lunedì 31 gennaio 2011

1988 - ANNO FATIDICO

Eravamo stati per buona parte delle vacanze estive dell'anno prima Anna Maria ed io a discutere e programmare i festeggiamenti per le nostre nozze d'argento, litigando su ogni dettaglio.
-Innanzi tutto si va in chiesa per la messa.
Il diktat di Anna Maria era il primo rospo da ingoiare. Prendere o lasciare. Che fare? Avevo preso, naturalmente.
-Festeggeremo nello stesso posto di un quarto di secolo fa, sosteneva Anna Maria.
Il ristorante dell'Albergo "Roma" a Palmanova era sicuramente un gran bel locale, ma ne avevano aperti nel frattempo almeno altri due altrettanto accoglienti. Si sa, però, che le donne sono romantiche e conservatrici di tutto il vecchiume. E gli uomini? Accettano, non per quieto vivere o perché siano stronzi, ma perché non gli si rompano troppo i coglioni.
Insomma mi ero sbracato su tutta la linea. In fondo era un giorno del ca. Il prossimo sarebbe arrivato dopo altri venticinque anni.
Tutto sembrava sistemato. Ma già ai primi di ottobre si era capito che l'anno che stava per arrivare, il 1988, non sarebbe stato come gli altri, a parte il nostro anniversario. Ce lo diceva la pancia di nostra figlia Stefania, che cresceva ogni giorno.
Che bello diventare nonni, guarda un po' proprio a maggio, così lei e la bimba non potranno partecipare alla festa in Italia.
Poi a novembre Manfred, l'autore del colpo basso, aveva deciso:
-Ci sposiamo a febbraio.
Magnifico! Così saltano anche i festeggiamenti dei compleanni dei due nonni.
-Facciamo tutta una festa, tagliò corto Anna Maria.
Col caciocavallo! Chi se li fila due cinquantenni a un matrimonio di due ragazzi di 22 anni, con un topo Gigio che già scalcia per uscire?
-Vuoi metterti in mostra per forza? Mi chiese Anna Maria stizzita.
Figurati, ma chi se ne frega. Diventiamo nonni, vuoi mettere? E poi che bella festa! E che bella gente! Ma che bella mangiata! Poco importa che mi sia costata un pacco di Deutsche Mark. La madonna...
-Zitto, miscredente! Pensa alla nostra nipotina.
Ci penso e come. Altra grana da scucire, quasi la metà della somma preventivata per le nostre nozze d'argento se ne va marciando e battendo il passo.
Il tempo comunque di iniziare a fare due conti, che dall'Italia la nostra primogenita ci aggredisce al telefono inviperita.
-Sarebbe a dire che io sono la più scema del pollaio!
Che le piglia adesso? Sembrava così tranquilla.
-Tranquilla? Fessa, direi: sono fidanzata da quattro anni e adesso si sposa mia sorella?
-Monica...le circostanze...l'occhio della gente...
-Col cacchio!
E sbatte giù il telefono.
Il nembo si è addensato: il cielo è diventato scuro e già scroscia forte il temporale.
Tempo due giorni e Monica è di nuovo al telefono.
-Ci sposiamo a giugno.
Fine della comunicazione.
Se mi incazzo faccio doppia fatica, come tutti sanno.
Quindi?
Quindi non mi incazzo. Prendo due settimane di ferie per giugno; mi preparo al nuovo salasso in Banca e buona notte.
Stefi si era sposata a febbraio, col pancione e sorridente. Sembrava in trance.
Cristina arrivò il 10 maggio, esattamente 22 anni dopo la sua mamma.

Io telefonai alla mia mamma, ospite da parecchi mesi in una bella Casa di riposo nella Città Giardino, in una ariosa e linda stanza con vista mare.
Aspettava me e la mia famigliola con ansia per passare insieme due settimane a casa sua a Civitavecchia. Aspettava dall'ultimo sguardo che ci eravamo scambiati alla fine di agosto dell'anno prima, quando avevo di nuovo messo la prua verso il nord.
-Quest'anno va tutto storto, mà.
-Non mi dire che non vieni.
Voce di donna nel panico.
-Ma no, stai tranquilla. Prendo il resto delle ferie per agosto e veniamo giù coi due maschi.

Il 22 giugno, tornando a casa dopo il matrimonio di Monica, mentre passavamo il confine con l'Austria a Tarvisio, dissi un paio di innocue battuta ad Anna Maria; tipo "questo andirivieni in pochi mesi non ci farà stare meglio quest'anno". Giuro che non stavo pensando ai soldi, ma che in poco meno di quaranta giorni saremmo di nuovo passati per quella strada, nella direzione opposta.
Pensavo, credevo, mi illudevo di farlo in meno di quaranta giorni.
Alla fine di quel mese, però, inaspettatamente il cuore di mia suocera cedette di colpo. Fu trasportata in un nosocomio specializzato di Gorizia, ma era agli sgoccioli.
La notizia della morte arrivò a me, perché Anna Maria non aveva la forza di prendere il telefono in mano.
Presi il resto delle ferie e partimmo sgommando.
Il 7 luglio i funerali, poi tutti i cocci di una vita da raccogliere.
Un giovedì sera dissi a mia moglie:
-Domani parto. Resto un fine settimana a Civitavecchia con lei.

La presi in consegna alle 10 del sabato mattina, dopo aver sottoscritto una liberatoria, dove mi assumevo la totale responsabilità per tutto quel che le poteva capitare.
-Non la perderò d'occhio per un istante -dissi alla direttrice- e lunedì a mezzogiorno ve le riconsegno indenne.
50 ore insieme a mia madre.
Per me una première; per lei una gioia infinita.
-Sei solo?
-Anna Maria ha un sacco di problemi legali e amministrativi; i ragazzi vanno al mare; Monica è in luna di miele, e Stefi ha un pupazzetto che le porta via tutto il tempo.
A mia madre, però, interessavo solamente io: la sua domanda era per assicurarsi che non avessi altro cui pensare.
Per 50 ore feci "il donno": preparai la colazione, il pranzo, la cena; passai l'aspirapolvere per tutto l'appartamento; riparai una lampada che da anni non funzionava; ma soprattutto parlai.
Parlai, parlai, parlai.
E lei stava lì, in silenzio, ad ascoltarmi.
Tre le cose eccezionali che si stavano verificando:
-mia madre taceva;
-io stavo parlando con lei;
-io stavo insieme con mia madre per un intero fine settimana.
La prima situazione non si era mai verificata.
La seconda rarissima volte.
La terza quasi mai. L'ultima volta avevo 13 anni.
-Perché non dici nulla? Le chiesi.
-Perché per trenta anni non mi hai detto niente altro che i saluti quando arrivavi e quando ripartivi.
-Voglio imprimermi la tua voce nella mente, aggiunse. La riascolterò ogni momento, dopo che te ne sarai andato.
Fu in quell'istante, credo, che decisi di raccontarle la mia infanzia, vista dalla mia parte, perché lei tornasse giovane e io bambino. Mi ero illuso di stupirla -ecco, questa è la versione di Enzo- ma mi accorgevo dall'espressione del suo viso che conosceva già ogni cosa della vita interiore del figlio bambino, del figlio ragazzo; non le era sfuggito nulla. Non ero riuscito a nasconderle nemmeno quello che pensavo, perché adesso che credevo di rivelarglielo in prima assoluta, come fosse chissà quale segreto, la vedevo sorridere ogni volta ancor prima che concludessi la frase, tutte le frasi.
Ero stato per lei un libro stampato, mentre mi ritenevo un enigma indecifrabile.
Non so perché, ma mi sentii più leggero e più felice dopo averlo scoperto.

Allo scadere della cinquantesima ora la riconsegnai alla direttrice dell'ospizio.
-Torno a Natale, mà; porto pure Anna Maria.
Me ne andai più sereno: avevo finalmente conosciuto mia madre.
"Anna Maria sarà contenta di venir giù a Natale", pensai.
Ma ai primi di ottobre venivo giù da solo a tutto gas col mio 2500 turbo per cogliere almeno l'ultimo respiro di mia madre.
Una corsa folle contro il tempo, contro l'ictus che le aveva mandato in tilt il cervello.
Al "Pavesi" di Firenze feci il pieno di benzina, bevvi in fretta un caffè e telefonai a mia cognata.
-Sto a Firenze, in un'ora e mezza arrivo.
-Prenditela comoda, mi rispose; è spirata un'ora fa.

