venerdì 17 luglio 2009

Breve commento prevacanziero

Capito allora cosa intendo per ritmo narrativo?
Quando una parola tira l'altra e nessuna è di troppo; quando il lettore si aspetta che qualcosa immediatamente succeda e veramente succede qualcosa; quando non ci sono commenti inutili, oppure pause inadeguate e fuori posto. Tutto qui.
Allora si arriva alla fine del racconto o alla fine del capitolo in un baleno.

Tornando a "Martedì" mi manca di parlare e discutere dei personaggi maschili, in effetti solamente due, ma per farlo come si deve occorre tempo, e per adesso questo tempo non c'è. Sono arrivate le vacanze per voi e per me, per tutti.
Quindi stacchiamo.

Auguro buone vacanze a tutti, soprattutto a Giulia in Normandia, a Barbara un po' qua e un po' là, a Cristina S. sulla foce della Loire, a Cristina G.B. speriamo in montagna (a Bardonecchia?).
Anche a me stesso.
Me le farò sulla laguna di Grado, Gorizia, guardando le sponde croate.
Bel posto: andateci, ma vi consiglio di lasciare la macchina a casa vostra, perché parcheggi...nisba, nemmeno a pagamento...a meno che non ci proviate all'alba. Con un po' di fortuna un buchetto si trova.

Ciao a tutti, ci risentiremo a settembre.

mercoledì 15 luglio 2009

Ecco il raccontino promesso

Visto che ogni promessa è un debito, lo pago immediatamente.
Il titolo del raccontino è:

UNA RAGAZZA DI NOME GIOVANNA

In nessun posto del mondo i pomeriggi d'estate sono così allucinanti come nel quartiere del "Ghetto" a Civitavecchia. Le mura scrostate delle case si spellano sotto il sole a picco e si mangiano l'ombra, che si fa stretta come una riga di tinta scura; gli alberi si prosciugano addosso al proprio scheletro; la luce rimbalza sul selciato polveroso e secco schizzando in mille forme aguzze, che ti spaccano gli occhi, e l'aria ti dà l'idea di essere una tela trasparente, tirata dalla terra verso il cielo con tale forza che tra poco si scollerà e tu creperai per mancanza di ossigeno.
Ininterrotto il canto malinconico delle cicale. Il resto dei viventi, animali o cristiani, se ne rimane in silenzio, rintanato in qualche buco dove non passa il sole.

Quel giorno c'ero soltanto io, al centro di una piazzetta, a lasciarmi trafiggere dal sole. Ritornavo nella mia città dopo sette anni di astinenza dai parenti più stretti, dagli amici, dalle cose che meglio conoscevo e dall'odore del mare. Ero partito una settimana dopo il mio esame di maturità, senza nemmeno aspettarne l'esito, tanto era andato tutto liscio, anzi in modo piuttosto brillante. Lo scopo dichiarato era di rimettermi un po' dopo le fatiche di quell'esame e conoscere qualche terra straniera.
Un viaggetto di un paio di mesi, dissi a Dario e a Paolo, due dei quattro inseparabili.
"Salutatemi Adolfo, quando torna da Cagliari".
Adolfo era il terzo inseparabile; il quarto ero io.
Di due mesi in due mesi s'erano fatti sette anni: il mondo lo avevo girato, ma non mi sentivo molto migliore. Adesso ritornavo per rimanere, almeno era quello che credevo.

"Per una rimpatriata solenne occorre una festa solenne, esclamò Adolfo pieno di entusiasmo. Occorrono ragazze, whisky, soda e un complessino rock di Viterbo che è uno sballo".
A Viterbo da sballo c'erano solo un paio di ragazze, ricordavo io, ma mi fidavo del mio miglior amico e del suo fiuto; poi lui conosceva le mie preferenze meglio di ogni altro.
"Sei capitato un po' in anticipo, però, aggiunse Dario: quest'oggi è il primo giovedì del mese e, non so se ricordi, ma questa notte è la nottata della pesca".
E come se me lo ricordavo! Nottate tremende trascorse tra gli scogli dell'antemurale del porto, con gli inseparabili ai quattro punti cardinali per tirar su dall'acqua a volte solo qualche pescetto striminzito, dopo aver tirato giù un mare di bestemmie.
"Chi veniva al posto mio?". "Roberto Ti, il figlio dell'orefice, te lo ricordi?". Mi fa Paolo.
"Quello che aveva quella sorella tutta una curva? Chiesi mimando lo scultoreo corpo di quella bonona. E perché proprio lui? È sempre sbronzo". "Per via della sorella, si capisce". "Allora andate con lui stasera?". "Devi venire anche tu, saltò su Adolfo. Ci mancherebbe che adesso che sei qui tu non venissi! Si va in cinque, punto e basta".

