sabato 28 maggio 2016

UNA GIORNATA DA DIMENTICARE IN FRETTA

Giovedì 26 maggio, festa del Corpus Domini, vacanza nei Länder cattolici -Bayern, Bad Würtemberg e Rheiland Pfalz, dove risiedo io- e quindi in pratica ponte fino a lunedì per chi ancora fatica per arrivare alla pensione. Federico ulula e lancia anatemi perché lui al Call Center della sua Compagnia Assicurativa ci va per il festivo e anche domenica. Mica dice che gli entreranno in tasca settecento euro in più per queste due giornate. Va là che sei un bel dritto. Insomma si prevede Karlsruhe deserta, a disposizione dei vecchietti sbavazzanti et claudicanti. Io non claudico, non sbavazzo non mi ci mischio col vecchiume locale ma decidiamo io e la mia lei di andare a fare un'escursione nella Schwarzwald, la Foresta nera, che poi invece è verde scuro, tempo permettendo. Le previsioni sono: poco nuvoloso, niente vento, niente pioggia e tanto sole. 
Apriamo gli occhi al mattino radioso...e invece piove, piove a dirotto fino a mezzogiorno, anche più ché oramai la gita è sfumata ed è inutile incazzarci, che poi mi incazzo solamente io, mentre lei non dice niente e si piazza sul divano col suo tablet.
Verso le due e mezza esplode il sole, finalmente, quello che scotta, ma è ora che scotti vivaddio, visto che finora aprile e maggio non ha fatto altro che piovere con un alternarsi di temperature estive ed invernali che fa schifo.
Nella Schwarzwald non si può più andare, troppo lontana e poi c'è un nero da quella parte che non mi piace proprio. Vabbè, rimaniamo qui, ma andiamo a farci una passeggiata sulla sponda Badenser del Vater Rhein, al di là del ponte. Così appena passate le tre pomeridiane metto le chiappe sulla macchina e si fanno sti tre o quattro chilometri fino al parcheggio sulla sponda sud del fiume. C'è pochissima gente, grazie a Dio. A me il troppo popolo, i mocciosi ruzzanti e i cani scacazzanti nell'erba fresca mi fanno venire pensieri da serial killer.
Ci sediamo nella solita panchina, vista ponte lato direzione Mannheim, Wiesbaden, Köln, Hamburg. Oggi è festivo e non potremo fare la nostra solita conta dei TIR, in media trecento ogni ora in una direzione, poi calcoliamo altri trecento in direzione opposta e fanno seicento. Occorre poco per calcolare in dodicimila al giorno, tenuto conto delle quattro ore di sosta obbligatorie, il numero dei TIR che circolano tutti i santi giorni e pensare che verosimilmente sto ponte del cacchio sta al limite massimo già adesso e forse succederà come quello di Wiesbaden che è stato rifatto di gran carriera perché scricchiolava di brutto. Non c'è la mafia nostrana a comandare, ma anche qui ci sono i cretini, perché sembra che con la pioggia crescano più velocemente e rigogliosi. 
Ce ne stiamo quindi al sole, io e AnnaMaria, come le lucertole e il tempo passa ma nessuno di noi ha voglia di svellere le chiappe dalla comoda panchina. Magari mi sta venendo un po' di appetito, ma oggi è festa e toccherebbe a me cucinare, per cui restiamocene qui più a lungo che si può.
Verso le diciassette sento un rumore come di un elicottero. Penso ad una esercitazione della Feuerwehr, i pompieri. Spegnimento incendi boschivi, la chiamano. L'elicottero tiene appeso un gigantesco contenitore, che tuffa nel fiume: il contenitore si riempie d'acqua e poi l'elicottero si rialza e va a scaricare l'acqua in un'altra parte del fiume fingendo sia quella la zona dell'incendio. Bello a vedersi col naso all'insù quando sai che non sta succedendo proprio niente. 
Questo però è un rumore diversissimo: non sono pale che ruotano, piuttosto un motore che gira al minimo e poi si impenna, starnutisce e si ingolfa, insomma boccheggia, a mio modesto parere. Sta arrivando da dietro le nostre spalle, ed è decisamente molto basso. Quando appare riconosco un Cessna. Ci passa sopra la testa e mi chiedo dove voglia andare.
"Ma non ti sembra troppo basso?", mi chiede AnnaMaria.
Di colpo cabra e vira verso il ponte.
"Ci va a sbattere", grida AnnaMaria "Ma chi è il solito suicida?"
"No, è in gravi difficoltà, ma il ponte lo sorvola, stai tranquilla", ma non ne sono tanto sicuro.
Ce la fa, ma poi si riabbassa di nuovo e davanti a lui adesso c'è Maximiliansau. Poi una distesa di campi quasi senza alberi. Penso che stia puntando in quella direzione, ma è maledettamente basso e il motore è agonizzante.
Non credo che passi più di un minuto, poi si sente un rumore sordo, come quando un camion alza il cassone e scarica un contenuto di cocci e di bottiglie sulla strada, un rumore che mette i brividi. Un attimo dopo oltre gli alberi si alza un pennacchio di fumo: il Cessna è arrivato. Siamo già balzati in piedi non so da quanto tempo. Il pavido uccellino che ho accanto mi si aggrappa ad un braccio, ma non pigola, non piange, solo è terrea in volto, esangue. Penso alla mia faccia come la possa vedere lei e le stringo la mano. Altro non posso fare.
Sirene da ogni parte. Sul ponte già arrivano da Knillingen, quartiere di Karlsruhe più vicino al fiume, le prime autobotti. A Maximiliansau, proprio vicino casa nostra, c'è la centrale dei Pompieri volontari, la Freiwillige Feuerwehr, altri ne arriveranno da Wörth. Per ora è tutta una sirena. Strano, non mi ero accorto che stavamo correndo verso la nostra macchina, eppure di questi tempi non è che io corra quasi mai, tantomeno lei, ma là c'è casa nostra e c'è la casa di nostra figlia Stefania. La paura è grossa. 
Imbocco lo stradone che porta al ponte infilandomi dietro un'ambulanza dei pompieri. Tira a mille e io dietro e chi se ne frega della multa se passo il ponte a più di 100 orari. 
