Andava tutto troppo bene. Scoppiavo di salute; Anna Maria non borbottava mai; Chicco a scuola non combinava più casini; Stefania era felice e contenta con la bimba che le era nata e io avevo cambiato lavoro. Dirigevo corsi di pittura in uno Jugend Zentrum, un centro di ritrovo giovanile per il tempo libero.
Stavo sempre in mezzo a gente giovane, casinisti contenti di fare casino, proprio come me; colleghi allegri e non invidiosi; un sacco di soldi in più nella busta paga alla fine del mese e avevo lo Chef più babbeo che mi potessi augurare: facevo il beato cazzo del comodo mio, tanto a lui andava tutto bene e mi ripeteva sempre "Sì, Enzo, va bene così, Enzo, tu sei l'uomo giusto al posto giusto", e lui era il Capo giusto per me. Così babbeo che quando si era sposato invece di far prendere a sua moglie il proprio cognome aveva aggiunto quello della moglie al suo, come qui è consentito dalla legge, ma che solo i fessi fanno. Rainer Bauer Gain: lui era Bauer e lei Gain, e soltanto Gain era rimasta, tanto comandava sempre lei. Contento lui e contenti tutti noi.
È stata l'unica volta in cui mi recavo fischiettando al lavoro ogni santo giorno.
Ah, dimenticavo: mi ero di nuovo innamorato di mia moglie, che era veramente caruccia, sì, molto amorevole e amabile, la sua stagione migliore.
Che volevo di più?
Niente. Ma c'era un tarlo nella mia capoccia. Quando le cose vanno troppo bene tu metti il culo al riparo, diceva mio padre. Era lì, nascosto in un angolino del cervello il mio piccolo tarlo, e rosicchiava giulivo pezzettini di polpa cerebrale ogni giorno: cron, cron, cron, cron. Lo sentivo qualche volta prima di addormentarmi; lo ascoltavo un paio di minuti un poco ansioso, poi mi giravo su un fianco e lo mandavo affanculo.
Mangiavo di buon appetito ma non mettevo su un grammo di ciccia, anzi riuscivo di nuovo a infilare due dita tra pantaloni e trippa, cosa che non mi capitava da tempo immemorabile. Mi pesai e vidi con grande piacere che ero calato di due chili e mezzo.
"Merito della mia cucina senza grassi", si vantava mia moglie. Pensai che fosse merito delle sigarette: oramai incominciavo il terzo pacchetto ogni sera.
Ma un campanello aveva squillato brevemente in un angolo del mio cervello e in qualche posto si era accesa una spia rossa: un lampo breve, ma lo avevo captato.
Quando il mese successivo vidi che potevo stringere di un buco la cinghia dei pantaloni tornai a pesarmi: la bilancia mi dava quasi tre chili in meno dall'ultima volta, nemmeno venti giorni prima.
La spia divenne di un bel rosso fisso e il campanello un martelletto che mi batteva nel centro del cranio. Oramai tenevo d'occhio solamente il giro vita dei pantaloni. Senza cinghia me li sarei dovuti tenere con le mani per non rimanere in mutande: insomma ci ballavo dentro come ai bei tempi della mia Università.
Decisi di cambiare tenore di vita: mangiavo porzioni più abbondanti, bevevo un paio di caffè in meno e portai a 30 il numero delle sigarette quotidiane, limite di un decennio prima.
Due settimane dopo tornai sulla bilancia. Col cuore in gola lessi la cifra: 70,500. In nove settimane ero calato quasi nove chili, etto più etto meno.
Andai dal mio medico di casa senza appuntamento. "Un'emergenza" dissi all'infermiera. Il medico dovette leggermi l'ansia e la paura sulla faccia.
"Devo avere un tumore", gli dissi.
Fece un sorrisetto.
"Dove ha dolori?"
"In nessun posto".
"Ha avuto emottisi? Sangue dal naso? Sangue nelle urine? Nelle feci?"
"Niente sangue".
"Perché pensa di avere un tumore?"
Gli dissi dei chili perduti in nove settimane. Lui rimase a fissarmi per una decina di secondi.
"Venga nel laboratorio che le prelevo sangue per le analisi".
Me ne tirò fuori dieci cc in tre cannule.
"Occorrono sette giorni per queste analisi".
Lessi sul deskop del suo PC la diagnosi che aveva scritto: Krebsverdacht, sospetto cancro.
"Pensa che si tratti di un cancro?"
"È probabile quando c'è un dimagramento massiccio in così breve tempo".
"Dove?"
Si strinse nelle spalle.
"Stomaco, intestini, polmoni forse, visto che lei è un forte fumatore".
Continuò a parlare, ma non lo stavo più ad ascoltare.
Uscii dal suo studio ammalato terminale, assai vicino alla cachessia finale.
