giovedì 29 marzo 2012

IL CAMMINO DEL GAMBERO

Una volta in Italia c'erano i bordelli. Ogni 15 giorni cambiavano le "signore"; la chiamavano "la quindicina", infatti si poteva andare due volte al casino ed avevi due donne diverse per gli stessi soldi.
Poi la senatrice Merlin fece l'offesa perché lei era più racchia della Bindi e nessuno se la filava. Chiusero le case e tutti i maschietti d'Italia scoprirono quanto bello fosse e interessante andare di sera per strade solitarie illuminate da falò.
Nella civilissima e democraticissima Germania i casini non li hanno mai chiusi. Li chiamano "Puff" e ci trovi dentro elegantissime signore che vivono fuori di lì una vita normale; parecchie sono sposate con prole, qualcuna viene portata al lavoro dal marito, che la ritorna a prendere dopo circa sei ore. Sì, perché è un lavoro come un altro, a cottimo. Qui il cottimo lo chiamano "Stickzahl", numero dei pezzi: più pezzi produci più guadagni; più c**** prendi più soldi arraffi, detratte le tasse sull'Einkommen, sull'entrata appunto.

Mi sono fatto questa pensata sulle zoccole quando ho appreso in TV che 5 delle più grandi puttane della politica nostrana si stavano mettendo d'accordo per riportare l'Italietta nostra ai fasti della prima repubblica. 
Chi sono le cinque troie? Casini, Rutelli, Fini, Bersani e Alfano.
Ciascuno si prenda la sua e vada a godere.
Peccato che Andreotti sia troppo vecchio e oramai appetito solamente da chi ama la pesca, per via dei vermi che gli escono dalla bocca e che perde dal culo. Peccato pure che D'Alema sia diventato un trans: con quell'aria da frocetto di città insoddisfatto chissà quanti elettori poteva sdraiare.
Perché di quello si tratta: di elezioni e delle varie regole per le candidature, prima per farsi eleggere, dopo per stabilire insieme a chi andare al governo.

Dopo decenni di inciuci, di combinazioni sotterranee, di toccate e fughe in cui il popolo sovrano riusciva a eleggere più o meno quattro deputati di un partito, del "proprio" partito, senza sapere con quale schieramento politico, con quale altro partito si sarebbero alleati i deputati che aveva liberamente scelto, in sostanza dopo 48 anni di farse, dove la DC aveva fatto il bello, bellissimo, brutto e bruttissimo tempo alleandosi di volta in volta con tutti e mettendosi contro solo al PCI -almeno a parole-, si era riusciti a creare un sistema di democrazia moderna (moderna? Lo si faceva già ad Atene 2500 anni fa), come negli USA, come in Inghilterra, come in Francia, come in Spagna, come in Germania, insomma come nel mondo civile: due schieramenti di fronte, chi vince ha la maggioranza e governa, chi perde sta all'opposizione. Tre volte vince Berlusconi, due volte Prodi. Amen.
Adesso le 5 pantegane si stanno mettendo d'accordo per tornare all'antico, per togliere al popolo la sovranità e ridarla ai partiti.
Come giustificano sta camminata del gambero?
Tutta colpa del Berlusconismo e antiberlusconismo. Insomma tutta colpa del Berlusca. Lui deve rimanere fuori.
Mi sta bene. E poi?
E poi vedremo; di volta in volta.

Io sono vecchio abbastanza per ricordare tutte le porcate dei governi monocolore DC, del bipartito, tripartito e quadripartito, con le poltrone divise col contagocce e il bilancino del farmacista.
La vogliono riesumare quella salma puzzolente e rimettercela di fronte ad ogni pasto.
Siamo riusciti a liberarci del fascismo; ci siamo quasi liberati dal comunismo, malgrado i troppi nostangici -vero Vendola? Vero Camusso?- ma non ci libereremo mai dalla piaga purulenta della DC e dei suoi bolsi epigoni.
La DC non morirà mai, come la Mafia e la Camorra.

Che ci resta da fare? 
Buttiamola in merda e ricantiamo a tutta gola la canzonaccia della nostra gioventù:

"Co sta pioggia e co sto vento
chi è che bussa al mio convento?
È una povera puttanella
che si vuole confessare.
...............
E se vuoi l'assoluzione
bacia e tocca sto cordone...
Caro padre non son orba
questo è c**** e non è corda!"

Camminiamo raso muro, amici: mala tempora currunt.

lunedì 26 marzo 2012

OMAGGIO A NICOLA PEZZOLI

Il 22 marzo scorzo Zio Scriba ci ha regalato sul suo blog un post delizioso: "La mano del caporale". Mentre lasciavo un mio commento mi passava per la mente l'idea intrigante di farci un post mio. A convincermi del tutto è stato proprio Zio Scriba che, rispondendo al mio commento definiva il mio pezzullo qualcosa che possedeva "tutta l'epica e la visionarietà di un grande film in poche righe".
Nel farne omaggio a lui io mi auguro solo che questa volta le "non poche righe" non abbiano a distruggerne l'epica e il respiro di un film.
Grazie Nik. È per te.