La prima uscita è la nostra, sempre dietro il Rettungswagen. Quando arrivo alla rotonda all'ingresso del paese vedo subito che dalla parte di mia figlia non si alza fumo. Almeno questa è andata. Ma il Rettungswagen imbocca la strada a destra, quella che porta "anche" a casa nostra. Ho le budella rattrappite e sento lei che si lamenta, anzi no, sta pregando. Io non so farlo ma mi sto cacando sotto. Uno strano presentimento, strano per me che sono un inguaribile ottimista, ma questa volta ho la schiena ghiacciata. Il fumo è davanti a noi un mezzo chilometro, sulla sinistra esattamente nella direzione di casa nostra. 
Una traversa prima della nostra due macchine della Polizei bloccano la strada. Siamo in tanti, ma loro non si lasciano commuovere. Purtroppo la Römerstrasse, come tutte le altre strade di questo quartiere periferico, è messa a pettine: una serie di strade con una sola entrata e senza uscita, perché qui la gente di notte vuole dormire e di giorno vuole che circolino solamente gli Einwohner, gli abitanti del luogo, perché tutti devono conoscere tutti e non si vogliono vedere facce strane in circolazione. Ci metto un attimo a prendere una decisione: manovro e torno indietro.
"Passo davanti alla nostra vecchia casa", dico a mia moglie. "Lì pianto la macchina e ce la facciamo a piedi".
"Pensi che sia da noi?"
"Non penso niente. Tu prega."
Lascio la macchina in un parcheggio libero, ma ho già visto due poliziotti all'imbocco della strada che ho intenzione di fare. Non mi piace, non mi piace proprio per niente.
Ci bloccano. Vietato passare devono aver detto, o qualcosa del genere. Ma non li sto a sentire. Adesso guardo davanti a me e la vedo benissimo la nostra casa circa duecento metri da dove mi trovo, a due piani, quattro appartamenti, due a nord e due a sud, l'unica color rosa e con la scala centrale non laterale come quelle vicine. Sento il grido strozzato di AnnaMaria. L'ha visto anche lei da dove esce il fumo nero: esce dalla parete nord, per essere esatti dalla finestra in alto della parete, per essere ancora più esatti esce attraverso i rottami del Cessna infilato dentro la finestra. Quello è l'appartamento accanto al nostro, quello di Frau Eberle, quella mezza matta che a cinquantatré anni va sempre in giro in minigonna, che noi chiamiamo La vispa Teresa. Ma è una bravissima persona. Vive con la figlia più piccola, Evi, di ventidue anni. Vive o viveva? Mi rendo conto con raccapriccio che mi è passata per la mente questa orribile idea.
"Noi abitiamo lì dentro", farfuglio al poliziotto, mentre la collega si sta prendendo cura di AnnaMaria. 
"Resta tu- dice al collega- io accompagno la signora".
Mi è venuto il fiatone e non ho fatto che poche decine di metri. Ho il cuore cha va come il motore di una Kawasaki. Ad ogni passo aumenta la puzza di bruciato: lamiere bruciate, legno bruciato, mattoni bruciati, piante bruciate, vestiti bruciati. Anche carne umana bruciata? Un pensiero veloce all'asma di AnnaMaria. Non credo che resisterebbe due ore avvolta da questa puzza acre e caldissima.
Man mano che ci avviciniamo aumenta il guazzo per terra e dappertutto. I pompieri di ogni parte di mondo una volta in azione sono come i bambini quando li lasci da soli in piscina: frullano acqua cantando e ballando. Olialà olialò e giù barili e botti e spacca tu che spacco anch'io, infatti intorno a casa è tutto un cumulo di oggetti o residuati di oggetti che una volta servivano a qualcosa, mentre adesso servono solo ad affilare le ascie dei pompieroni nostrani.
Gli Einwohner, i nostri vicini, ci guardano come fossimo fantasmi. Gott sei Dank che non eravate in casa, mormora una vecchietta. Già, ma la mia casa c'è ancora? E che fine ha fatto Frau Eberle? Finalmente la vedo la nostra vispa Teresa, seduta sul muretto del giardino della casa di fronte semicircondata da vecchie e meno vecchie. Qualcune le accarezza la testa, altre le parlano e le parlano, ma non so se lei stia ascoltando. Sempre in minigonna, ma stavolta dà un'impressione tragica e non comica.
Mi ha visto anche lei. Si alza di colpo e mi butta le braccia al collo, poi fa altrettanto con AnnaMaria. Non si capisce se piangano o ridano. 
"Dov'è Evi?" mi sento che le chiedo.
"Da sua sorella a Berlino, per fortuna. È entrato proprio in camera sua."
"L'ha chiamata? L'ha avvisata. Stasera al Tagesschau danno la notizia di sicuro."
"Come la chiamo? Non ho più niente. Il cellulare era in casa. Adesso sarà distrutto."
"Senta, Frau Eberle...". Non so nemmeno cosa voglio dirle.
"Ascolta, che nome hai? Come ti chiami?"
"Amalia"
Un nome italiano, ma guarda tu che scoperta proprio adesso.
"Puoi usare il mio, o quello di AnnaMaria, ma devi telefonarle che stai bene, altrimenti le viene un colpo a tutte e due."
"Non trovo più Emu. Dove sta Emu? Chi l'ha vista?"
È la sua micia.
"Non dirmi che proprio oggi era in casa. Sta sempre in giro."
"Con tutta questa gente sarà scappata dalla paura, sempre che sia ancora viva"
"Sind Sie Herr Iacoponi?"
Il comandante dei pompieri mi sta davanti a gambe larghe. Un omaccione che mi sovrasta di tutta la testa.
"Ich bin's"
"Salga a controllare con i suoi occhi"
"Voglio venire anche io" mormora AnnaMaria.
"Non se ne parla proprio. Non riusciresti a tirare due respiri uno dietro l'altro"
Saliamo. L'acqua scende lungo gli scalini come un torrente in piena. A metà dell'ultima scala e sul pianerottolo è pieno dei pezzi della porta dell'appartamento di Frau Eberle. La mia porta è spalancata, ma non vedo segni di forzatura, né dei colpi delle asce.
"Come avete fatto ad aprire senza le chiavi?"
Il comandante mi dà un'occhiata che sa di compatimento.
"La porta della vicina è volata via per l'esplosione, non siamo stati noi. La sua l'abbiamo aperta con un passpartout"
Ovvio, un passpartout. Potevo risparmiarmela la figura del troglodita.