Il 31 dicembre si portò via per fortuna quel 1988 felice e infelice, dove tutto era successo, dove ero diventato nonno, due volte suocero, dove era morta la madre di Anna Maria, che mi amava come un figlio, e dove avevo perduto mia madre subito dopo averla conosciuta veramente.
Soltanto le nostre nozze d'argento non erano state festeggiate, e nessuno ne parlò più.




mercoledì 26 gennaio 2011

T - PO 11403 TERZA FETTA

Sobbalzò quando si sentì mettere mani addosso. Alcuni carcerieri si occupavano di lui professionalmente ed energicamente. Fu messo rapidamente in piedi, e visto che le gambe intorpidite dalla lunga e scomoda positura non lo reggevano, lo afferrarono in due sotto le ascelle e lo trascinarono via di peso.
Quando gli inquisitori entrarono nella stanza capì che erano in diversi: almeno tre deodoranti differenti, di cui uno tipicamente femminile.
Qualcuno dietro le sue spalle gli strappò via bruscamente i tappi dalle orecchie. Fu come se intorno gli esplodesse il mondo. Un grumo di suoni gli penetrò sibilando nei padiglioni auricolari di nuovo liberi, rimbalzandogli fino al cervello.
La voce bassa dell'accusatore risuonò alla destra del prigioniero:
-Hai avuto sufficiente tempo per pensarci su, T-PO 11403. Adesso la mia collega ti rivolgerà qualche domanda: soppesa bene le parole quando le risponderai.
-Ritorniamo alla sera del 2 febbraio di questo anno, gracchiò la voce metallica che ormai il prigioniero ben riconosceva. Non ci interessa nulla dell'uomo che è morto dentro la Mercedes, perché ormai sappiamo tutto di lui: si chiamava Steve Tirrell, 29 anni; era un rinnegato del Minnesota, un ex Marine, espulso con disonore dal Corpo per furto e altre porcherie, un farabutto, ed era la guardia del corpo della tua puttana russa. Da te vogliamo sapere chi doveva incontrare la donna quella notte e dove doveva avvenire l'incontro. Facile, no? Eri tu che guidavi, avrai pur saputo dove andavi.
"Impronte digitali, pensava intanto il prigioniero; calco della dentatura, archivio del DNA, tutti esami che i Marines fanno; poi i dati vengono catalogati e riportati a galla quando occorrono. Shari non ha parlato di sicuro. Sanno il nome di Steve per via dei loro maledetti archivi. Shari non ha parlato, non ha detto niente lei né di Steve né di me, né tanto meno della nostra missione. È uno dei loro sporchi trucchi: spalmare di merda un morto che non può più replicare. No, signori! Shari non aveva parlato, si era infilata nei personaggi del suo Nikolaj Gogol".
-Allora, T-PO 11403, cosa aspetti ancora? Non puoi proteggerla più oramai, la tua puttana russa ha fatto la fine che meritava: l'abbiamo cotta a fuoco lento. Qua e là si è arrostita un po', e le si sono bruciacchiati quei bei posticini che a te piacevano tanto.
La donna dalla voce metallica incominciò a ridere, una risata metallica, naturalmente. Si fece prendere da un accesso di riso arrivando quasi a singhiozzare.
-Bella, vero...bella, vero, la settimana di Odessa...bella spiaggia, bella baita...belle nottate ardenti con la russa tutto fuoco...sghignazzava l'inquisitrice senza più ritegno.
"Come fa questa strega a sapere di Odessa? Una settimana di riposo dopo tanto stress. Chi le ha detto di Odessa? Shari non può aver parlato, Shari non può aver detto nulla delle notti di Odessa".
Nessuno dell'Organizzazione sapeva che loro due erano insieme. Era un loro segreto: a Odessa erano soli lui e Shari, chi aveva parlato?
-Basta con questa buffonata, T-PO 11403! Urlò l'inquisitrice con voce durissima. Con chi doveva incontrarsi quella notte Shari Grigorievna?
Con un attimo di ritardo il prigioniero capì di avere vistosamente sussultato. Troppo tardi! Ormai i bastardi sapevano di avere fatto centro.
Non era riuscito a trattenersi perché la sorpresa era stata mostruosa. Shari non gli aveva mai rivelato il suo cognome, e lui lo aveva appreso per caso da altri russi al campo di Kandahar, e se lo era tenuto per sé come un prezioso tesoro. Oramai non c'erano dubbi: Shari aveva parlato; aveva rivelato il proprio nome, aveva detto di Odessa e delle notti d'amore passate insieme a lui; aveva detto tutto quello che sapeva.
-Deciditi T-PO 11403! Urlò l'inquisitrice. Shari Grigorievna non sapeva chi doveva incontrare quella notte, altrimenti glielo avrei strappato dalla bocca insieme ai denti. Tu eri l'unico che conosceva i piani quella sera e adesso mi dirai tutto, hai capito bastardo?

-Resisti, uomo, resisti! Gli grida Ettore correndo.
-Tieni la bocca chiusa, uomo! Aggiunge Achille correndo veloce.
"Dovete ancora attraversare l'oceano?" Pensa di chiedere il prigioniero.
-No, siamo arrivati sulla tua isola, gli risponde Achille.
"Isola!" Pensa di esclamare il prigioniero.
-Sicuro, è un'isola, risponde Ettore; ma siamo ancora un po' lontani da te.
-Però arriveremo presto, uomo, aggiunge Achille. Non ti lasceremo solo.
-Non sei più solo, uomo, dice Ettore. Tieni duro, disprezza il dolore,
-Disprezza il dolore, uomo, replica Achille; noi stiamo arrivando.
"Terrò duro, ve lo giuro, pensa di rispondere il prigioniero; so come fare, i bastardi non la vinceranno".

-Tu hai un problema adesso, T-PO 11403, disse la voce bassa dell'accusatore. Ti concedo dieci secondi per dirci un nome e un indirizzo.
I secondi volarono.
I carcerieri lo sollevarono dalla sedia e lo sbatterono con la schiena sul tavolo di ferro. Gli tolsero la catena e gli allargarono le gambe e le braccia, fissando le caviglie e i polsi a dei perni che fuoriuscivano dai quattro angoli del tavolo. Uno dei carcerieri gli aprì la tuta sul davanti dal collo all'inguine; un altro gli infilò tra le mascelle una specie di dentiera metallica, incastrandogliela tra i denti e il palato. Fece scattare una molla e le due ganasce della dentiera si aprirono di qualche centimetro lasciandolo a bocca spalancata.
Il cuore del prigioniero iniziò a battere all'impazzata.
Qualcuno gli aveva afferrato il pene poco sotto il glande e tirava con energia, infilandogli nel canale uretrale attraverso il meato urinario uno stelo duro, compatto e freddo, sicuramente metallico, che gli provocò una immediata e dolorosissima irritazione. Certamente sanguinava, ma quel che lo atterriva era la certezza che si trattasse del catodo di un generatore di energia elettrica, il cui anodo teneva già bene incastrato tra i denti.
Ricordò il rumore di un rotore che aveva chiaramente udito nella registrazione delle ultime parole di Shari, e capì. Shari , che era stata allenata a resistere a ogni tipo di tortura psicologica e fisica, aveva confessato vita, miracoli e morte sotto scariche elettriche di chissà che elevato voltaggio.

La prima scarica gli fece battere violentemente la nuca sul tavolo, mentre una serie di atroci fitte gli si propagava dal pene, che gli bruciava pazzamente, a tutte le giunture. Qualcuno gli stava tirando fuori dalla bocca la lingua con un attrezzo a scatto. Il prigioniero non era più in grado di connettere, ma sapeva che anche la lingua gli stava andando a fuoco.
Alla seconda scossa svenne.
Lo fecero rinvenire con una endovenosa che gli ricondusse ogni dolore al posto voluto dagli aguzzini, nei punti cioè più sensibili, nelle sue fibre più nascoste.
-Noi possiamo attendere e ricominciare come e quando vogliamo, T-PO 11403, gli disse l'accusatore. Convinciti che ci guadagnerai tu per primo se collabori; noi possiamo darci il cambio, ma la tua situazione non migliorerà. Arriverai a dirci tutto quello che vorremo senza nemmeno accorgertene.
Il prigioniero tendeva l'orecchio al ronzio basso e costante del rotore, aspettava che aumentasse di volume. Si elevò di colpo con suono assordante e l'uomo si sentì spaccato in due, in quattro, in mille pezzi. Il pene, i testicoli, gli intestini, gli occhi erano diventati carboni ardenti. La lingua non se la sentiva ormai più.
-Se gli danneggiamo il cervello non potrà più dirci niente di sensato, disse l'accusatore.
Il prigioniero sentì il ronzio del rotore affievolirsi.
-Un nome e un indirizzo, T-PO 11403, disse l'accusatore con voce alta e dura; dicci quello che vogliamo e per oggi ti lasceremo in pace.
Il prigioniero si concentrò disperatamente sopra un particolare di una tecnica di difesa che aveva appreso, provato e attuato più volte con successo a Kandahar: rovesciò gli occhi all'indietro, espulse l'aria dai polmoni e attese. Appena la scarica arrivò, fortissima, lui svenne.
Di nuovo pomparono liquido nelle sue vene, ma ormai il prigioniero aveva acquisito la certezza di poter resistere ancora per un po'.
E di nuovo svenne, due, tre volte di seguito.

*
-Svegliati, uomo! Gli intima Ettore. Svegliati del tutto e ci potrai vedere.
-Coraggio svegliati! Dai, uomo, guardaci: siamo qui accanto a te.
La voce di Achille era adesso vicina, maledettamente vicina. Allora il prigioniero prende vigore e li vede, chiaramente, accanto a lui i due eroi, i suoi due grandi amici.
"Mi salverete, non è vero?" Pensa di chiedere.
-Ti salveremo, uomo, gli risponde Achille.
-Faremo cessare i tuoi spasimi e porremo fine alla tua prigionia, gli dice Ettore premuroso.
-Fra non molto sarai libero, aggiunge Achille.
"Potrò venire via insieme a voi?" Pensa di chiedere il prigioniero.
-Noi ti aspetteremo, gli risponde Ettore.
-Sì, ti aspetteremo e poi andremo via con te, dice Achille mentre gli libera la lingua dal meccanismo che la teneva serrata e ferma fuori dalla bocca.
-Ingoia questo adesso, dice Ettore introducendo tra le labbra del prigioniero una pasta morbida, Inghiottine ancora un po'.
"Non riesco a muovere le mascelle" pensa di dire il prigioniero.
-Ci penso io, interviene Achille prendendogli la mandibola e aiutandolo a deglutire.
-Adesso ti rimetto la lingua dentro questo apparecchio, dice Ettore.
-Loro non devono accorgersi di nulla, gli spiega Achille; sarà una bella sorpresa.
"Ma quando sarò libero?" Pensa di chiedere il prigioniero, di nuovo pervaso dal terrore.
-Non avere più paura, uomo, lo rassicura Ettore. Appena loro torneranno vorranno torturati ancora.
-Allora riattaccheranno il generatore elettrico e ti invieranno una forte scarica, gli dice Achille.
-In quel momento tu sarai libero, gli annuncia Ettore.
"E voi sarete pronti ad aspettarmi" pensa di concludere il prigioniero.
Li vede scomparire attraverso le pareti. Si rilassa: da parte sua doveva solo aspettare che i suoi torturatori tornassero.

