mercoledì 29 febbraio 2012

ESTRATTI DA "INTERVISTA A D. O."

INCIPIT

-Mi chiami come le pare.
-Le va bene Sofia?
-Per via del Sofo? No, non c'entra niente e poi non mi piace.
-Potrei provare con Sof, che so io, oppure Sofi?
-Che ne dice di "signora Cottur"?
-Che è la soluzione più sbrigativa.
-Intende dire la più banale?
-No; intendevo la più facile.
-Ecco, proprio così: è la più facile.
-Però toglierei quel "signora", darebbe troppa distanza. Cottur va bene, credo.
-No, preferisco la distanza.
-Come vuole. Allora, possiamo incominciare?
-Incominciamo.
Iniziai lentamente a spogliarmi: prima la giacca, che ripiegai con cura poggiandola infine sulla spalliera di una sedia, poi la cravatta. Mentre slacciavo i bottoni della camicia mi venne da ridere.
-Certo che chiamarsi Sofonisba deve essere una bella penitenza, signora Cottur.
Nemmeno uno straccio di risposta: dovevo averla scocciata seriamente questa volta. Mi conveniva tagliare corto, visto il caratterino che aveva, perché con lei avrei avuto a che fare  parecchio nei prossimi due o tre giorni: non era un medico ma qualcosa di più, era l'assistente personale in sala operatoria del professor Luigi Lucchesi, che doveva operarmi, ed era sempre la signora Cottur a dirigere la logistica del reparto di oculistica di quell'ospedale, lei che disponeva chi doveva entrare e chi uscire, lei che dava le camere migliori o peggiori a seconda del suo umore del giorno, lei che effettuava gli elettrocardiogrammi, e proprio in quel momento ne stava preparando uno per me.
-Devo distendermi sul lettino, signora Cottur?
La mia untuosità mi dava il vomito.
-Le dirò io quando.
Rimasi lì, a torso nudo e scalzo, al centro della sala mentre lei perdeva tempo qua e là.
-Adesso può distendersi. Slacci la cinghia dei pantaloni, sbottoni sul davanti e li tiri un po' in basso, anche le mutande, e poi resti fermo.
Mi fece pensare a quella santa donna di mia madre, che aveva continuato a darmi ordini anche quando oramai ero vecchio di quaranta anni. Ero riuscito a sfuggire alla sua dittatura solo quando era morta. Chissà perché, pensai, tutte le donne che avevo frequentato mi avevano messo sotto e avevano provato a cambiarmi di sana pianta? Per fortuna mi avevano tutte piantato in asso: Agnese, Lidia, Maria Grazia, Roberta; perché ero troppo debole, sembra, un mammone insicuro e indeciso.
Anche la signora Cottur non mi considerava un granché. Aveva infilato le belle mani in guanti di lattice riempendomi il torace di elettrodi precordiali e le caviglie e i polsi di elettrodi periferici. Premette un pulsante mettendo in moto l'elettrocardiografo e uscì dalla stanza con estrema indifferenza.
Se mi sentissi male potrebbe trovarsi nei guai questa bella presuntuosa, pensai. Ma cosa poteva capitare a un uomo di sessanta anni sano e in perfetta forma fisica, che svolgeva esami di routine in un grande ospedale di una grande città prima di affrontare una normalissima e niente affatto pericolosa operazione di cataratta all'occhio destro? Avevo già sostituito il cristallino dell'occhio sinistro quattro mesi prima con una nuovissima protesi americana della AMO, Advanced Medical Optics di Santa Ana in California, una Intraocular Lens a base acrilica di tredici millimetri di diametro e sei di spessore.
"Una bomba per gli occhi", mi avevano detto; "lei rivedrà tutti i colori nel loro splendore senza quell'alone grigio giallastro che li sporca tutti". 
Gli avevo dato retta e mi ero fatto operare: adesso ero un esperto. Ma proprio di quell'operazione ero così insoddisfatto, tanto da cambiare città, ospedale e chirurgo. Col sinistro vedevo nuovamente colori bellissimi, niente da obiettare: ma l'occhio bruciava spesso, lacrimava quasi sempre e guai a sfiorarne la palpebra con un polpastrello, era come se mi sferrassero sopra una martellata.
-Probabilmente la protesi non si è agganciata bene, aveva detto il professor Lucchesi. Provvederemo dopo a rimetterla bene in sede; adesso le metto a posto l'occhio destro.
-Dovrò quindi operarmi una terza volta?
-Un paio di mesi dopo, sicuro. Capita che anche le operazioni più facili possano dare complicazioni, aveva concluso Lucchesi.
Io rimanevo dell'idea che il primo chirurgo fosse troppo giovane. Aveva parlato per tutto il tempo con un collega di barche, di canne da pesca al carbonio, di mulinelli da cento metri di lancio garantiti e stupidaggini del genere mentre lavorava dentro il mio occhio. Era troppo giovane. Per fortuna Lucchesi aveva un paio di anni più di me; non si sarebbe distratto lui, ne ero sicuro.
L'elettrocardiografo si era fermato emettendo un sibilo acuto e subito era ricomparsa la signora Cattur. Mi liberò velocemente di tutti gli elettrodi.
-Il professor Lucchesi ama fare pesca d'alto mare? Le chiesi.
-No, rispose e mi guardò di sbieco, sorpresa.
-Va a caccia?
-Assolutamente no. Come le viene in mente? 
Sembrava indignata.
-Ha qualche hobby?
-Dama, disse la signora Cottur rasserenata. È un vero campione di dama spagnola.
La dama spagnola! Una ragazza tanti anni addietro aveva tentato di insegnarmela. Una fatica sprecata: troppe piccole pedine in una scacchiera grande quasi il doppio di una normale; e poi troppe regole per le mie scarse capacità matematiche.
-La conoscono in pochissimi qui da noi, aggiunse Sofonisba Cottur. Per questo il professore non ne parla mai con nessuno.
Saggia decisione, pensai. Molto meglio così.

