva nel banco dietro il mio, ma a farmene notare la presenza mi arrivava un suo discreto colpetto sulla schiena solamente durante le traduzioni in classe dal greco perché mi spostassi e lo lasciassi leggere quel che avevo scritto io. Fino alla prova di maturità, dove tutti dovemmo aspettare che Leonardo riuscisse a inventare la versione delle ultime due righe del testo di Tucidite, il pazzo che usava l'accusativo al posto del dativo e nascondeva i congiuntivi dell'aoristo, mettendo il passivo dove mai te lo saresti aspettato. Anche in quella circostanza Francesco Esse tossicchiava, premendo il pugno chiuso sulla bocca, mentre l'intera classe sacramentava in sanscrito.
Mi chiese il favore di preparare insieme l'esame di italiano. Io ero il mostro della classe e lui sfruttò la nostra amicizia e la mia pietas naturale per i più deboli. Mi colpì il fatto che studiava in silenzio, mentalmente, al contrario di me che avevo bisogno di udire il rimbombare della mia voce.
Aveva capelli nerissimi, che rivelavano la sua origine sicula più del suo accento catanese, ricci e fitti come quelli degli africani .
-Come te li pettini?
-Con uno spillone a tre punte di osso di tartaruga; il pettine si spezzerebbe.
-Beato te, che hai tanta pazienza.
-Me li tengo finché resistono lì sopra. Mio nonno morì calvo e mio padre lo conosci: niente sul cucuzzolo.
Lui allora era un numero unico, il precursore del Mingoni di San Remo 2013.
All'esposizione dei quadri della maturità saltava come uno stambecco e mi abbracciò: gli avevo fatto prendere un sette in italiano, a lui che alla fine di ogni anno rimediava un sei striminzito di stima con tanto sudore.
Si innamorò come un bambino della bella Rosaria, bionda palermitana dagli occhi azzurri e dalle tette prorompenti, figlia di un noto ginecologo.
-Un tocchettino di burro, mi ripeteva. Madonnuzza mia quanto vorrei baciare quelle minne.
Io invece l'avrei baciata tutta quanta, ma non volevo annacquargli il calore e tacevo compunto.
-Madonnuzza mia, quanto vorrei mettere la testa tra quelle minne, mi sussurrava.
Dipende da quale testa, pensavo, ma mi facevo morire in gola la battutaccia.
Si sposarono cinque anni dopo. C'eravamo tutti noi della terza B, naturalmente, a misurare la sua eccitazione dal vibrare dei suoi capelli ricci, dritti e rigidi sulla sua testa.
Lo persi di vista. L'ultima volta lo incontrai una quarantina di anni fa. Aveva sempre il cucuzzolo pieno di foltissimi ricci neri. Ci scherzammo su. Pochi metri distante la bella Rosaria con le sue minne ancora da favola.
