venerdì 29 aprile 2011

LUDOVICO FELTRINELLI

Parte quinta e ultima


L'uomo non variò la sua posizione neanche quando i suoi visitatori si fermarono a due passi di distanza. Squadrò Ludovico dall'alto in basso apparentemente assai compiaciuto di quel che vedeva.
"Ben arrivato, Chiccò", esclamò poi con un gran sorriso gioioso.
Ludovico sentì un brivido corrergli da per tutto, perché dalla morte di sua madre nessuno più lo aveva chiamato con quel vezzeggiativo, e perché un lampo gli attraversò la mente: quel bambino che ancora gli teneva la manina nella sua era Chiccò a quattro anni, era lui stesso di allora, lo aveva finalmente riconosciuto. Ma come era possibile, si chiese, che fosse vivo in carne e ossa? E il ragazzo allora? Quello era Ludovico a quindici anni, l'ultima volta di Chiccò gli veniva da dire. Neanche il ragazzo era una visione, bensì in carne e ossa pure lui: loro due non si erano toccati, però aveva visto i fiori piegarsi sotto i suoi piedi, aveva udito lo scalpiccio dei suoi passi mentre gli camminava innanzi, e appena gli era apparso, mentre gli si avvicinava correndogli incontro, aveva avvertito un leggero tremito del suolo, lo poteva giurare. Ma era tutto così confuso adesso nella sua mente.
"È normale che tu sia confuso, figlio mio", gli disse il padre; "ti stanno accadendo cose che mai avresti immaginato".
"Perché lui è rimasto così piccolo?" gli chiese. "Perché l'altro ha ancora quindici anni e non può venire in questa valle? Perché tu sei come in quella fotografia, e perché mia madre mi si è mostrata velata?"
"Se vuoi capire devi pensare diversamente da come sei abituato, e accettare quello che ti dirò senza tanto rifletterci sopra. Siediti e ascolta".
Sedette anche il piccolo Chiccò, che non gli aveva mai lasciato la mano.
"Quando io sono arrivato in questa valle", iniziò a dire il padre,"mi sono portato dietro tutto il mio mondo: te come eri allora", disse indicandogli il bambino, "tua madre e i tuoi fratelli", e indicò dietro alle sue spalle.
Ludovico si volse e li vide, seduti in semicerchio a una decina di metri da lui, due ragazzi e tre ragazze e in mezzo a loro in piedi una donna che si tirava uno scialle davanti al viso.
"Vedi come la mamma si copre il viso? Perché lo fa? Non vuole che io la veda oppure è lei che non vuole vedere me?"
"Se mi lasci parlare capirai", rispose il padre paziente.
Sedette di fronte a lui. Gli era così vicino che Ludovico avrebbe potuto toccarlo, ma non ne aveva il coraggio. Inconsciamente si ritrasse stringendo a sé il bambino.
"Ti ho detto che ho portato qui il mio mondo, figlio mio. Ho portato te come eri e loro come erano e come rimarranno, perché per me il tempo si è fermato in quel momento. Tua madre ha fatto lo stesso quando è morta: Chiccò quindicenne appartiene al suo mondo, non al mio, per questo ti ha condotto da lei, e là tu hai incontrato i tuoi fratelli e le tue sorelle senza nemmeno accorgertene. Per quanto riguarda questo mio abbigliamento ti risponderò che mi hai riconosciuto subito perché tu ricordavi solamente l'uomo della fotografia come tuo padre. Sei tu che mi vedi così, io sono diverso, ma tu non potresti vedermi come sono. Hai capito?"
"Vuoi dire che ognuno di voi è la proiezione del ricordo degli altri? Siete come delle vecchie fotografie di parenti che la gente si tiene nel portafogli o dentro una cornice dorata sopra il comò?"
"Esisteremmo anche se non avessimo nessuno a ricordarsi di noi, tu mi hai frainteso. È come quando stai davanti allo specchio: quello che ci vedi riflesso dentro sei tu, ma l'immagine non è reale, è rovesciata".
"Per questo si parla di immagine speculare".
"Giusto. Qui però tu stai dentro allo specchio e quella che vedi è l'immagine reale. Sei tu l'immagine speculare. Mi hai capito?"
"No, non ci capisco più niente; mi hai completamente fuorviato".
"Non è così importante che tu capisca adesso. La volta che arriverai qui per rimanerci capirai tutto e scoprirai il mondo, come ha fatto lui" e gli indicò il bambino.
"Dimmi almeno perché la mamma non si lascia guardare in viso da me".
"Per non spaventarti".
"Perché dovrei?"
"Perché non vedresti nulla, né i lineamenti di una donna né la fisionomia di tua madre; vedresti un volto bianco e senza forma come un pezzo di marmo non ancora scolpito".
"Ma perché?"
"Quante volte hai pensato a tua madre da quando è morta?"
Ludovico abbassò gli occhi al suolo.
"Rispondimi".
"Mai".
"Potresti immaginarti il suo viso come era in quel suo ultimo giorno?"
"Mi ricordo tutto di lei, come era e come parlava, quando io ero piccolo come lui e tu eri ancora vivo".
"Non mi hai risposto".
"No, non ricordo niente di quel giorno".
"Allora l'hai perduta per sempre: tu non potrai più vederla e lei non vorrà più vedere te".
Ancora una sconfitta con una donna, pensò Ludovico, ma questa era la più dolorosa di tutte. Sentì diventargli la bocca amarissima; non poteva più trattenere le parole che da un pezzo avrebbe voluto gridare.
"Io devo confessare un delitto, papà"
"Lo conosco: stavi per rinunciare a vivere; hai addirittura chiesto una morte indolore, come se fosse possibile morire senza sofferenza".
"Non intendevo questo. Io ho ucciso un bambino".
"E lui già ti aspetta nella valle che sarà la tua. Dovrai prenderti cura di quel bambino, perché lui oramai appartiene a te e al tuo mondo".
Ludovico scosse la testa con forza.
"Ti sto dicendo che io quel bambino l'ho travolto, l'ho ucciso e l'ho abbandonato, e tu rimani indifferente?"
"Qui da noi non si giudica il comportamento degli altri; non si è più avvezzi a discutere sulle intenzioni come eravamo abituati a fare prima di arrivare nelle nostre vallate. Tutto quel che succede da voi è un insieme di atti di vita quotidiana: noi registriamo il riflesso di ogni vostro atto con estrema tranquillità e imparzialità. Non c'è applauso né biasimo".