***************

Alle cinque del mattino di venerdì 20 dicembre 2002, Simeone Walter decise di buttare le gambe fuori dalla branda e prepararsi la valigia. Non era riuscito a chiudere occhio durante tutta la notte, l'ultima che passava in quella galera tedesca, la notte numero 5.335.
Si sfilò il pigiama, lo ripiegò con cura e lo depose sul piano del tavolo. Accanto allineò tutte le sue robe man mano che le tirava fuori dall'armadio metallico. Per ultimo avvolse scarpe e ciabatte in vecchi giornali. Lasciò fuori solamente gli indumenti che avrebbe indossato per uscire, un maglione rosso a girocollo, un paio di jeans, gli stivaletti di cuoio e un tre quarti di montone ancora semi nuovo, dato che lo aveva acquistato un paio di giorni prima che lo arrestassero e che ancora gli andava bene, malgrado avesse messo su qualche chilo. Quando l'armadio fu svuotato tirò fuori da sotto la branda la valigia di pelle che aveva fatto comprare e che un agente gli aveva consegnato la sera prima.
Mise sul fondo per primi i suoi libri e il pacco di ritagli di giornali e di riviste che aveva collezionato in quegli anni. Poi i suoi disegni e gli acquarelli che aveva imparato a dipingere, raccolti in una busta di cellophan. Poi le scarpe, gli indumenti intimi, le camice e l'unico vestito che possedeva. Staccò infine dalla parete accanto alla branda un quadro 30 x 40, dove teneva incorniciata e sotto vetro una mezza pagina del Kurier di Karlsruhe del 19 febbraio 1986. Nello spazio riservato alle offerte di lavoro aveva sottolineato in rosso un'offerta scritta a tutte maiuscole. 
Depose il quadro in mezzo alla giacca ripiegata del vestito perché il vetro non andasse in pezzi, chiuse la valigia e cominciò con calma a vestirsi. Indossò anche il montone e sedette sulla branda. Erano da poco passate le sei e doveva pertanto avere pazienza per un'ora, ma quella era un'arte che aveva appreso alla perfezione in tutto quel tempo. Si appoggiò con la schiena al muro dove prima era il quadro e chiuse gli occhi. Un attimo dopo dormiva.

*

Era una piccola stanza, mai comunque come la sua antica cella quattro metri per tre, con una stretta finestra che dava su un tetto, ammobiliata con un armadio a tre ante scorrevoli con specchi a tutta altezza e un letto basso e comodo, niente a che vedere con la branda gemente e troppo corta per lui dove aveva dormito gli ultimi anni. Aveva chiesto al tassista di portarlo in una pensione tranquilla fuori città, ed era sceso alla Landgasthaus Sonnenhof di Caroline Schäfer. Sull'ingresso una donna bene in carne e belloccia lo aveva accolto con un gran sorriso, il primo viso di donna che guardava dopo quasi quindici anni.
Simeone Walter sedette sul letto, aprì la valigia ed estrasse il quadro incorniciato che vi aveva riposto. Un vecchio foglio di giornale, solamente un vecchio foglio ingiallito del Kurier di Karlsruhe, settimanale specializzato in annunci di compravendite, offerte di lavoro e job vari. 
Sottolineato in rosso a centro pagina l'annuncio che gli aveva cambiato la vita:
"Suche Frau oder Mann mit Nachname Walter, der/die in meinem Auftrag Roulette spielt. Fahrkosten werden ersetz. Screiben unter 1 Z 51423 an die Zeitung."
Voleva dire che qualcuno cercava un uomo oppure una donna che facesse Walter di cognome disposto a giocare alla roulette al posto suo; al Casinò naturalmente, si capiva subito.
Simeone Walter richiuse la valigia, depose il quadro sul ripiano del comodino e si sdraiò sul letto. La luce che scendeva dalla lampada appesa al soffitto gli dava fastidio e si rialzò per spegnerla. Tirò su a metà le tapparelle della finestra e tornò a sdraiarsi sul letto. Chiuse gli occhi e cercò di dormire. Non voleva pensare, non gli andava di ricominciare a pensare da uomo libero tutte quelle cose che aveva pensato per quindici anni; non ci voleva pensare, almeno non subito. Ma non poteva farne a meno, non ne era proprio capace.
L'importanza di chiamarsi Walter. Gli venne da ridere perché era certo di averlo già sentito: doveva essere il titolo di un film o di una commedia di successo, comunque gli ricordava qualcosa.

***************

La prima volta che vide Venezia Jacopo Rondò aveva da poco compiuto dodici anni. Si può dire che fosse un viaggio premio organizzato per lui da sua madre. Il padre non c'era, non c'era più da tre anni: era fuggito con un'artista di varietà venezuelana. Si trovava certamente in Venezuela, ma Jacopo lo cercò in ogni calle di Venezia, pensando che se uno scappava poteva venirsi a nascondere soltanto in quella città misteriosa, dove la gente compare all'improvviso uscendo fuori dai muri e scompare allo stesso modo.
La terza mattina veneziana, nebbiosa e umida, Jacopo Rondò sdrucciolò sull'orlo di una riva e finì in acqua. Affondò immediatamente. Fu salvato perché un gondoliere vide la sua mantella gialla per la pioggia galleggiare sull'acqua e si tuffò. Jacopo Rondò, che non aveva mai imparato a nuotare, conobbe in un attimo la paura folle dell'acqua e conobbe il terrore della morte; quella mattina però gli successe ancora qualcosa: si innamorò dell'acqua e in un solo momento decise che così avrebbe voluto morire, affondato nell'acqua.
Il suo innamoramento precoce gli tornò in mente al suo ultimo tentativo di suicidio andato a vuoto. Ci aveva provato tre volte negli ultimi mesi e sempre qualcuno si era messo di mezzo: un altruista armato di buoni propositi gli aveva strappato di mano la sega elettrica prima che se la passasse sulle vene del collo; due carabinieri in servizio di pattuglia gli avevano confiscato la pistola dopo una breve colluttazione, togliendogliela letteralmente di bocca; un vigile urbano lo aveva tirato giù da un ramo dell'albero dove stava sistemando la fune con il nodo scorsoio.
Allora Jacopo Rondò si recò un pomeriggio a ispezionare un laghetto in un bosco e scelse il punto da cui sarebbe potuto entrare nell'acqua camminando, senza dovercisi precipitare dentro facendo inopportuno rumore.
Si uccise una settimana dopo, il terzo venerdì di dicembre, alle nove del mattino di una giornata nebbiosa e fredda come quel giorno del bagno a Venezia. Aveva trentun anni e quattro mesi e se ne andò senza lasciare nessuna lettera di chiarimento o di addio, ma non doveva dire addio a nessuno: sua moglie lo aveva abbandonato un anno prima e sua madre era già morta da un pezzo. Quindi niente addii, nessuna fatica per trovare le parole giuste. Quanto ai chiarimenti a chi avrebbe potuto interessare per quale motivo un povero disgraziato l'avesse fatta finita?
Entrò in acqua lentamente con le tasche della giacca e dei pantaloni piene di piccole pietre, tutte quelle che aveva trovato strada facendo, tutte quelle che le tasche erano riuscite a contenere. Entrò in acqua senza nemmeno levarsi le scarpe, e l'acqua non gli sembrò fredda. Era la sua innamorata, da tanti anni, e lo abbracciò intensamente. Avanzava nell'acqua Jacopo Rondò e l'abbraccio saliva, morbido, dal ventre al torace, al collo, agli occhi. Respirò subito quando l'onda lo ricoprì e sentì male al petto, alla gola, al naso, ma non troppo né troppo a lungo. Non poteva respirare più, la sua acqua lo aveva invaso. Un sibilo aumentava di volume dentro di lui, gli riempiva la testa, una luce si avvicinava ai suoi occhi. Sentiva voci lontane e riconobbe quella di sua madre
                       .....vammi a trovare mio figlio....diceva sua madre....
                       .....ma è morto......rispondeva la voce di uno sconosciuto.....
                       .....no, non è morto......tu riportalo qui da me.....
Quando il sibilo nella testa cessò Jacopo seppe di essere morto.
Vide il suo corpo a braccia spalancate dondolare a un palmo dal fondale.
Era un oggetto estraneo, mentre lui era tutt'uno con l'acqua.
Seguì la luce che lo portava lontano, andò incontro alle voci che lo attiravano a loro.