Dovetti convincere mia madre che dopo quella ci sarebbero state tante serate, che avrei potuto dedicarle per raccontare quello che avevo fatto in quei sette anni, e anche quello che non avevo fatto, si capisce. Non era molto felice, ma le bastava aver di nuovo il figlio sotto lo stesso tetto. Fu mio padre a tirar giù un bel carico da undici: "Ma lascialo andare! Chissà quante cose belle hanno da raccontarsi lui e i suoi amici". E quante porcate, pensai io.

Andai sparato su in soffitta a tirar fuori tutta la mia attrezzatura per la pesca. Dio solo sa cosa era successo alla mia roba in quegli anni, pensai. Ma era tutto lì, bello impaccato come avevo lasciato io: e che mai avrebbe dovuto succedere se in soffitta metteva piede solamente mia madre, che conservava le mie robe come reliquie.
Controllai e vidi che mancava il filo di nylon del 50 per le imboccature e anche una serie di ami. Pensai di fare immediatamente un salto dal mio vecchio fornitore in Piazza del Mercato, e di farmi consigliare da lui sul tipo di ami da acquistare.
Sulla porta di casa incrociai Adolfo, che aveva pensato potessi aver bisogno del suo aiuto. Sempre pronto lui ed altruista; non era peggiorato col passare del tempo.
"Vado da Remo per ami e filo del 50", gli dissi.
"Non andiamo più da Remo, ci abbiamo litigato. C'è un negozio nuovo a Santa Marinella. Il proprietario si chiama Piero. Ha tutti gli ultimi urli della tecnica, e ti prepara tutte le imboccature che vuoi con nodi speciali, che si inventa lui. Dopo devi solo attaccarle. Ti fa vedere Piero come si fa".
Pensai che ne avevo proprio bisogno, dato che in tutto quel tempo avevo dimenticato le tecniche dei nodi. Chissà che disastro avrei potuto combinare di notte, alla luce di una pila elettrica.
Adolfo mi accompagnò con la sua macchina. Facemmo la nostra spesa e tornammo velocemente a casa mia.
"Passo a prenderti alle nove", disse e scappò via.

Preparai alcuni panini col formaggio e col salame, presi pure un paio di bottiglie di acqua minerale. Bevo sempre molto di notte, se non dormo. Misi tutto in uno scomparto del mio vecchio zaino; il resto era pieno di tutta l'attrezzatura e di ciò di cui pensavo avrei avuto bisogno durante la notte, sufficiente per una pesca miracolosa. Scelsi la mia antica canna di resina in quattro pezzi avvitabili, per una lunghezza complessiva di sei metri; una buona lampada tascabile, alcune pile di riserva e cominciai ad aspettare Adolfo. Arrivò spaccando il minuto, come sempre ricordavo io dei suoi appuntamenti.
"Paolo e Dario sono già in postazione, mi avvertì. Per Roberto dovremo aspettare qualche minuto, perché viene a piedi, facendo stradine solitarie". "Scaramantico?". "Teme che qualcuno lo veda e gli auguri buona pesca. In quel caso fa dietrofront e torna a casa". "Ha ragione: se qualcuno te lo augura la serata è fottuta. Ma come fanno ad accorgersi che lui va a pescare? Non ce l'ha una macchina?". "Non ci passano dentro le sue canne: ha una bestia da otto metri e una da dodici". "Vuole tirare su balene?". " Macché! Sono due mesi che non prende mai niente".
Mi misi a ridere forte. "Se lo ricordo bene, sai che bestemmie!". "Ne inventa sempre di nuove. Questa sera ti farai una cultura".