"E non è cinismo tutto questo?"
"Niente affatto, è pura constatazione della realtà. Pensa piuttosto a quanta ipocrisia c'è da voi, dove un peccatore viene giudicato colpevole da altri peccatori. Credimi, figlio mio, il tuo delitto è stato rifiutare la vita, non l'aver ucciso un bambino. Questo è avvenuto per un accidente, ma il rifiuto è avvenuto per una tua scelta cosciente".
Si alzò da terra e gli tese una mano.
"Viene, ti mostrerò qualcosa che ti darà pace".
Ludovico lo seguì, stringendo forte la manina di Chiccò nella sua. Gli venne da ridere: tutti e tre in fila indiana, il padre avanti che lo teneva per mano e lui che tirava Chiccò dietro di sé, gli rammentò l'arte di camminare in fila degli elefanti nel circo, che si tengono con la proboscide alla coda del compagno che li precede.
Suo padre proruppe in una risata.
"È successo la prima volta che ti ho portato al circo, avevi due anni, Chiccò. Tutti quegli elefanti uno dietro l'altro non li hai più dimenticati a quel che pare".
Rise di nuovo, e rise anche Ludovico, dapprima a mezza bocca poi sonoramente, ché era da tempo che non rideva così di cuore. Si voltò a guardare il bambino che rideva a crepapelle: certamente per lui il ricordo era ancora più vivido.
Salirono l'erta di una collina blu completamente senza fiori e ridiscesero nella valle sottostante. C'erano soltanto tre case distanziate le une dalle altre. Il padre guidò il gruppetto verso l'ultima e senza attendere fuori vi entrò.
Un giovanotto teneva abbracciato un uomo più anziano stringendone al petto con forza la schiena come per proteggerlo, per consolarlo. L'uomo anziano teneva sulle braccia abbandonato il corpo insanguinato di un bambino. Guardava quel corpicino martoriato senza emettere un lamento, senza una lacrima.
Ludovico liberò le mani da quella di suo padre e di Chiccò e si avvicinò, per osservare il bambino da sopra le spalle dell'uomo più anziano.
"È il mio bambino!" esclamò rivolto al padre rimasto fermo sull'entrata della casa. "È il bambino che ho ucciso io".
"Ti sbagli", gli rispose il padre senza esitazioni. "Il tuo bambino è già in un'altra valle qui vicina che attende il momento in cui tu lo raggiungerai".
"Ma è questo qui, ti dico! Lo riconosco. Non sono ancora riuscito a togliermi dagli occhi quel visetto minuto e pallido, quelle mani diafane spalancate come per aggrapparsi al cielo. Non posso sbagliarmi: è lui, è proprio lui, ti dico".
"No, quello sono io", insistette suo padre avvicinandosi. "Sono io mezzo morto dopo un incidente gravissimo quando non avevo ancora sette anni; e quello che mi tiene fra le braccia e mi contempla è mio padre, tuo nonno".
"Mamma mi raccontava di questo incidente nel quale quasi perdesti la vita e che ti lasciò sempre un po' zoppicante: mi diceva che cadesti dall'alto di un fontanile di marmo e che battesti violentemente la faccia sul selciato. Un amico di tuo padre ti ricondusse a casa e tuo padre non riusciva a riconoscerti tanto la tua testa era gonfia e il viso deformato".
"Il giovanotto che vedi abbracciare mio padre è quell'amico di allora. Chiedi conferma a lui, se vuoi sapere chi è quel bambino ferito".
"Lo so benissimo che quello è il mio bambino, ma voglio farti contento".
Toccò con una mano la spalla del giovanotto che si girò a guardarlo. Il volto che Ludovico vide lo atterrì, perché quello era il suo volto di quando aveva ventidue anni ed era uscito per sempre dalla vecchia casa paterna, abbandonando madre fratelli e sorelle senza più farsi vivo. Rimase un attimo a guardarlo a bocca aperta mentre l'altro lo fissava con astio.
Ludovico si volse allora verso suo padre per una spiegazione, ma suo padre ormai gli volgeva le spalle. Solo Chiccò ricambiava il suo sguardo senza fiatare, ma con una enorme tristezza dentro gli occhi.
Ebbe un fulmineo presagio e si abbassò per vedere in viso da vicino suo nonno: appena il vecchio alzò la testa Ludovico ne fissò il volto e vide il proprio come in uno specchio, o forse era vero che stava lui dentro allo specchio a riflettere quella faccia. Gettò un'ultima occhiata al bambino insanguinato e raggiunse suo padre, che ostinatamente gli volgeva le spalle.
"Dunque è così che è andata? Ho travolto te, ho ucciso te? Il cerchio della mia esistenza si chiude qui, non è così? Rispondimi, ti scongiuro! Aiutami a liberarmi di questo tourbillon di verità, di misteri e di angosce che adesso mi aggredisce. Fammi capire papà, non lasciarmi sprofondare".
Il padre si girò lentamente, gli prese le mani nelle sue e le strinse con forza.
"Ascolta, figlio mio: tu adesso chiudi gli occhi e io ti riconduco nella mia vallata, da cui ripartirai per tornartene indietro da dove sei arrivato. Non pensare più a quello che hai veduto qui da noi. Dimenticalo. Non cercare di capire, figlio mio".
"Ma io voglio capire. Io devo capire tutto. Non potrei andare avanti ormai senza aver capito".
"Se capisci tutto dovrai rimanere qui per sempre, non tornerai più indietro. Dammi retta, Chiccò: continua la tua esistenza nella totalità del suo mistero".
E poiché vide che Ludovico tentennava il padre aggiunse scandendo le parole:
"Tu adesso puoi scegliere tra la conoscenza e la vita".
Si volse e si incamminò verso la sua vallata, portandosi via per mano il piccolo Chiccò.
Ludovico rifletté appena un attimo mentre guardava il padre allontanarsi col bambino che gli trotterellava al fianco.
"Allora io resto" gli gridò.
Diede un'occhiata intorno e proprio in quel momento vide i fiori diventare bianchi e le colline diventare color rosa, come se il cielo avesse ingoiato tutto il blu e prosciugato il rosso dei fiori.