domenica 26 febbraio 2012

SCEGLIETE VOI, AMICI MIEI

Può darsi che la notte porti consiglio, o che io sia diventato di un giorno più vecchio e più saggio o meno bollente, insomma un po' scotto come si dice a Roma, ma questa mattina all'alba, come di consueto, ho riguardato la poesia da pochissimo tempo postata e ci ho ripensato su. Dalle mie parti si dice che a ripensarci siano solamente i cornuti; allora io devo avere più corna di un bastimento carico di lumache, perché in materia di letteratura e di pittura -intendo lavori miei, non di altri- sono pieno zeppo di ripensamenti.
Ho riletto la poesia, o pseudo poesia, e ci ho trovato qualcosa che non avevo visto prima: mi doveva essere rimasta stampata nella zona occipitale della memoria ritardata, dicono, la traccia di un mio racconto di tre anni fa "Come da copione", dove viene strangolata una donna in un'auto durante una sosta notturna in un parcheggio solitario.
Come da copione oppure "come da copiato"? Mi sono chiesto.
Oltre a ciò le rampogne di Fuma, più che giuste, e l'inusuale commento di Zio Scriba mi hanno convinto che qualcosa di fasullo nella poesia ci fosse.
Considerata la sua genesi -era nata in tre stadi di tempo e di emozioni, come spiegavo nella risposta al commento di Zio Scriba- ho pensato che doveva essersi perso per strada l'iniziale intento.
Così l'ho ri-cercato, e penso di averlo ri-trovato.
Adesso sorgeva il dilemma: ma si può cambiare un testo dalla sera alla mattina, per così dire, senza danneggiare...cosa? La mia immagine di autore? Ma per favore! Io ritengo sciocchi e stronzi assai quei tromboni che scrivono fesserie e ritengono debbano esser la Bibbia delle moderne genti perché sono uscite dal loro cervello.
Quindi non si danneggia un bel niente. Ma voglio fare qualcosa di originale, mai fatto da altri: mettere ai voti questa nuova poesia sortita dalle mie meningi.
Scegliete voi, amici miei, quella che vi piace di più.
Per me, resto al vostro giudizio sovrano.


FORSE  È  ANDATA  COSÌ


Sebastiana veniva da lontano, da un paese
sul mare, mi disse, e io che c'ero stato
da giovane ufficiale di artiglieria
le ricordai il colore dei fondali:
"Verdi. Sono verdi come gli occhi che hai"
"Hai ragione, rispose, ma tieni a posto le mani".
Tanto, pensai, abbiamo ancora parecchia
strada da fare insieme e sta venendo giù
la notte; così lasciai una mano sul pomello
della leva del cambio e l'altra
sul volante, che la poteva vedere mentre
stava seduta, girata sempre verso di me con le
ginocchia unite e la gonna tirata stretta
che le era salita giusto fino a metà delle cosce.
È buio fuori, e qui dentro solamente
la luce del cruscotto e i riflessi del chiarore
sul suo viso. Ma appena ho fermato
in un parcheggio isolato le è scesa un'ombra
sulla faccia come quando di notte
una nuvola passa davanti alla luna.
"Sono stanco e tu non sai guidare; restiamo
ancora un po' qui, poi andiamo via a tavoletta".
Con aria indifferente ho messo in pratica
un paio di vecchi trucchi: si abbassa
il perno di chiusura della portiera accanto a me,
e si chiudono automaticamente tutte le porte;
poi un pezzetto di legno, sempre pronto, infilato
come un cuneo a premere sul fermo
dal mio lato e lei non apre più dal suo;
poi si tira la leva che abbassa i due sedili
davanti, e lei va giù con la schiena in basso.
Se non le dai il tempo di pensare, in un secondo
le tiri su la gonna e le sei addosso.
Il resto viene da sé. Certo è una bella lotta, 
ma dà più soddisfazione, è più emozionante
e alla fine te la sei proprio goduta.
Ma appena sono riuscito a toccarla sul basso ventre
mi è venuta sotto le mani qualcosa che non doveva stare lì.
"Perché non me lo hai detto prima, Sebastiano?", gli ho chiesto
"Mi chiamo Antonio", mi ha risposto, e mi rideva in faccia.
Forse per questo gli ho dato un paio di cazzotti
ma non volevo fargli troppo male, solo
sfogare la rabbia che avevo in corpo.
Adesso lei mi parla di gravi lesioni, Commissario,
ma io non gli ho visto sangue in faccia, e quei due denti 
davanti non glieli ho rotti io. Ho rimesso subito
in moto, Commissario, e l'ho lasciato a piedi
al primo paese che ho incontrato. Barcollava parecchio; 
mi ricordo che camminava storto sui tacchi a spillo come un ubriaco.
Forse ha inciampato, ha battuto il muso per terra
così si è spaccato le labbra, così si è rotto
i denti, Commissario. Forse è andata così.



venerdì 24 febbraio 2012

FORSE PER QUESTO


Sebastiana veniva da lontano, da un paese
sul mare, mi disse, e io che c'ero stato
da giovane ufficiale di artiglieria
le ricordai il colore dei fondali:
"Verdi. Sono verdi come gli occhi che hai".
"Hai ragione, rispose, ma tieni a posto le mani".
Tanto, pensai, abbiamo ancora parecchia
strada da fare insieme e sta venendo giù 
la notte; così lasciai una mano sul pomello
della leva del cambio e l'altra
sul volante, che la poteva vedere mentre
stava seduta, girata sempre verso di me con le
ginocchia unite e la gonna tirata stretta
che le era salita giusto fino a metà delle cosce.
È buio fuori, e qui dentro solamente
la luce del cruscotto e i riflessi del chiarore
sul suo viso. Ma appena ho fermato
in un parcheggio isolato le è scesa un'ombra
sulla faccia come quando di notte
una nuvola passa davanti alla luna.
"Sono stanco e tu non sai guidare; restiamo
ancora un po' qui, poi andiamo via a tavoletta".
Con aria indifferente ho messo in pratica
un paio di vecchi trucchi: si abbassa
il perno di chiusura della portiera accanto a me,
e si chiudono automaticamente tutte le porte;
poi un pezzetto di legno, sempre pronto, infilato
come un cuneo a premere sul fermo
dal mio lato e lei non apre più dal suo;
poi si tira la leva che abbassa i due sedili
davanti e lei va giù con la schiena in basso.
Se non le dai il tempo di pensare, in un secondo
le tiri su la gonna e le sei addosso.
Il resto viene da sé. Certo è una bella lotta,
ma dà più soddisfazione, è più emozionante
e alla fine te la sei proprio goduta.
Ma lei mi ha detto verme schifoso e mi ha
graffiato sul collo. Verme schifoso mi ha detto,
e le schizzava il veleno dagli occhi.
Mi odiava e se avesse avuto in mano
un coltello mi trapassava il cuore.
Forse per questo le ho stretto le mani intorno al collo,
ma non volevo che morisse, solo farla star buona;
ma poi lei non si è mossa più e io ho capito.
Non ci potevo far più niente, signor Commissario.
Forse per questo l'ho abbandonata nel bosco, 
ma solo coperta di frasche e di foglie secche.
Non l'ho seppellita, signor Commissario,
perché non volevo che la terra sporcasse la sua
pelle che era ancora così fresca, forse per questo.