Ieri notte l'ho sognato. Impeccabilmente vestito con un principe di Galles e i suoi capelli alla Mingoni. Fingeva di non avermi visto. L'ho afferrato per un braccio, magro come allora.
-Che fai, scappi?
-Mi sta aspettando mia moglie. Vuoi venire a salutarla?
Con quei cambi repentini di inquadratura, tipico dei sogni, mi trovai a casa sua in una stanza dove, seduta su due cuscini gettati sul pavimento c'era sua moglie. Nel sogno mi sembrò normale che non fosse Rosaria. Questa era bruna. coi capelli lunghi a coprirle le spalle. La conoscevo bene e mi domandavo nel sogno come si chiamasse. 
Lei si girò verso di me e io vidi tutte le sue lunghe gambe sotto la gonna, su fino all'inguine. Quella gambe le conoscevo bene, ma come si chiamava la ragazza?
Il sogno finì di botto mentre la curiosità aumentava a dismisura.
Rintracciai un mio antico quaderno di indirizzi e numeri telefonici e chiamai Maurizio Effe, il nostro archivio naturale di tutte le storie, lecite e illecite, della nostra generazione.
Ci rallegrammo entrambi di risentirci.
-Cosa vuoi sapere? Mi chiese.
-Ce l'ha ancora la sua cresta di ricci sul cucuzzolo Francesco Esse?
L'avevo presa alla lontana, conoscendo Maurizio. La risposta tardava.
-Chi ti ha avvertito? Mi chiese poi. Ti ha telefonato Marcello, oppure Dino?
-Avvertito di cosa?
-Scusa, mi telefoni dopo anni di silenzio e mi chiedi di Francesco proprio adesso, e insisti a fare lo gnorri. Sei poco chiaro.
-Non so di cosa tu stia parlando.
-Francesco è morto venerdì scorso. Gli abbiamo fatto il funerale ieri. Mancavi solo tu.
Non riuscivo a deglutire.
-Mi hai sentito?
-Certo, risposi.
-Chi ti ha avvisato?
-Nessuno. Diciamo che ho avuto uno strano presentimento.
-Strano davvero. Comunque i suoi capelli li aveva ancora sul cucuzzolo, grigi però.
-Come sta Rosaria?
-Non lo so. Avevano divorziato da quindici anni. Lei si è trasferita a Napoli e nessuno l'ha più rivista.
-Viveva da solo Francesco?
-Si era risposato. Indovina con chi.
-E che ne so.
-Una tua vecchia conquista: Franca Effe.
Ecco di chi erano quelle gambe.
-A Francesco piacevano le minne, continuava Maurizio, e Franca come sai bene ne aveva in abbondanza.
Parlammo ancora qualche minuto, poi ci salutammo. 
Cazzo gente! Francesco mi è venuto in sogno dopo morto e mi ha riportato Franca, una storia bella e tumultuosa di tanti anni fa, che lui conosceva a memoria.
Che cavolo sarà venuto a dirmi? Che significato devo dare a questa sua visita?
Per un po' di tempo mi toccherà campare con la strizza.





