Nello stesso istante, in un lettino del reparto di rianimazione dell'ospedale dove lo avevano ricoverato, un uomo di trentadue anni, vittima di un misterioso incidente stradale, uscì per un attimo dal coma profondo in cui era sprofondato, distese i muscoli della faccia in un largo sorriso come se fosse immensamente felice, e morì.




domenica 17 aprile 2011

LUDOVICO FELTRINELLI

Parte quarta


Non conobbe mai la durata di quel viaggio, perché quando ebbe fine aveva dimenticato da quanto tempo era incominciato e come. Ma non era curioso di saperlo, per meglio dire, non gliene importava un fico secco.
Lo incuriosiva troppo il posto dove era atterrato e gli odori che adesso gli entravano nel naso, odori liberi, immediati; ecco quello che istintivamente pensò: liberi e immediati erano gli odori in quel posto. S'era subito accorto che gli bastava sfiorare con lo sguardo un oggetto da lontano per gustarne il profumo, senza esserci costretto a metterci il naso sopra. E che oggetti! Fiori, solamente fiori niente alberi, nemmeno uno; e niente montagne, soltanto una pianura in fiore e colline per sfondo. Dove non c'erano fiori la terra era nuda, priva d'erba, ma non aveva il colore della terra che lui conosceva, era di un blu intenso e i fiori rossi come gocce di sangue, schizzi di rosso come fuochi in un mare blu scuro. Il cielo invece era completamente rosa. Non c'era sole, non c'era ombra ma tanta luce e tepore, aria tiepida, gradevole e neanche un alito di vento.
Dopo averlo avvertito dentro il naso sentì quel posto dentro le orecchie: un mormorio basso, lontano, di gente che cantava a bocca chiusa, che si raccontava storie a bassa voce come capita a teatro prima che il direttore d'orchestra raggiunga il suo podio, ché allora tutti ammutoliscono. Qui mancava il maestro, e però mancava anche il pubblico, perché non c'era anima viva a perdita d'occhio, solo fiori rossi e colline blu, ma il mormorio levitava nell'aria, galleggiava sopra i fiori; era la voce di un popolo assente lasciata lì forse per ricordare, per ammonire "bada a come ti comporti, ché presto noi ritorneremo".
E Ludovico allora partì. Si mosse verso le colline blu per vedere se il popolo mormorante fosse raccolto in un'altra vallata dietro alle colline. Badava bene a dove metteva i piedi, perché lì non c'erano strade e lui non voleva calpestare e abbattere quei fiori così belli drizzati verso il cielo.
Il ragazzo sbucò correndo agilmente dal versante opposto della collina più vicina, e sempre correndo gli arrivò a due passi e si fermò. Lo guardava con un mezzo sorriso senza dir nulla. Quel viso Ludovico lo riconobbe all'istante, ma tenne la scoperta per sé: gli sembrava un segreto che era meglio non rivelare, per cui chiese al ragazzo:
"Chi sei? Da dove vieni?"
Il ragazzo si girò di fianco e con una mano gli mostrò la direzione da cui lo aveva visto arrivare.
"Chi c'è di là, la tua famiglia?"
Continuava a sorridergli a mezza bocca senza rispondere.
"Cosa facciamo adesso?"
"Seguimi".
Ludovico lasciò risuonare più volte quella parola dentro la sua mente, finché la memoria gli confermò che non aveva del tutto dimenticato quella voce. Si incamminò quindi dietro al ragazzo senza chiedergli più nulla. Arrivato sulla cresta della collina il ragazzo si era fermato.
"Lui è laggiù", disse.
"Lui, chi è?", chiese Ludovico.
"Il padre".
Guardò nella direzione che il ragazzo gli indicava e vide nella nuova valle che gli si apriva davanti, del tutto identica a quella che si era lasciato alle spalle alcune costruzioni basse, sparpagliate senza ordine apparente, piantate come delle tende in mezzo ai fiori.
"Non c'è nessun ordine prestabilito di costruzione", disse il ragazzo che doveva avergli letto nel pensiero; "ognuno si sceglie il posto dove vuole per costruirsi la casa, accanto agli altri, oppure isolato, come gli pare".
"Dov'è la tua casa?"
"Non qui", rispose il ragazzo; "qui è la casa del padre. La mia è laggiù, oltre quel colle dove andremo adesso", e gli indicò una collina più bassa sulla loro destra.
"Credevo che mi avresti accompagnato dal padre".
"Io devo portarti laggiù", e si incamminò velocemente.
"Chi c'è laggiù?"
"Qualcuno che ti aspetta".
"Una donna, immagino"
"Giusto".
"La madre. Non è così, Chiccò?", chiese scandendo con forza quelle due sillabe.
Il ragazzo non diede segno di stupirsi che lui lo avesse chiamato per nome e tirò dritto senza esitare, ma Ludovico aveva incominciato a capirci qualcosa.