domenica 19 febbraio 2012

CELENTANICAMENTE

Permettetemi di uscire dal mio campicello letterario; lasciatemi, per una volta, invadere il campo dei tanti, dei troppi intrallazzatori della nostra cosiddetta cultura. Quale occasione migliore del gran carrozzone nazionale, il FESTIVALLE DI SAN REMO?
E quale il momento più solenne del Festivalle se non le stupidaggini a gogò del Molleggiato, gabellate per ricette magiche del sapere, per il non plus ultra della logica apartitica, ma politica estrapolate da un contesto di insufficienza quale è stato questo Festivalle 2012?
Facciamo un patto: io scriverò sto pezzullo celentanicamente, cioè come se parlassi con la sua   artificiale tendenza alle pause. Dato che non si possono udire le pause scritte, io non correggerò nulla, scriverò di getto, direttamente in bella, cosa che mi capita quasi sempre e che mi diverte assai, e appena concluso posterò il pezzullo senza nemmeno correggere gli errori di battuta, errori di dito indice e medio, perché io solo quelli uso e gli altri stanno a guardare.
Cominciamo col dire che Celentano ha creato, o gli è stata creata addosso, una leggenda di grande comunicatore di massa. Qui siamo sul bipartisan: tanto la sinistra quanto la destra se ne palleggiano i benefici; e le sue pause nascono da un lontanissimo equivoco, che certo quelli che oggi hanno intorno ai 50 non possono ricordare. Durante una trasmissione televisiva, quando la TV era in bianco e nero, il conduttore -mi pare fosse Corrado, ma non ci giuro- pose alcune domandine facili facili al giovanissimo Celentano, che non rispose nemmeno a una domandina, presentando la sua faccia di bronzo sorridente, e basta.
Il popolo dei beoti, che proliferava allora anche se non in cotanta quantità odierna, se ne uscì il giorno dopo sui giornali con la leggenda dei silenzi del molleggiato.
Il molleggiato non aveva gli auricolari, che allora non erano in uso, quindi nessuno poteva suggerirgli risposte a domande che non capiva, semplicemente non capiva, e lui rideva da beato pollo quale egli era una volta toltogli il microfono per cantare.
Siccome lui non è un fesso e chi gli stava vicino allora ancora meno, fece di questo suo manco una valenza e ne abusò, soprattutto dopo il connubio con la grande manipolatrice Claudia Mori, la stessa che ieri sera ha insultato il rappresentante della RAI Verro con parole pesanti, accusandolo di avere organizzato "quella buffonata", cioè quella indecorosa gazzarra -a suo dire- con cui parte dell'Ariston aveva tentato di zittire il grande comunicatore di massa.
Badate bene che i due pezzi di Celentano alla serata inaugurale e all'ultima del Festivalle sono la ciliegina su una torta di merda che la RAI ci ha regalato per quest'anno: dopo tante attese e chiacchiere abbiamo avuto il peggior Festivalle della storia, credo, peggiore di quello -e ce ne voleva- di Simona Ventura.
Una serie di porcherie, di parolacce -volavano espressioni a base di "sti cazzi", "cazzo di qua, cazzo di là", lo hanno messo dappertutto sto povero cazzo meno dove dovevano metterlo- venivano cantate canzonacce, come quella di Papaleo "a me piacciono le foche" cantata, udite, udite, udite dopo che l'immensa Patti Smith aveva cantato il suo immortale "Because the night". Ma si può essere più criminali! Si può essere più insensibili, più cretini di così? E poi vanno a dare il premio a sto Rocco Papaleo, per avere starnazzato come un beota in calore intorno a Belen Rodriguez, a Elisabetta Canalis e a sta Jovankona dalla repubblica ceka non con amor, ma con il mal di collo.
A proposito di Belen: ma vi pare possibile che questa arriva, sta per scendere la fatidica scalinata e con una manina apra lo spacco infinito della sua gonna e faccia vedere -sotto mutandine ine ine trasparentissime, di velo insomma- una farfalla tatuata proprio lì, dove ogni uomo che si trovi a passar da quelle parti incomincia a baciare? 
E vi pare possibile che la camera numero 1, la frontale stia lì pronta a cogliere quel gesto vezzoso che dovrebbe aver fatto saltare sulla sedia tutti gli omarini in crisi di astinenza da gnocca? E che il regista, che tutto comanda, comprese le inquadrature e quindi quale delle tante mandare in onda, dia il via proprio a quella e che rimanga su quella per una decina di secondi, che televisivamente sono un'eternità? 
Cosa significa tutto ciò? Che la cosa era stata studiata e programmata.
E chi non è in crisi di astinenza? E chi magari ha la moglie vicina gelosa, e ce ne stanno tante così nelle nostre case, cosa avrà dovuto fare per nascondere la corsa in su e in giù del suo pomo d'Adamo?
Tutto questo solo per fare ascolti?
E le canzoni? Chi se le è cagate la prima serata? E gli errori dei meccanismi per la giuria demoscopica? Ma come: sto carrozzone costa al contribuente milioni di euro, sottratti a tante altre primarie esigenze e se ne fa un disuso così stravagante?
E nessuna poltrona salta? E questi giornalisti del cazzo non protestano?
Mi sembrava di aver capito ieri sera che il direttore artistico -da sette anni, vero Prodi, vero Berlusconi?- Mazzi avesse dato le dimissioni per la vergogna. Vivaddio! Ho pensato, anche da noi qualcuno ha il coraggio di lasciare una poltrona, come fanno certi presidenti di repubblica all'estero, anche se in grave ritardo e tirati per la giacchetta.
Invece no: il nostro abbandona perché ce l'ha con lui, ce l'ha con Lei e insomma ce l'ha con chi aveva il diritto dovere di rampognare e pretendere che Celentano non tornasse a raccontar cazzate per la seconda volta, dopo i disastri della prima. Allora Lui lo impone alla platea di circa 16 milioni di persone, volenti o nolenti, poi esce come quelle puttane che dopo aver fornicato in una pozzanghera se ne vanno sgrullandosi le vesti come fa un cane appena uscito dall'acqua (non è mia, e di Matteo Maria Bandello nella novella di Isabella de Luna).
"Non volevano che io ripresentassi un grande artista, confondendolo con un comune delinquente", più o meno le parole che il paladino Mazzi ha pronunciato incazzatissimo.
E chi se ne frega delle sua incazzature; chi si occupa e si preoccupa delle nostre?
E ci risiamo con il fatidico e famigerato molleggiato, o privilegiato, che dopo la prima ha avuto a disposizione una seconda per dare un'ultima battuta, non richiesta, su argomenti che sono troppo difficili per lui.
Ce l'aveva con due giornali cattolici, che avevano osato dire chiaramente quello che tanti avevano pensato: troppi soldi per Celentano mentre la nazione sta stringendo la cinghia. Allora lui fa l'offeso e dichiara di dare i soldi che prenderà per il Festivalle in beneficenza.
Ma quanto sei furbo Celentà! In beneficenza se proprio ci tieni dai i soldi tuoi, non i soldi della RAI che sono i soldi dei contribuenti, dei morti di fame, che da poco più di un mese sono ancora più morti di fame di ieri, perché le tasse le pagano solo loro e tu non si sa.
E poi la beneficenza si fa in silenzio, non suonando trombette e tamburi, Celentà, non lo sapevi?
Il Festivalle dei giovani lo ha vinto Alessandro Casillo, un ragazzino di 15 anni, scoperto da Scotti nella sua trasmissione "Io canto". Bravissimo, che farà strada.
Il Festivalle 2012 lo ha vinto Emma, con una signora canzone, cantata alla grande, alla Emma insomma, che parla -guarda caso- dei salti mortali che deva fare un poveraccio che ha dato il sangue alla patria, che adesso lo rimunera così, come canta Tosca nel secondo atto, tanto per rimanere in tema di musica e rimanere col ritmo che mi sono imposto, ritmo celentanico.
Non cerco omissioni o refusi: questo l'ho scritto celentanicamente.