Dentro, a parte la puzza orribile e penetrante di fumo e di distruzione. mi sembra tutto in ordine. Sembra che il comandante abbia intuito il mio ragionamento.
"Guardi in alto. C'è una crepa lungo tutta la parete di comunicazione con l'altro appartamento, proprio sotto il soffitto"
L'ho vista adesso, e ho visto i quadri caduti per terra. I vetri sono a pezzi, due su tre.
"L'appartamento è inagibile. Tutta la casa deve essere risanata"
"E quanto durerà?"
"Quello che occorre. Lo stabiliranno gli ingegneri del Bauabteilung del Comune. Voi andrete in albergo. Per le spese pensa a tutto il Comune di Wörth, poi si fanno risarcire dall'Assicurazione dell'aereo."
"Dio che razza di casino! Non so nemmeno quello che posso prendere"
"Prendi quello che vi occorre per questa notte, a te e ad AnnaMaria, Vincens; domani torni con calma"
È comparsa all'improvviso, minuta ma decisiva come sempre, Frau Else S. l'ultima mia conquilina della vecchia casa, Kripobeamtin, un'ufficiale della Polizia criminale di Karlsruhe.
"Si è sparsa in fretta la notizia, come vedo"
"Siamo stati i primi a saperlo, noi della nostra Sezione"
"Che Sezione sei adesso"
"Una molto importante: antiterrorismo"
"Vuoi dire che voi pensate che si tratti di un attentato?"
"Perché no? Non capita tutti i giorni che un aereo ti entri in casa"
"Ma non è scoppiato, e poi qui non c'era niente."
"C'era gente no? Per questi qui tutto diventa un obiettivo. Mai abbassare la guardia. Comunque noi stiamo qui per verificare."
"Ascolta Else, forse è meglio che non dici che nell'altra casa è scoppiata una tubatura dell'acqua, altrimenti qualcuno potrebbe pensare che io porti sfiga"
Si fa una risata.
"Dimentichi che è scoppiata a casa mia, sarei matta a parlarne. Adesso però prendi l'occorrente per questa notte, poi domani con calma e senza tutta questa gente tra i piedi vieni a prenderti quello che ti occorre. Magari un po' al giorno. Qui ce ne sarà per almeno un mese."
"Devo andare a chiedere ad AnnaMaria dove i trova la sua roba. Lei sa tutto, ma io non so quasi niente"
"Come tutti gli uomini, vai vai"
Mentre scendo vedo salire dalla cantina dei pompieri infilati dentro tute di gomma che arrivano fino al petto, come quella dei pescatori di torrente. Butto giù un'occhiata e vedo con orrore che è pieno di acqua sporca fino al quarto gradino della scala che porta nelle cantine: almeno ottanta centimetri di acqua sporca. 
"Che è successo laggiù? C'è acqua?" chiedo ad uno dei pompieri così inguainati.
"Lo vede lei stesso"
"E la roba dentro le cantine?"
Spalanca le braccia.
Oddio. Tutti i cappotti invernali, e le scarpe, e cento e mille altre cose. Chi glielo dice adesso ad AnnaMaria? 
Un pensiero mi lacera il cervello: i miei quadri!
Le tele sono tutte nella soffitta di Federico. Qui tengo due cartoni con dentro tutte le tempere, gli acquarelli e gli acrilici su cartoncino e su carta speciale. Quasi un centinaio di lavori, alcuni vecchi di quaranta anni, di cui non posseggo nemmeno una fotografia. Erano tutti e due poggiati a terra. Non voglio nemmeno pensare a quello che sia successo.
Non dico niente ad AnnaMaria di questa mia ultima scoperta. Mi faccio dire cosa pensa le occorra e poi torno su a procurami quello che mi ha detto. 
È sbucato il primo cittadino di Maximiliansau. Ci fa la predica per dirci che da questo momento le nostre quattro famiglie sono sotto la personale protezione sua e dei suoi collaboratori. Ci sono per noi riservate quattro camere matrimoniali nella Gasthaus "Vater Rhein", l'albergo più lussuoso della zona. Vitto gratis fino a che non rientreremo in possesso dei nostri Wohnungen. Tutte belle, bellissime cose. Organizzazione alla tedesca, quindi dettagliata e perfetta. Non resta che aspettare che ingegneri, maestranze ed operai di una Baustelle comunale ci rimettano a posto le nostre case.
Torniamo a piedi alla nostra macchina tirandoci dietro Amalia Eberle, che si volta da ogni parte cercando la sua micia. All'albergo ci stanno aspettando come se fossimo i profughi da un'alluvione. Ecco la nostra Lampedusa, penso. Non mancano nemmeno i fotografi ed un paio di giornalisti, per ora. Gli altri verranno in massa. Arriverà anche la TV statale, la ARD o la ZDF, se non tutte e due e poi la RTL, che di questi casini vive.
La stanza è bella grande ed il letto morbido come dico io. È già qualcosa. Ci mostrano l'angolo dove hanno organizzato due grandi tavoli avvicinati come per una festa di famiglia. Che idea, però. Ma va bene così, tanto tra vicini siamo sempre andati d'amore e d'accordo.
Con la scusa di andare a prendermi il portatile scappo di nuovo via. Voglio vedere quando avranno prosciugato l'enorme guazzo quello che ne è stato dei miei quadri.
È arrivata un'autobotte enorme, che quasi non entra nel cortile. C'è una pompa in funzione che con due grossi tubi sta aspirando l'acqua delle cantine. Il rumore è assordante, ma sembra che funzioni. In un paio d'ore le cantine sono sgombre d'acqua.
Ritirano i due tubi e mentre l'autobotte si allontana comincio a vedere uscir fuori pompieri con quel che resta del contenuto della cantine: macerie sgocciolanti liquido putrefatto. Ce n'è per tutti i gusti ma io sto aspettando due scatoloni. Escono due giovan pompieri ridendo. Lì per lì non si capisce bene cosa stiano reggendo apparentemente con una certa fatica. Si dirigono verso l'angolo dove hanno ammucchiato la roba inservibile, che non si potrà più recuperare. Buttano quel che stanno reggendo, due contenitori e allora li vedo comparire finalmente i miei quadri, o meglio ciò che ne resta:  una poltiglia putrida e maleodorante.
Quelli sono i miei quadri, i miei lavori migliori, la mia gioventù, la mia vita...
mi accorgo che sto gridando con le lacrime agli occhi...
i miei quadri...
i miei quadri...
i miei quadri...