*
Il colonnello della Polizia Militare Bruce Hiwais timbrò e firmò in alto a destra uno dopo l'altro i quarantasei fogli della sua relazione, aggiungendoli poi alla voluminosa pratica che quella notte stessa un corriere avrebbe portato nella capitale, consegnandola nelle mani del Capo di Stato maggiore.
Avranno da grattarsi una gran bella rogna, pensò il colonnello accendendosi la pipa. Gli si abbasserà un po' la boria a quei saputelli del Pentagono, e farà venire i vermi a qualcuno di quei lazzaroni dei Servizi Segreti, qualcuno che conosceva lui.
Il colonnello sogghignò. Non c'era mai stato buon sangue tra il suo Dipartimento e i Servizi, e lui nella sua relazione non aveva lesinato rimproveri e giudizi feroci. C'era qualcos'altro da fare? C'era qualcuno da salvare in quel gran casino? Nessuno avrebbe potuto accusarlo di partigianeria. Chi sbaglia paga, e caramente come in quel caso. Spendere qualche centinaio di milioni di dollari per organizzare un lager di assoluta sicurezza, dal quale nessun prigioniero potesse evadere e nessuna guardia potesse uscirsene tranquillamente (perché dall'isola sarebbero andati via solamente i morti, ma questo erano in pochi a saperlo), e dove i maledetti giornalisti e operatori TV non sarebbero mai riusciti a mettere il naso, e poi non riuscire a impedire che uno schifoso terrorista si infilasse nel culo una carica esplosiva con cui saltare in aria insieme a sei guardie e tre pezzi grossi dei Servizi, portandosi all'inferno segreti importantissimi, beh! Giudicate un po' voi cervelloni.
Per quel che ti riguarda, complimenti terrorista di merda! Non c'è che dire, hai fatto un bel botto.
Ma i guai non erano ancora finiti, visto che quei figli di puttana di Amnisty International erano in possesso di foto-bomba, avute da chissà chi, foto di una camera di tortura con tanto di generatore elettrico in primo piano e i cavi infilati nell'uccello e nel culo del terrorista, legato mezzo nudo sopra un tavolo.
Il colonnello sogghignò di nuovo: qualcuno si era tagliato le palle da solo.

Batté la pipa sul piano della scrivania facendo cadere la cenere dal fornello. Si alzò e si stiracchiò. Il colonnello Bruce Hiwais era come sempre soddisfatto del suo lavoro: pulito, competente, ben fatto e ben scritto; in una parola, perfetto. Come sempre, appunto.
Entrò in bagno, si lavò le mani, si pettinò, si mise a posto il nodo della cravatta e calcò la bustina con cura. Uscì dal bagno, diede un'occhiata circolare al piccolo ufficio che era stato suo durante le tre settimane dell'inchiesta; rimise a posto la sua seggiola, indossò il soprabito, spense la luce e uscì nell'umidità della sera.

martedì 25 gennaio 2011

T - PO 11403 SECONDA FETTA

*
Riprese conoscenza mentre qualcuno gli scaraventava secchiate di acqua fredda sulla faccia. Gli avevano tolto la catena e adesso non gli gettavano più acqua addosso.
-Tirati in piedi, pezzo di merda, e spogliati nudo, gli gridò un carceriere.
-Faccia alla rete, gli urlò un altro. Allarga le gambe, alza le braccia e non ti muovere più fino a mio ordine.
Eseguì senza fiatare.
Uno starter gracchiò un paio di volte. Il getto violento di acqua bollente che lo investì alle reni fece vacillare l'uomo nudo, che dovette aggrapparsi alla rete metallica addosso alla quale si era appiattito.
L'acqua lo frugò dovunque, salendo e scendendo dai calcagni alla nuca e viceversa.
-Girati adesso! Schiena alla rete, gambe divaricate, braccia in alto.
Quando finì l'uomo nudo scivolò lungo la rete metallica come una vescica che si affloscia. Fu strattonato e infilato a forza dentro una tuta asciutta. Due uomini lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono via, riportandolo nella stanza da dove era partito.

*
Non li sentì arrivare, ma i suoi aguzzini erano nella stanza, in molti, almeno in tre.
-Ti facciamo ascoltare una registrazione, disse l'accusatore. Ti avverto che non la riconoscerai subito, ma è la voce della tua compagna, quella che era con te la notte del 2 febbraio.
-La tua compagna è morta, aggiunse la voce metallica della donna, che il prigioniero immediatamente riconobbe. È riuscita a crepare prima di dirci tutto quello che sapeva, la tua puttana. Ma tu completerai tutte le lacune, ci puoi giurare.
"È una trappola, pensò il prigioniero; mi vogliono fregare con questo vecchio trucchetto. Ma non sanno che io la conosco perfettamente la voce di Shari".
Sentì lo scatto secco del play, poi il fruscio del registratore che si avviava. Dopo alcuni secondi gli arrivò un lamento fioco, poi un altro e qualcosa mormorata sommessamente.
Un sordo rumore di fondo si materializzò per quello di un rotore che aumentava di velocità, e l'essere sottoposto a quella tortura urlò, poi singhiozzò ed erano urla e singhiozzi di donna, di una donna agonizzante.
A un tratto con voce fioca, spezzata, cominciò a parlare: parole corte, staccate le une dalle altre, una ventina in tutto, poi la voce si spense.
-Hai riconosciuto la tua amica? Gli chiese l'accusatore.
Forse era la voce di Shari, forse no. Comunque proferiva parole in russo, e Shari era russa.
-Ho ancora dell'altro da farti ascoltare, disse l'accusatore.
Di nuovo il rumore del rotore che aumentava di velocità, di nuovo urla e singhiozzi, poi, quando il rumore del rotore si affievolì, Shari ricominciò a parlare, lentamente ma chiaramente in russo, recitando qualcosa mandato a memoria diligentemente. Questa volta il prigioniero riconobbe con sicurezza la voce della sua sorella di lotta: era Shari, senza ombra di dubbio, e stava morendo.
-Quello che ha detto è stato tradotto: si tratta dell'inizio del primo capitolo del secondo Tomo de "Le anime morte" di Gogol, ma qui hanno certamente un significato particolare che tu ci spiegherai, non è vero? Noi siamo convinti che la tua amica prima di schiattare ti abbia inviato un messaggio. Ti lasciamo un po' di tempo per riflettere, poi ci dirai tutto.
Sentì che uscivano lasciandolo solo, e piombò nella disperazione più nera.

*
Disperarsi però poteva servire solamente a spalancare le porte dell'inferno. Doveva invece ragionare e reagire velocemente, perché non gli avrebbero concesso molto tempo per farlo.
Shari non gli aveva lasciato messaggi, come pensavano i suoi aguzzini, ma lui sapeva quello che Shari aveva fatto: si era rivolta al mito della sua fanciullezza, a quel Nicolaj Gogol che lei adorava, recitandosi brani de "Le anime morte". Si era rifugiata in un mondo virtuale, tuffandovici dentro anima e corpo, e mentre si estraniava da quello reale si rendeva inattaccabile e inaccessibile a tutti.
"Divento un'altra, gli diceva; mi trasformo in un guerriero antico e supero ogni ostacolo. Se un giorno dovessero catturarmi io mi difenderei così dalle loro torture: diventerei indistruttibile. Dovresti provare anche tu".
Ma lui ricordava solamente alcuni brani dell'Iliade.
"Se non ricordi bene puoi sempre inventare, gli aveva ribattuto Shari; alla fantasia non c'è limite alcuno, l'importante è che tu entri nel romanzo o nel poema non solo con la mente, ma con le scarpe, la maglietta e i pantaloni. Mi hai capito? Insomma, aveva concluso, devi riuscire a vivere dall'altra parte insieme coi tuoi personaggi, qui da noi basta che tu continui a respirare".
"Devo provare a imitare Shari", pensò; doveva uscire dal suo corpo, che ne facessero poi quel che volevano.