giovedì 16 febbraio 2012

UNA POESIA DIVERSA

Da un po' di tempo dormo male di notte. Faccio sogni strani, come per esempio macchine veloci, fuoriserie, che slittano sul ghiaccio con al volante guidatori incapaci e paurosi; oppure squadre di spalatori di neve guidati da donne che indossano la tuta nera delle Schutzstaffel, SS  per capirci, implacabili come Kapó. Poi mi sveglio di botto, ma riprendere sonno non è facile. Allora mi alzo, giro per casa, mi siedo a un tavolo e scrivo quello che mi passa per la testa. A volte ne escono poesie confessioni, come UOMINI di qualche giorno fa, oppure poesie diverse dalle mie solite come questa che vi propongo oggi.
Io l'ho già giudicata e valutata; adesso fatelo voi, se ne avete voglia.

A TE CHE VAI DICENDO

A te che vai dicendo di aver trovato Dio
nell'Universo e mi riempi la testa di
chiacchiere per dimostrarmelo, io rispondo
che hai perso solo tempo nelle tue ricerche:
più in alto voli e meno lo trovi, più ti allarghi e più
ti allontani da lui. Coi tuoi pianeti e le tue costellazioni,
i tuoi sistemi solari e tutta la tua matematica
mi fai unicamente capire che Dio non c'è,
che tutto si è risolto in un colpo del caso o della 
fortuna. Tu prova piuttosto a trovarla la cellula divina
dove la sto cercando io da una vita,
appiattita negli angoli più nascosti: sotto le ali
di un insetto; in una delle milioni di foglie
della foresta; nella goccia d'acqua del fiume
che scorre tra le anatre, i cigni e gli scogli
affioranti; tra i peli del manto di uno scoiattolo;
tra le piume del passero che ogni mattina
saltella sulla ringhiera del mio balcone, anche adesso se guardi.
E nell'uomo? Mi chiedi. Lascia perdere, non troveresti niente.
Forse all'inizio c'era, tra le caverne e le palafitte,
ma da quando è diventato troppo intelligente
ha perduto ogni pezzetto di Dio. Non vedi come l'inganna
ogni momento, biascicando giaculatorie e segnandosi
con l'acqua benedetta dopo ogni delitto
e prima di perpetrare il prossimo?

venerdì 10 febbraio 2012

POST TRISTE

Il 1988 fu l'anno in cui nella mia famiglia avvenne di tutto, anche un mio cambio di attività in marzo. Avevo una nuova mansione, nuovi colleghi, un nuovo Chef e quasi niente ferie.
Quando arrivò dal Friuli la notizia dell'improvviso peggioramento della salute di mia suocera, Anna Maria volse la prua verso il panico. Non poteva recarsi in Italia da sola: i ragazzi andavano a scuola, poi sarebbero rimasti soli fino alla sera, quando sarei rientrato io in casa.
"È stata ospedalizzata -spiegò la sorella di mia suocera al telefono- ma è stabile".
"Facci sapere tempestivamente se c'è un peggioramento", le risposi guardando Anna Maria stretta in una morsa come un piccolo uccello caduto dal nido in mezzo alla neve.
Il peggioramento arrivò.
"Sì, ma è stabilizzata dicono i medici", così la tranquillizzò la zia.
Parlai col mio Chef.
"Si prenda una settimana e parta domattina".
Rientrai a casa con quella bella notizia. Decidemmo di partire tutti, la notte stessa. Allora viaggiavamo solo di notte.
Alle 21 circa, mentre eravamo quasi pronti, lo squillo del telefono nel silenzio in cui eravamo piombati.
Era sua zia. Pronunciò tre parole:
"Si è spenta", e riattaccò.
Sentivo gli occhi di mia moglie aggrappati alla mia schiena. Deposi il telefono, mi avvicinai a lei seduta sull'orlo di una sedia, e senza pronunciare una sillaba la abbracciai.
Anna Maria nascose il viso quasi dentro di me scoppiando in singhiozzi.
Questo è quanto accadde, cose che non si dimenticano più.

Quando muore tua suocera non è come quando ti muore tua madre: tua suocera è la madre della persona che vive con te, non c'è mai stato nessun cordone ombelicale a legarti a lei, il distacco non è così cruento.
Però, iniziando da subito, si fa strada sempre più insistente un sentimento di disagio, che la morte di tua madre non ti arreca; un senso di colpa latente, che man mano cresce fino a diventare ingombrante, generato da molteplici componenti.
Ho pensato soltanto a mia madre, quasi mai alla sua; potevo essere più docile e più gentile con lei, ma non lo sono stato; potevo essere meno sgarbato, e invece lo sono spesso stato; non ho voluto a questa donna il bene che meritava per aver sempre dato e fatto tutto senza alcuna sollecitazione, per avermi voluto bene come fossi suo figlio.
Questi ed altri pensieri turbinano nella mente e ti fanno stare da cani.