qualcosa mi soffoca, qualcosa mi batte con forza sul petto, sempre più forte e qualcuno mi sta parlando...mi sta gridando qualcosa...
ma cosa?

"Che hai? Stai male? Ti manca il respiro? E smettila di urlare ché sveglierai tutti"

C'è il viso di AnnaMaria vicino al mio. Mi parla, mi scuote. C'è una luce accesa, è quella dell'abajour sul suo comodino. Siamo a letto, ma non è il lettone della stanza della Gasthaus, è il nostro letto.
"Siamo tornati a casa?" le chiedo.
"Che dici? Tornati? Non ce ne siamo mai andati."
"Dov'è Amalia adesso?"
"E chi sarebbe questa Amalia?"
"Frau Eberle"
"Non si chiama Amalia, si chiama Gerda tanto per dire. È andata in vacanza, non ti ricordi che ci ha dato le chiavi perché dobbiamo occuparci di Emu, farla uscire al mattino e darle da mangiare e da bere?"
"Non è successo niente nel suo appartamento?"
"Ma cosa hai sognato?
Sì, è chiaro che ho sognato. Un incubo altro che un sogno. Ma mi alzo con la scusa di andare al gabinetto. Controllo intanto i miei tre quadri appesi sulla parete interna, sono intatti; nessuna crepa lungo il soffitto, niente puzza di fumo. È stato un brutto sogno.
Me ne torno a letto.
"Mi dici cosa hai sognato?"
"Domattina ti racconto il sogno. Adesso dormiamo"


*****
Se qualcuno dei miei amici lettori è stato preso da un attacco d'ansia vuol dire che sono stato bravino io a creare la giusta atmosfera di suspence. Ha contribuito la mia decisione di starmene un paio di giorni senza scrivere nessun commento, assente insomma, ma dovevo rendere credibile il racconto perché ci fosse la suspence. Mi scuso con tutti ma certe cose o si fanno bene o non si fanno affatto.
Insomma, vi è piaciuto oppure no?
























































martedì 17 maggio 2016

IL TROMBONE USATO

Vicino alla mia casa il domicilio coatto del trombone usato,
tutto lucido; la porta è aperta, nemmeno uno scalino,
ecco il trombone sdraiato in esposizione
sopra una poltrona
rossoviola
a centro sala.