mercoledì 15 maggio 2013

UOMO SODO

Si alzava tutte le mattine alle cinque e lavorava al suo romanzo, una sorta di autobiografia dove ogni personaggio portava dentro di sé una parte dell'autore; una beatificazione ante mortem di un uomo di cui nessuno si era mai interessato, una rivincita sulla sorte, perché quel romanzo sarebbe stato un capolavoro, il più letto dell'anno e lui, dalla sera alla mattina, di colpo famoso e ricercato da tutti i leccaculo della nazione. Una ricompensa per tutti i culi che aveva dovuto lui per primo spalmare di saliva per guadagnare lo straccio di stipendio che gli aveva consentito una vita decorosa.
Ci dava d'impegno come avesse un patto col diavolo, una data di scadenza prima di crepare. Oramai era agli ultimi capitoli e ogni volta che arrivava la sera, finito di ricopiare sul word del suo PC le pagine che quotidianamente scriveva a mano sopra un grosso quaderno, gli veniva il magone per dovere staccare e andarsene a letto, come se stesse compiendo un tradimento.
Si rendeva conto che stava trascurando tutto e tutti, in primo luogo sua moglie Elena, che giorno dopo giorno diventava più triste, ma non ci poteva mettere una pezza: nella vita ci sono priorità e il suo romanzo era adesso la principale.
Aveva trovato un editore, cui aveva inviato la prima parte in visione, una cinquantina di pagine. Aveva atteso la risposta col cuore in gola. Dopo un mese gli era arrivata una bozza di contratto con una lettera di accompagnamento dove si raccomandava di concludere l'opera prima delle vacanze estive, cioè prima di agosto. Non poteva, non doveva mollare e che sua moglie e i suoi due figli pensassero quel che volevano.
Quella mattina però era molto nervoso e questo comprometteva il suo lavoro. Il motivo del suo nervosismo erano le insolite cose che stavano capitando: alle sei Elena era già in piedi che ciabattava per casa, stranissimo per lei che dormiva oltre le otto ogni giorno. Poi c'era il telefono che squillava in continuazione: un tormentone. Elena parlava fitto fitto ogni volta, abbassando la voce. Sicuramente con Marco, il primogenito, al quale sempre raccontava le sue pene giornaliere vicino a un uomo che la trascurava per il suo computer. Ma aveva telefonato anche Filippo, cosa assurda a quell'ora, mai successa. 
Sta a vedere che ha chiesto aiuto ai figli per risolvere questa situazione, pensò. Non sarebbe stata la prima volta, era già capitato in un paio di occasioni. Risultato: si era trovato la casa invasa da figli, nuore e nipoti, che facevano finta di nulla. Succederà ancora, si disse; magari oggi, ma chi se ne frega.
Per far capire a Elena che non c'era niente da fare chiuse la porta del suo studio. Gli sembrò che lei avesse apposta alzato la voce per fargli intendere che stava tramando contro di lui. Non poteva fregargli di meno, ma intanto aveva perso la concentrazione, aveva perso il filo, insomma non gli riusciva di mettere insieme due frasette.
Cazzo! Sta riuscendo nel suo intento. 
Doveva reagire, gli occorreva un caffè bello forte.
Aprì la porta dello studio e uscì nel corridoio. Andò sparato in cucina. Lì dentro, in piedi col suo cellulare incollato all'orecchio, stava Elena vestita di tutto punto come per uscire. Alle otto! E perché così elegante? Cosa diavolo avrà in mente stavolta?
Mentre si preparava il caffé cercando di non guardarla suonarono alla porta. Era Marco.
Succedevano tutte oggi le cose strane: Marco indossava un vestito che non gli aveva mai visto e una cravatta. Una cravatta! Ma se le odia e non se ne mette mai una! Lo salutò con un buffetto e si richiuse nello studio col suo caffè bollente.
-Ecco, lo vedi cosa fa? sentì Elena dire al figlio.
Un attimo dopo Marco aprì la porta ed entrò.
-Non sei ancora vestito papà?
-Ma che diavolo volete tutti quanti? Perché dovrei essere già vestito?
-Hai dimenticato che giorno è oggi, papà?
-Sabato.
-No, papà è domenica.
-Che differenza fa? Un giorno vale un altro.
-No papà è il giorno delle vostre nozze d'oro.
-Cosa?
-Hai capito bene, papà: cinquanta anni che siete sposati.
Era rimasto di stucco. Cazzo, gli era proprio passato dalla testa.
-Naturalmente non hai nemmeno pensato a regalarle dei fiori.
-Ma se nemmeno mi ricordavo il giorno come potevo pensare ai fiori?
-Li ho presi io e sono in macchina. Scrivi questo biglietto di auguri.
-E che ci scrivo?
-Quello che ti pare, non sei tu lo scrittore della famiglia?
Ma non gli veniva fuori niente dalla penna, buio pesto.
Richiuse mestamente il quaderno del suo manoscritto. Neanche parlarne quel giorno di scrivere un paio di righe. Ma due parle sul biglietto le scrisse alla fine e si cacciò il biglietto in tasca.
Doveva farsi la barba e farla in fretta, già sentiva per le scale il chiasso dei due figli di Marco, che arrivavano insieme alla madre. Si infilò nel bagno e chiuse la porta con rabbia. La riaprì immediatamente uscendo dal bagno. Raggiunse la moglie in cucina.
-Auguri Elena, e la baciò sulle guance.
         