Di nuovo si fermarono sulla vetta e di nuovo si aprì ai loro piedi una radura, in fondo alla quale sorgevano tantissime costruzioni ben allineate questa volta, le une di fronte alle altre, come si usa fare in un campeggio. Saliva dalle case una folla che veniva incontro a loro. Il mormorio aumentava man mano che si avvicinavano, ma non era affatto un frastuono, piuttosto una monotona melodia per niente sgradevole.
I primi arrivati salutarono Ludovico con un inchino, altri gli diedero la mano, altri ancora una pacca sulle spalle, ma nessuno parlava: tutti sorridevano, non dicevano una parola e il mormorio sembrava sospeso sopra le loro teste come uno sciame invisibile di calabroni.
Gli ultimi del gruppo lo abbracciarono tutti, uno dopo l'altro; parecchi lo baciarono sulle guance e qualche donna gli accarezzò i capelli. Quella gente Ludovico non l'aveva mai vista prima di quel momento. L'ultima, una donna alta e bellissima, lo prese per mano e lo condusse in basso, verso le case da dove tutti erano venuti, seguendo il ragazzo che precedeva l'intero corteo.
Percorsero una sorta di strada passando tra le sequenze di case. Adesso che le vedeva da vicino si accorse che avevano pareti di carta finissima bianca e di tela leggerissima, sostenute da telai di legno, disposte in modo da formare dei cubi o dei prismi, ma non vide tetti: quelle case avevano soltanto pareti trasparenti ma erano prive di copertura, e la gente le abitava standosene sotto il cielo rosa, a quel che pareva.
Arrivarono fino all'ultimo di quei cubi di carta e di tela. La sua accompagnatrice si fermò, il ragazzo si fece di lato e sedette per terra. Da dietro la casa uscì fuori una donna: indossava una lunga tunica candida e uno scialle le copriva la testa e la faccia, bianco anch'esso. Tutti indietreggiarono di un passo lasciando Ludovico solo. La donna velata gli si avvicinò, gli girò intorno e subito si ritrasse. Tornò verso la casa, si rigirò per guardarlo, emise un breve singhiozzo e scomparve dietro la casa.
Il ragazzo si era rialzato e gli volgeva le spalle.
"Sai dirmi cosa vuol significare tutto questo, Chiccò?"
"Non vorrà più vederti", gli rispose e subito iniziò a correre scomparendo ben presto dalla sua vista.
Ludovico si voltò allora verso il gruppo di gente che lo aveva accompagnato fin lì per chiedere una spiegazione, ma erano andati via tutti.
Attraversò di corsa il villaggio guardando dentro le case, una per una: erano proprio tutti scomparsi. Rimaneva nell'aria il sommesso mormorio, che ora gli sembrava un rimprovero collettivo, un mesto "ooohhh!" di delusione. Arrivato alle ultime case si voltò a guardare e gli parve di vedere un accampamento abbandonato da un esercito in fuga, disperso. Volgendo gli occhi intorno a sé vide le colline tutte uguali come ondate successive di un'alta marea; non gli sarebbe stato facile ritrovare la valle dov'era la casa del padre ora che il ragazzo era andato via.
Qualcuno gli stava toccando la mano destra: un tocco delicato di una piccola mano sinistra che si introduceva dentro la sua e si lasciava stringere. Ludovico sorrise al bambino che aveva incontrato nel vortice e fu felice che fosse ritornato.
"Io conosco la strada", disse il bambino.
Ludovico osservò a lungo quel piccolo viso smunto, la tristezza di quegli occhi.
"Dove ti ho già visto prima di incontrarti nel vortice? Puoi dirmelo?"
"Andiamo via di qui".
"Dimmi almeno come ti chiami".
"Non ha importanza adesso; andiamocene via, qui tu sei indesiderato".
Ludovico si rese allora conto che il mormorio era aumentato di uno o due decibel e il tono era diventato aspro, come un rimbrotto, quasi minaccioso. Non indugiò oltre e si lasciò guidare lontano da quel posto.
"Non devi chiedermi come mi chiamo", gli disse il bambino dopo un po'; "devi avere pazienza".
"Dove mi conduci?"
"Dal padre".
"Abiti insieme a lui?"
"Non nella sua stessa casa, ma sto nel suo villaggio".
"Perché tu e tuo fratello non abitate insieme?", azzardò.
"Chiccò non è mio fratello".
La risposta del bambino mandò Ludovico in confusione. Pensò che non aveva capito niente, e che era meglio non fare domande a trabocchetto a un bambino, se poi nella trappola cadeva lui.
Quando giunsero sulla cresta della collina più alta il bambino si fermò. Ludovico lo guardò per capire, ma il piccolo era intento a girare lo sguardo tutto intorno, non come uno che cerca qualcosa, piuttosto come chi entrando in un ambiente a lui familiare controlla che ogni cosa sia al suo posto.
"Quando sono arrivato qui ho scoperto il mondo", disse il bambino.
"Pensi che possa farcela anch'io?"
Il bambino alzò il visetto verso di lui con sguardo intenso, come se riflettesse.
"Non lo so", disse alla fine. "È difficile, ma se qualcuno ti aiuta potrai riuscirci".
"Vuoi aiutarmi tu?"
"Io non posso; devi chiedere al padre".
Si rimise in cammino tirandoselo dietro per la mano e dirigendosi in modo deciso verso un lato della valle, dove un gruppo di costruzioni prismatiche messe a semicerchio formava nel mezzo una specie di piazzale.
Da una di quelle case veniva loro incontro un giovanotto alto e snello, che si fermò al centro del piazzale. Ludovico fece caso che era vestito in modo bizzarro e un po' démodé. Man mano che gli si appressavano distingueva i dettagli del suo abbigliamento: il berretto da marinaio blu con visiera rigida che copriva a malapena i folti capelli ricciuti e scurissimi; il maglione bianco con collo alla ciclista a mezze maniche; il paio di calzettoni di lana anche quelli bianchi che gli arrivavano alle ginocchia, scomparendo sotto gli ampi pantaloni alla zuava di velluto a coste blu notte. Si appoggiava con aria annoiata a un bastone da passeggio, e incrociando le gambe aveva fatto passare la sinistra davanti alla destra, piegando il ginocchio e lasciando poggiare a terra appena la punta del piede, in modo identico a una vecchia posa per un ritratto fotografico.
Ludovico non avrebbe mai potuto dimenticare quella fotografia, vista per anni e anni, incorniciata in oro nel suo formato 24 x 18, poggiata al centro sul piano di marmo del comò della madre nella sua stanza da letto vedovile. Alla morte di sua madre, Maria Teresa e le altre sorelle più giovani si erano divise tutte le vecchie fotografie e venduto i mobili di quella stanza. Ludovico aveva fatto appena in tempo a prendere quella foto, liberata dal vetro e dalla cornice. L'aveva girata, riconosciuto la calligrafia minuta e angolosa di suo padre e letto la dedica: "Alla mia piccola Lidia, mia unica grande gioia, con infinito amore". Firmato e datato.
Suo padre aveva venticinque anni, sua madre venti; i due erano nella fase del preludio al loro amore, non ancora fidanzati.