(Ho il feroce bisogno di toccare il trombone
tutto solo, lucido, antico nella grande sala:
una mattina, alzatomi un'ora prima, 
lo farò, lo sento)

Toccare quel trombone, farne uso, può diventare
il senso di una vita, se il trombone è il manifesto
di una vita esistita soltanto nel suono di poche note,
forse di un'unica nota dell'intero spartito. 

Qualcuno un giorno ruppe un vivere di monotona miseria
portando il lucido trombone in una piazza antica,
molto grande, con grandi palme verdi sotto il sole.
In un palco ligneo eretto al centro, una struttura
poggia di segmenti metallici prefabbricati a forma
di piramide mozza. Là, sulla vetta,
la poltrona rossoviola, lo stallo del trombone,
regalmente sola. Sedutovi, sfiorando leggero lo strumento
come un'amante giovane, l'uomo attese che il gesto
ampio del maestro si rivolgesse a lui,
per isolare nei frenetici ritmi lo squillo
angusto ma possente del suo lucido dio.

Non è bello indagare quante e quali le note
liberate nel cielo. Resta una fotografia in bianco e nero
che di tutti fissa solo un momento, ma l'eterno,
nello spazio inalterabile del tempo:
le gote del suonatore gonfie e tese sotto
lo spasimo dei polmoni ardenti,
e il lucido trombone, trafitto dal lampo del flash,
sfolgora nella notte che è già scesa.

Di quella unica foto ricoprono le pareti
della sala-esposizione dieci, cento ingrandimenti:
tutta la sala è piena di quell'attimo,
un enorme blow up di tasti scintillanti,
come di stelle è pieno l'universo.
Da allora sosta la vita ferma del trombone
sulla poltrona rossoviola
eternamente.
Nessuno sa cosa ne è stato del suonatore,
né chi egli veramente fosse:
a me, che ho bisogno di toccare il trombone almeno una volta,
non importa sapere quel che è successo all'uomo
che un giorno lo eternava sulla piazza.



Io, che ho cominciato a vivere raspando
mattoni cariati, vulve d'albero, terre arse,
ho respirato i veleni della notte e del giorno
ruminando pane secco e mele sempre acerbe;
e nelle tasche palline di vetro colorato,
il viso come cariatide di terra
graffiato dalle mie unghie squamate
sulla calce del soffitto;
solo mattonelle scrostate nella nostra vecchia cucina,
la cristalliera nera già da tempo venduta,
odore di minestra con cipolle,
fette di pane vecchio, spalmate di lardo
e abbrustolite sulla cenere ardente;
nessun trombone lucido da usare.

Io, per antica miseria,
(assuefazione, arte dei poveri)
costretto a mimare di nascosto ciò che agli altri
era consueto fare sotto luci e tra specchi brillanti:
mangiare bene e bere vini trasparenti per esempio,
calzando scarpe lucide
e guanti di filo sottile.
Ciò che se ne guadagna è un estremo pudore
nel rivelarsi agli altri,
e poi l'istinto di distillare in segreto
odori e suoni, e gesti non visti,
ma intuiti.
L'olfatto e il senso degli occhi così acuiti
esprimono la condizione dello sforzo fisico:
alzi con una forza da trecento cavalli la bottiglia
adocchiata, invece è
di plastica,
non
pesa
niente;
annusi l'aria con le narici dilatate,
e lento, attraverso il mormorio di cento erbe estranee,
ti penetra ancora l'odore di muschio e di salsedine
della tua prima spiaggia precoce, almeno credi
che sia quella, o lo speri.



La prima spiaggia, precoce o l'ultima, obsoleta, dove
l'aquilone rosso svetta intangibile.

Trovate a stento nella vecchia città le colle e le carte
leggere colorate, domina il rosso;
è costruito frettolosamente, ma è perfetto il volo, antica scuola
nel mio cortile: vincevo ogni gara coi resti
degli altri.
Sulla spiaggia che è solo di noi due,
lasciato libero l'aquilone rosso di conquistarsi
il suo raggio di cielo,
restiamo soli al mondo io e  te,
Elena, bionda e chiara,
subito lontana una vita da me,
abbracciata al mio fianco, leggera foglia.

Non ho certo bisogno di vomitare tutta la terra che ho masticato
per sollecitare dalla mia memoria la più
strafottente e falsa autobiografia.
Resta inchiodata al palo di partenza
la sensazione di essere figlio a una madre
e a un padre morti, fratello ad un fratello
morto anche lui.
A te, Elena, forse nemmeno un ricordo,
donna di sabbia: io resto ormai in equilibrio per te
come la punteggiatura di un discorso dimenticato.