Tarcisio Marinelli era stato nominato capitano da un mese appena. Quella sera rientrò prima di cena nel suo alloggio in via Zara 18 per indossare la diagonale: stava per cominciare la sua prima settimana di servizio come capitano d'ispezione. Aveva una camera in affitto sul lato sud della villetta. Sulla porta incrociò me che uscivo in divisa ordinaria; abitavo nella stessa villetta in una stanza sul lato nord.
Si accorse che indossavo gli anfibi, coi pantaloni già infilati dentro.
-Sei di picchetto, Iacopò?
-E nun me vedi?
E gli mostrai il pacchetto contenente la fascia azzurra che avrei dovuto indossare.
-Stanotte non ti farò dormire. Stai attento che ti castigo.
-Nun fa lo stronzo, Tarcì.
Facevamo coppia fissa a scopone scientifico e a tressette al circolo ufficiali.
Ci lasciammo con un paio di battutacce. Nessuno di noi immaginava che eravamo stati entrambi trombati alla grande.
Lui lo venne a sapere mentre prendeva le consegne dal collega anziano.
-Il colonnello comandante ti aspetta nel suo ufficio. Ti vuole parlare.
Il colonnello Norberto, già in odore di santità perché prossimo generale, disse a Marinelli che doveva stringere le chiappe perché l'indomani avrebbe ricevuto la visita del comandante del Presidio di Udine, il più gran cazzone del reame: il generale di CA Mosca, l'uomo che proprinava arresti per ogni cagata di mosca, appunto. Odiava i capitani di prima nomina, "coglioni gasati"; odiava i sottotenenti di complemento, "borghesi in divisa troppo corta".
-Stia attento al suo ufficiale di picchetto, che domani rischia grosso, disse Norberto a Marinelli; mi raccomando i numeri e la pulizia.
I numeri riguardavano l'entità della forza in attività di servizio; la pulizia invece l'assenza di cagate di mosca e polvere sulle divise, sugli scarponi, sulle scale e sul sacro suolo dell'ingresso della caserma "Monte Pasubio", sede del comando del glorioso Rgt di fanteria "Nembo", e del primo e secondo Btg. Nonché del distaccamento di due Gruppi del 155° Rgt di artiglieria controcarro: il 113 -il mio Gruppo- e il 114.
Mi vidi piombare addosso Tarcisio Marinelli col fiatone mentre firmavo una montagna di documenti.
-Mamma mia che culo che ho, Iacopò! Pensa che il primo giorno del mio servizio di ispezione mi tocca un ufficiale di picchetto dei controcarri, un corpo di guardia dei controcarri e un sottufficiale di servizio dei controcarri. Tutti sti baschi neri all'ingresso. Che culo!
-Da quando in qua ti facciamo schifo, Marinè?
-Da quando mi hanno detto che domani arriva Mosca.
-Il generale Mosca?
-Quello.
-E che vuole?
-Spaccarci il culo a me e a te. Ci hanno fregato, Iacopò.
Due minuti dopo scoppiava la terza guerra mondiale.
Piombai nel quartiere del corpo di guardia come un missile. Al sergente maggiore Maiorana, sottufficiale di servizio, e al caporalmaggiore Tilli, capoposto, feci più o meno questo discorso.
-Domattina alle sei tutti a pulire l'ingresso e le scale della palazzina comando. I marmi del pavimento devono brillare, bril-la-re capito? Dopo pulito montateci la guardia e nessuno passa più sopra il pavimento, nemmeno Cristo. Divisa in perfetto ordine, anfibi lucidi che devono luccicare; baschi col fregio diritto e non a traverso e dite al trombettiere di lucidare la tromba dentro e fuori.
-E il servizio di guardia? Mi chiese Tilli.
-Non me ne frega un cazzo se la caserma va a fuoco, voi curate scale e pavimenti. Domani arriva Mosca.
Sbiancarono in faccia.
-Proprio domani?
-Sì, proprio domani, porca puttana!
Rientrai nel mio alloggio disperato. Ma guarda tu che sfiga: con 84 subalterni della fanteria e 16 dell'artiglieria doveva capitare proprio a me fare il picchetto il giorno che arriva questo gran figlio di una troia.