Una mia, una nostra comune amica si trova adesso in questa condizione d'animo. Forse lei è riuscita a dare molto di più di quanto sia stato in grado di dare io, ma qualcosa di sicuro la angustia. 
Questo post è dedicato, con umiltà, a lei e alla sofferenza dei suoi cari.

martedì 7 febbraio 2012

BREVISSIMA MA ESTREMAMENTE SINCERA

UOMINI


Gli uomini piangono a fari spenti;
si pentono prima di ogni tradimento
ma se ne scordano subito dopo; gli uomini
rimangono tutta la vita piccoli
figli bisognosi di cure
e diventano padri solamente quando
i figli dei loro figli crescono.
Gli uomini vivono ingannando
se stessi ogni giorno; gli uomini non
vogliono essere capiti anche se chiedono sempre
agli altri di capirli. Però
non sarebbe interessante questo mondo
se gli uomini non fossero come sono,
arroganti e incerti dove mettere i piedi
e cosa fare delle mani.


Mi permetto di fare una piccola aggiunta -non è una postilla, perché non ha niente a che vedere con la poesia "Uomini", ma è proprio un'aggíunta che mi è venuta in mente di fare adesso, visto che domani sarò fuori casa e lontano dal PC per quasi tutto il giorno- ebbene facciamola sta variazione.
La notte che verrà alle ore una e dieci, settantotto anni fa, mia mamma, con grande fatica e rischiando forte del suo, mise al mondo un pupazzetto di quattro chili viola dal freddo e dall'angoscia. Da allora il mondo, come dice il mio amico Nik, mi ha dovuto sopportare e spero che lo faccia ancora a lungo.
In questo momento il mio pensiero di profonda gratitudine va alla mia mamma -non mi viene mai su la parola madre, chi lo sa perché- che da quel momento fino alla fine dei suoi giorni non ha smesso un solo istante di prendersi cura di me. 
Al mio papà, che pure per cinque secondi la sua parte l'aveva fatta, e che poi mi ha illuminato la strada col suo esempio e addolcito le amarezze quotidiane con la sua bontà.
Al mio fratellone "Dado", che è stato il perno intorno al quale ho ruotato.
A mia moglie Anna Maria, che ha voluto lasciarsi scegliere da me e che da allora mi sopporta e mi fa compagnia nel bello e nel cattivo tempo.
Ai miei figli che abbiamo voluto insieme io e Anna Maria e che ci hanno elettrizzato la vita senza risparmiarsi mai e senza mai fare pause.
Ai miei nipoti che mi hanno -veramente, come dico nella poesia- insegnato molto e fatto capire che avrei potuto essere un padre ancora migliore.
Ai miei amici, quelli della gioventù, quelli della maturità e quelli del web, che non sono assolutamente di serie e di qualità inferiore, anzi.
A tutti voi, soprattutto a voi che mi leggete, auguro ogni bene e vi ringrazio per la serenità che mi date e per il vostro calore.
Un bacio a tutti.
Enzo