*
Non li aveva sentiti entrare, ma annusò il lezzo del loro sudore. Si catapultarono su di lui sollevandolo di peso e trascinandolo via. Una porta fu spalancata con stridore di cardini non oleati. Forse quella porta da molto tempo non veniva aperta.
Lo fecero inginocchiare e sedere sui talloni.
-Hanno pensato che per meditare hai bisogno di assoluto silenzio, disse uno dei carcerieri; così adesso ti metteremo nelle orecchie un bel paio di tappi di gomma nuovi nuovi.
Gli mise il primo tappo, spingendolo dentro a forza, e gli infilò il secondo tappo spingendoglielo dentro con ancora maggiore violenza.
Finalmente fu solo insieme al silenzio della sua anima.
"Potrei solamente impazzire, pensò, e sarebbe la liberazione".
Ma non poteva far altro in quella condizione che tentare di attuare il metodo di Shari.
Raschiò dal fondo dei ricordi. Aveva difficoltà a recuperare un paio di versi coi quali dare inizio alla sua declamazione muta. Cercò di localizzare nel poema il punto preciso che cercava: il duello tra Ettore e Achille. Ci provò tentando di formulare una prima frase, ma vacillò la memoria.
Intanto però incominciava a vedere le mura di Ilio. C'era tumulto di guerrieri in fuga, atterriti, che tentavano di rientrare in città, che si urtavano, si calpestavano, terrorizzati da Achille che stava arrivando dopo averne massacrati tanti. Le porte vennero richiuse con vigorose spinte. Ecco, sono tutti in salvo; soltanto Ettore è rimasto fuori: appoggia lo scudo e la lancia ai massi delle mura e pensa allo scontro imminente e decisivo.
"E Achille gli fu vicino".
"Come lo vide Ettore prese spavento, non seppe più attenderlo fermo, si lasciò dietro le porte e fuggì; si slanciò pure il Pelide fidando nei piedi veloci".
Non gli vennero in mente altri versi, ma vide i due che si scagliavano contro e vide Ettore cadere. Adesso egli giace ai piedi di Achille, e improvvisamente scompaiono le immagini delle mura e delle torri marmoree di Ilio, e le immagini dei cadaveri insepolti nella vallata; rimane un paesaggio deserto e brullo, quasi incolore. In mezzo stanno ancora i due eroi, l'uno eretto e vincitore, l'altro disteso ai suoi piedi sconfitto e morto, immobili come due statue.
D'un tratto Achille ritira la lancia dalla ferita di Ettore e la posa a terra insieme allo scudo. Si china e aiuta il caduto a risollevarsi da terra. Si alza Ettore e scuote la polvere dalla sua armatura. Cerca la sua lancia. Si accosta ad Achille e gli mormora qualcosa in un orecchio. L'altro gli indica lontano la lancia conficcata al suolo. Ettore va a raccoglierla e la porta vicino al suo scudo. Si toglie l'elmo piumato mentre Achille fa altrettanto. Sembrano due attori protagonisti di un film, che hanno appena terminato di girare una scena e ne fanno i commenti.
Si volgono verso il prigioniero.
-Sei pronto, uomo? Gli urla Ettore.
Il prigioniero non osa nemmeno respirare, mentre un gelo improvviso gli serpeggia nelle vene.
-Mi sembri sorpreso, uomo, gli grida Achille.
-A me sembra morto di paura, aggiunge Ettore.
-Svegliati uomo, incalza Ettore; siamo qui per te.
-Ci hai chiamati tu, aggiunge Achille, e adesso ci tratti così?
-Vedi che non può parlare, osserva Ettore.
-Dì piuttosto che non vuole parlare, replica Achille.
-Non si fida di noi, pensi tu? Chiede Ettore.
-Non si fida di se stesso.
-Non occorre che tu parli, né che pensi di parlare, grida Ettore al prigioniero.
-Noi adesso ci mettiamo in cammino e veniamo lì dove sei tu, dice Achille. Occorrerà un po' di tempo, ma arriveremo, non avere dubbi.
-Su col morale, gli grida Ettore; non ci metteremo tanto a raggiungerti.
-E non ti chiedere se siamo veri oppure un tuo sogno, aggiunge Achille ridendo; pensa che noi siamo la tua unica speranza, pensa solo questo e fai almeno finta di essere contento.
"Vi attendo con ansia, pensò di rispondere il prigioniero. Volevo intendere che non vedo l'ora di vedervi arrivare".
-Così va molto meglio, uomo, gli grida Achille di rimando; ci mettiamo subito in cammino.
Il prigioniero li vide raccogliere le armi e gli scudi. Si misero in cammino di buon passo, scherzando tra loro. Scomparvero alla sua vista come risucchiati da una parete di nebbia.
Un groviglio di pensieri e di incubi iniziò a turbinare nella mente del prigioniero. Vedeva spettri e ne ascoltava le voci: si era trattato di sicuro dell'inizio del suo crollo. Stava insomma uscendo di senno. Meglio per lui. Fra poco sarebbero tornati e lo avrebbero torturato. Esiste un limite si sopportazione alla sofferenza fisica, ma lui non conosceva il proprio, non era mai entrato in quel tunnel e non aveva idea di come se ne uscisse.
-Siamo più vicini a te, uomo, gli grida Achille.
Erano ricomparsi all'improvviso: camminavano fra dune di sabbia. Il prigioniero aveva subito pensato che si trovassero in un deserto, ma poi aveva sentito il rumore della risacca, gli era arrivato alle narici l'odore aspro e salmastro del mare.
-Siamo su una spiaggia, gli conferma Ettore; adesso c'è da attraversare l'oceano.
Scomparvero nel nulla lasciando il prigioniero in un limbo tra gioia e dolore, un limbo di incertezza.

domenica 23 gennaio 2011

CINQUANTUNO ANNI FA ALLE ORE 12,30

Il 24 gennaio 1960, mezzora dopo mezzogiorno ho visto Anna Maria per la prima volta. E per la prima volta lei ha veduto me, alto e magro -Gesù com'ero bello magro, nemmeno 73 chili per un metro e 81- in divisa di sottotenente di artiglieria.
Tutta colpa -o merito- di un altro ufficiale del mio reggimento, un carissimo amico, anche lui da Civitavecchia, Gianfranco Effe. Mi era piombato in casa la sera prima, era un sabato, mentre stavo facendo i piani di un programmino niente male.
-Tu domattina vieni con me, mi aveva detto. Ti faccio conoscere una ragazza.
-Sei matto? Io domani vado a Trieste, ché ho un bel movimento.
-Noooo! Devi venire con me! Fammi un favore. Mi sono messo con Elle, una stecca di un metro e 80, che ha un amica alta quasi quanto lei e non ho nessun altro abbastanza lungo. E poi tu sei amico mio e i conti tornerebbero meglio.
La cosa puzzava forte.
Quando un amico ti chiamava per fare da scorta a una ragazza che si accompagnava alla sua, di norma la tipa che ti dovevi sorbire per tutta la sera era una cozza. Certi favori erano normali tra amici, naturalmente a buon rendere.
Qui c'era anche il fatto dell'altezza. Elle l'avevo già vista da lontano: una sberla alta quanto me, magrissima, nasona, con gli occhiali da miope e due fave del 43 che buttava lateralmente come due remi.
"Se tanto mi dà tanto, pensai, una cozza con due fave di mezzo metro fuori bordo, sai che figura di merda".
A Trieste avevo un paio di stelle, a Udine ne conoscevo una niente male, che mi aveva dato subito il numero del suo telefono e che viveva da sola.
Insomma avevo l'imbarazzo della scelta e adesso questo qui mi stava incastrando.
Piagnucolava.
-Dai, che amico sei? Ci vai un'altra volta a Trieste.
"Sì, e le due pupe stanno lì già in pigiama ad aspettarmi".
Ma era un amico, un compaesano; come togliermelo dai piedi?
-Dove ci si dovrebbe incontrare? Gli chiesi.
-In chiesa, alla messa solenne di mezzogiorno.
-Pure?
Non bastava la cozza, anche la puzza dell'incenso che odiavo.
Capì al volo.
-Guarda che la tua è carina forte. Possiamo rimanere in fondo alla chiesa, se vuoi.
Ci pensai un secondo: avevo trovato l'escamotage.
-Stammi bene a sentire. Io vengo e la guardo. Se mi piace resto, sennò ti saluto, OK?

Quando il giorno dopo fummo dentro la chiesa, una decina di metri oltre il portone di ingresso, gli chiesi:
-Dov'è?
-Stanno in fondo, alla nostra destra, vicino all'acquasantiera. La tua è quella col cappotto chiaro.
Con studiata lentezza e con l'arte di non farsi scoprire mai in fallo, che i giovanotti di allora avevano nel DNA, diedi un'occhiata al soffitto, un'altra alla parete, a un altare laterale e quindi mi trovai pian piano girato di circa 120°, con assoluta indifferenza.
La vidi nel momento in cui teneva la testa abbassata a controllarsi i piedi o chissà mai cosa. Sulla testa aveva un fazzoletto colorato legato sotto il mento.
Colore dei capelli, nada; lineamenti del volto, nada. Slanciata assai ed alta, ma non stratosferica, con un cappotto legato in vita che le arrivava sopra le ginocchia.
Dalle ginocchia ai piedi era l'unico campo visibile, ed era un gran bel campo, un gran bel vedere.
-Va bene, resto, dissi a Gianfranco Effe, dopo essermi rigirato; però adesso andiamocene fuori, ché sta puzza di cera mi fa venire un cerchio intorno alla testa.