Durante la notte Marinelli se ne tornò a casa, ma io non riuscii a chiudere occhio.
Al mattino alle sei eravamo tutti impegnatissimi  sulle scale, sui passamano, e sui fottutissimi marmi grigio azzurri dell'ingresso principale. Chi controllava -un capitano d'ispezione, un sottotenente di picchetto e un sottufficiale di servizio- e chi spremeva olio di gomito con stracci e spazzoloni -un caporalmaggiore e undici artiglieri- ; esentata solamente la sentinella immobile nella garitta esterna.
Alle sette l'aiutante maggiore in seconda, un tenentino del Nembo mi portò "i numeri", un foglietto battuto a macchina con sopra scritto quanti ufficiali, quanti sottufficiali e quanti graduati e uomini di truppa si trovavano in quell'albergo per tutta la giornata.
Dovevo impararmeli a memoria, non potevo sparare cazzate a Mosca, che memorizzava tutto, poi salito al piano di sopra controllava con l'originale della "Forza presente". Se avessi sbagliato un solo numerino sarebbe stato meglio mi fossi preso a calci in culo da solo.
Alle otto iniziò la spasmodica attesa.
La sentinella cogli occhi puntati all'inizio dello stradone, da dove sarebbe arrivata la 1400 Fiat blu con la bandierina azzurra sul parafando anteriore destro; il capoposto controllava cinturoni e posizionava baschi; il trombettiere continuava a strofinare la tromba con un fazzoletto; il sergente maggiore Maiorana montava la guardia al pavimento e guai a chi ci passava sopra; l'ufficiale di picchetto ripeteva ad alta voce numeri in sequenza -92, 211, 864- mentre il capitano d'ispezione gli ballonzolava intorno e ogni cinque minuti spariva per correre al cesso: gli era venuta la pisciarola.
Tutti in piedi come le gru, quegli uccelloni rosa che stanno ritti su una zampa sola: prima la destra, strofinando energicamente sui pantaloni all'altezza del polpaccio l'anfibio sinistro, poi l'altra gamba e strofinamento dell'anfibio destro. Alle dieci gli anfibi brillavano al sole come teschi nel deserto, ma del fetentone con tre stelle d'oro nemmeno la puzza.
Alle undici i nervi erano a pezzi e tutti litigavamo con tutti per ogni cazzata, sparando porconi a tutta forza. San Pietro e gli arcangeli lassù in Paradiso stavano facendo gli straordinari per smistare le chiamate: tutti sanno che non esiste fabbrica di bestemmie che tenga il passo di una caserma per quantità e qualità.
Nel bel mezzo di questo casino, mentre tutti grondavamo sudore e lacrime, si sentì in avvicinamento il possente rombo di una Guzzi Superalce 500 e si vide il capoposto sbracciarsi in mezzo allo stradone per tentare di fermare quel motociclista imbranato, certamente un porta ordini o porta disgrazie. Ma il maledetto in tuta mimetica, giaccone di pelle nera di ordinanza, casco e occhialoni evitò il caporalmaggiore Tilli e le sue braccia spalancate e piombò dentro l'ingresso, smerdando di terriccio e luridume i preziosissimi e lucidatissimi marmi.
Gli corsi incontro inviperito.
-Fuori di qui, stronzo! Vai alla carraia, coglione!
Ma lui smontò serafico e mise il suo Superalce sul cavalletto.
-Hai capito, pezzo di merda? Vai alla carraia!
Senza nemmeno fiatare il pezzo di merda con due dita sollevò e tolse la copertura dall'asta piantata sul parafango anteriore.
Non l'avevo nemmeno vista.
Che cazz'è? Un antenna radio? La coda del diavolo? Un piffero?
C'era qualcosa di stoffa azzurra attorcigliata intorno all'asta. Il motociclista pezzo di merda col colpetto di un dito lasciò garrire al vento una bandierina triangolare azzurra coi bordi frangiati in oro e al centro una, due, tre stelle dorate: il distintivo che segnalava la presenza di un generale di Corpo d'Armata.
Sentii il rantolo di Marinelli dietro le mie spalle, mentre il caporalmaggiore Tilli fu l'unico a reagire da uomo e non da stronzo:
Guardia attenti!
Presentat arm!
Il trombettiere steccò, ma chi se lo filava.
Il capitano Marinelli si impettí nel saluto militare, duro come uno stoccafisso, così come il sottufficiale di servizio.
E io?
Io niente.
Inchiodato al suolo come Cristo sulla croce guardavo quella cazza di bandiera malefica e non riuscivo a fare nulla, a pensare nulla.
Delle tante cose buone che può fare un giovanottone di bell'aspetto e di grandi speranze non te ne viene una, se stai vivendo il tuo momento dello stronzo.
Il motociclista generale si tolse guanti, occhialoni e casco lasciando libera la sua capigliatura brizzolata.
Mi prese una mano e me la strinse.
-Mi fai tanta pena, tenente. Va a prenderti un caffè al circolo, ma adesso togliti dai coglioni.

giovedì 22 marzo 2012

DA UN CAPITOLO QUALSIASI DEL MANOSCRITTO DI "INTERVISTA A D.O."