Lasciata la macchina, dovemmo marciare per un paio di chilometri, l'ultimo tratto saltabeccando tra scoglio e scoglio per raggiungere Paolo e Dario, che ci facevano segnali con la torcia elettrica. Paolo aveva portato un cestino di terra pieno di lombrichi; Dario aveva preparato il "pastone", un impasto di mollica di pane e cacio pecorino grattuggiato. Le armi le avevamo, le munizioni pure, non restava che tirar su pesci. Ma dovevamo attendere che arrivasse Roberto Ti, perché si potesse fare il rito propiziatorio: i componenti della squadra dovevano lanciare in acqua le loro lenze contemporaneamente, e non uno dopo l'altro, altrimenti si sarebbe potuto subito sbaraccare e tornarcene a casa.
Roberto Ti arrivò poco prima delle undici. Paolo si era addormentato con la testa sul suo cestino dei lombrichi. Dario ci aveva nel frattempo aggiornato sulle abitudini sessuali della sua nuova vittima, io mi ero pappato due panini al formaggio e un uovo sodo fregato dalla sacca di Adolfo, che nemmeno se n'era accorto attentissimo com'era al rapporto di Dario.
Insomma ci stavamo ben bene rompendo i coglioni.
Quello stronzo di Roberto Ti non ci salutò neppure.
Dopo un po' comunque effettuammo insieme il primo lancio.
L'ora era forse la più propizia, quella in cui i pesci vanno in cerca di cibo; una splendida luna di tre quarti illuminava la superficie del mare solo leggermente increspata, permettendoci di tenere d'occhio il vibrare dei nostri sugheretti: se un pesciolino avesse incominciato a sbocconcellare le nostre esche ce ne saremmo immediatamente accorti. Dopo un po' riuscivo a seguire le evoluzioni del mio sugheretto sulla cresta delle onde con gli occhi che si incrociavano e cominciavano a lacrimare. Pensavo fosse la desuetudine, ma si lamentavano anche gli altri.
Alle due di notte arrivarono i primi vaffanculo confezionati in vario modo. Mezzora dopo avevamo sprecato metà del pastone di Dario e cominciavamo ad affidarci alla forza adescatrice dei lombrichi di Paolo.
"Dove hanno già mangiato 'sti figli di puttana?" Proruppe Adolfo.
In effetti non mi era mai capitato di vedere che cinque lenze a quell'ora non subissero nemmeno una strattonata di un pesce vagabondo.
Dopo pochi minuti Roberto Ti incagliò il suo amo in uno scoglio e dovette tagliare il filo, condendo la manovra con una cascata di bestemmie. Fu allora che mi accorsi di non avere più niente da mangiare, né da bere.
"Ci sono i due fischi di vino che ha portato Roberto", disse Paolo. Quando arrivai vicino alla sua sacca Roberto Ti mi guardò torvo. "Solo un goccio e fila via", sibilò. Uno dei due fiaschi era vuoto, l'altro conteneva forse un paio di sorsate. "Quale goccio devo bere, ché ti sei già scolato tutto?" Lo apostrofai. "Il vino è mio e me lo bevo io, stronzo!". "Stronzo sarai tu e tutti i tuoi morti!" Gli risposi infuriato. Non mi era mai stato simpatico: era un cafone sempre pieno di vino e di scorregge puzzolenti, che ammorbavano l'aria. Ne mollò una pestifera. Perfino Dario, che stava a più di venti metri, dovette allontanarsi.
Cominciavo ad avere i coglioni pieni di quella nottata. Il cielo si andava schiarendo. Guardai l'ora: mancava poco alle cinque, una quindicina di minuti all'alba.
"Non sono più in forma. La pianto qui per questa volta, dissi ad Adolfo. Tu che fai?". "Provo ancora per un po'. Aspettami, ché debbo riaccompagnarti a casa". "Credevi che me ne fossi dimenticato? Gli chiesi cominciando a svitare i pezzi della mia canna. Vado fino alla stazione a prendermi un caffé".

Li piantai lì ricominciando mestamente a saltellare di scoglio in scoglio. Ne avevo per più di due chilometri prima di arrivare in stazione, quasi la metà sul dorso di scogli umidi e scivolosi per la salsedine.
Non sarebbe stato facile reinserirsi nella vecchia vita, pensavo mentre appoggiavo i piedi con cautela; loro non conoscono i miei problemi, come io non conosco i loro.
Finalmente la scogliera terminava e io potei camminare più in fretta sulla terra ferma.