Quando finita la messa uscì sul sagrato potei vederle i capelli, rosso rame, il viso bello, anzi bellissimo, gli occhi grigio verdi, cioè grigi con lampi verdi.
"Ammazza quanto è carina questa!"
Tirai Gianfranco per una manica.
-Come mai sta da sola? Ha un occhio di vetro? È sordomuta? Le puzza il fiato? Molla flatulenze mentre cammina? Cosa c'è che non va?
-Niente, niente, mi fa il farabutto; è tutto a posto, ma lei è quella Anna Maria di cui si parlava in settimana al Circolo Ufficiali.
E me lo diceva adesso il fetentone?
Ricordavo bene tutta la discussione. Alcuni ufficiali della Calotta, che mi avevano visto in giro con questa e con quella nelle ore serali -il paese era piccolo, gli angoli al buio maledettamente pochi e già occupati, troppe le divise in circolazione- avevano montato su la storia che fosse arrivato da Roma il campione del mondo dei Tomber de femme.
-Vedi se ce la fai con Anna Maria, disse il capocalotta, un tenente anziano prossimo capitano.
-E chi è Anna Maria? Chiesi.
-La più bella ragazza delle provincia di Udine, la più ostinata, un respingente a pistoni; quella che manda tutti in bianco.
Mi ero ben guardato dall'andarmi a cercare sta rogna, e adesso la più bella della Bassa Friulana stava davanti a me.
La sera andammo a ballare e io accesi il motore del mio katerpiller.
Tre ore dopo le accompagnammo a casa e io mi accomiatai ignaro dalla bella.
Appena sola Anna Maria disse alla sua amica del cuore Elle.
-Quando viene quel bellimbusto non mi chiamare, ché non voglio vederlo mai più.
Due giorni dopo cambiò idea e uscì con me, solo per vedere se quel ragazzo dall'aria così per bene era veramente tanto cretino.
Credo che superai brillantemente l'esame, perché 51 anni dopo è ancora insieme a me.
A Trieste non andai più e nemmeno a Udine.

Per me Anna Maria è stato ein Glückfall, un colpo di fortuna.
È la donna più mite, la più affettuosa, la più intelligente, la più generosa, la più tutto che io abbia incontrata.
Soltanto lei poteva sopportarmi ed affrontare insieme a me le onde di un mare, che raramente fu calmo e quasi sempre limaccioso e violento.
Per Anna Maria io sono stato il suo primo figlio, a volte un oggetto misterioso, spesso un qualcosa da amare senza se e ma, senza pensarci su, senza condizioni.
Per mia fortuna.

venerdì 21 gennaio 2011

T - PO 11403 PRIMA FETTA

Anche se c'è qualcuno che trova la mia prosa prolissa, brutta e quasi abominevole, mi permetto di proporre nel mio blog il racconto a mezzo del quale ho fatto conoscenza con Giulia Fabbri, la mia editrice di "Martedì dopo l'autunno".
Lo trovò estremamente interessante, ma preferiva un romanzo ed un romanzo ebbe.
Lo propongo ai miei amici e a tutti coloro che si avvicinano a questo post con animo sereno, ma anche a coloro che vi si avvicinano con livore e inimicizia.

T - PO 11403

1

Il suo accusatore era di nuovo arrivato. Ne aveva riconosciuto il passo pesante appena era entrato nella stanza attraverso la porta blindata. Quello era l'unico dato certo in suo possesso: la porta era di ferro e a chiusura ermetica. Aveva lavorato lunghi anni in un reparto ad alto rischio di una fabbrica di esplosivi, dove tutte le porte erano di quel tipo.
La porta era di ferro quindi, come la sedia su cui lo legavano con cinghie alle caviglie e al torace, come il tavolo su cui lo facevano sbattere tutte le volte con le cosce o con le anche. Sedia e tavolo erano fissati al pavimento, se ne era accorto subito, la prima volta che li aveva urtati.
L'uomo, insaccato in una tuta di tela arancione, sedeva rigido con le mani dietro la schiena legate da una catena. Una doppia benda di tela gommata gli era stata passata sugli occhi da quando lo avevano catturato.
Irrigidì per un attimo i muscoli del collo e inspirò col naso lentamente, a fondo. Un odore nuovo, diverso dal solito, gli era penetrato nelle narici: il suo accusatore non era solo questa volta, si era fatto accompagnare da una donna.
-T-PO 11403, proruppe la bassa voce dell'accusatore, dove eri la sera del 2 febbraio 2004?
La stessa domanda di tutti gli inizi di interrogatorio; la stessa da settimane, o da mesi, o da anni.
-Sappiamo che tu guidavi la Mercedes quella sera, ammettilo una buona volta. Dicci chi era la terza persona nella macchina.
"Inspira a fondo, si disse, espira lentamente. Non girare la testa. Adesso deglutisci con calma. Non dargli modo di pensare che hai sete, che hai paura."
-T-PO 11403, la voce femminile era metallica, incisiva; la donna che era insieme a voi due ha ceduto e collabora, ma non conosceva il terzo uomo. Il nome devi dircelo tu.
Sentì che aveva bisogno di orinare.
"Orina con calma sul posto, si disse. Non ti devi curare di quello che penseranno."
Era stato allenato a pisciarsi seduto nei pantaloni, ma adesso era tutto diventato difficile.
"Devo concentrarmi solamente sulla mia vescica e sul mio pene, pensò; devo riuscire a spremere fuori l'orina senza troppa fatica."
Agì con studiata energia sui muscoli del ventre e delle natiche. Sentì forti bruciori nel condotto urinario all'interno del pene. Si aiutò respirando più in fretta e avvertì finalmente la pressione dell'urina arrivare a livello del glande, ma quegli ultimi millimetri sembravano invalicabili. Mise in azione tutti i muscoli ventrali e dorsali che gli avevano insegnato a riconoscere e a stimolare spingendo con la massima forza che poteva. Sentì il getto dell'urina prorompere, ma si accorse di avere contemporaneamente defecato con abbondanza.
Un attimo dopo udì la donna balzare in piedi.
-Il bastardo ci ha risposto a modo suo, gridò infuriata.
-Ti pentirai di averlo fatto, figlio di puttana, disse l'accusatore con rabbia.
L'uomo in catene sentì di nuovo l'aria compressa defluire spinta dai pistoni e lo scatto dei congegni di chiusura, poi soltanto il suo respiro un po' affannoso.
"Non devi aprire bocca per parlare nemmeno quando sei sicuro di essere solo", pensò.
"Conta da uno a mille, lentamente, sillabando ogni numero; poi da mille torna indietro fino a uno. Dunque: u-no...du-e...tre...quat-tro..."
Al numero quat-tro-cen-to-ses-san-ta-se-i la serratura scattò.
*
Lo trascinavano di peso, reggendolo sotto le ascelle, lungo un corridoio. I passi dei due trasportatori rimbombavano come sotto il soffitto basso di una galleria.
Lo scatto di una serratura. I due trasportatori lo fecero inginocchiare e lo spinsero verso il basso in modo che sedesse sui propri talloni. Collegarono la catena che aveva intorno alla vita a un'altra catena, fissata a terra. Ci fu lo scatto di un lucchetto.
Una terza persona era entrata nel frattempo. Doveva trasportare qualcosa di pesante e di metallico. Il cuore del prigioniero batteva violentemente. Qualcuno alle sue spalle gli appoggiò un avambraccio sulla schiena spingendolo in avanti mentre con una mano lo afferrava all'altezza della fronte tirandogli indietro la testa con violenza.
Un altro gli strinse con due dita fortissime il naso, serrandogli le narici in una morsa. Non mollava la presa e per respirare il prigioniero fu costretto a spalancare la bocca. Un attimo dopo sentì qualcosa di duro e sgradevole penetrargli a fondo nel cavo orale tra lingua e palato, una specie di grosso tappo di sughero, che venne immediatamente bloccato da un nastro di tela gommata tirato stretto dalla bocca alla nuca, e passato tutto intorno più di una volta in modo che mandibola e collo diventassero un unico pezzo. Il tappo doveva essere forato al centro perché ci stavano infilando dentro un tubo o un imbuto. Sentì il rumore di un motorino elettrico che si avviava.
Gli arrivò improvviso un getto gelido in gola.
Tossì, singhiozzò, si ingobbì, ricacciò in gola il catarro espettorato, e alla fine ingozzò fino all'ultima goccia l'orrido liquame.
I suoi tormentatori si allontanarono lasciandogli in bocca l'intera apparecchiatura. Adesso gli rimaneva solo da attendere gli spasimi della morte.
I primi dolori lo afferrarono allo stomaco: un pugno violentissimo all'altezza del piloro.
Il morso di un cane feroce gli dilaniò l'intestino. Sentì che le budella gli si gonfiavano come vesciche.
"Adesso scoppio", pensò.
Un grosso peso prese a correre su e giù dentro i suoi intestini: una grossa biglia infuocata rimbalzava sulle martoriate pareti intestinali andando verso l'uscita, per poi tornare con violenza indietro.
Emise un lungo gemito gutturale quando la biglia varcò i limiti dell'orifizio anale.
Rimbombò come un tuono: un'enorme scarica di diarrea. Il prigioniero avvertì il calore del proprio liquido organico salirgli fino alle ascelle.
Urlò senza ritegno, e svenne.

lunedì 17 gennaio 2011

LA MIA ANIMA, SE C' É

La mia anima, se c'è, si nasconde bene:
sotto le macerie delle mie giornate,
sotto gli strati di cenere
della tristezza delle mie notti insonni,
sotto gli ideali che ho abbandonato,
sotto i dolori che ho voluto
dimenticare,
per non venirne divorato.

La mia anima, se c'è, rischio
di non trovarla più
perché non può essere quella
che ho immaginato,
perché non può starsene là
dove ho creduto.

Per andare a vedere questo bluff
bisogna lasciare che la vita mi uccida,
in un modo o nell'altro,
perché, se la mia anima c'è,
io possa tirarla fuori dal fango
dove l'ho impastata
e infilarmici dentro
da adesso all'infinito.