-Con tutti e ventiquattro?
-Eh sì! Con tutti.
-E come si fa?
-Uno alla volta.
-Non possono farlo da soli?
-Si bagnano.
-E quanto tempo le occorre?
-Al tempo non si deve badare: va e basta.
-E quando ha finito che fa?
-Mi riposo.
-Volevo dire: non è che appena ha finito coll'ultimo deve ricominciare col primo?
-Qualche volta capita anche questo.
-E allora?
-Allora niente. Sono bambini, non li vede?
-Dica la verità: non è che qualche volta li vorrebbe ammazzare?
-Non mi capita mai: io voglio bene ai miei bambini.
-Non sono mica suoi.
-Certo. Sono i miei bambini.
-Ma tutti hanno una madre, no?
-Per me sono i miei, tutti.
-E loro la considerano una madre?
-Certo che no, che discorsi! Loro una madre ce l'hanno e sanno benissimo chi è, non sono mica trovatelli.
-Da piccola sognava di fare questo mestiere?
-Da piccola volevo lavorare in uno zoo, coi cuccioli.
-Beh, ci è andata vicino.
-Le sembrano cuccioli?
-Bestioline, direi.
-Chi non ha cuore per i bambini dovrebbe essere messo al bando.
-Io il cuore ce l'ho per chi dico io, e poi non è vero che li detesto.
-Può toccarli, non mordono.
-Un conto è non odiarli, un conto è fidarsene. Preferirei toccare lei.
-Potrebbe darsi che io morda, non crede?
-Non credo che morderebbe, non lo credo proprio.
-Insomma l'interesse per i bambini era una scusa?
-Si e no.
-Si o no?
-Faccia lei.
-Era una scusa.
-Le piace essere corteggiata, eh?
-Se questo per lei è fare la corte.
-Beh, insomma sto prendendo contatto.
-Un approccio?
-Un avvicinamento.
-Come fanno i timidi.
-Le sembro timido?
-No, ma ci si sbaglia con le persone.
-Io non mi comporto come i timidi, piuttosto come i cani.
-E come fanno i cani?
-Si avvicinano e annusano prima bene bene il muso, poi il sedere.
-Non vorrà annusare il mio sedere?
-Mi pare di non averle annusato nemmeno il muso, pardon la faccia.
-Ma lei annusa veramente la gente?
-Anche l'olfatto ha la sua parte.
-Davvero?
-Certo, per lei no?
-Io non annuso mai quando qualcuno si mette a parlare con me.
-Ma se uno puzza che fa?
-Mi scanso.
-E se quello si riavvicina?
-Me ne vado.
-Io non puzzo.
-Per questo non me ne sono andata.
-E nemmeno lei.
-Oh, grazie assai!
-Comunque non intendevo parlare di puzza quando ho detto dei cani che annusano. I cani non annusano per sentire se qualcuno puzza, ma per sentire quell'odore caratteristico, sa?
-Quale odore?
-Quello che certe cagnette emanano, non lo sa?
-No. Quali cagnette? Quale odore?
-I feromoni.
-I che cosa?
-Fe-ro-mo-ni.
-Che roba `sono?
-Un'emanazione delle ghiandole sessuali delle cagnette in amore.
-Sta cercando di annusare i miei...quei cosi lì?
-Fe-ro-mo-ni.
-Stavo per dirlo. Vuole annusarmi i feromoni?
-Non ci ho nemmeno provato.
-Ci provi, allora.
-Ma la gente che penserà?
-Chi se ne frega! Ci provi, ci provi.
-Se lei insiste.
-Ehi, ma che fa! Non così da vicino. Da lì dove sta adesso.
-È lontano.
-Tiri su forte col naso, ché ce l'ha a fare così bello grosso?
.......
-Allora li ha sentiti i miei feromoni?
-Se mi lasciasse ancora provare da più vicino, potrei forse darle una risposta meno generica.
-Li ha sentiti o no, cittadino?
-Non mi è sembrato.
-Bravo! Ha buon naso.
-Vuol dire che non ha feromoni?
-Voglio dire che non sono una cagnetta in calore.
-Io avevo detto "in amore".
-Mio padre dice così, e lui di cani se ne intende.
-Lei no?
-Io mi intendo di porci, e mi sembra di averne incontrato uno bello grosso. Lei deve essere come mio cugino. Sa qual'è il motto di quello sporcaccione? "Purché respiri".
-È vecchia.
-Sì, lui la usa da tanto tempo sta battuta.
-Lo conosco io sto cugino suo?
-Non credo proprio, non è di qua.
-È delle sue parti.
-Si capisce, dico io.
-E cioè di dove?
-Palmanova, Friuli.
-Che bello, una nordica.
-Non si emozioni troppo: sono in questi posti da quasi dieci anni.
-Mi pareva! Si è guastata a stare qui.
-Che intende con "guastata"?
-Mi pareva che le nordiche fossero più...come dire...accondiscendenti.
-Zoccolette insomma, del tipo prendi, spremi e butta via.
-Beh no!
-Beh si invece! Ma io non sono così.
-E io sono così sfigato di incontrare una nordica che la pensa come quelle di qui.
-Non mi chiami nordica.
-E come la devo chiamare se non so qual'è il suo nome?
-E il suo? È mezzora che chiacchieriamo e non si è ancora presentato.
-Adolfo. Adolfo Esse.
-Loredana Bigon, ma mi chiamano Lori tutti quanti.
-Loredana è bello.
-Loredana fa schifo.
-Allora Lori.
-Bravo.
-Potremmo darci del tu.
-E perché?
-Perché siamo giovani tutti e due, ecco perché.
-Stai perdendo il tuo tempo, Adolfo Esse.
-Sei già fidanzata?
-Io no, ma forse tu lo sei.
-Giuro di no, ma se lo fossi basterebbe un tuo cenno e la pianterei subito.
-Quanto sei scemo! Aspetta comunque a sbilanciarti-. Hai visto i miei piedi?
-Lunghetti direi.
-Scarpe numero 44 e senza tacco; ti dice niente?
-Hai i piedi piatti?
-Ma cosa ti viene in mente?
-Che ne so. Lo dici come se avessi la scoliosi.
-Alzati in piedi, carino, ché mi alzo anche io.
.....
-Lo hai capito adesso perché non porto i tacchi? Altro che scoliosi: quella viene alla gente per guardarmi in faccia. Sono alta quasi un metro e novanta.
-Non sono piccolo nemmeno io, porca misera! Sono un metro e ottantaquattro. E tu?
-Tre centimetri più di te.
-Tutti così lunghi nel Friuli?
-Sono come mia madre.
-È per questo che non ti fai un ragazzo?
-Beh...anche.
-Io uno per te ce l'avrei.
-Sputa fuori.
-Il mio migliore amico fa un metro e novantotto senza scarpe. Giocava ala nella squadra di pallacanestro del nostro liceo.
-Io giocavo pivot.
-Ti credo, come donna sei una canna...scusa, volevo dire come giocatrice.
-Non era solo l'altezza che mi aiutava, guarda qui le mie mani.
-Porca vacca! Andrebbero bene come segnaletica stradale.
-La vuoi una sberla sul muso?
-Da quelle mani no.
-Allora questo tuo amico a misura di canna dove sta?
-A casa sua credo, posso provare a telefonargli.
-Invece ci vai di corsa e me lo porti qui.
-Beh, ci provo.
-Aspetta, dimmi prima come si chiama.
-Chicco.
-Uno alto due metri lo chiami Chicco?
-È il nomignolo che gli hanno messo le sorelle, ne ha due.
-Ma lui come si chiama?
-Meglio che rimani a Chicco.
-Ma ce l'avrà un nome il tizio, oppure no?
-Si capisce, ma è complicato.
-Ho capito: un nome russo. Suo padre è comunista.
-Sbagliato: non è un nome russo, né arabo, né cinese, non è nemmeno un nome; non ce l'ha nessuno.
-E sarebbe?
-GEM.
-Gem?
-GEM; ma non come lo scriveresti tu, proprio tre maiuscole.
-Ma cos'è una sigla, un marchio? è proprio tutto strano sto amico tuo.
-Suo padre è Apostolo dei Cercatori di Dio, una specie di vescovo. Una setta dove tutti credono che Gesù fosse una controfigura di quello vero venuto giù a vedere che aria tirava, ma quello vero deve ancora venire. Così a tutti i primogeniti mettono nomi di Gesù. Anche il padre di Chicco lo ha fatto, infatti GEM significa Gesù Emmanuele.
-Che roba mi racconti! E Chicco è uno di questi?
-No, lui se ne frega per fortuna. Comunque delle storielle che raccontano in quella sua setta lui sa tutto: fattene raccontare qualcuna e ti farà crepare dalle risate.
-Ci rinuncio a priori. E poi io coi ragazzi non parlo di cose di chiesa: mi verrebbe il mal di pancia.
-Fa come ti pare Lori. Comunque, se dovessi ripensarci...questo qui è Chicco.
......
-Alla faccia del metro e novantotto! Questa è la cabina di un TIR!
-Non scherzi nemmeno tu, piccoletta.
-Loredana Bigon; Lori per gli amici, per gli elefanti e per le cabine dei TIR, ma tu piantala subito con quel "piccoletta", perché mi dà sui nervi.
-Stai attento, Chicco, ché picchia.
-Hai visto le mie mani grand'uomo? Il tuo amico dice che somigliano a segnali stradali.
-E queste somigliano a due mozzi di quella cabina del TIR, tanto per venirti incontro.
-Allora sei mio amico, e non se ne parli più.







