INCIPIT
-Mi chiami come le pare.
-Le va bene Sofia?
-Per via del Sofo? No, non c'entra niente e poi non mi piace.
-Potrei provare con Sof, che so io, oppure Sofi?
-Che ne dice di "signora Cottur"?
-Che è la soluzione più sbrigativa.
-Intende dire la più banale?
-No; intendevo la più facile.
-Ecco, proprio così: è la più facile.
-Però toglierei quel "signora", darebbe troppa distanza. Cottur va bene, credo.
-No, preferisco la distanza.
-Come vuole. Allora, possiamo incominciare?
-Incominciamo.
Iniziai lentamente a spogliarmi: prima la giacca, che ripiegai con cura poggiandola infine sulla spalliera di una sedia, poi la cravatta. Mentre slacciavo i bottoni della camicia mi venne da ridere.
-Certo che chiamarsi Sofonisba deve essere una bella penitenza, signora Cottur.
Nemmeno uno straccio di risposta: dovevo averla scocciata seriamente questa volta. Mi conveniva tagliare corto, visto il caratterino che aveva, perché con lei avrei avuto a che fare parecchio nei prossimi due o tre giorni: non era un medico ma qualcosa di più, era l'assistente personale in sala operatoria del professor Luigi Lucchesi, che doveva operarmi, ed era sempre la signora Cottur a dirigere la logistica del reparto di oculistica di quell'ospedale, lei che disponeva chi doveva entrare e chi uscire, lei che dava le camere migliori o peggiori a seconda del suo umore del giorno, lei che effettuava gli elettrocardiogrammi, e proprio in quel momento ne stava preparando uno per me.
-Devo distendermi sul lettino, signora Cottur?
La mia untuosità mi dava il vomito.
-Le dirò io quando.
Rimasi lì, a torso nudo e scalzo, al centro della sala mentre lei perdeva tempo qua e là.
-Adesso può distendersi. Slacci la cinghia dei pantaloni, sbottoni sul davanti e li tiri un po' in basso, anche le mutande, e poi resti fermo.
Mi fece pensare a quella santa donna di mia madre, che aveva continuato a darmi ordini anche quando oramai ero vecchio di quaranta anni. Ero riuscito a sfuggire alla sua dittatura solo quando era morta. Chissà perché, pensai, tutte le donne che avevo frequentato mi avevano messo sotto e avevano provato a cambiarmi di sana pianta? Per fortuna mi avevano tutte piantato in asso: Agnese, Lidia, Maria Grazia, Roberta; perché ero troppo debole, sembra, un mammone insicuro e indeciso.
Anche la signora Cottur non mi considerava un granché. Aveva infilato le belle mani in guanti di lattice riempendomi il torace di elettrodi precordiali e le caviglie e i polsi di elettrodi periferici. Premette un pulsante mettendo in moto l'elettrocardiografo e uscì dalla stanza con estrema indifferenza.
Se mi sentissi male potrebbe trovarsi nei guai questa bella presuntuosa, pensai. Ma cosa poteva capitare a un uomo di sessanta anni sano e in perfetta forma fisica, che svolgeva esami di routine in un grande ospedale di una grande città prima di affrontare una normalissima e niente affatto pericolosa operazione di cataratta all'occhio destro? Avevo già sostituito il cristallino dell'occhio sinistro quattro mesi prima con una nuovissima protesi americana della AMO, Advanced Medical Optics di Santa Ana in California, una Intraocular Lens a base acrilica di tredici millimetri di diametro e sei di spessore.
"Una bomba per gli occhi", mi avevano detto; "lei rivedrà tutti i colori nel loro splendore senza quell'alone grigio giallastro che li sporca tutti".
Gli avevo dato retta e mi ero fatto operare: adesso ero un esperto. Ma proprio di quell'operazione ero così insoddisfatto, tanto da cambiare città, ospedale e chirurgo. Col sinistro vedevo nuovamente colori bellissimi, niente da obiettare: ma l'occhio bruciava spesso, lacrimava quasi sempre e guai a sfiorarne la palpebra con un polpastrello, era come se mi sferrassero sopra una martellata.
-Probabilmente la protesi non si è agganciata bene, aveva detto il professor Lucchesi. Provvederemo dopo a rimetterla bene in sede; adesso le metto a posto l'occhio destro.
-Dovrò quindi operarmi una terza volta?
-Un paio di mesi dopo, sicuro. Capita che anche le operazioni più facili possano dare complicazioni, aveva concluso Lucchesi.
Io rimanevo dell'idea che il primo chirurgo fosse troppo giovane. Aveva parlato per tutto il tempo con un collega di barche, di canne da pesca al carbonio, di mulinelli da cento metri di lancio garantiti e stupidaggini del genere mentre lavorava dentro il mio occhio. Era troppo giovane. Per fortuna Lucchesi aveva un paio di anni più di me; non si sarebbe distratto lui, ne ero sicuro.