Scritta dopo la mezzanotte del 16 gennaio 2011
in Maximiliansau.

Sono molto confuso e perplesso perché il dubbio sull'esistenza dell'anima -vecchio quanto il mondo- e il mio dubbio personale, vecchio quanto me, che ho trascurato per molti, tanti, troppi anni, ritorna adesso a rompere le scatole.
C'è l'anima, non c'è?
E se ce ne fosse più d'una? Magari che cambia la pelle come un serpente?
Un mazzetto di anime, da cui di volta in volta scivola fuori un jolly, un asso, una scartina?
Ma è così importante questo quesito?
È un problema oppure non lo è?
Tutte queste domande non danno chiaramente il senso -e quindi una risposta- del disagio che c'è dentro ognuno di noi, che lo si ammetta o no.
Se riuscissi a dire con convinzione, ma chi se ne frega, avrei risolto il problema e potrei vivere tranquillo.
Ma non ci riesco, e vivo male.

venerdì 14 gennaio 2011

IL CUGINO ADOTTIVO DI K.M. ULTIMA PUNTATA

13.


John Cally Filiput non provò mai più ad avere una relazione lunga con una donna: non aveva mai avuto tanta fortuna, lo avevano lasciato tutte, chi in un modo chi in un altro, e lui alla fine aveva sempre dovuto soffrire anche se teneva duro e non lo lasciava vedere.
Iniziò una vita da monaco, tutta casa e bottega, contando i passi come si dice, senza fare mai una mossa superflua. Si sentiva appagato, si sentiva al sicuro, non si faceva venire tentazioni. E che la gente pensasse quello che gli pareva, tanto lui non aveva mai dato troppa importanza a quello che gli altri pensavano.
Così trascorsero tre lustri: Gli capitò qualche volta di passare davanti alle vetrine della "Modernissima Libreria d'arte FDR". Dopo un po' di tempo aveva visto un elegante signore a fianco di Silvia, uno che parlava quasi quanto lei, un pesce che nuotava bene in quell'acqua; ma John Cally non provò alcuna invidia. Se lo era cercato giusto giusto per lei ed era stata fortunata a trovarselo; a lui bastava la sua officina e l'appartamentino spartanamente arredato per uomini assolutamente soli, che soli intendono restare.
Silvia diventava più vecchia ogni volta che la vedeva; si era anche parecchio ingobbita, naturale lunga come era, e adesso non calzava più scarpe con tacchi a spillo. Le faranno male le gambe, pensò John Cally; succede alle donne che hanno camminato una vita sopra quei trampoli.
Una domenica che era andato in Duomo per ascoltare la messa solenne cantata nell'uscire se l'era trovata davanti. Era sola e lui le aveva fatto un cenno di saluto con la testa. Ci avrebbe scambiato anche due parole di circostanza, se lei non fosse rimasta impalata al suolo con gli occhi spalancati su di lui come se vedesse uno spettro; allora era scivolato via, scantonando per Piazza Diaz più velocemente che poteva. Cosa diavolo le era preso dopo tanti anni? Non poteva essere senso di colpa per averlo cacciato via da casa sua senza un motivo. Ma poi quale senso di colpa? Se si era stancata di lui aveva il diritto di farlo andar via. Forse però si vergognava ancora adesso per non averlo almeno avvertito prima, scaricandolo in quel modo. Ma un dubbio lo rodeva.
Rientrato a casa si tolse il soprabito, lo ripose dentro l'armadio e quando richiuse l'anta gli tornò riflessa nello specchio centrale la sua immagine. Andò alla finestra e la spalancò. Tornò a guardarsi nello specchio in piena luce. Si avvicinò e controllò i particolari del suo volto.
Per lui che si radeva due volte alla settimana era normale che quella sua faccia così apparisse, ma a Silvia che non lo vedeva da quasi quindici anni doveva essere venuto un colpo: John non era cambiato in niente dai tempi del loro sodalizio; non aveva capelli bianchi, non aveva rughe né borse sotto gli occhi né sotto il mento; non c'era un filo di grasso da buttare sul suo corpo, indossava al lavoro la stessa tuta di allora e la taglia dei pantaloni e delle giacche era la stessa. Insomma era rimasto giovane.
Silvia non sapeva niente di Kurt Marx e del mistero delle sue apparizioni, doveva averlo considerato un fenomeno della natura, una specie di mostruosità. Chissà come ci sarebbe rimasta male se avessero continuato a vivere insieme; pensa come se la sarebbe presa nel vedersi inflaccidire giorno dopo giorno, mentre lui rimaneva sempre lo stesso bel giovanotto fresco e liscio di pelle sul torace e sulle cosce, con un bel sederino sodo e senza la trippa di quelli della sua età.
Già, a proposito, qual'era la sua età? Giovanni Filippi era nato a Roma nel 1910, dicevano le sue carte, e quindi aveva sessanta anni; ma John Cally Filiput era nato in Virginia nel 1892, quindi aveva settantotto anni suonati, mentre lo specchio gli rifletteva l'immagine di un uomo ben tenuto e in salute di non più di trenta anni.
-Oppure di venticinque, osservò a voce alta.
Perché sempre quel numero? Perché ogni volta che voleva darsi un'età corrispondente alla sua apparenza gli veniva quella strana idea? Non lo sapeva, ma pensava sempre di doversi dare venticinque anni, e questo era un fatto. A forza di venirgli in mente quel numero e di farci su le sue riflessioni s'era convinto che un nesso ci dovesse essere tra il numero venticinque e la sua età apparente: lui aveva venticinque anni nel 1917, il giorno e il mese del massacro di Ypres, il 6 di novembre, e lì era rimasto con la memoria, al momento del primo salvataggio di Kurt Marx. Era quindi una sua fissazione, era lui che si voleva vedere così come allora, perché bastava che si sforzasse un po' con la memoria per rivedersi con indosso l'uniforme del 122° fanteria: aveva più o meno quella corporatura e quella faccia, ancor più somigliante adesso che così di rado e malamente si faceva la barba.
Dopo quella domenica mattina evitò di passare in Piazza Missori davanti alla Libreria per non incontrare più Silvia, ma la faccia esterrefatta della donna che lo guardava sotto la navata del Duomo non gli si cancellò più dalla mente.
Passati ancora otto anni iniziò un velocissimo declino. Silvia era morta da pochi giorni, "dopo rapida e inesorabile malattia" come diceva l'annuncio mortuario sul Corriere della Sera. Era andato al suo funerale rimanendo sempre in ombra in fondo alla chiesa. Tornato a casa si era sentito male, la prima volta dopo tanto tempo. Gli era mancato il respiro nel fare la rampa di scale che lo portava dall'officina al suo appartamento. Si era disteso sul letto, ma il malore non passava, così era rimasto immobile per il resto della giornata. La mattina dopo si era guardato allo specchio e aveva capito: rughe profonde che il giorno prima non c'erano solcavano il suo viso e gli avvizzivano il collo e le mani, e poi aveva un senso di oppressione al torace, dentro il quale il cuore batteva come un martello, e le gambe se le sentiva molli e debolissime.
Dopo un paio di giorni in quello stato si recò da un medico. Ormai non riusciva quasi più a fare le sue cose quotidiane, ed era dovuto rimanere seduto su una sedia in officina col fiato corto.
Il dottore gli aveva detto che a sessantotto anni potevano capitare crisi improvvise come quella, e gli aveva prescritto alcuni farmaci, consigliandogli inoltre di farsi ricoverare in una clinica per fare tutti gli esami e gli accertamenti. John Cally Filiput gli rispose che ci avrebbe pensato, e se ne tornò a casa sua senza nemmeno passare dalla farmacia.
Passo dopo passo sentiva che il peso della sua effettiva vecchiaia gli si stava rovesciando addosso tutto in una volta. Un peso intollerabile per uno che non aveva avuto il tempo di abituarvisi come tutte le persone normali. Ma da ogni male nasce un bene. Qualcuno aveva dette quelle parole, o lui le aveva lette da qualche parte; comunque dovevano essere vere perché John Cally Filiput sapeva che stava per rincontrare Kurt Marx. Proprio per questo non aveva comperato le medicine che il giovane medico gli aveva prescritte e non sarebbe mai entrato in una clinica. Era sotto la personale protezione di Kurt, e sapeva che stava per arrivare.
Pensava di dover aspettare giorni, forse settimane ancora, ma si trattava di ore: quella notte stessa ne avvertì la presenza nella sua stanza. I fortissimi dolori al torace non gli avevano dato requie per tutto il giorno, ma poi sfinito dalla stanchezza si era appisolato. Di colpo si era risvegliato senza capire quanto tempo avesse dormito. Sentiva che Kurt era nella stanza e lo chiamò sottovoce. Lui emerse dal buio di un angolo, visibilissimo senza che alcuna luce lo illuminasse e John riuscì a vederlo benissimo in ogni dettaglio. Vestiva di nuovo la divisa americana del 122° Reggimento di fanteria, e sedeva sulla sua poltrona.
-Non te la sei mai tolta, vero?
Kurt Marx scosse la testa.
-Adesso sei venuto a rimettermi a posto, ma per quanto tempo ancora?
Kurt si alzò in piedi e venne verso di lui, un breve passo.
-Ora non più, rispose: adesso io e te ce ne andremo insieme.
Gli tese la mano e John Cally Filiput gliela prese. Appena le loro mani si sfiorarono John si sentì leggero e giulivo come mai era stato; un soffio di vento gli penetrò le membra e una profonda sensazione di libertà lo invase.
-Non sono più vecchio, Kurt, non sono più malato.
-Te l'ho detto che io ti proteggo, non può succederti nulla di male, John. Da questo momento non ci lasceremo mai più.
John questa volta aveva capito.
-Sono morto Kurt?
Il "tedesco" lo guardò in silenzio; poi spalancò la bocca in un sorriso di gioia lasciandogli rivedere lo spazio vuoto tra gli incisivi superiori.
-Posso dare un'ultima occhiata al mio corpo?
-Guardalo pure, gli rispose Kurt.
John Cally Filiput si girò verso il letto, ma una nebbia aveva riempito la sua stanza, una nebbia fitta e grigia. Provò a diradarla con le mani e cominciò a vedere qualcosa emergere, pian piano. Ma non era una stanza, piuttosto una radura, melma e buche fangose dappertutto, che venivano invase velocemente dalla nebbia, non più grigia ma gialla. Guardò con maggior attenzione e gli sembrò di vedere un profondo camminamento, una trincea scavata e disposta a zig-zag nel terreno. Aveva già visto quel posto, ne era certo. Poi di colpo la nebbia si diradò e scomparve e lui vide i corpi abbandonati nel fango, dentro le buche, nel fondo della trincea.
-Ma è la nostra trincea a Ypres, esclamò John. Perché mi viene adesso davanti agli occhi?
-Guardali bene quei fanti, gli disse Kurt.
-Sono i nostri camerati, li riconosco tutti.
-Anche quei due avvinghiati là in fondo?
Si avvicinarono e John vide chiaramente il corpo di Kurt, ucciso dal gas. Tra le braccia come per proteggerlo stringeva un fante più piccolo di lui, che aveva il viso sprofondato nel fango.
John lo rivoltò.
E rimase a guardarlo a lungo.
-Dunque è allora che sono morto?
-Non si è salvato nessuno quella mattina.
-Ma perché ho vissuto ancora, Kurt? Che senso hanno avuto tutti questi anni? Puoi farmelo capire?
-Ero io quello destinato a vivere ancora per sessantun anni, John, non tu. Ma io ho commesso un delitto atroce: mi sono tolto la vita sparandomi un colpo tra i denti, e come vedi ne porto il segno. Dovevo pagare il mio debito: dovevo assicurare quei sessantun anni a un altro della mia stessa età, e io l'ho fatto. Adesso che ho pagato il mio debito resterò sempre con te, perché i sessantun anni di vita che abbiamo in comune ci legano per sempre.
John Cally aveva soltanto una domanda da fare, e la fece.
-Perché è toccato proprio a me, Kurt?
-Io questo non lo so. Mi sono trovato in una strada di Richmond in un giorno d'estate del 1916 all'improvviso, poche ore dopo il mio funerale a Limburg. In quella strada sotto il sole in quel momento passavi tu. Eri tu quello che io dovevo proteggere. Questo è quello che so.
-Adesso ho capito tutto.
-Bene, disse Kurt; allora se è così ce ne possiamo andare via da questo posto.
-Sempre insieme Kurt?
-Noi due sempre insieme nell'Universo.
-Potrebbe essere un buon titolo per un romanzo di avventure, o per un fil, non trovi?
-Sì, potrebbe, concluse Kurt e si avviò velocemente.
Era quasi giunto alla fine della trincea. John Cally Filiput dovette mettersi a correre per raggiungerlo.