Contemplarsi come un discorso dimenticato,
come un meccanismo superato dal progresso del tempo,
un oggetto antico e polveroso sopra un mobile vecchio.
Conoscersi così sempre più a fondo,
sempre più nudo, ogni giorno più inutile,
e sentirsi morire lentamente da vivo.

"Abdicare da vivi, prima di sentirsi morti."

La predica di un frate matto nella chiesa dei Cappuccini
si è conclusa con un'esortazione alla rinuncia.
Attraverso le parole disperate di un quasi uomo
che al suo dio presunto tutto ha delegato,
i rossori dell'anima turbata, le oscenità
del sesso, le tormentate domande che mai pose,
e adesso sono antiche, esco da quella chiesa intatto
peccatore, inguaribile e convinto
che il mio peccare è la mia unica forza,
e nel peccato più profondo e osceno
sublimo la mia anima.
Non c'è valore a bestemiare dio senza conoscerlo,
dar fuoco alle sue croci, ridurre in cenere
i suoi templi solenni, tutti quanti i suoi altari.
Ma guerre saranno ancora da combattere:
a milioni strappati i fiori dagli occhi degli uomini
morti, a milioni prosciugati i seni di vedove impietrite,
di madri urlanti come cagne nere di notte.
Guerre verranno ancora combattute
per chiudere la bocca a questo dio
e agli altri che gli si alterneranno in eterno sacrilegio.

L'eterno sacrilegio commeso da tutti i grandi
sacerdoti, e pontefici, e predicatori e profeti,
che di millennio in millennio,
adoratori ignobili di violenza e di sangue,
tramandarono in tutte 
le latitudini e per tutti i venti
e per arie e mari e terre un testamento infame.
Il culto del nuovo dio naque ogni volta piantandone
i sigilli sulla terra macerata dal sangue
dei seguaci del vecchio dio.

Come lotta del bene contro il male e trionfo del bene
fu mistificato l'eterno conflitto cui soggiacquero
tutti i migliori, ed i più giovani,
e le menti più belle di ogni generazione.
Ma nessuno dei troppi Vaticani a Roma, a Medina,
a Mosca, New York, Gerusalemme o Berlino osa spiegarci
da quale parte, dalla parte del bene o da quella del male,
sta il vero dio:
ed è così che sarà sempre possibile abbattere
il dio vero che aveva le armi sbagliate, e seguire il dio
falso e bugiardo in possesso delle armi giuste.

Le storie alterne e opposte di ogni antico conflitto,
cantate dai poeti, vengono soppiantate
da storie nuove, sempre più cruente,
di successivi conflitti per eccitare altre generazioni
meno equilibrate e pacifiche, pronte
all'esaltazione e alla violenza,
disposte poi a dimenticare in fretta.

Oggi sappiamo che le nostre vecchie e sante storie
venivano accatastate e appiattite sotto gli intonaci
della memoria della generazione al comando,
per emergere poi da altre storie più complesse
e antiche; oppure, più propriamente, liberate
per loro naturale movimento. S'intende
che così precedevano i tempi, e di nuovo erano pronte
per essere appiattite sotto nuovi mattoni di nuove
generazioni, quella che veniva a trovarsi al comando, ben inteso,
e quelle che seguivano, immediatamente future.
Non vale la pena di chiedersi di quali storie
si stia parlando, tanto un inventario
non verrà mai fatto, né fu fatto nei tempi,
è cosa nota.



A questo punto qualcuno (spesso è necessaria la presenza
di questo qualcuno anomalo, presenza corporea,
ma intangibile), qualcuno, dicevo, inizia il lavoro di scavo
e mette a nudo le tavole delle storie più recenti,
di quelle che crede che siano le più recenti:
ma solo la parte che gli spetta,
che spetta anche a noi come elementi della generazione,
si lascia toccare, svelare o piuttosto non omettere;
l'altra parte è ben nascosta. È certamente la 
percentuale più alta. Più tardi ancora qualcuno,
vedi sopra, è più risoluto e insiste: ritrova
le storie di cui dicevamo, ed è convinzione
generale che quelle siano tutte le storie di tutta
le generazioni. Invece si è lontani anni luce dal principio
della prima storia della prima generazione,
e di tutte quelle seguenti.

E si è continuato così dall'era di Cristo e dall'era
dei cento Cristi che gli fecero strada,
sempre con le storie vecchie e meno vecchie
appiattite oltre la generazione,
dietro la generazione, con la generazione.



Ma torniamo a parlare ancora una volta dell'ultima storia:
torniamo a parlare del trombone usato,
da usarsi con parsimonia,
e di me, che ho bisogno di toccarlo di mattina
e sento che lo farò.
Certamente in tutto questo tempo
terra sbavata si è arrotolata su di me,
dentro di me, coniato in tubo da suoni di tamburi;
me, tromba di me,
edificata cattedrale di me, convento di me,
lago chiuso, acqua morta di me;
chiodo incarnito nel palo di partenza e di arrivo di me.
Tutto questo non è pazzia di me,
né palinodia, né memoria autocritica, no, certo;
solo terra sbavata sopra di me
e forse anche dentro di me.