martedì 14 maggio 2013

14 MAGGIO 1943

Erano le 15 passate di una bellissima giornata solare, come la gran parte dell'anno capitava e capita a Civitavecchia. Avevo già finito di fare i miei compiti del giorno, sempre stato veloce nell'adempiere a questo dovere, e stavo affacciato alla finestra della nostra cucina a guardare alcuni miei amichetti che facevano un gioco chiassosissimo nel nostro cortile. A un tratto, senza alcun motivo, tutti si sono fermati e chetati: si guardavano l'un l'altro muti. Successe come d'estate quando le cicale sui gelsi improvvisamente smettono le loro canzoni: qualche attimo dopo avviene un evento, quasi mai gradito.
Così quel giorno, un mercoledì se non ricordo male. Guardai senza sapere il perché verso l'alto e vidi una specie di pisello scuro scendere velocemente non troppo distante da dove stavamo, un mezzo chilometro, ecco. Non lo sapevo, ma quella era la prima bomba americana che scendeva sulla mia città, ancora intatta.
L'esplosione credo sia rimasta non solo nelle mie orecchie, ma che si sia intrufolata nel mio DNA: la sento ancora come allora, un suono lacerante, di lamiera che si contorce, di vita che se ne va velocemente.
Dopo quel primo pisello scuro una serie di suoi fratelli e di scoppi laceranti, mentre un fumo altissimo e nerissimo oscurava la luce del sole: non lo vedemmo più fino all'indomani.
Una mano poderosa, quella di mio padre, mi afferrò per la collottola portandomi via da quella finestra verso l'interno della casa; non sufficientemente in tempo da non vedere saltare in aria la casa di fronte, non più di duecento metri in linea d'aria, dove abitava Marcellino, il mio migliore amico e la sua famiglia.
Si doveva raggiungere il rifugio nello scantinato, come imponeva la propaganda alla radio ogni giorno, ma le bombe erano in volo sopra di noi, scendevano assai veloci e non c'era il tempo. Rimanemmo nel corridoio, tutti abbracciati, laddove per la mia incoscienza infantile io ero quello meno terrorizzato di tutti: mi affascinava  il dondolio del corridoio, da destra a sinistra e di nuovo a destra, una specie di quel che era successo un anno prima sul battello che da Napoli ci aveva portato a Capri, a casa di zia Maria, la sorella di papà.
Ma sovrastava quasi i boati delle bombe la stridula voce acutissima di zia Giulia, la sorella di mamma, capace di prendere le note più alte senza sbagliarne una, che ammucchiava singhiozzi, lacrime e maledizioni per gli aerei nemici che ci volevano morti.
Dopo 13 minuti, lo disse papà che aveva guardato l'orologio al primo botto, tutto finì.
Per alcuni lunghisimi secondi rimase sospeso nell'aria un silenzio surreale, poi il dolore della popolazione si espresse in una serie di urla e di richiami.
Io chiesi a papà di portarmi a vedere cosa fosse successo al mio amico: la sua casa non c'era più, per metà un cumulo di macerie fumanti, per metà una buca profonda sul cui fondo c'era acqua nera e sporca.
Arrivarono i pompieri e tutti gli uomini, chi con una pala chi con le mani, scavarono per ore.
Prima tirarono su la mamma di Marcellino, morta; poi suo padre anche lui morto; poi la sorella di quattro anni, morta anche lei. Marcellino lo trovarono per ultimo: non volevano farmelo vedere, ma io lo avevo capito dalla sua immobilità che non poteva essere vivo.
È in suo onore che scrivo queste righe. Oggi avrebbe avuto la mia età.

giovedì 9 maggio 2013

HAI CAMMINATO A LUNGO

Hai camminato a lungo per una strada impervia,
qualche volta mi precedevi col tuo incedere brillante,
altre volte ero io a trainare te tenendoti 
per mano. Abbiamo sofferto insieme,
però molto hai sofferto da sola
senza lamentarti. Abbiamo sempre gioito
insieme però, mai tu da sola e nemmeno io,
e nessuno si congratulava con l'altro:
era come un impegno preso e assolto
in modo naturale. Cosa ci resta adesso?
Andare avanti senza nostalgia, con la curiosità
dei bambini e con la loro innocenza
e in fondo, per un poco, con la loro incoscienza,
perché questi giorni che il futuro ci lascia
non ce li può sottrarre nessuno. Dammi
quindi la tua mano e cammina insieme a me.

lunedì 6 maggio 2013

DICONO CHE


Dicono che la mia vita è appesa
a un filo, come quello del ragno che ieri
costruiva la sua tela e che ho reciso
con un colpo secco della mia mano,
ma non ho ucciso il ragno, perché non
si uccidono i ragni; però non si dovrebbero
uccidere nemmeno i poeti,
anche quelli la cui vita è appesa a un filo.
Invece sembra che questo possa avvenire
in un attimo, anche domattina
senza preavviso alcuno, perché a quel che pare
io sono un caso anomalo:
la malattia c'è ma non i sintomi
sentinella, quelli che ti avvertono
quando qualcosa sta per accadere.
Così non resta che contare i cocci
del vaso senza vederlo mai cadere,
e forse è questo il senso dell'immortalità. 