*****

mercoledì 12 gennaio 2011

IL CUGINO ADOTTIVO DI K.M. DODICESIMO

12.


Ordinò le macchine che gli occorrevano e assistette alla loro installazione controllando meticolosamente ogni mossa dei montatori, perché aveva nella sua mente già tutto programmato e perfino contato i passi che giornalmente avrebbe fatto nella sua officina.
Poteva sembrare un controsenso uscire dalla Libreria dove era costretto a fare e dire sempre le stesse cose per andare in una officina a percorrere addirittura gli stessi passi quotidiani, ma non era così: non l'uccideva la monotonia bensì quel continuo parlare di tutto e di niente, dicendo stupidaggini per contraddire quelle altrui, che ormai da troppo tempo era costretto ad ascoltare in Libreria. Quello era il regno di Silvia non il suo, che ci rimanesse lei in mezzo ai suoi fannulloni.
Ebbe inizio così una routine che durò più di sei anni. John Cally e Silvia si salutavano ogni mattina con un casto bacio e si ritrovavano alla sera per passare insieme poche ore un po' più vivaci di quelle di prima, quando entrambi tornavano dalla Libreria. Adesso si incontravano più volentieri, e dopo una giornata in solitudine lui aveva voglia di parlare e lei di ascoltare qualcosa di diverso delle sciocchezze del suo quotidiano tran-tran.
Da un po' di tempo Silvia aveva incominciato a notare, con orrore, sul proprio viso e anche sul proprio corpo i segni del tempo che trascorreva, quelle piccole rughe e smagliature che quando arrivano squassano la vita di ogni donna.
-Ma no, che dici! Aveva risposto John quando lei gliele aveva fatte notare. Stai bene anche così, che era stato, come dire, la conferma delle paure di Silvia.
Gli uomini si adattano, si sa, e forse sono felici che le loro belle donne diventino un po' meno belle, così gli altri non le guardano più troppo. Perché però Giovanni Filippi rimaneva sempre lo stesso? Non una ruga, non un capello bianco, non un grammo di grasso in più sulla pancia né mai un problema di erezione, come certi mariti delle sue amiche che stavano lì poi a discuterne per ore e ore, consigliandosi preziosi unguenti, medicamenti miracolosi e le cliniche più adatte e riservate. John Cally era perfetto in tutto malgrado avesse ormai più di quarantacinque anni. Ne dimostrava però quindici di meno e questo faceva sentir Silvia ancora più vecchia.
Senza che se ne accorgesse nacque dentro di lei una specie di rancore che quasi sfociò in odio il giorno in cui una sua amica d'infanzia, che non vedeva da anni perché emigrata in Argentina, la venne a trovare.
-Ti voglio far conoscere il mio compagno, le disse.
Telefonò all'officina e lo pregò di fare uno strappo alla regola. John Cally lo fece a malincuore e si presentò vestito come stava nella sua bottega, con indosso una tuta grigia un pochino troppo corta. Sembrava un ragazzo apprendista. La barba mal rasata dava un tono aspro da macho alla sua aria strafottente. Salutò la zitella che trovò in Libreria vestita e profumata come una zitella, senza spremere fuori la miseria di un complimento o di una osservazione gentile; nemmeno sedette, scambiò quattro parole e se ne tornò al suo lavoro più in fretta che poté.
-È un uomo un po' brusco di natura, cercò di scusarlo Silvia; non parla mai molto.
-Uno così non deve parlare tanto, ammiccò la sua amica. Te lo sei scelto bello giovane, però.
Quella affermazione in libertà della sua amica rimase attaccata sulla pelle di Silvia come un marchio. Dunque era quello che la gente pensava? I commenti e i sorrisini dei clienti all'apparire di John Cally le si presentavano adesso in una diversa dimensione, e lei non ci faceva di certo la figura che avrebbe desiderato.
-Perché non te lo sposi?
Quante volte glielo avevano chiesto, non ricordava più; e lei sempre a dare risposte evasive, stiamo bene così, non siamo fatti per il matrimonio, oppure addirittura, siamo ancora troppo giovani. Chissà quanto avevano riso alle sue spalle. Ma il guaio era che più il tempo passava più lei si vedeva diventare vecchia, mentre lui sembrava ringiovanire. Pensò che doveva disfarsi di lui per tornare a essere una donna nel pieno delle sue energie, così si sentiva una vecchia debole e insicura. Una cura drastica, un taglio netto e via, decise.
Si recò da un notaio per informarsi su come avrebbe dovuto gestire la situazione. Per fortuna la quota iniziale del signor Giovanni Filippi era soltanto del dieci percento; bastavano pochi milioni di lire per liquidarlo. Ancora un paio di milioni per riscattare il diritto del titolo: doveva rimanerci la sigla FDR, perché ormai con quel nome era conosciuta la Libreria. Pensò di aggiungere qualche milioncino e fare cifra tonda nel caso lui avesse sollevato qualche obiezione. Preparò una cena appetitosa e lo attese.
-Ho saputo che c'è un appartamento libero vicino alla tua officina.
-Al secondo piano, si è liberato la settimana scorsa. Perché, ti interessa?
-A me no; può interessare a te, però.
-Vuoi che resti là anche a dormire?
-Voglio che te ne vada, Gianni, disse lei dopo un attimo e aspettò la sfuriata.
Ma non successe niente. John Cally continuò a mangiare la sua bistecca in silenzio; lei continuò a macerarsi l'anima in attesa di un insulto, di una bestemmia, di una domanda, di uno schiaffo, di uno sputo in viso, di qualsiasi cosa. Ma non successe niente.
-Vuoi che me ne vada stasera? Chiese John dopo aver inghiottito l'ultimo boccone. E lei che non sapeva più cosa fare e dire incominciò a piangere.
-Non fare così, la rincuorò lui; ci metto poco a fare le valige.
-Gianni, riuscì a dire lei tra le lacrime, voglio che tu sappia che non c'è nessun altro. E giù un torrente di lacrime e di singhiozzi.
John Cally Filiput batté ogni record precedente nel fare le due valige. In meno di mezzora era davanti alla porta d'ingresso, con lei appoggiata a uno stipite della porta della sala da pranzo come una attrice tragica.
-Ti verranno fuori tutte le tue rughe se continui a piangere in quel modo, disse John e la fece precipitare nella disperazione.
-Piantala, Silvia, fammi il piacere.
Raccolse le valige e le volse le spalle senza più fiatare. Lasciò le valige nell'officina e se ne andò a passare la notte in un alberghetto poco costoso.