L'elettrocardiografo si era fermato emettendo un sibilo acuto e subito era ricomparsa la signora Cattur. Mi liberò velocemente di tutti gli elettrodi.
-Il professor Lucchesi ama fare pesca d'alto mare? Le chiesi.
-No, rispose e mi guardò di sbieco, sorpresa.
-Va a caccia?
-Assolutamente no. Come le viene in mente?
Sembrava indignata.
-Ha qualche hobby?
-Dama, disse la signora Cottur rasserenata. È un vero campione di dama spagnola.
La dama spagnola! Una ragazza tanti anni addietro aveva tentato di insegnarmela. Una fatica sprecata: troppe piccole pedine in una scacchiera grande quasi il doppio di una normale; e poi troppe regole per le mie scarse capacità matematiche.
-La conoscono in pochissimi qui da noi, aggiunse Sofonisba Cottur. Per questo il professore non ne parla mai con nessuno.
Saggia decisione, pensai. Molto meglio così.
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Alle cinque del mattino di venerdì 20 dicembre 2002, Simeone Walter decise di buttare le gambe fuori dalla branda e prepararsi la valigia. Non era riuscito a chiudere occhio durante tutta la notte, l'ultima che passava in quella galera tedesca, la notte numero 5.335.
Si sfilò il pigiama, lo ripiegò con cura e lo depose sul piano del tavolo. Accanto allineò tutte le sue robe man mano che le tirava fuori dall'armadio metallico. Per ultimo avvolse scarpe e ciabatte in vecchi giornali. Lasciò fuori solamente gli indumenti che avrebbe indossato per uscire, un maglione rosso a girocollo, un paio di jeans, gli stivaletti di cuoio e un tre quarti di montone ancora semi nuovo, dato che lo aveva acquistato un paio di giorni prima che lo arrestassero e che ancora gli andava bene, malgrado avesse messo su qualche chilo. Quando l'armadio fu svuotato tirò fuori da sotto la branda la valigia di pelle che aveva fatto comprare e che un agente gli aveva consegnato la sera prima.
Mise sul fondo per primi i suoi libri e il pacco di ritagli di giornali e di riviste che aveva collezionato in quegli anni. Poi i suoi disegni e gli acquarelli che aveva imparato a dipingere, raccolti in una busta di cellophan. Poi le scarpe, gli indumenti intimi, le camice e l'unico vestito che possedeva. Staccò infine dalla parete accanto alla branda un quadro 30 x 40, dove teneva incorniciata e sotto vetro una mezza pagina del Kurier di Karlsruhe del 19 febbraio 1986. Nello spazio riservato alle offerte di lavoro aveva sottolineato in rosso un'offerta scritta a tutte maiuscole.
Depose il quadro in mezzo alla giacca ripiegata del vestito perché il vetro non andasse in pezzi, chiuse la valigia e cominciò con calma a vestirsi. Indossò anche il montone e sedette sulla branda. Erano da poco passate le sei e doveva pertanto avere pazienza per un'ora, ma quella era un'arte che aveva appreso alla perfezione in tutto quel tempo. Si appoggiò con la schiena al muro dove prima era il quadro e chiuse gli occhi. Un attimo dopo dormiva.
*
Era una piccola stanza, mai comunque come la sua antica cella quattro metri per tre, con una stretta finestra che dava su un tetto, ammobiliata con un armadio a tre ante scorrevoli con specchi a tutta altezza e un letto basso e comodo, niente a che vedere con la branda gemente e troppo corta per lui dove aveva dormito gli ultimi anni. Aveva chiesto al tassista di portarlo in una pensione tranquilla fuori città, ed era sceso alla Landgasthaus Sonnenhof di Caroline Schäfer. Sull'ingresso una donna bene in carne e belloccia lo aveva accolto con un gran sorriso, il primo viso di donna che guardava dopo quasi quindici anni.
Simeone Walter sedette sul letto, aprì la valigia ed estrasse il quadro incorniciato che vi aveva riposto. Un vecchio foglio di giornale, solamente un vecchio foglio ingiallito del Kurier di Karlsruhe, settimanale specializzato in annunci di compravendite, offerte di lavoro e job vari.
Sottolineato in rosso a centro pagina l'annuncio che gli aveva cambiato la vita:
"Suche Frau oder Mann mit Nachname Walter, der/die in meinem Auftrag Roulette spielt. Fahrkosten werden ersetz. Screiben unter 1 Z 51423 an die Zeitung."
Voleva dire che qualcuno cercava un uomo oppure una donna che facesse Walter di cognome disposto a giocare alla roulette al posto suo; al Casinò naturalmente, si capiva subito.