Guidai a casaccio per una mezzora. Avevo il cuore che mi rimbalzava dentro la gabbia toracica come la pallina di un flipper.
Un pensiero fisso in testa, una domanda atroce: "Quanto tempo mi resta?"
A casa mia moglie mi aveva preparato l'accoglienza che mi ci voleva: Chicco aveva di nuovo combinato uno dei suoi casini, e lei voleva che lo castigassi subito.
"Adesso proprio no, le risposi; non mi sento tanto bene".
"Cos'hai?"
"Niente. Mal di stomaco, giramenti di testa, roba così".
Incominciò il solito pistolotto contro il fumo, ma io non la stavo a sentire.
"Quanto tempo mi resta? Forse un anno, forse due", ma subito mi appariva un'utopia tirare avanti per così tanto tempo. "Saranno mesi, non di più".
"Mi stai a sentire?"
"Sì, certo che ti ascolto".
"Allora va a parlargli. è in camera sua".
Chicco si aspettava il consueto diluvio di improperi.
Gironzolai per la stanza. Guardai fuori dalla finestra senza vedere nulla. Gli feci una carezza.
"Fai il bravo, non farla più arrabbiare", gli dissi e me ne andai.
Penso che le ore passassero, perché s'era fatto buio, ma per me il tempo si era fermato.
A cena toccai appena un po' di cibo. Mi accorsi che tutta la squadra mi osservava in silenzio.
"Che avete da guardare?"
"Che hai tu piuttosto? Fece Anna Maria di rimando, Sembri uno zombi".
Mi resi conto che non dovevo allarmare la mia ciurma.
"Non ho niente. Sto pensando ad un racconto che voglio scrivere".
"Non deve essere tanto allegro il tuo racconto, papà" disse Alessandro.
"No. Alla fine lui muore".
Andai a letto per ultimo. Mi girai su un fianco senza nemmeno sfiorarla.
"Buona notte".
Non mi fece nemmeno un grugnito per risposta. L'avevo offesa e mi avrebbe messo su un muso di tre giorni, ma non me ne fregava niente.
Dormii poco e malissimo, con un chiodo piantato in testa: "Non arrivo a Natale"
Quando sentii il suo respiro regolare incominciai a girarmi nel letto.
"Warum gerade ich?" Perché proprio io?
Mi accorsi che pensavo cose tristi, cose brutte che avevo visto e vissuto durante la guerra, e mi accorsi di pensarle in tedesco.
Al lavoro fui sgarbato coi colleghi e mandai a quel paese un paio di ragazzi che mi avevano chiesto qualcosa. Dopo un po' mi giravano tutti al largo. Sentii qualcuno mormorare: "Enzo è incazzato nero". Ma non me ne importava niente. Pensassero quel che cazzo gli pareva, io mi ero chiuso in clinch come un pugile suonato a immaginare meine letzte tragische Stunde, ecco appunto, le mie ultime tragiche ore.
Quando ci lasciammo alla fine della giornata una collega, Christine Schwering, mi sussurrò accomiatandosi: "Fa pace con tua moglie stasera, per favore".
Mangiavo pochissimo, col muso sul piatto; fumavo una Marlboro dietro l'altra. Una sera contai come sempre facevo le sigarette ancora nel pacchetto e mi resi conto con raccapriccio che mi erano rimaste le mie ultime cinque del mio terzo pacchetto.
"Chi cazzo se ne fotte, tanto devo crepare".
Sentivo dolori da per tutto: il torace stretto in una morsa; lo stomaco bruciava; avevo continui mal di pancia; pisciavo roba scura e sporca, "sangue, pensai; è nei reni il figlio di puttana". Avevo pure preso l'abitudine di guardarmi la cacca prima di tirare lo sciacquone per trovarci tracce del mostro, sangue, pezzi di budella o chissà cosa.
Un martirio. A un certo momento arrivai a sperare che fosse rapido e mi portasse via il più in fretta possibile. Purché finisse.
La mattina che mi recai dal mio medico per ascoltare la condanna ero ormai rassegnato e distrutto.
"Negativo. Tutti i valori sono nella norma e non c'è l'agente patogeno di un tumore",
"E i chili perduti?"
"Capita alla sua età. Lei è in andropausa Herr Iacoponi".
Erano le 9,25 del 14 maggio 1989: il mio secondo compleanno.
Uscii all'aria aperta leggero come un passerotto.
Respirai a pieni polmoni. Che giornata meravigliosa!
Mentre allungavo il passo verso casa mi misi a ridere come un ragazzino.
"A Iacopò, sei l'unico caso de cancro che se guarisce da solo in una settimana: ammazzete che culo che ciai!"
Mi misi a correre: volevo raccontare tutto a Anna Maria e spiegarle perché mi fossi comportato così male con lei e con tutti. Se lo meritava, povera anima.