domenica 18 marzo 2012

LE MIE DUE PIÙ RECENTI

UN  LAMPO  DI  NOTTE


Sei apparsa nella mia vita
come un lampo di notte
e hai illuminato cose
che non riuscivo a vedere:
un pezzo di strada tutta curve
in salita, facciate di vecchie case
e la mia ombra riflessa sull'asfalto.
Così ho potuto immaginare
la tua voce e i tuoi occhi.
A volte anche il suono del vento
ha qualcosa di amico.






LA  MIA  OMBRA  MI  HA  RAGGIUNTO


La mia ombra mi inseguiva con rabbia
da una vita; da poco
mi ha raggiunto e mi ha inghiottito;
da allora vivo al buio e nel silenzio come
in un tampone di ovatta; nemmeno
riesco più ad ascoltare i suoni
della memoria più antica,
adesso che ho finalmente capito
il senso ineluttabile del nulla.

mercoledì 14 marzo 2012

DIAMO UN CALCIO IN CULO A DANTE

Avete mai sentito nominare una tale Valentina Sereni? Io mai prima di ieri l'altro. Sono andato sulle pagine del Corriere della Sera e ho trovato il nome della signora. A naso ho pensato che una con quel bel nome dovesse essere carina; poi il suo cognome indicava, sempre a naso, che fosse un tipetto tranquillo. Sarà magari bellissima e riuscirà a dormire profondamente almeno otto ore senza valeriana o infusi di camomilla, ma quando è sveglia tanto tranquilla non dovrebbe essere.
È la presidente del Gherush 92, un comitato per i diritti umani, che per conto delle Nazioni Unite si occupa, tra l'altro, di antisemitismo, razzismo, omofobia e tante altre cosucce del genere.
Tutto lodevolissimo a parer mio, da applausi a scena aperta, a parte il nome della ditta per le mie orecchie un tantino tedeschizzate. Gherush ha infatti un'assonanza con il sostantivo tedesco Geruch -con la gi dura di ghetto, di Gherush appunto- che significa "puzza".
Leggo l'articolo e mi convinco che la storia per l'appunto puzza, anzi puzza forte.
Questa presidente dirige un gruppo di cavalieri senza macchia e senza paura che tutto controllano e tutto sanzionano là dove sentono puzza -ci siamo, ho capito il perché del nome- di bruciato, come si suol dire.
Io sono contro tutte le intolleranze, anzi sono contro la tolleranza, che è la parola più brutta che esista, almeno pari a un'altra: integrazione.
Non si tollera nulla, si accetta il diverso a prescindere.
Non si integra nessuno nel nostro sistema, ci si adegua al suo e basta.
Invece Valentina Sereni e i suoi bulldog sono assolutamente intolleranti con gli intolleranti.
Passi. Ci sono malattie epidemiche che vanno isolate e circoscritte finché si esauriscono: Valentina potrebbe essere una di queste.
Potrebbe, ho detto. Infatti se la signora Sereni si limitasse a bacchettare i contemporanei -e ce ne sono di razzisti dichiarati, antisemiti, anti islamisti e anti tutto- non avrebbe il tempo di soffiarsi il nasino. Ma lei va oltre: scandaglia la letteratura e trova qualcosa che le "puzza" tanto.
La Divina Commedia.
Pensate: ha iniziato una crociata perché Dante venga eliminato dalle scuole, per la gioia di tutti i somari e dei castrati, gli stessi che sono quasi riusciti a buttar fuori il latino dalle medie, e che vorrebbero l'eliminazione del greco dal liceo classico.
Ma che c'entra Dante?
Valentina sostiene che Dante fosse antisemita, islamofobo e omofobo. Nell'Inferno i sodomiti corrono sotto una pioggia di fuoco. Maometto è crocifisso a terra e tutti lo calpestano.
Valentina Sereni dimentica o finge di dimenticare che Dante è un uomo del '300 e parla il linguaggio del suo tempo. Dimentica o finge di dimenticare che gli ebrei erano accusati del delitto di deicidio fín oltre la metà del secolo scorso.
Parla di anti islamismo e dimentica le crociate. 
Insomma dovrebbe togliersi la toga di grande accusatrice e indossare una tonaca da monaca di clausura liberandoci così dal suo cretinismo, che è pericoloso perché contagioso in questa terra che già brulica di cretini, ed è sovrappopolata di intransigenti imbecilli.
Questa emerita illetterata dovrebbe leggersi "Il viaggio in Italia" di Goethe e sentire come parla di Dante. Eliminare Dante dalle scuole significherebbe rendere il nostro popolo notoriamente ignorante e incolto, ancora più ignorante e incolto.
Tra le tante cazzate che spara c'è una chicca da favola. Secondo la Sereni dal medio evo in poi i romani chiamano gli ebrei "giudei" da Giuda Iscariota, dimenticando la geografia e la storia: la Giudea era infatti una regione grande quasi quanto l'odierna Israele. 
Che bella confusione deve esserci nella zucca della Sereni nonché Valentina.
Il guaio è che c'è chi le dà ragione, e sono gli stessi che hanno scelto i ponti per la moneta unica, in quanto non riuscivano a mettersi d'accordo sui personaggi da stamparci sopra: via Cervantes, antisemita convinto; via Shakespeare, autore del "Mercante di Venezia"; via Michelangelo, via Leonardo noti omosessuali.
Purtroppo non c'è solo chi le dà retta, ma anche chi le dà soldi per dire le stupidaggini che dice, e sono soldi di tutti, i soldi dell'O.N.U.