Simeone Walter richiuse la valigia, depose il quadro sul ripiano del comodino e si sdraiò sul letto. La luce che scendeva dalla lampada appesa al soffitto gli dava fastidio e si rialzò per spegnerla. Tirò su a metà le tapparelle della finestra e tornò a sdraiarsi sul letto. Chiuse gli occhi e cercò di dormire. Non voleva pensare, non gli andava di ricominciare a pensare da uomo libero tutte quelle cose che aveva pensato per quindici anni; non ci voleva pensare, almeno non subito. Ma non poteva farne a meno, non ne era proprio capace.
L'importanza di chiamarsi Walter. Gli venne da ridere perché era certo di averlo già sentito: doveva essere il titolo di un film o di una commedia di successo, comunque gli ricordava qualcosa.
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La prima volta che vide Venezia Jacopo Rondò aveva da poco compiuto dodici anni. Si può dire che fosse un viaggio premio organizzato per lui da sua madre. Il padre non c'era, non c'era più da tre anni: era fuggito con un'artista di varietà venezuelana. Si trovava certamente in Venezuela, ma Jacopo lo cercò in ogni calle di Venezia, pensando che se uno scappava poteva venirsi a nascondere soltanto in quella città misteriosa, dove la gente compare all'improvviso uscendo fuori dai muri e scompare allo stesso modo.
La terza mattina veneziana, nebbiosa e umida, Jacopo Rondò sdrucciolò sull'orlo di una riva e finì in acqua. Affondò immediatamente. Fu salvato perché un gondoliere vide la sua mantella gialla per la pioggia galleggiare sull'acqua e si tuffò. Jacopo Rondò, che non aveva mai imparato a nuotare, conobbe in un attimo la paura folle dell'acqua e conobbe il terrore della morte; quella mattina però gli successe ancora qualcosa: si innamorò dell'acqua e in un solo momento decise che così avrebbe voluto morire, affondato nell'acqua.
Il suo innamoramento precoce gli tornò in mente al suo ultimo tentativo di suicidio andato a vuoto. Ci aveva provato tre volte negli ultimi mesi e sempre qualcuno si era messo di mezzo: un altruista armato di buoni propositi gli aveva strappato di mano la sega elettrica prima che se la passasse sulle vene del collo; due carabinieri in servizio di pattuglia gli avevano confiscato la pistola dopo una breve colluttazione, togliendogliela letteralmente di bocca; un vigile urbano lo aveva tirato giù da un ramo dell'albero dove stava sistemando la fune con il nodo scorsoio.
Allora Jacopo Rondò si recò un pomeriggio a ispezionare un laghetto in un bosco e scelse il punto da cui sarebbe potuto entrare nell'acqua camminando, senza dovercisi precipitare dentro facendo inopportuno rumore.
Si uccise una settimana dopo, il terzo venerdì di dicembre, alle nove del mattino di una giornata nebbiosa e fredda come quel giorno del bagno a Venezia. Aveva trentun anni e quattro mesi e se ne andò senza lasciare nessuna lettera di chiarimento o di addio, ma non doveva dire addio a nessuno: sua moglie lo aveva abbandonato un anno prima e sua madre era già morta da un pezzo. Quindi niente addii, nessuna fatica per trovare le parole giuste. Quanto ai chiarimenti a chi avrebbe potuto interessare per quale motivo un povero disgraziato l'avesse fatta finita?
Entrò in acqua lentamente con le tasche della giacca e dei pantaloni piene di piccole pietre, tutte quelle che aveva trovato strada facendo, tutte quelle che le tasche erano riuscite a contenere. Entrò in acqua senza nemmeno levarsi le scarpe, e l'acqua non gli sembrò fredda. Era la sua innamorata, da tanti anni, e lo abbracciò intensamente. Avanzava nell'acqua Jacopo Rondò e l'abbraccio saliva, morbido, dal ventre al torace, al collo, agli occhi. Respirò subito quando l'onda lo ricoprì e sentì male al petto, alla gola, al naso, ma non troppo né troppo a lungo. Non poteva respirare più, la sua acqua lo aveva invaso. Un sibilo aumentava di volume dentro di lui, gli riempiva la testa, una luce si avvicinava ai suoi occhi. Sentiva voci lontane e riconobbe quella di sua madre
.....vammi a trovare mio figlio....diceva sua madre....
.....ma è morto......rispondeva la voce di uno sconosciuto.....
.....no, non è morto......tu riportalo qui da me.....
Quando il sibilo nella testa cessò Jacopo seppe di essere morto.
Vide il suo corpo a braccia spalancate dondolare a un palmo dal fondale.
Era un oggetto estraneo, mentre lui era tutt'uno con l'acqua.
Seguì la luce che lo portava lontano, andò incontro alle voci che lo attiravano a loro.