Questa volta la busta era azzurra, l'indirizzo scritto a mano e mia madre se la stringeva al petto piangendo a dirotto. Non c'era verso di sapere chi le avesse spedito quella lettera né da dove venisse. Mia nonna e mia zia lottarono con mia madre per il possesso di quella busta, che infine volò per terra. E lì le tre donne non avevano scampo, io ero il più pronto e il più veloce. In un attimo lessi: Maria Malavisi Iacoponi - Valentano (Viterbo). Niente altro che un indirizzo; niente di eccezionale all'infuori del fatto che quella era la calligrafia di mio fratello.
Era vivo e ce lo scriveva dopo diciotto mesi di assoluto silenzio. L'ultima busta che lo riguardava era color arancione. Ministero della Guerra del Governo fascista, scritto in alto, nel mezzo, in stampatello.
Una comunicazione breve, asettica, grigia: "Vostro figlio è disperso in Russia". Tutto qui.
Quant'è grande la Russia? Quanti anfratti ci sono per nascondersi e aspettare che torni il tempo buono? In uno di quelli stava sicuramente rifugiato il mio fratellone.
Con l'arrivo di quella busta arancione era cominciato l'incubo di vedere mia madre impietrita alla finestra, cogli occhi fissi nel vuoto; non diceva più nemmeno una parola. Per farla mangiare dovevamo imboccarla io e mia nonna. Papà veniva solo il sabato e ripartiva alla domenica sera. Mia madre si avvinghiava a lui parlando fitto fitto con parole che non mi arrivavano tanto erano sussurrate. E poi finiva sempre in pianto.
Io incominciai a sognare mio fratello ogni notte. Al mattino, per darle sollievo, raccontavo a mamma il sogno e lei attaccava a piangere. Ci mancava che la facessi piangere anche io. Allora decisi di smettere di raccontarle i sogni. Ogni tanto mi avvicinavo a lei e le dicevo di stare tranquilla, che Lito era vivo, me lo diceva il mio piccolo cuore di bambino buono. Non lo chiamavo cuoricino, ma cuoretto.
-È vivo mamma, me lo dice il mio cuoretto.
E lei mi metteva una mano sul cuore e mi credeva. Le ho fatto superare diciotto mesi di ambasce e di sofferenze indicibili con quel trucchetto, perché lei credeva nella mia innocenza e si aggrappava a quell'unica speranza. Alla fine credevo anch'io alla storia del cuoretto rimanendo in bilico su un baratro.
Fino a quella mattina della busta azzurra. Veniva da Pratola Peligna, un paese in Abruzzo, dove era arrivato insieme ai reparti di retroguardia dell'Ottava Armata inglese, scriveva, insieme ad un suo amico, altro superstite.
Non so come riuscissero a comunicare, dato che le linee telefoniche erano tutte a pezzi, ma mio padre fece il miracolo e un mese dopo partì in bicicletta per andarlo a prendere.
Raccontò poi come era andato e come erano ritornati, bivaccando nei boschi e usando tutti i mezzi di trasporto possibili, tra cui l'unica bicicletta, dove a turno uno dei due pedalava e l'altro stava seduto in canna.
Venne ad avvisarci il Maresciallo dei Carabinieri. Avevano telefonato dal Comando dei Carabinieri di Canino. Avrebbero mangiato qualcosa e poi sarebbero venuti a piedi per gli ultimi nove chilometri.
Mai sarebbe rimasta in casa ad aspettare mia madre e nemmeno io. Mangiammo un boccone, ci vestimmo e via sulla strada per Canino tenendo d'occhio ogni curva. Un'ora dopo vedemmo venirci incontro lemme lemme due straccioni ricoperti di polvere. Uno reggeva il manubrio di una bicicletta, mio padre; l'altro sembrava un soldato inglese con una divisa troppo grande che gli ballava addosso. La divisa era giusta, ma lui era ridotto uno scheletro.
Mentre mia madre gli saltava al collo e gli gridava non so più cosa, forse soltanto suoni e vibrazioni della sua anima, colsi lo sguardo di Lito puntato dentro i miei occhi.
Il mio fratellone era di nuovo a casa e tutto era tornato come prima.
Tutto proprio no: dov'erano rimasti i suoi capelli ricci foltissimi e neri?
-Se li è mangiati l'elmetto, mi disse.
E perché non rideva mai?
-Ho visto troppe cose brutte, mi rispose.
Passata l'esultanza per il ritrovamento cominciammo a scrutarlo dentro, malgrado lui fosse chiuso a riccio e rispondesse a monosillabi. Risultava evidente che era partito da casa un giovanotto di venti anni, esuberante, giocarellone e pieno di buon umore, mentre quello tornato era un vecchio di nemmeno ventiquattro anni, prosciugato nel corpo e nell'anima, coi nervi a pezzi che bestemmiava e urlava per qualsiasi contrarietà.