Direi di nuovo: forse. Mai lasciarsi prendere la mano.
Il trombone è lì in esposizione,
(me in esposizione permanente),
e formare una squadra di tromboni da esposizione
sarebbe possibile se un organizzatore capace volesse
darsi da fare e procurare venti
o venticinque sale chiuse con poltrone
rossoviola, solo rossoviola, mai
interpolare altri colori;


mai coniare un diametro di esecuzione diverso
da quello già trovato sul posto;
e poi giacere finalmente morente a fianco del
trombone, al di fuori però della squadra tromboniesposizione,
perché ciò è più aderente ad un'idea di sigillo
finale, che in ottanta anni di monologhi
dolorosi ho innestato nella terra di me,
scavata da me e per me:

e questa dovrebbe essere una fine degna di me,
ma appunto per questo, continua
forse anche senza di me.


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mercoledì 11 maggio 2016

LE PENSIONI MISTERIOSE DI MATTEO RENZI

Ieri sera sul Quarto canale di Mediaset Del Debbio presentava alcuni suoi ospiti nella sua trasmissione Quinta colonna. Aveva la parola un signore attempato molto ben messo che appena aperta bocca rivelava un livello culturale elevato. Dal suo aspetto e dal suo eloquio mi sono immaginato che fosse stato un dirigente. L'argomento della trasmissione erano le magre pensioni degli italiani. Che c'entra questo signore con le pensioni minime? Ho pensato. 
Il tizio invece ci stava dentro fino al collo. Dopo 47 anni lavorativi e oltre seisentomila euro versati e documentati, questo signore aveva ottenuto dall'INPS una pensione di 496,00 euro mensili, ridotta di cento euro -cioè portata a sole 393,00 euro- dal dicembre dello scorso anno.
A Del Debbio che gli chiedeva perché non avesse fatto ricorso, rispondeva che l'INPS non rispondeva ad alcun sollecito, avendo dichiarato all'inizio della retribuzione pensionistica che il detentore della pensione (al di sotto della minima di sopravvivenza) aveva un fantomatico debito con l'INPS, debito mai chiarito in cifra.  
Del Debbio insisteva e lo invitava a cercarsi un buon avvocato, ma il poveraccio gli riferiva ciò che uno dei migliori avvocati del suo paese gli aveva detto: "Fare causa all'INPS è come abbattere il Colosseo e ricostruirlo".
Quello che mi aveva colpito e scosso era la frase: "L'INPS non risponde mai a nessun sollecito".
In sostanza se vai personalmente nei loro uffici un solerte impiegato ti consiglia di rivolgerti ad un Patronato. Il Patronato scrive e l'INPS non risponde.
Sembra impossibile, eppure una testimonianza c'è ed è quella di Vincenzo Iacoponi.
Circa 17 anni orsono sono andato con tutta la documentazione in mio possesso dal Patronato ACLI perché mi calcolassero l'importo della pensione italiana che mi spettava.
Ho lavorato per oltre undici anni, prima da ufficiale dell'Esercito, poi Capo Filiale di una importantissima ditta di elettrodomestici e apparecchi televisivi, con contratto di dirigente, poi come Agente Commerciale a Venezia e provincia della Chiari e Forti. Robetta, insomma.
I conti portavano ad una conclusione: avrei percepito (semplifico adesso in euro per comodità) dai 610 ai 635 euro mensili per 13 mensilità, come prevedeva allora la legge in vigore nel nostro paese.
Quando sono andato in pensione al compimento del 65° anno di età, l'ufficio competente tedesco ha immediatamente comunicato all'INPS il mio avvenuto pensionamento. Dopo più o meno sei mesi il solerte Ufficio INPS di Roma Tuscolana mi ha inviato una breve comunicazione in cui mi rivelava -finalmente- l'importo che l'istituto mi avrebbe inviato.
Si trattava di 29, 56 euro mensili!
Mi avrebbero comunicato dove e come potevo incassare il mio dovuto semestralmente.
Andai per la seconda volta al Patronato ACLI, che lessero meglio di me, perché usi a farlo, la lettera. 
"Hanno fatto il conguaglio", mi dissero. "Possiamo scrivere, ma non cambierà niente".
Insomma lo stato italiano, da sempre, unico al mondo, o per lo meno in Europa, fa la sommatoria aritmetica delle due pensioni, quella italica e quella straniera, e poi in base a una tabella propria assolutamente indiscrezionale taglia la pensione italiana riducendola all'osso e intasca la differenza.
Dopo due lettere scritte dal Patronato ACLI per delucidazioni, finalmente si sono degnati di rispondere in chiaro quel che già sapevamo: conguaglio effettuato e queste sono le spettanze, cioè 29,56 per tredici mensilità.
Prescindendo dal fatto che io sto ancora aspettando l'importo relativo ai primi sei mesi, la cosa è andata avanti per tutta la durata dei governi Berlusconi e Prodi.
Appena arrivato a piazzare il culo sulla principal poltrona il Grande Cazzaro è successo qualcosa di nuovo: la mia pensione non è più arrivata.
Come me stanno centinaia, forse migliaia di persone qui in Germania. Tutti gli italiani oltre il settantacinquesimo anno di età per Matteo Renzi e il suo governicchio delle banane fritte non vivono più. Immagino anche in Francia e Belgio, Svizzera e Olanda. Qui si tratta di milioni di euro che il Gran Bastardo nazionale sta rubando alla sua gente.
Al Patronato ACLI siamo arrivati al settimo sollecito ufficiale sul mio caso.
L'INPS non risponde. 
A parte il furto iniziale, che dopo 16 anni ammonta a 122.812 euro, centesimo più centesimo meno, si aggiungano adesso altri 768 auro di questi due ultimi anni. 
Rapina dello Stato? No, rapina di un governo fantoccio.
Il Grande Cazzaro ha detto che vuole mobilitare 250.000 persone per andare porta a porta a propagandare il SI e le ragioni di codesto SI.
Contro di lui stanno i fatti e non le chiacchiere: il suo è il governicchio degli imbroglioni e dei ladri, più ladri di tutti gli altri messi insieme. Basta questo argomento per mandarlo a casa.
Sempre che sia in grado di mantenere la parola data e di scomparire, ma chi ci crede più?