venerdì 3 febbraio 2012

KAÌ TÁ LOIPÁ

-Rispondi tu, che io ho le mani sporche di grasso.
Lasciò squillare il telefono ancora per un po' finché smise. Ma subito ricominciò: doveva essere qualcuno che sapeva che erano in casa, Maurizio per esempio.
Guardò sul display: un numero mai visto prima. Telefona da casa di un suo amico, pensò, o da una discoteca.
-Che c'è? Gridò dentro con rabbia.
-L'ingegner De Metrio?
Una voce nasale, brutta a quell'ora.
-Sì. Chi è lei?
-Sono il vice commissario Cossu del commissariato di Monte Sacro. Ho una brutta notizia: suo figlio...
-Ha avuto un incidente?
-In un certo senso.
-È ferito gravemente?
-Mi spiace molto, ma suo figlio è morto.
Non è vero, pensò: è uno scherzo; uno scherzo del cazzo, ma è uno scherzo.
-E come sarebbe successo?
-Si è suicidato.
-Stronzate...me lo passi e la faccia finita.
Un breve silenzio dall'altra parte, poi la voce di Maurizio molto bassa e seria.
-Mi servono soldi, papà.
-Avevi bisogno di questa pagliacciata?
-L'idea non è stata mia.
Dopo un attimo di silenzio:
-Sei ancora lì, papà?
-Insomma cosa cerchi a quest'ora della notte?
-Mi servono soldi, ti ho detto.
-Quanto?
-Più o meno...settanta mille, papà.
-Ti ha dato di volta il cervello?
Un mucchio di rumori e di voci indistinte.
-Sono di nuovo io, ingegnere.
-Il vice commissario Cossu?
-Mi chiamo così, ma non sono un poliziotto.
-E allora?
-Suo figlio ci deve settanta mille.
-Perché ve le deve?
-Se le è giocate...e ha perso.
Aveva riattaccato.
-Chi era? Era Maurizio?
Stava sulla porta del bagno, con le gote e la fronte spalmate di crema verdastra. Occhi sgranati, dritti dentro i suoi.
-No. Un errore.
-A quest'ora della notte?
Squillò di nuovo il telefono. Aprì al volo il contatto.
-Allora?
-Sono Cossu. Trovi i soldi, ma solo contanti, capito?
Andò nel corridoio; abbassò la voce mentre sentiva i passi di lei che lo seguivano.
-Guardi che io tutti quei soldi non ce l'ho.
-Li trovi.
-Ma dove li trovo a quest'ora?
-Oggi è martedì: per sabato deve averli trovati, altrimenti...
-Altrimenti cosa?
-Le rimanderemo indietro suo figlio un po' per volta. Preferisce un orecchio oppure un dito?
Sentì gelarglisi il sangue.
-Sabato, ha detto?
Sabato; e si ricordi che accettiamo solo contanti, niente assegni.
Riattaccò.
Lei lo tirò per un braccio, girandolo verso di sé.
-Chi vuole soldi da te?
-Aspetta un attimo.
Rifece il numero rimasto sul display.
Tre squilli.
-Non si azzardi più a rifare questo numero, se non vuole che glielo ammazziamo subito.
-Ma come faccio ad avere contatti con voi?
-Non le servono contatti. Sabato la richiamo io.
Riattaccò.
-Adesso mi dici finalmente a chi devi dare soldi?
Era diventata aggressiva. Lo teneva fermo per un braccio.
-Non devo soldi a nessuno io.
-Ah sì? Ti chiedono soldi a quest'ora, tu non li mandi affanculo e a me dici che non li devi dare a nessuno?
La guardò e tacque. Non era facile dirle come stavano le cose. Le sarebbe venuta la solita crisi di pianto.
-Mi vuoi rispondere? Chi era? Una delle tue vecchie amanti? Una nuova? Ti ricatta?
-Non era una donna.
-È il marito che ti ricatta?
-La cosa non riguarda me.
-E telefonano a te di notte?
-Riguarda Maurizio.
-Cosa?
La voce le si era strozzata in gola.
-Cosa diavolo dici?
-Era un tizio che telefonava da una bisca clandestina, suppongo. Maurizio ha perduto un'ingente somma e vogliono i soldi da me.
-Quanto?
-Una barca di quattrini.
-Quanto?
-Settantamila, e se non glieli diamo faranno del male a Maurizio.
La donna sedette su una sedia. Aveva preso una bella botta in faccia.
-Non è un problema per te, vero?
-Certo che lo è in questo momento. Sono venti stipendi lordi dei miei operai.
-Lavori con tre banche, potrai andare in rosso almeno con una.
-Giulia, siamo sempre in rosso: con la crisi che c'è in giro i fidi sono stati ristretti.
-Chiedi un favore a Giovannini, è il tuo migliore amico.
-Lui è solo il direttore di una filiale. Non può fare miracoli.
-Insomma non vuoi provare.
-Non capisci perché non sai. Siamo alla terza settimana del mese: ci sono gli stipendi del personale, una bella botta per sessantadue tra operai e impiegati; stanno arrivando alcuni assegni, non so più quanti, firmati da me per somme importanti, che vanno onorati, più una ventina di tratte accettate dei nostri soliti fornitori e i castelletti di sconto sono pieni. Da dove li prendo adesso questi soldi?
Giulia si alzò e sparì in camera da letto. Ritornò con una busta rossa nelle mani.
-Qui ci sono quattromila euro. Volevo comperarmi qualcosa. Tu non hai niente in cassaforte?
Andò nello studio; spostò il quadro del Favretto e aprì la piccola cassaforte a muro. Ne tirò fuori un pacchetto di banconote; le contò.
-Poca roba. Prendo seimila, così fanno diecimila coi tuoi.
-Vedi che ce la possiamo fare?
-Mancano sempre sessantamila.
-Non fanno sconti?
-Non se ne parla nemmeno, Giulia. Quella è gente che non scherza: vogliono tutto entro sabato e niente assegni.
-Pensa allora velocemente a come trovarli.
La guardò. Non la conosceva così, mai però sie erano trovati in quella situazione.
-Ho tanti amici. Ho fatto favori a tutti, qualcuno di loro mi aiuterà, stai tranquilla.
-Allora domattina ti attacchi al telefono e trovi questi soldi maledetti.
-Niente telefono: queste cose vanno fatte di persona e in gran segreto. Adesso mi faccio una doccia e poi parto per Milano.
-Non vieni a dormire?
-Non chiuderei un occhio, poi è già mercoledì e il tempo volerà da adesso a sabato. Avrei però preferito sentirti dire un paio di parole di biasimo per questo figlio scapestrato che hai messo al mondo.
-Adesso conta trovare i soldi, poi vedremo. Comunque non è solo colpa mia se lui è così viziato: siamo stati tu ed io a dargliele sempre tutte vinte.
Lui afferrò il telefono. Inutile insistere su quel tasto: Giulia era un muro di gomma per quel che concerneva le responsabilità con Maurizio.
-Telefoni a quella gente?
-Me lo hanno proibito.
-Allora a chi?
-Alla Rossini. Dovrà far tutto da sola per un paio di giorni.
Il telefono squillò a lungo prima che la donna rispondesse. Non aveva la voce di chi si è svegliata di colpo, ma di chi ha fatto una corsa.
-Mi perdoni, Silvia, ma era urgente. Per qualche giorno non verrò in ditta.
-È successo qualcosa? Sta male?
-Si tratta di una questione di famiglia che non posso rimandare. Disdica tutti i miei appuntamenti per il resto della settimana. Trovi lei scuse accettabili.
-Non si preoccupi, ingegnere. Disdico tutto e col commercialista me la vedo io.
-Grazie, Silvia.
-È tutto, ingegnere?
-È tutto.
-Sicuro che sta bene?
-Sicurissimo, Silvia. Buona notte.

Alle sette colazione al Pavesi di Firenze Nord. Alla fine Giulia lo aveva convinto a farsi qualche ora di sonno. Aveva rifiutato la sua offerta di vendere qualche gioiello a patto che lui vendesse qualcuno dei suoi costosissimi orologi da polso, magari il mitico cronografo della Lange & Söhne, che da quando lo aveva comperato teneva sempre in cassaforte e che avrebbe risolto tutti i guai, ma da quell'orecchio lui non sentiva.
Un cappuccino, due brioche, il pieno di benzina e poi via: il suo amico Michele Rauti lo aspettava alle 10 nel suo studio notarile in Piazza Diaz.

-Ti faccio un assegno a un mese, dai.
-Sessantamila in contanti? Sei matto? Per avere tutti quei soldi occorrono quattro giorni come minimo. Le banche non sono più quelle di una volta. Ti fanno un sacco di domande e alla fine ti capita addosso la Finanza.
-Fammi un assegno. Sistemo tutto con Giovannini a Roma.
-Non posso disporre di somme così ingenti. Sto facendo il garante per un mio cliente importante. Sei capitato in un momentaccio. Ma poi chi ti ricatta? A me puoi dirlo.
-Nessuno mi ricatta, mi serve liquidità.
-Valla a raccontare ai passeri. Un'altra storia di donne? Paolo, finirai male. Alla nostra età si cominciano a tirare i remi in barca.
-Non c'è nessuna donna dietro questa storia.  Mio figlio si è messo nei guai.
Gli raccontò tutto, ma Michele non gli credette. Soprattutto non scucì l'assegno.
-Ti do quello che ho in cassaforte; non sono soldi miei ma posso tirare avanti per una settimana o due. Fammi un assegno a 15 giorni.
Contò 7.500 euro.
-Ci aggiungo un mio assegno da 2.500, che ti vai a incassare alla Commerciale qui all'angolo. Se fanno storie fammi telefonare.
Gli aveva dato un assegno postdatato ed era uscito col cuore stretto in una morsa. Se Michele non poteva figuriamoci gli altri.