giovedì 2 maggio 2013

JACOPO E IL NUMERO QUINDICI

Settimana faticosissima a rimorchio di un mese di merda: Jacopo aveva le forze agli sgoccioli e i nervi a pezzi. 
Adesso mi trovo un alberghetto isolato e mi faccio 24 ore di sonno, pensò. Niente mangiare, niente bere solo dormire, nemmeno pisciare per un po'.
C'era un agriturismo e prese una stanza. Tolse solo le scarpe e si buttò vestito sul letto. Mezzo secondo dopo dormiva sodo.
L'uomo che uscì dal bagno in pigiama aveva un asciugamano intorno al collo.
-Hai sbagliato stanza, amico.
Ma l'uomo vestito sul letto ronfava. Lo scosse con forza. 
-Questo è il mio letto; vai nella tua stanza.
Jacopo ci mise del tempo a realizzare che non stava sognando e che il tizio in pigiama voleva buttarlo fuori. Tirò fuori da una tasca la chiave della stanza.
-Questa me l'hanno data in portineria, non l'ho rubata. Ti pare che mi danno una chiave sbagliata?
-Io sto qui da una settimana. Torna in portineria e facciamola finita.
C'era qualcosa di familiare in quel tizio: Jacopo se ne era subito accorto.
-Dove ci siamo conosciuti? Gli chiese.
-Non ci siamo mai incontrati prima d'ora.
-Eppure io sono certo di averti già visto.
-Lascia perdere, non capiresti.
A Jacopo venne da ridere.
-Sei per caso il mio clone? Buttò lì.
-Ma che dici? Tu sei il mio clone, uno degli ultimi.
-Guarda che io scherzavo, disse Jacopo.
-Ma io no. Io sono il numero quindici; tu sei oltre il cinquanta.
Jacopo lo guardò nero di rabbia.
-Va bene, ti lascio la stanza, ma tu non provare a prendermi er il culo.
-Te lo avevo detto che non avresti capito. Comunque io sono la quindicesima replica di un originale, tu invece vieni molto dopo.
Jacopo non obiettò nulla; si infilò le scarpe e uscì sbattendo la porta.
Il portiere continuava a guardare con aria attonita la chiave che Jacopo gli stava tenendo davanti al muso.
-Mi avete dato la stanza che un tizio occupa da una settimana, gli stava dicendo Jacopo.
-Qui da noi nessuno si trattiene per più di due o tre giorni e quella stanza era libera da oltre due settimane. Non è stagione adesso e abbiamo pochi clienti.
-E quello in pigiama, allora?
-Saliamo a vedere, signore.
La stanza era vuota; del tizio in pigiama nemmeno la puzza.
-Visto?
-Devo essermelo sognato. Mi dispiace, si scusò Jacopo.
Questa volta si spogliò e si infilò sotto le coperte. Qualche minuto dopo dormiva.
Fu svegliato da qualcuno che lo scuoteva con forza, un uomo grande e grosso, tutto vestito di nero. Ce ne stavano altri due nella stanza. Quando riuscì a raccapezzarcisi Jacopo vide che erano uniformi, uniformi di carabinieri.
-C'è arrivata una soffiata anonima che in questa stanza alloggiava l'autore della serie di rapine dell'ultimo mese.
-Io non c'entro niente, maresciallo.
-Comunque si vesta, deve venire con noi.
Dal bagno uscì un carabiniere col cestino dei rifiuti in mano.
-In mezzo a cartacce c'è una pistola, maresciallo.
-Non toccarla, porta tutto al comando.
Jacopo era sbalordito.
-Quella pistola non è mia, maresciallo, non ne ho mai posseduta una. E raccontò il suo incontro col tizio in pigiama.
-Ci dirà tutto al Comando, gli rispose il maresciallo.
Al Comando gli fecero un sacco di domande su tutti i suoi spostamenti nelle ultime due settimane. Poi arrivò un sostituto procuratore che gli rifece da capo tutte le domande.
-Dovremo prenderle le impronte digitali per confrontarle con quelle sulla pistola e con un paio che il rapinatore ha lasciato in una gioielleria, che è tutto quello che finora abbiamo di lui.
Lo rinchiusero in una cella di sicurezza dove restò tutto il giorno e la notte successiva. Al mattino lo ricondussero nell'ufficio dove sedeva il sostituto procuratore.
-Lei è libero. Abbiamo controllato il suo alibi: durante le rapine lei era altrove senza ombra di dubbio. Poi ci sono le impronte. A prima vista le sue e quelle del rapinatore sembrano le stesse, ma c'è una piccola differenza, sostanziale tuttavia: in quelle del rapinatore c'è uno strano geroglifico che visto al microscopio rassomiglia a un numero.
-Che numero? Chiese Jacopo.
-Un quindici. Alla scientifica non sanno spiegarsi questa anomalia, ma lei non c'entra niente con le rapine.
Jacopo prese un taxi per andare a ritirare le sue cose all'agriturismo. Pagò il conto, cacciò la sua roba dentro la macchina e sparì veloce senza voltarsi mai indietro.