La stazione era deserta e il bar era chiuso fino alle sei. Ancora mezzora prima di bere un cappuccino. M'incamminai lungo un binario. La luce gialla dei lampioni notturni ancora accesi, mescolandosi a quella del giorno incipiente, rivestiva le grige pietre dei marciapiedi di un velo spettrale. Il segnale acustico, che avverte l'arrivo di un treno, entrò in funzione.
Per chi diavolo suona 'sta campana? Non c'è nessuno che parta, pensai. Nemmeno un manovratore fra i binari. In quel momento dalla grande curva spuntò un treno e come d'incanto si materializzò sotto la pensilina un tizio allampanato vestito di nero con un berretto rosso con visiera. L'altoparlante annunciò l'arrivo del direttissimo Torino-Roma sul secondo binario. Lo annunciò al tizio con visiera e a me. Il treno fermò con enorme stridore di freni. Nessuno doveva salire, nessuno scese. Finestrini tutti appannati, scompartimenti al buio. Là dentro la gente dorme ancora a fondo, pensai.
D'un tratto uno di quei finestrini fu abbassato. Comparve nel riquadro una esile figura di donna, molto giovane. Mi avvicinai fino ad arrivarle sotto. Un viso meraviglioso, un ovale perfetto. Occhi azzurrissimi che mi guardavano intensamente, come la stavo guardando io.
"Come ti chiami?" Le chiesi. "Giovanna". Rispose.
Continuammo a guardarci, poi lei mi sorrise. Fu un attimo. Il capostazione emise un fischio breve e lacerante e subito il treno si mosse. Feci due passi verso il vagone. Lei mi sorrise di nuovo e alzò una mano in un lieve saluto. Mi fermai. Il treno acquistava velocità. Il direttissimo Torino-Roma si portava via per sempre la donna di cui mi ero perdutamente innamorato.

Nelle cento contrade in cui la vita mi ha trascinato ho spesso incontrato donne esili e fragili con occhi azzurrissimi e volto perfetto. Ogni volta ho sussultato. Invano: quel grande amore era andato perduto per sempre.
Alcuni mesi fa, in una libreria di Firenze per la presentazione del nuovo libro di un mio amico, si parlava di amori giovanili.
"Lei ricorda il suo primo amore?" Mi chiese un'elegante signora.
"Certamente, le ho risposto. Si chiamava Giovanna; veniva da Torino".

Parliamo di ritmo

Vi ho già detto che il ritmo sta per me sul gradino più alto del podio. Parliamone quindi.
"Ritmo! Ritmo! Ritmo!" cantava Alberto Sordi al tempo della TV in bianco e nero in una sua indimenticabile gag. Non è, però, del ritmo musicale che voglio parlare, bensì di quello narrativo.
Io sono un lettore particolare (ma credo che come me ce ne siano parecchi), che quando apre un libro e inizia a leggerlo ha bisogno di entrare nella storia e viverla il più intensamente possibile, cioé immedesimandosi magari in un personaggio. Ma non mi basta: la narrazione deve fluire compatta, stringente, mi deve prendere e trascinare. Non ci devono quindi essere pause. Va bene in teoria, naturalmente, perché in pratica le pause occorrono: per fare riflessioni, commenti o introdurre nuovi elementi narrativi. Che siano comunque logiche e non spezzino in tanti tronconi il racconto.
Già sento qualcuno obiettare: ma anche il tuo "Martedì" ha lunghe pause, come la mettiamo?
La mettiamo che un romanzo psicologico non è un romanzo d'azione.
Però il racconto dell'esproprio dalla banca ha un ritmo martellante, "ti piglia al collo e non ti lascia il fiato" (citazione a memoria da un commento di un lettore). Il racconto di Marò, anche: direi un ritmo cinematografico. Anche il finale del romanzo ha il ritmo travolgente della catastrofe che incombe, e questo non è solo un mio personale giudizio.
Insomma "Martedì" non è un libro che pianti a metà per mancanza di voglia di leggere avanti.

Riassumendo i miei argomenti:la narrazione deve avvolgere il lettore e farlo sentire come dentro un gomitolo di idee e di avvenimenti. Ottenuto ciò l'autore ha dato il massimo. Questo è lo iacoponipensiero.