lunedì 10 gennaio 2011

IL CUGINO ADOTTIVO DI K.M. UNDICESIMO

11

La guerra durò ancora tre anni, per la maggior parte dei quali John Cally Filiput, cioè Giovanni Filippi, passò da un ospedale all'altro: una conseguenza di quattro mesi di marcia estenuante a venti gradi sotto zero. Gli si erano bucati i polmoni, gli disse un medico militare nell'ospedale di Brindisi. Dopo sei mesi di cure lo spedirono nel Gargano a riempirsi i polmoni di aria di mare. Pensavano così di guarirgli la tubercolosi. Alloggiava e mangiava in casa di poveri pescatori che avevano un figlio imbarcato in un sottomarino. La madre piangeva ogni giorno, poveraccia, e trattava quel giovanotto come se fosse il figlio marinaio. John Cally Filiput non arrivò mai a sapere se il sommergibilista fosse un giorno ritornato a casa.
Al momento dello sfascio dello Stato italiano, dopo l'otto settembre 1943, non si trovava più un soldato, un poliziotto o un carabiniere in giro. John Cally si aggregò a un gruppo di reduci dalla Russia come lui, malati e malridotti come lui, che decisero di rimanere al Sud perché al Nord avrebbero trovato i tedeschi. Volevano aspettare l'arrivo degli Alleati nascondendosi come potevano.
Ad arrivare per primi furono alcuni reparti di soldati indiani dell'Ottava Armata, che li presero tutti prigionieri; John però per via della perfetta conoscenza della lingua inglese fu subito assegnato come interprete al Comando della Terza divisione corazzata. Finalmente fu curato con medicine e non con aria pura, e finalmente fu abbondantemente rifocillato. Riuscì perfino a ingrassare, visto che stava tutto il santo giorno seduto e che per spostarsi in quell'esercito venivano usate automobili o motociclette e che quasi nessuno andava a piedi.
Si fece tutta la Campagna d'Italia con indosso una tuta mimetica grigio blu fino alla Liberazione. Allora gli procurarono una divisa di capitano di artiglieria del Regio esercito, un paio di stivali ben lucidati e un berretto troppo largo per la sua testa, ma di meglio non c'era.
Così conciato partecipò da interprete alla riunione dei comandanti degli eserciti alleati liberatori con i capi politici e militari dei partigiani e i rappresentanti ufficiali del CLN, il Comitato di liberazione nazionale. In quella occasione conobbe Silvia, figlia di un generale italiano in congedo, partigiana e membro dell'Azione Cattolica, assai devota ma con una lingua pepatissima. John moderò molto la traduzione di quel che la ragazza diceva agli anglo-americani altrimenti ci sarebbe magari scappato un incidente diplomatico.
Rincontrò Silvia un anno dopo a Milano. Quattro chiacchiere, poi la ragazza lo invitò a casa sua per una spaghettata. Moriva dalla fame, disse. Viveva da sola; il vecchio generale aveva un'amante francese che se lo era portato a Marsiglia, dove poteva respirare a pieni polmoni l'aria del mare ligure, lui che era nato a Savona. Silvia aveva un ottimo Scotch whisky, e dopo un paio di sorsate trovò il coraggio di portarsi a letto quel maschio strano che le era subito piaciuto tanto.
Per John Cally Filiput fu un doppio affare: trovò una casa ampia e centrale senza doverla cercare e fu introdotto senza dover pagare dazio nel ricco mondo della Milano bene, che votava compatta per il nuovo partito dominante, la Democrazia Cristiana. Mondo fatto di grossi favori "dare e avere", di raccomandazioni anche queste "andata e ritorno"; insomma tutto un "do ut des" in cui lui senza Silvia si sarebbe immediatamente smarrito. Le disse che voleva ricominciare la sua vecchia attività di restauratore e rilegatore di libri antichi, ma lei gli consigliò una Libreria specializzata in libri d'arte e testi rari, meglio se smoderatamente costosi, perché certa gente comprava la cultura a peso. La Libreria doveva diventare un luogo d'incontro per gente altolocata, e lei l'avrebbe diretta. Trovarono dei locali molto ampi in Piazza Missori, cuore di Milano, a due passi da Via Broletto dove abitavano, e passarono tre mesi a programmare la serata del vernissage, che doveva essere un evento di cui avrebbero parlato i giornali e la Radio.
E fu un evento con più di settecento invitati ufficiali e un migliaio che telefonavano in continuazione, perché proprio non avrebbero voluto mancare. Ma l'accorta regia di Silvia De Rossi riuscì a far combinare tutto al meglio. Il risultato fu che nei dodici saloni per un totale di oltre ottocento metri quadrati della "Modernissima Libreria d'arte FDR" la gente non riusciva nemmeno a muovere un braccio, e chi aveva un bicchiere pieno poteva ringraziare Dio, mentre chi non riusciva ad agguantarlo al volo veniva trascinato lontano dal buffet come un fuscello sopra onde agitate, e si sa che chiacchierare due ore a gola asciutta fa seccare la lingua.
Il giorno dopo metà di quella gente aveva la raucedine, tuttavia se ne rimaneva per delle ore beatamente attaccata al telefono a raccontare con voce bassa e roca quel che la sera precedente aveva visto e sentito.
La "Modernissima" divenne in breve tempo l'incrocio della vita culturale della borghesia cittadina, dove gli intellettuali si incontravano quasi casualmente all'inizio, ma poi finirono per darsi appuntamento ogni sera nei locali di Piazza Missori. "Ci vediamo in Libreria" arrivò per questa gente ad avere lo stesso valore dell'antichissimo "ci vediamo in Galleria" dei vecchi milanesi. In seguito cominciarono a darsi appuntamento alla "Modernissima" anche coloro che appartenevano agli ambienti politici locali, e insieme a loro naturalmente tutti i ciarlatani, gli imbroglioni e i perditempo, ma sempre gente di razza dall'eloquio ricercato, che comprava i vestiti a Londra e gli orologi a Ginevra, e che si portava sempre dietro le giovani amanti impellicciate e vestite da Dior.
Silvia viveva la sua giornata in quell'ambiente come una regina nel suo palazzo reale. Era chiaramente nata per stare in mezzo a tutta quella brava gente e si muoveva come se galleggiasse in un acquario, in primo piano davanti al pubblico assiepato dietro il vetro più grande. Vestiva quasi sempre di seta nera, perché era bionda e altissima, pertanto il nero le donava e l'allungava ancora di più, in modo che si aveva l'impressione che lei fosse di una testa al di sopra di tutti gli altri. Naturalmente portava anche tacchi a spillo che le snellivano le gambe ancor più di quanto non fossero. Una gran bella figura faceva, non c'era niente da dire, ma questa sua presenza dominante dava a John Cally Filiput ogni giorno più fastidio.
Così, mentre aumentava a dismisura il giro di affari e si propagava l'eco dell'importanza della loro libreria nel ristretto e bigotto mondo culturale nazionale, fino a farla diventare un punto di riferimento perfino negli ambienti governativi della capitale, di pari passo aumentava il dispetto di John Cally, che arrivò pian piano a disprezzarsi per quel suo ruolo di gregario di lusso che Silvia gli aveva ritagliato.
Lì per lì lei non fece troppo caso alle sue continue brevi assenze, finché non cominciarono a diventare lunghe di ore. L'istinto le fece annusare una presenza femminile. La prima scenata di gelosia arrivò una sera, appena chiuso il portoncino posteriore da dove uscivano di solito.
Occorse mezzora quella sera per fare i due passi che li separavano da casa perché lei ogni dieci metri rimaneva piantata al suolo costringendo John a fermarsi e ad ascoltare tutti i suoi improperi, e che sentissero anche gli estranei sembrava che a Silvia infuriata non importasse più niente. John Cally ne fu sbalordito, perché non aveva mai gettato l'occhio su nessuna delle tante Veneri che si accompagnavano ai loro preziosi clienti. Ciò che immaginava Silvia non gli era mai passato per la testa, lui non era mai stato un farfallone. Respinse pertanto sdegnosamente le insinuazioni della donna, si chiuse a riccio di fronte al prorompere delle sue ingiurie e se ne andò a letto saltando la cena come mai aveva fatto prima. Per Silvia un chiaro segno di disagio, cioè a dire di coscienza sporca.
L'indomani mattina ingaggiò per telefono il più famoso detective privato milanese, della cui pubblicità erano pieni tutti i giornali. Quando un mese dopo ebbe in mano la relazione del detective, pagata a carissimo prezzo, seppe che il signor Giovanni Filippi se ne andava quotidianamente a passeggio per il Parco e per le vie del Centro; visitava chiese; entrava in cinema di prima come di terza visione, uscendone a metà spettacolo, e tutto questo sempre da solo.
Silvia capì che il suo uomo si annoiava a morte a starsene chiuso nella Libreria e che forse aveva bisogno di tornare al suo vecchio lavoro di rilegatore. John Cally vinse il primo impulso di rifiutare e di mandare Silvia all'inferno e si mise a cercare un posto adatto; lo trovò non molto distante dalla "Modernissima", in un cortile di un grosso palazzo in Corso Italia.