L'unico che tollerava vicino a sé ero proprio io, basta che gli rimanessi a contatto fisico, lungo un fianco per esempio, senza fare troppe domande ma ascoltandolo mentre parlava di continuo, su argomenti che avevano un senso solo per lui, perché appena io gli chiedevo spiegazioni lui ammutoliva e fine delle trasmissioni.
Per la maggior parte del tempo dormiva raggomitolato come un gatto. In posizione fetale, disse papà, e non è che io capissi molto, però mamma aveva ricominciato a piangere.
A giugno morì nonna in un baleno. Lito non fece una piega. Al funerale, visto che piangevo di continuo, mi tirò per un braccio.
-Falla finita di piagnucolare. Era vecchia.
Ma io quelle cose lì non le raccontai mai a mamma, che già era tanto addolorata di suo, perché quelle parole mi erano sembrate una cattiveria.
Dovette passare qualche anno prima che mio fratello, di sua iniziativa, cominciasse a parlare della sua esperienza nell'AMIR, l'armata italiana in Russia.
A tozzi e bocconi, mentre io mi prendevo cura di catalogare e riepilogare, mi raccontò come lui, che era un graduato del 9° Reggimento di artiglieria di Corpo d'Armata, si fosse trovato a combattere a fianco dei fanti della Cremona e dei bersaglieri della Celere.
-Perché il fronte a gennaio del 1943 non esisteva più e si crepava come le mosche.
-E tu che hai fatto?
-Quello che facevano tutti: cercare di salvare il culo e allontanarmi di gran carriera.
-Il culo lo hai salvato, quindi hai corso veloce.
-Prova tu, fratellino, a correre sulla neve ghiacciata a pancia vuota e con 30° sotto zero, mentre vedi russi spuntare da tutte le parti. Loro andavano sui mezzi blindati e noi a fette.
-Per quanto tempo avete camminato?
-C'era un Cappellano giovane che contava i giorni. Secondo lui più di tre mesi, fino al disgelo comunque.
-Che mangiavate?
-I cavalli, finché ce ne furono; poi i muli degli alpini.
-E il pane?
-Quale pane?
-E l'acqua?
-Il ghiaccio scaldato è acqua, cosa credi?
-Che percorso avete fatto?
-Non lo so. Nessuno lo sapeva. Andavamo in colonna, tutti in mucchio come pecore. Qualche ufficiale parlò della Bulgaria. Ecco, stavamo andando verso la Bulgaria, che era nostra alleata.
Avevo una mappa dell'Europa e mi sembrava un giro vizioso, ma non volevo contraddirlo, altrimenti mi avrebbe coperto di male parole.
-Sai che rumore ho ancora nella testa? mi chiese un giorno.
-No, dimmelo.
-Bredan, bredan, bredan, bredan.
-Che roba è?
-Dentro la gavetta tenevamo un coltello e un attrezzo da una parte cucchiaio, dall'altra forchetta. Quando camminavamo faceva quel suono triste e monotono "bredan, bredan, bredan".
-Solo quel suono?
-Solo quello. La neve attutiva il rumore dei passi e nessuno fiatava.
-Ma poi siete arrivati in Bulgaria. Che è successo dopo?
A questa domanda (che gli ho rivolto apposta più volte per controllare se la reazione fosse la stessa) mio fratello non ha mai risposto. Chiudeva gli occhi, tirava su le ginocchia, le abbracciava e rimaneva così, a lungo, senza parlare, come un blocco di ghiaccio.
Quando gli andava raccontava dell'Albania e del rimpatrio a Rodi Garganico, e poi l'esperienza con le truppe dell'Ottava Armata di Montgomery.
Tanti anni dopo a Treviso ho conosciuto un friulano che era sergente della Tridentina. Anche lui mi raccontò del freddo e della grande marcia, dei cavalli ammazzati per sopravvivere e il ghiaccio scaldato che diventa acqua un po' sporca.
Arrivava ai confini della Bulgaria e si metteva a piangere amare lacrime mute.
In Germania, qualche anno fa, ho incontrato un reduce della Monte Pasubio. Stessa dovizia di particolari fino a pochi chilometri dalla Bulgaria, quindi silenzio e labbra morsicate.
Cosa è successo nel 1943 ai confini della Bulgaria? Qualcosa di orribile e indescrivibile, di cui tre uomini adulti, che mai si erano incontrati, non erano in grado di parlare. Cosa hanno visto gli occhi di tre ragazzi di poco più di venti anni, un artigliere del 9° Reggimento, un alpino della Tridentina e un fante della Monte Pasubio?
Sono adesso morti tutti e tre e si sono portati via il loro segreto per sempre.