venerdì 9 marzo 2012

UN ATTIMO ETERNO

Due notti fa ho sognato Padre Pio. Mica un frate qualsiasi, proprio quello. Mi camminava davanti; quando l'ho chiamato si è girato, mi ha guardato e se ne è andato senza dirmi niente. Da un po' di tempo mi capita di sognare gente che, appena gli rivolgo la parola, gira la faccia altrove e se ne va.
L'ho raccontato l'altra sera a casa di mia nipote Cristina. C'era un sacco di gente perché festeggiava gli anni il suo ragazzo. Tutti a farmi le feste, a darmi pacche sulle spalle.
"Adesso ti fa il miracolo".
"Quale miracolo? Mica sto male io".
"Beh, lui te lo fa lo stesso: magari ti fa ammalare, poi ti guarisce".
Hai capito che amici che ho?
Quando ieri pomeriggio gliel'ho raccontato, Chicco mi ha chiesto tutto serio:
"Ma tu ci credi ai miracoli?"
"Poco o niente".
"E all'altro mondo, che ci aspetta dopo morti, ci credi?"
"Assolutamente. Ho le prove che esiste".
A momento gli andava di traverso il pezzo di pizza.
"Come sarebbe a dire che hai le prove?"
Così gli ho risposto che mi era venuta in sogno sua nonna, mia madre, e mi aveva riferito.
Sarebbe da farci quattro risate sgangherate se non fosse vero. Ma è la pura e semplice verità, cioè quasi la verità, perché io mia mamma non l'ho mai sognata.
In un post dello scorso anno ho raccontato quello che mi è successo nel "fatidico 1988": tutto quello che poteva succedere.
Ai primi di luglio, dopo le esequie di mia suocera, Anna Maria rimase a Cervignano e io mi recai da solo a Civitavecchia nella nostra vecchia casa dell'albero di fico. Prelevai mia madre dalla Casa di riposo a San Gordiano e la tenni con me, nella nostra casa, per un intero fine settimana. Non mi mossi, rimasi tutto il tempo insieme a lei: io le parlavo di ogni mia cosa e lei ascoltava ogni mia cosa. Sembrava che lo sentissimo dentro che era l'ultima volta che stavamo l'uno di fronte all'altra, le sue oramai magrissime mani nelle mie.
Parlai di tutto, ma proprio tutto quello che mi saliva in bocca.
A un tratto mi chiese:
"Quando ti sei confessato l'ultima volta?"
"Il giorno prima di sposarmi".
"Dovresti farlo; dovresti pensare alla vita eterna".
Come un lampo nel buio. Non so nemmeno adesso come mi venne di farle quella proposta poco delicata data la sua età.
"Stammi a sentire, mamma. Non ho potuto chiederlo a papà perché se ne è andato all'improvviso, ma tu mi puoi fare un favore?"
Si protese verso di me, pronta a darmi tutto, anche il sangue, anche la sua vita.
"Dimmi che devo fare".
"Quando arriverà quel giorno maledetto, quando insomma andrai dall'altra parte, se di là dopo c'è qualcosa vuoi venirmelo a dire? Vuoi venirmi a dare un segnale, mamma?"
"Sicuro, sicuro! Vengo, stai tranquillo".
Era tutta eccitata all'idea e a me venne da morsicarmi la lingua per averle parlato della sua morte.
Il lunedì mattina la riportai alla Casa di riposo. Non sapevo che quell'occhiata immensa che ci scambiammo, io al volante della mia macchina lei dietro i vetri della sua stanza, mi sarebbe rimasta stampata nell'anima come l'ultima cosa di lei viva.
Cinque settimane dopo il suo funerale, nel nostro paesetto sulla riva occidentale del Reno cominciava a sentirsi nell'aria l'odore del Natale. Faceva un freddo boia; non avevo ancora installato sul balcone l'antenna satellitare e quindi prendevo solo i programmi crucchi alla TV, il che significava quasi ogni sera una barba lunga così con la loro mania del talk show e del bla bla bla sussurrato.
Per questo ci infilavamo il più presto possibile sotto le coperte. Dopo cinque minuti io ronfavo, mentre Anna Maria ricominciava il suo rito propiziatorio alla dea del sonno: fianco destro, fianco sinistro, bocca sotto, pancia all'aria e si ricomincia. Allora avevo ancora il sonno durissimo e lei poteva far cigolare la sua metà del lettone come voleva che io continuavo beato a dormire.
Ma una notte di colpo fui sveglio e perfettamente lucido, coi sensi all'erta.
Nella stanza un'aura strana, quasi da vuoto spinto; un silenzio irreale, totale e una luce come quella di una candela in un banco di nebbia, che mi lasciava intravedere i contorni ovattati dei muri e delle cose.
Ebbi l'enorme sensazione dii una presenza accanto a me e l'impressione che il mio cuore avesse arrestato la sua corsa in attesa dell'evento.
Non dubitai un attimo:
"Dove sei?" chiesi.
Due braccia esilissime, che non vedevo ma che immediatamente riconobbi, mi si strinsero intorno alla vita e qualcosa si posò morbidamente sul mio cuore: il minuscolo capo di mamma. Era il "suo" usuale abbraccio iniziale e finale di ogni nostro incontro. 
Era il "suo" segnale , che io le avevo chiesto.
Volli toccarla per sincerarmi come San Tommaso, per mia estrema certezza.
Mamma alla fine soffriva di una immane scoliosi, stava tutta piegata sul suo fianco sinistro.
Allungai  una mano sotto la sua testa toccandole una ad una le vertebre che le sporgevano da tempo tutte in fuori come una catena montuosa: i miei polpastrelli percorsero un arco da destra a sinistra.
"Ho capito, mamma; grazie".
Un attimo dopo l'incantesimo era cessato.
Risentii il respiro lento e regolare di Anna Maria; rividi le cose alla luce del lampione fuori nella strada.
Come se niente fosse successo.
Ma tutto era successo: per un attimo il mio tempo era rimasto fermo, eterno, e io in quell'attimo avevo conosciuto il mio futuro più avanzato.