venerdì 8 aprile 2011

LUDOVICO FELTRINELLI

Terza parte


Ludovico non voleva più compiangersi, doveva farla finita con questa storia della sfiga: lui aveva qualcosa di corrotto, di ingovernabile, di malsano dentro di sé, qualcosa che gli distruggeva la vita giorno dopo giorno. Il ragazzo era morto e la distruzione della sua vita si era completata; anzi no, non ancora: mancava l'atto conclusivo, il gesto che avrebbe posto fine al logorio, allo strazio e a i suoi piagnistei.
Ma era un vile e non voleva soffrire. Il dolore fisico lo atterriva, quindi doveva trovare alla svelta un modo indolore di uccidersi, e che non la tirasse troppo per le lunghe.
Di costituirsi alla Polizia non gli passò nemmeno per la mente. Di scappare non se ne parlava neanche: troppe complicazioni per sfuggire agli inquirenti, troppe le tracce e gli indizi sicuramente lasciati del suo passaggio. Via allora di lì, prima che qualcuno arrivando e vedendolo potesse in qualche modo sottrarlo al suo disegno liberatorio.
Pattinò sul fango schizzandosi di mota fin sotto il mento e tornò sulla strada.
Prima di entrare nella macchina gettò un ultimo sguardo angosciato a quella mantella distesa in mezzo al campo: nascondeva un tragico segreto, ma a Ludovico bastava chiudere gli occhi per rivedere il corpo massacrato del bambino. Rimise l'auto in strada e ripartì imballando il motore.
Attraversò Caerano San Marco buia e deserta e proseguì sulla provinciale in direzione di Bassano del Grappa. Arrivato all'incrocio di Asolo svoltò a sinistra prendendo per Riese. Scollinò frenando e subito si infilò in un viottolo sulla sua sinistra, poco più di una carreggiata che finiva in una radura circondata da giovani alberi.
Era arrivato fin lì istintivamente, senza pensare: ci veniva con Nelly all'inizio, prima di scegliere per i loro incontri un comodo e caldo locale nel centro storico di Vicenza.
Il cerchio si è chiuso, pensò; qui è cominciato e qui tutto finisce. Ma come? Si può desiderare di togliersi la vita, ma è così difficile progettarlo. E poi sarà ancora più difficile realizzare il progetto.
Uscì dalla macchina. Scendeva una pioggerellina fine fine, insistente; era freddissima, ma se la sentiva scorrere dalla testa al collo, sulla pelle delle mani e del viso senza rabbrividire, come se il suo corpo non avesse più calore ma fosse già preda del gelo della morte.
Camminò tranquillo fino al centro della radura, chiuse gli occhi e alzò le braccia al cielo. Chiese a Dio Padre un miracolo: farlo morire senza che lui dovesse preoccuparsi del come. Si sentiva vile e debole, debolissimo; tanto debole che quasi non aveva più peso, così debole da librarsi nell'aria. Riaprì gli occhi e vide che stava sfiorando coi piedi i rami più alti degli alberi.
Impaurito abbassò subito le braccia tentando di tornare al suolo, ma cambiò solo posizione: si ritrovò supino, adagiato sul fiato del mondo.
Sono diventato pazzo, pensò.
Provò a muoversi lateralmente e si capovolse; di nuovo fece una mossa e come risultato ottenne una nuova capriola. Non riusciva a scendere di un millimetro dall'altezza cui si trovava, tra due alberi a una decina di metri da terra, continuando a girare su se stesso come se si avvitasse sul proprio asse. Aprì allora di nuovo le braccia e cominciò ad innalzarsi; le allargò come due vele e spiccò il volo.
-Sto sognando, sono pazzo oppure sono morto, si disse a voce alta.
Ma stava volando, cosa gli importava del resto? Volava sui suoi peccati e le sue paure, sui livori, sui rancori e i pentimenti, lontano da tutti i suoi errori, dalle tentazioni, dalle provocazioni. Ritrovata l'attonita e inconsapevole beatitudine del feto nell'utero materno, si abbandonava alla sensazione della protezione assoluta; adesso che aveva il cielo sopra e sotto di sé e tutto intorno si lasciava cullare dentro questo nuovo liquido amniotico al riparo da ogni guasto.
Volando pensava, e gli veniva fatto di pensare che nulla doveva pensare, ma esprimere. E come? In accordi sonori, in versi, magari in rime baciate? Quindi parlando. A voce alta, sottovoce, come?
Aveva sempre saputo parlare poco, però, e le parole gli pareva che sparissero un attimo prima di averle pronunciate. Sapeva scrivere, anche se non tanto bene: le frasi gli venivano fuori contorte, inviluppate come matasse, anzi no, come grovigli di rovi che ruzzolavano via col vento; parole che almeno poteva correggere, limare un po'.
Tutto considerato preferiva farne a meno, perché scrivere per lui era sempre stato un modo di dimenticare non dimenticando: mettere cioè le parole e le frasi una accanto alle altre per poi abbandonarle sul foglio e non pensarci più. E forse questo si combinava con la sua ultima esperienza: doveva ascoltare il suono dei suoi pensieri e poi via, scordarsene. In fondo era ciò che faceva da sempre, e quello poteva essere il senso della sua vita.