Venerdì sera, nella stanza di un albergo di Napoli, aveva fatto il bilancio della sua crociata.
Dopo Michele Rauti anche l'avvocato Luca Goldoni, che aveva lo studio in Piazza della Scala, non gli aveva dato nemmeno un centesimo. Bell'amico.
Giovanni Frisone, principe del foro di Torino, gli aveva messo in mano quattro pezzi da 500 e liquidato molto freddamente.
-Me li ridai quando ripassi da Torino.
Aveva pensato anche lui ad una sporca questione di puttane, come l'aveva definita.
Giovedì mattina, mentre pistava in autostrada a spron battuto diretto a Napoli, all'indirizzo che Frisone gli aveva suggerito, uscì a Firenze Sud in preda ad una ispirazione.
Trovò il numero telefonico di Carmen sulla guida: lo aveva tolto da tempo dal suo cellulare, troppo pericoloso anche sotto falso nome.
Provò due o tre volte senza ottenere risposta. Andò allora direttamente alla sua abitazione.
-Posso salire da te?
Era rimasta un attimo senza fiato: dopo due anni che era tutto finito e senza darle mai nemmeno un cenno di vita, adesso stava lì sotto. Gli aveva aperto.
-Sto nei guai.
-Questo lo avevo capito.
-Hai ancora quella cassetta di sicurezza nella tua banca?
-Di quanto hai bisogno?
-Quarantottomila.
-Non ci arrivo. Mi vesto e scendo: ti do quello che c'è.
-Non mi servono per una donna.
-Ti prego: non dirmi niente. Non saresti qui a chiedere la carità se non fosse grave la faccenda.
-Maurizio ha giocato e perduto e sta nei guai. Ti ricordi di Maurizio?
-Smettila di fare il cretino. La nostra relazione è durata otto anni e tu mi chiedi se ricordo tuo figlio? Ricordo tutto, ogni giorno purtroppo. Adesso lasciami vestire e fatti un caffè.
Mezzora dopo era ritornata.
-Venticinquemila.
-Ti faccio un assegno a venti giorni.
-Niente assegni. Mi riporti il contante quando li metti insieme.
-Ti fidi?
-Mi fido.
-Non ho parole per ringraziarti, Carmen.
-Allora fanne a meno.

All'indirizzo di Napoli venerdì pomeriggio abitava la signora Baraldi, un donnone sulla sessantina.
-Chi la manda da me?
Le diede la busta avuta da Frisone. La donna inforcò gli occhiali e lesse attentamente.
-Garantisce lui che la sua firma è buona. Quanto le serve?
-Ventitremila a fronte di un mio assegno a un mese.
-Mi faccia adesso un assegno di trentamila a venti giorni.
-Così tanti interessi per tre settimane?
-Perché la manda l'avvocato Frisone, altrimenti le sarebbe costato il doppio.
Aveva staccato l'assegno senza più fiatare.
La signora Baraldi era andata in un'altra stanza e tornata coi soldi in fogli da cento.
-Li conti bene.
-A posto, aveva concluso lui ed era uscito.
Fine della missione.

Era rientrato in casa alle due di notte.
Giulia dormiva un sonno agitato. La scosse. Lei volse la testa verso di lui senza realizzare cosa accedesse; poi di colpo saltò su e si avvinghiò al suo collo.
-Sono stata tanto in pensiero.
-Ti ho telefonato spesso e ho risposto ai tuoi messaggi.
-Ero in pensiero lo stesso. Pensavo non mi dicessi tutta la verità.
-Mai stato tanto sincero.
-Hai concluso?
-Fino all'ultimo centesimo. Entro venti giorni, però, arrivano due assegni.
-Li pagheremo. Però è andata male con tutti i tuoi amici.
-Non me lo sarei mai aspettato.
-Adesso vieni a letto.
-Non ce la farei a prendere sonno. Aspetto la loro chiamata nel mio studio.
Ma poi si era addormentato vestito sul letto. Lei lo aveva coperto dopo avergli tolto le scarpe.

Si erano fatti vivi prestissimo. Sempre quel Cossu della malora.
-Allora, ingegnere, che notizie mi dà?
-Ho i settanta mille in contanti.
Aveva sentito prorompere una gran risata dall'altra parte.
-Complimenti, ingegnere.
-Mi risparmi il suo sarcasmo. Dove glieli devo portare?
-Glielo faccio dire da suo figlio.
Sentiva delle gran risate. Ridevano tutti i bastardi, avevano fatto il colpo.
-Davvero hai tutti i soldi, papà?
Rideva anche lui. Gli venne su una rabbia feroce.
-Cos'hai da ridere, imbecille?
A Maurizio venne un attacco di tosse.
-Sa, ingegnere, che mi ha sbalordito?
-Di nuovo lei?
-Ero convinto che non sarebbe mai andato in giro per l'Italia a chiedere quattrini. Magari avrebbe tirato fuori dalla cassaforte quel suo favoloso "Cabaret Tourbillon" della Lange & Söhne.
-Gliene ha parlato Maurizio? Non sa proprio tenere la lingua a posto.
-Macché! Me lo ha fatto vedere proprio lei, non ricorda?
-Ma cosa si sta inventando? Io non la conosco Cossu.
-Non mi chiamo Cossu, ingegnere: sono Giorgio.
-Giorgio? Quale Giorgio?
-Giorgio Di Patti, il figlio maggiore del suo amico urologo.
E giù una gran risata.
-Ma cosa diavolo dice questo qui?
-Che sta succedendo, Paolo?
-Dice di essere Giorgio, l'amico di Maurizio.
-Il figlio di Ugo? Dammi qui sto telefono.
-Stammi a sentire, papà...
-Sono io. Che hai combinato?
-Era tutto uno scherzo, mamma. Avevo fatto una scommessa.
-Hai sentito, Paolo? Aveva fatto una scommessa con Giorgio.
Lui riagguantò il telefono con rabbia.
-Una scommessa, hai detto?
-Sì. Lui diceva che saresti andato a chiedere subito i soldi a suo padre, oppure ti vendevi il tuo prezioso orologio. Bravo, papà, mi hai fatto vincere una vacanza di una settimana alle Maldive.
-E dove sei stato tutto questo tempo?
-A casa loro, nella loro villa di Torvajanica.
-Ti conviene restarci ancora sei mesi, perché se ti agguanto ti faccio a pezzi.
Sbatté via il telefono.
-Adesso calmati, Paolo, poi parliamo. Bisogna cambiare qualcosa con questo figlio.
-Cominciando da tutte le serrature di casa nostra.

Bevvero un caffè nero molto forte; ne avevano bisogno.
-Ha qualcosa di positivo questa storia, Paolo?
Ci pensò su, ma solo qualche attimo.
-Abbiamo scoperto di avere un figlio stupido, un ragazzino viziato, ma non un delinquente.
-Questo è buono; poi?
-Che tutti gli amici che ho vanno bene per passarci una serata insieme. Mai più fidarsene.
-Questo non è così buono, ma vai avanti.
-Abbiamo forse ritrovato noi stessi, e questa mi pare una gran cosa.
Lei gli sorrise e gli prese una mano tra le sue.
-Kaì tá loipá non conta niente, aggiunse Paolo.
- Cai cosa?
-Kappa, tau, lambda. Ricordi il greco? Significa tutto il resto.
-Tutto il resto non ha significato alcuno, concluse Giulia. Hai ragione.
Ho anche scoperto che Carmen mi amava veramente, pensò Paolo.
Oramai era tardi, però; questo sarebbe rimasto un suo segreto.