domenica 4 marzo 2012

HO AVUTO UN CANCRO PER UNA SETTIMANA

Andava tutto troppo bene. Scoppiavo di salute; Anna Maria non borbottava mai; Chicco a scuola non combinava più casini; Stefania era felice e contenta con la bimba che le era nata e io avevo cambiato lavoro. Dirigevo corsi di pittura in uno Jugend Zentrum, un centro di ritrovo giovanile per il tempo libero. 
Stavo sempre in mezzo a gente giovane, casinisti contenti di fare casino, proprio come me; colleghi allegri e non invidiosi; un sacco di soldi in più nella busta paga alla fine del mese e avevo lo Chef più babbeo che mi potessi augurare: facevo il beato cazzo del comodo mio, tanto a lui andava tutto bene e mi ripeteva sempre "Sì, Enzo, va bene così, Enzo, tu sei l'uomo giusto al posto giusto", e lui era il Capo giusto per me. Così babbeo che quando si era sposato invece di far prendere a sua moglie il proprio cognome aveva aggiunto quello della moglie al suo, come qui è consentito dalla legge, ma che solo i fessi fanno. Rainer Bauer Gain: lui era Bauer e lei Gain, e soltanto Gain era rimasta, tanto comandava sempre lei. Contento lui e contenti tutti noi.
È stata l'unica volta in cui mi recavo fischiettando al lavoro ogni santo giorno.
Ah, dimenticavo: mi ero di nuovo innamorato di mia moglie, che era veramente caruccia, sì, molto amorevole e amabile, la sua stagione migliore.
Che volevo di più?
Niente. Ma c'era un tarlo nella mia capoccia. Quando le cose vanno troppo bene tu metti il culo al riparo, diceva mio padre. Era lì, nascosto in un angolino del cervello il mio piccolo tarlo, e rosicchiava giulivo pezzettini di polpa cerebrale ogni giorno: cron, cron, cron, cron. Lo sentivo qualche volta prima di addormentarmi; lo ascoltavo un paio di minuti un poco ansioso, poi mi giravo su un fianco e lo mandavo affanculo.
Mangiavo di buon appetito ma non mettevo su un grammo di ciccia, anzi riuscivo di nuovo a infilare due dita tra pantaloni e trippa, cosa che non mi capitava da tempo immemorabile. Mi pesai e vidi con grande piacere che ero calato di due chili e mezzo.
"Merito della mia cucina senza grassi", si vantava mia moglie. Pensai che fosse merito delle sigarette: oramai incominciavo il terzo pacchetto ogni sera.
Ma un campanello aveva squillato brevemente in un angolo del mio cervello e in qualche posto si era accesa una spia rossa: un lampo breve, ma lo avevo captato.
Quando il mese successivo vidi che potevo stringere di un buco la cinghia dei pantaloni tornai a pesarmi: la bilancia mi dava quasi tre chili in meno dall'ultima volta, nemmeno venti giorni prima.
La spia divenne di un bel rosso fisso e il campanello un martelletto che mi batteva nel centro del cranio. Oramai tenevo d'occhio solamente il giro vita dei pantaloni. Senza cinghia me li sarei dovuti tenere con le mani per non rimanere in mutande: insomma ci ballavo dentro come ai bei tempi della mia Università. 
Decisi di cambiare tenore di vita: mangiavo porzioni più abbondanti, bevevo un paio di caffè in meno e portai a 30 il numero delle sigarette quotidiane, limite di un decennio prima.
Due settimane dopo tornai sulla bilancia. Col cuore in gola lessi la cifra: 70,500. In nove settimane ero calato quasi nove chili, etto più etto meno.
Andai dal mio medico di casa senza appuntamento. "Un'emergenza" dissi all'infermiera. Il medico dovette leggermi l'ansia e la paura sulla faccia.
"Devo avere un tumore", gli dissi.
Fece un sorrisetto.
"Dove ha dolori?"
"In nessun posto".
"Ha avuto emottisi? Sangue dal naso? Sangue nelle urine? Nelle feci?"
"Niente sangue".
"Perché pensa di avere un tumore?"
Gli dissi dei chili perduti in nove settimane. Lui rimase a fissarmi per una decina di secondi.
"Venga nel laboratorio che le prelevo sangue per le analisi".
Me ne tirò fuori dieci cc in tre cannule.
"Occorrono sette giorni per queste analisi".
Lessi sul deskop del suo PC la diagnosi che aveva scritto: Krebsverdacht, sospetto cancro.
"Pensa che si tratti di un cancro?"
"È probabile quando c'è un dimagramento massiccio in così breve tempo".
"Dove?"
Si strinse nelle spalle.
"Stomaco, intestini, polmoni forse, visto che lei è un forte fumatore".
Continuò a parlare, ma non lo stavo più ad ascoltare.