Da dove adesso si trovava poteva afferrare le nuvole. Guardò in basso e la radura gli apparve più piccola di un francobollo. Vide che girava lentamente sotto di lui e capì che si stava avvitando in circolo innalzandosi.
Come in una spirale, pensò; mi trovo dentro una spirale e mi innalzo come quegli aerei mono ala privi di motore.
Ma gli alianti sfruttano le correnti di aria calda, che sono ascendenti. Quindi lui adesso era entrato in una di queste correnti e avrebbe dovuto sentir caldo, molto caldo. Ma per quanta attenzione ci mettesse non provava nessuna sensazione di caldo, né di freddo: volava e non sentiva l'aria colpirgli il viso, scompigliargli i capelli e nemmeno agitargli i lembi della giacca. Come stare dentro un ascensore di quelli nuovi, che non danno scossoni.
Si infilò tra le nuvole e subito le attraversò emergendo in una limpida notte piena di stelle, con le nuvole ai suoi piedi imbiancate dalla luna piena.
Proprio allora si accorse di non essere il solo a svolazzare beatamente: ce n'erano tanti altri, da soli, in coppia, in gruppi di sei o sette che a piedi uniti e tenendosi per mano formavano come mobili corolle di fiori in ascesa; altri invece dondolavano velocemente e sembrava scendessero di nuovo verso le nuvole.
Hanno finito l'esercitazione e se ne tornano a casa, pensò Ludovico; fra poco toccherà anche a me, ma quanto sarebbe bello se questo volare non finisse mai.
Traguardando di sbieco la fase discendente di quei suoi colleghi apparentemente già paghi, drizzò la testa verso l'alto giacché lui appagato non si sentiva affatto, anzi intendeva porre tra i suoi piedi e la terra la distanza maggiore che poteva.
Sentì come uno scoppio, uno schianto soffocato. La sua velocità di elevazione aumentò e si accorse che sopra la sua testa si era spalancato un vortice. Un mulinello impetuoso lo risucchiava verso l'alto mentre tutti gli altri compagni di volo si erano arrestati per osservare quello che gli stava capitando, ma nessuno faceva l'atto di aiutarlo.
Ludovico lottò contro quella forza che lo trascinava: chiuse le braccia, provò a capovolgersi, ma invece di precipitare verso il suolo come sperava continuò a salire, facendo salti e capriole senza un appiglio dove aggrapparsi.
-Ascolta il cielo!
Il bambino che gli era accorso al fianco gli gridava qualcosa tenendo le mani a imbuto ai lati della bocca per farsi sentire in quel frastuono. Doveva già averlo incontrato da qualche parte prima di allora, così mingherlino e diafano, innocente. Ma cosa gli stava gridando?
-Ascolta il cielo, non lo contrastare -gli raccomandava il bambino-, assecondalo il cielo in ciò che lui vuole da te. Non devi lottare contro il cielo: tu non devi vincerlo, devi diventare tutt'uno col cielo.
Era rimasto indietro, immobile in mezzo al vortice, mentre Ludovico si allontanava da lui a velocità vertiginosa, avvitandosi in cerchi sempre più stretti.
Non aveva capito il significato dell'avvertimento del bambino, ma gli conveniva non contrastare quella forza; per questo aprì di nuovo le braccia e in un attimo si trovò lontanissimo da quel posto, dalla radura, dalle nuvole bianche di luce lunare, dalle genti volanti e dal bambino misterioso. Lontanissimo e immobile, a braccia spalancate e piedi uniti, mentre tutto intorno a lui si muoveva.


venerdì 1 aprile 2011

LUDOVICO FELTRINELLI

Parte seconda

I primi minuti dopo l'abbandono Ludovico li passò all'inferno. Troppo inaspettate, troppo brucianti e cattive le parole di Nelly per placare il trambusto che gli avevano provocato nel cuore. Ma subito dopo cominciò a pensare a Susanna come al porto sicuro dove rifugiarsi in quella tempesta. Susanna, la povera ragazza che lui aveva lasciato a casa a soffrire nel suo inappagabile desiderio di maternità, per correre dietro a una donna sicuramente viziata che si aspettava che lui le saltasse addosso. Non le aveva detto proprio lei che il pivot le metteva quelle sue manacce grandi come badili strette sul culo per tenerla ben ferma durante la sua incursione quotidiana? Aveva pensato che Nelly ne soffrisse terribilmente, e se ne lamentasse con lui come per dirgli "bada a non farti venire in mente una cosa del genere, amico mio"; e invece adesso veniva a scoprire che glielo aveva detto per provocarlo, per eccitarlo, quella strega. Perché una donna per bene sposa un pivot di due metri e cinque, con tanta brava bente sul metro e ottanta che lavora come tutti i cristiani? Per poi andare a dire al primo che incontra "odio il Basket"? Oppure tutte le altre sciocchezze che gli aveva raccontato, tipo "si soffia il naso senza fazzoletto e non si fa mai la barba prima della partita perché porta male, e poi mi irrita la pelle da per tutto, anche in mezzo alle cosce"? Ecco, ecco! Gli aveva detto proprio così, en passant, con indifferenza ché quasi nemmeno ci aveva fatto caso.
Che somaro sono stato! Pensò. Che razza di somaro: quello era un chiarissimo invito. Era lì davanti a me che mi diceva "pigliami, pigliami, che aspetti cretino"! E io che la consideravo una santa e avevo paura di rovinare il magnifico rapporto che avevo con lei. "Prendimi, prendimi, pezzo di imbecille"! E come un imbecille mi sono fatto scaricare, mentre lei adesso se ne va sculettando a caccia del prossimo.
La ferita bruciava e sanguinava orribilmente, per questo ancora più acuto si faceva il rimorso di avere mollato chiusa nel buio in una camera da letto con il mal di testa la sua giovanissima e fedele sposa, che non gli chiedeva mai niente.
Salì in macchina e avviò il motore. Non vedeva l'ora di tornarsene a casa accanto a Susanna per consolarla un po'. D'altra parte non poteva andare a lavorare e presentarsi ai clienti in quelle condizioni d'animo. Avrebbe detto a Susanna che ritornava a casa un giorno prima perché aveva avuto problemi con la macchina; ma lei non gli avrebbe di sicuro chiesto nulla e sarebbe stata ben felice di riabbracciarlo.
Mentre usciva da Vicenza e imboccava forte velocità la statale 53 per Castelfranco Veneto incominciava a piovere, e alle prime case di Treviso veniva giù acqua a dirotto. Imboccò il grande viale alberato, dove aveva affittato la sua villetta, che quasi non vedeva la strada malgrado i tergicristallo lavorassero al massimo. Prima della curva che immetteva nel vialetto di casa sua aprì a metà il finestrino e azionò il telecomando perché si alzasse la saracinesca del garage: non aveva intenzione di bagnarsi nemmeno un po'. Ma il garage era occupato.
Che cosa ci faceva una macchina estranea parcheggiata nel suo garage?
Aguzzò lo sguardo per leggere la targa, ma da dove si trovava poteva distinguere solamente le due lettere della provincia: VE. Non conosceva nessuno che guidava un'Alfa 166 rossa targata Venezia. Sentì una stilettata dentro il cuore, senza capirne il perché, senza volerne analizzare il motivo.
L'istinto gli suggerì di azionare nuovamente il telecomando e richiudere il garage. Parcheggiò la macchina lungo il lato opposto della strada a una cinquantina di metri da casa sua e iniziò ad attendere, attendere un evento che non aveva il coraggio di immaginare. Aspettò a lungo. Era sopraggiunta ormai la sera. Rabbrividì un paio di volte; cacciò le mani nelle tasche, accavallò le gambe e si strinse nella giacca. Aveva smesso di piovere.
Si accese e di nuovo si spense un paio di volte la luce nella camera matrimoniale e nel bagno. Poi al piano di sotto qualcuno usò la cucina, piuttosto a lungo. Erano quasi le dieci, lui sedeva ormai da ore intirizzito dentro la macchina, quando la luce esterna si accese e la porta si aprì.
Sul pianerottolo uscì Susanna stringendosi addosso una delle sue vestaglie insieme a un uomo molto alto, che Ludovico non aveva mai visto. Lei gli gettò le braccia al collo e si strinse a lui. Si baciarono a lungo una, due volte. Poi lui le diede una leggera sculacciata, aprì il garage, mise in moto l'Alfa e la fece uscire dal vialetto. Aprì il finestrino e si baciarono un'ultima volta. L'uomo fece effettuare alla macchina un arco a marcia indietro e passò accanto a Ludovico voltandosi ancora a salutare Susanna. Un attimo dopo era sparito. Lei rientrò con calma e spense la luce dell'ingresso. Dopo qualche minuto tutte le luci della casa si spensero una dopo l'altra.