giovedì 5 maggio 2016

EPILOGO

C'è stato chi, in un commento al mio post "Lettera famigliare" ha scritto che mancava qualcuno, volendo forse alludere ad AnnaMaria. Non è mai mancata in questo mezzo secolo.
Questo "Epilogo" è dedicata a lei nel nostro cinquantatreeimo anniversario.



Un giorno, penso, arriverò a fermarmi
in questa lunga, estenuante corsa senza traguardo;
e tu sarai già lì, pronta a ricevermi
col tuo sorriso arioso dentro gli occhi.
Arriverò sfinito ed ansimante
un attimo prima di morire, spero.
Dicono che in quel momento
breve ed eterno,
la vita ti ripassa davanti agli occhi tutta intera:
senza pietà gli errori e le menzogne,
i tradimenti e i delitti,
forse anche le gioie,
e tu sei la vittima e il boia,
protagonista e spettatore,
ma non puoi alzarti ed andartene
se la recita non ti piace.

Non so se è vero; comunque a chi ha saputo
accanto a me soffrire senza negarsi mai
lascio la poltrona di centro in prima fila.

Non credere di conoscere la storia,
non ti distrarre, c'è molto che non sai:
anche la strada che facemmo insieme,
e di cui tutto conosci, pietre polvere e sangue,
la nostra immensa parabola infinita
è diversa
se la racconti tu,
forse più sobria,
ma questa volta li racconto io
i miei giorni ed i tuoi,
proprio a mio modo
come li ho vissuti,
senza ritegno e pieni di ironie,
insieme a te,
che mai capisti il gusto
della battuta secca e mozzafiato.

"Sei come tutti i romani.
Solo scherzi sai fare. Non sai parlare
una volta seriamente?"

Parlare seriamente non so cosa voglia dire.
Ridere seriamente, questo so; e piangere;
forse anche morire, fra un po' vedremo.
Per ora ti sia chiaro che della mia vita
io tutto ho regalato, niente rubando,
e niente mi fu dato se non da te.
Io ho sempre interamente interpretato
solo il mio ruolo: 
protagonista o no il personaggio mio
non l'ho tradito mai.
Non mi piaceva neanche molto, devo dirlo;
ma tutti gli altri che potevo avere,
solo cambiando il lato della faccia,
mi piacevano anche meno.
Questo era onesto, questo era sincero;
viveva intensamente
momenti belli e brutti senza scegliere mai,
e niente compromessi o mezzi toni.
Pittore e ancor poeta, padre e marito,
fratello e figlio,
tagliato da una creta che era acerba,
su cui non piovve mai,
tale io mi feci
e tale io mi conosco:
dovessi cominciar tutto da capo
non cambierei una virgola, 
nè un punto.

In particolar modo
gli errori, i peccati, i cattivi pensieri,
tutti insieme vorrei riavere,
perché quella del peccatore protervo non pentito
fu la mia parte più seria,
fu la mia parte più vera:
vivere rifiutando tutti i falsi
catechismi,
e le melense balordaggini di chi
sapeva tutto, e tutto
aveva previsto e prevedeva.

E sopratutto mi sarebbe assai caro
tornare indietro a quando ti ho incontrata,
quando tu ti lasciasti
scegliere da me
avendomi già scelto.

La gioia di sentire al primo ballo
dopo un attimo
che tu adeguavi il tuo agile passo
al mio goffo da orso,
il braccio destro tuo sulla mia spalla
sinistra, e la tua mano
mi sfiorava il collo,
quasi per caso.
Fu quella volta credo
che io ti dissi:

"Penso che diventare vecchio
accanto a te
sia la cosa più bella
che possa capitarmi".

E tu ridevi
e ti vibrava tutta la schiena e i fianchi
nelle mie braccia e il ventre,
che al mio aderiva,
trasmettendogli l'onda del tuo riso.

Una vita intera abbiamo avuto
di liti e zuffe e amori
senza fine,
e musi lunghi
e silenzi di mesi;
mezzo amanti e mezzo antagonisti,
coniugi forse mai,
procreatori di molti figli,
sol nel sonno tranquilli.

Io e te, statue antiche
e prosciugate
dal sole;
ognuna nel proprio canneto,
le nostre corone di fiori
e di insetti parallele,
si toccano qua e là.



Maximiliansau, 5 maggio 2016

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