Uscii dal suo studio ammalato terminale, assai vicino alla cachessia finale.
Guidai a casaccio per una mezzora. Avevo il cuore che mi rimbalzava dentro la gabbia toracica come la pallina di un flipper.
Un pensiero fisso in testa, una domanda atroce: "Quanto tempo mi resta?"
A casa mia moglie mi aveva preparato l'accoglienza che mi ci voleva: Chicco aveva di nuovo combinato uno dei suoi casini, e lei voleva che lo castigassi subito.
"Adesso proprio no, le risposi; non mi sento tanto bene".
"Cos'hai?"
"Niente. Mal di stomaco, giramenti di testa, roba così".
Incominciò il solito pistolotto contro il fumo, ma io non la stavo a sentire.
"Quanto tempo mi resta? Forse un anno, forse due", ma subito mi appariva un'utopia tirare avanti per così tanto tempo. "Saranno mesi, non di più".
"Mi stai a sentire?"
"Sì, certo che ti ascolto".
"Allora va a parlargli. è in camera sua".
Chicco si aspettava il consueto diluvio di improperi.
Gironzolai per la stanza. Guardai fuori dalla finestra senza vedere nulla. Gli feci una carezza.
"Fai il bravo, non farla più arrabbiare", gli dissi e me ne andai.
Penso che le ore passassero, perché s'era fatto buio, ma per me il tempo si era fermato.
A cena toccai appena un po' di cibo. Mi accorsi che tutta la squadra mi osservava in silenzio.
"Che avete da guardare?"
"Che hai tu piuttosto? Fece Anna Maria di rimando, Sembri uno zombi".
Mi resi conto che non dovevo allarmare la mia ciurma.
"Non ho niente. Sto pensando ad un racconto che voglio scrivere".
"Non deve essere tanto allegro il tuo racconto, papà" disse Alessandro.
"No. Alla fine lui muore".
Andai a letto per ultimo. Mi girai su un fianco senza nemmeno sfiorarla.
"Buona notte".
Non mi fece nemmeno un grugnito per risposta. L'avevo offesa e mi avrebbe messo su un muso di tre giorni, ma non me ne fregava niente.
Dormii poco e malissimo, con un chiodo piantato in testa: "Non arrivo a Natale"
Quando sentii il suo respiro regolare incominciai a girarmi nel letto.
"Warum gerade ich?" Perché proprio io? 
Mi accorsi che pensavo cose tristi, cose brutte che avevo visto e vissuto durante la guerra, e mi accorsi di pensarle in tedesco.
Al lavoro fui sgarbato coi colleghi e mandai a quel paese un paio di ragazzi che mi avevano chiesto qualcosa. Dopo un po' mi giravano tutti al largo. Sentii qualcuno mormorare: "Enzo è incazzato nero". Ma non me ne importava niente. Pensassero quel che cazzo gli pareva, io mi ero chiuso in clinch come un pugile suonato a immaginare meine letzte tragische Stunde, ecco appunto, le mie ultime tragiche ore.
Quando ci lasciammo alla fine della giornata una collega, Christine Schwering, mi sussurrò accomiatandosi: "Fa pace con tua moglie stasera, per favore".
Mangiavo pochissimo, col muso sul piatto; fumavo una Marlboro dietro l'altra. Una sera contai come sempre facevo le sigarette ancora nel pacchetto e mi resi conto con raccapriccio che mi erano rimaste le mie ultime cinque del mio terzo pacchetto.
"Chi cazzo se ne fotte, tanto devo crepare".
Sentivo dolori da per tutto: il torace stretto in una morsa; lo stomaco bruciava; avevo continui mal di pancia; pisciavo roba scura e sporca, "sangue, pensai; è nei reni il figlio di puttana". Avevo pure preso l'abitudine di guardarmi la cacca prima di tirare lo sciacquone per trovarci tracce del mostro, sangue, pezzi di budella o chissà cosa.
Un martirio. A un certo momento arrivai a sperare che fosse rapido e mi portasse via il più in fretta possibile. Purché finisse.
La mattina che mi recai dal mio medico per ascoltare la condanna ero ormai rassegnato e distrutto.
"Negativo. Tutti i valori sono nella norma e non c'è l'agente patogeno di un tumore",
"E i chili perduti?"
"Capita alla sua età. Lei è in andropausa Herr Iacoponi".
Erano le 9,25 del 14 maggio 1989: il mio secondo compleanno.
Uscii all'aria aperta leggero come un passerotto.
Respirai a pieni polmoni. Che giornata meravigliosa!
Mentre allungavo il passo verso casa mi misi a ridere come un ragazzino.
"A Iacopò, sei l'unico caso de cancro che se guarisce da solo in una settimana: ammazzete che culo che ciai!"
Mi misi a correre: volevo raccontare tutto a Anna Maria e spiegarle perché mi fossi comportato così male con lei e con tutti. Se lo meritava, povera anima.