Ludovico allungò la mano destra verso il cruscotto: cercò la chiave di avviamento, la girò con calma e partì lentamente nella direzione opposta a quella che aveva preso l'Alfa Romeo.
Aveva ricominciato a piovere forte. Dopo un po' che guidava a casaccio gli venne da ridere. Aveva letto da qualche parte, in un libro forse, che quando succedevano queste cose, quando un fulmine a ciel sereno ti si inabissava dentro, la testa ti esplodeva in un tumulto di pensieri, di ricordi, di veleni; che mille aghi feroci ti si infilavano dentro la pelle e vi ci sprofondavano impietosamente, e di nuovo altri mille e di nuovo altri, all'infinito. Invece niente! Per quel che lo riguardava non era vero. Niente punture profonde di spine, niente morsi di serpenti velenosi, niente cerchi di ferro incandescente stretti intorno alle meningi; ma soprattutto testa vuota, tabula rasa, altro che tumulto di pensieri.
In un certo modo era però vero. Gli ripassava davanti agli occhi l'immagine della donna in vestaglia che si stringeva allo sconosciuto, spingendo lascivamente il proprio ventre contro quello dell'uomo; ma non provava niente, nessuna sensazione: né disgusto, né rabbia, né pietà di se stesso, né odio e forse nemmeno curiosità. Come se vedesse scorrere sul video del proprio televisore la scena di un film, vecchio, nuovo, già visto ma che importa? Brutto di sicuro, comunque, da far sparire subito con l'indifferente pressione di un dito sul pulsante di selezione del telecomando. Pronti: via! E cosa resta? Un programma di pubblicità. Rise forte. Forse quei due sotto il portico della sua villetta avevano girato un film pubblicitario di un dentifricio: "ecco qui, signore e signori, dopo una giornata di stravizi e di scopate indecenti, alito ancora freschissimo a prova di bacio lingua in bocca", e i due alla fine avevano sorriso beati a sessantaquattro denti dentro l'obiettivo.
Ma una delle due bocche era quella di Susanna, e sua era la pancia che oscenamente teneva incollata all'inguine dell'ignoto seduttore di Venezia.
Seduttore? Ma lui da quanto tempo cercava di sedurre sua moglie senza successo? Perché Susanna non si era mai avvinghiata a lui come a quel tipo? Perché? Perché? Perché? E quando aveva conosciuto il veneziano? E dove? E da quanto tempo durava la tresca? E perché lui non aveva fatto niente, Dio santo? Perché non aveva tentato di far niente, ma era rimasto nascosto nella sua macchina al buio sotto il tiro di un fucile di precisione e aveva aspettato l'esecuzione finale? Ma perché, Cristo?
"Perché sono un vigliacco, un verme!" si gridò, "e adesso scappo via dalla tragedia e mi illudo di ingannare il destino, di scansarlo da me, di rimandarlo indietro. Pezzo di idiota, ma dove scappi! Il tuo destino è davanti a te, e la tragedia è qui, insieme a te in questa macchina, dentro di te da quando sei nato"
Bloccò la macchina premendo il pedale del freno con forza e facendola sbandare sull'asfalto viscido e bagnato.
"Torna indietro e ammazzala! Torna indietro, vigliacco!"
Urlava, ma sapeva che voleva solo sfogarsi, e che forse mai più avrebbe trovato il coraggio di guardare in faccia Susanna.
Appoggiò la testa sullo sterzo respirando velocemente. Si augurò di poter piangere, di trovare la forza di piangere, perché se avesse pianto gli avrebbe fatto un gran bene. C'era gente capace di piangere per niente, ma lui non c'era mai riuscito. Non aveva pianto al funerale del padre, ma aveva quattro anni, troppo piccolo per capire, dissero. Nemmeno a quello di sua madre, però, e aveva ormai quindici anni. C'erano rimaste malissimo le sue sorelle, che non gli avevano rivolto la parola per giorni.
Continuò a compiangersi e a ricordare episodi tristi della sua vita per commuoversi un po' e spremere fuori una lacrima. Tutto inutile. Poteva continuare per tutta la notte a leccarsi le piaghe della sua vita, ma gli sarebbe rimasto solo amaro in bocca. Era da tempo immemorabile un fatalista e lasciava le disgrazie arrivare, certo che prima o poi si sarebbero allontanate, fatte da parte, per far posto alle nuove in arrivo.

Il motore si era spento e Ludovico lo ravviò. Prima di ingranare la marcia e ripartire abbassò il finestrino per orientarsi e capire dove si trovava. Attraverso la pioggia battente riconobbe la vegetazione, il colore e la forma delle prime case di Montebelluna, di cui si vedevano le luci più in alto. In un primo momento pensò di girare e tornare verso Treviso, ma l'idea di riavvicinarsi a casa sua, al luogo del delitto, gli fece venire il voltastomaco. Inserì la prima e tirò dritto.
Non incontrò un'anima per le vie della cittadina con quel tempo da lupi. Procedendo a velocità moderata attraversò il centro tutto illuminato come a Natale e imboccò la strada per Caerano San Marco. Tutte quelle luci gli esplodevano dolorosamente dentro i globi oculari, così appena ebbe le ultime case di Montebelluna alle spalle, diede gas con forza immergendosi nel buio.
La luce dei fari provocava lividi riflessi sull'asfalto fradicio d'acqua e i fendinebbia, che Ludovico aveva accortamente accesi, non miglioravano molto la visibilità. I tergicristallo, pur lanciati al massimo, non ce la facevano a spazzar via l'acqua che arrivava a ondate, come violente secchiate sul vetro anteriore. Se fosse stato più calmo avrebbe deciso sicuramente di fermarsi e di aspettare che cessasse il diluvio, ma un demone si era impossessato di Ludovico e gli fece pigiare il pedale dell'acceleratore più a fondo che poté.
Non vide in tempo l'inizio di una curva a sinistra e si trovò con l'auto inclinata sul fianco destro, il muso rivolto verso l'alto, il retrotreno derapante obliquamente lungo la tangente. Ludovico diede gas aggrappandosi disperatamente allo sterzo, mentre la luce dei fari afferrava lembi dei muri, degli alberi, dei sassi e di tutti gli oggetti indistinguibili che gli capitavano davanti in quella corsa a zig-zag oltre il fondo stradale.
Gli si parò di fronte un ostacolo scuro, un tronco d'albero mozzato o qualcosa del genere. Il cozzo fu durissimo, come uno schianto, e il parabrezza si riempì di schizzi di fango. Poi di colpo le ruote fecero di nuovo presa sull'asfalto tutte e quattro. Appena fu di nuovo sulla strada Ludovico piantò una robusta frenata. L'auto si era fermata proprio nel mezzo della carreggiata: la spostò sul lato destro e spense il motore. Scese e un attimo dopo era zuppo, ma doveva verificare il danno che si era prodotto sull'avantreno. Un bel bozzo, niente da dire, ma poteva a suo giudizio tirare avanti. Ma contro cosa diavolo aveva sbattuto? Aguzzò lo sguardo, ma era troppo buio per distinguere qualcosa. Rientrò nella macchina, mise in moto, effettuò la conversione e ritornò lentamente verso la curva. Aveva accesso i fari lunghi e aperto il finestrino; entrava acqua nella macchina ma non gliene importava più niente, adesso che era fradicio come un pulcino. Ritrovò subito il punto dove era rientrato sulla strada quasi alla fine della curva, emergendo dai campi come un trattore; e come un trattore aveva sparso sull'asfalto quintali di terriccio, di fango e di sassi. Qualche metro prima era avvenuto l'impatto, se lo ricordava bene; ma lì non c'erano alberi mozzati né interi, e nemmeno muri. Non c'era proprio niente in quella curva.
Qualche metro più in là si vedeva qualche cosa per terra. Manovrò con la macchina spostandosi contromano e protendendone il muso fuori dal fondo stradale: era una vecchia bicicletta contorta. Solo una bici? Tutto quel casino per una vecchia bici? Poteva star lì da mesi, era quasi un ferro vecchio, un catorcio abbandonato e inutile; da queste parti buttano la roba vecchia ai lati delle strade.
Per mettersi la coscienza a posto accese il faro lungo dei fendinebbia. Manovrò col volante un po' a destra e un po' a sinistra inserendo alternativamente la prima e la retromarcia. Niente, non c'era niente da vedere, a meno ché...
A una distanza di una ventina di metri disteso a terra vide un sacco scuro, o un telone di quelli che usano i contadini per coprire a volte certe colture. Non si muoveva. Era un fagotto lugubre: somigliava a una sagoma, ma era certamente un sacco. Pensò che non poteva andarsene con quel dubbio. Tirò il freno a mano, lasciò la leva del cambio a folle e scese dalla macchina.
Già ai primi passi sprofondò con le scarpe dentro la melma, ma quella sera non doveva badare alle apparenze. Arrivato a un metro dall'oggetto ne valutò la lunghezza e la forma: più lungo di un sacco normale e più sottile, sembrava un'incerata, o piuttosto una mantella parapioggia nera o blu scuro. Qualcuno l'aveva abbandonata lì, come quella bicicletta scassata. Si girò per tornare indietro e nel fango perse l'equilibrio. Barcollò, fece un mezzo passo indietro e con un piede finì sopra quella vecchia mantella abbandonata: sentì sotto di sé qualcosa di morbido e di ricurvo e un brivido gli percorse la schiena. La mantella sotto il suo peso si era contratta e ritirata per una decina di centimetri a una delle estremità. Sbucò dal buio qualcosa di chiaro, anzi di pallido, come un ramo spezzato o un fiore calpestato appena colto.
Con gli occhi sbarrati Ludovico riconobbe i contorni di una mano molto piccola, una manina. Si accosciò e sollevò la mantella: sotto giaceva il corpo di un bambino di sette o otto anni, lordo di sangue dappertutto. Fissava il vuoto con gli occhi sgranati, ed era morto.
E allora pianse Ludovico: questa volta pianse dolorosissime lacrime fredde, perché ogni delitto può commettere l'uomo, anche uccidere il padre e la madre, ma non ammazzare il cucciolo dell'uomo. Ma a nulla valeva disperarsi ormai: il ragazzo era morto. Inutile imprecare alla malasorte, sua sempiterna accompagnatrice, che in quella notte buona per i licantropi gli aveva messo in quella stramaledetta curva un bambino così piccolo e solo. Non serviva ormai a niente: il ragazzo era morto.