Se questa sera trovo un po' di tempo -sto vivendo le ore che preludono alla partenza per le ferie- vi trascrivo un raccontino per darvi un'idea di quel che io intendo per ritmo narrativo.
D'accordo: è un racconto brevissimo, ma rende chiaro il concetto.

domenica 12 luglio 2009

Qualcosa su di me, a richiesta

Qualcuno si chiede, e mi chiede, chi sono, che faccio tutto il giorno, perché resto ancora in Germania.

Chi sono? Questo comincio a non saperlo più nemmeno io. Un uomo, ecco, un uomo di variegato aspetto e di diversa sostanza a seconda che a guardarlo sia sua moglie, qualcuno a caso dei suoi figli, un nipote, un'estraneo.
Quest'uomo per la moglie è spesso un vecchio amico, qualche volta uno sconosciuto, qualche altra volta -sempre più rara- una riscoperta.
Con i figli va come tira il vento (il vento della vita, quello che trascina via tutto): qualche volta è una brezza che solletica la pelle, qualche altra un ventaccio schifoso che prelude al temporale.
Per i nipoti un dio, o quasi. "Il miglior nonno del mondo" è il Cristinapensiero. "Il migliorissimo nonno del mondo" è l'Alessandropensiero; Ivan e Sofia concordano; Fabio e Alessia non sanno ancora parlare, ma ridere sanno eccome! Insomma tacciono, quindi acconsentono.
Per i conoscenti italiani una valvola di sfogo per raccontare i casi loro; per i conoscenti tedeschi un buon conversatore sul tempo e stupidaggini affini; per gli amici greci e turchi un Kumpel di bisbocce, grigliate e dissertazioni sulle donne.
E per se stesso?
Una fabbrica di idee; un partner ideale per conversazioni solitarie, in macchina a voce alta, a letto con la voce interna, quando gli altri dormono.

Che faccio tutto il giorno?
Quando non scrivo vado a sedermi ore ed ore sulla riva sinistra del Reno e guardo scorrere l'acqua. Così adesso so che alla mia destra, lontani grazie a dio, sono gli svizzerotti, e che alla mia sinistra, ancora più lontani, gli olandesi e il resto del mondo.
Il tempo non passa mai mentre scorre il fiume.

Perché sto ancora in Germania?
I figli; le abitudini, buone e cattive; la pigrizia di impacchettare tutto, smontare mobili qui e rimontarli laggiù, rispacchettando tutto e non trovando più almeno la metà.
Sì, lo confesso: alla mia frenetica attività mentale fa da specchio un' imperiale pigrizia per tutti i movimenti domestici e paradomestici.
È il mio lato oscuro, che tanto tormenta Anna Maria, mia moglie.

sabato 11 luglio 2009

Qualcuno vuol sapere

Sono diversi ormai quei lettori che mi chiedono quanto conti per me la trama e quanto invece l'approfondimento dei personaggi.
Occorre fare un distinguo: la trama -come mi pare di avere già detto- si sviluppa pian piano percorrendo la traccia che io ho già fissata in anteprima. Può variare, a seconda che incontri ostacoli o meglio sfoci in altre possibilità di narrazione. Per fare un esempio: se io ho previsto nella traccia che due innamorati vadano a fare una gita in barca su un lago, da soli, e invece mi imbatto nel narrare la storia in un gruppo di caciaroni simpatici che vanno in montagna, annullo la gita in barca e mando i due innamorati a far cagnara coi simpaticoni in una baita. Da qui poi potrà nascere una nuova situazione, comica o tragica, che forse cambierà il finale del racconto.
Voglio dire che io non mi lego mai ad una trama ferrea, costi quel che costi, ma che mi deve piacere la storia nel suo svolgimento e nel suo insieme.
È un po' come mi succede quando dipingo un quadro: mi metto lì perché ho immaginato un soggetto e poi alla fine mi trovo come risultato sulla tela qualcosaltro. Uno dei miei quadri che più hanno avuto successo, intitolato "I bevitori", lo avevo immaginato su toni di verde, con due vecchietti in manica di camicia, che si fronteggiavano in una giornata di sole ad un tavolo ricoperto da una tovaglia verde, per l'appunto. L'originale, venduto a Colonia, si trova a casa di una signora della alta borghesia di quella città: Il verde è scomparso, sostituito da toni di rosso bruno scurissimo; i due sono nudi e rossi vermiglio; attraverso una finestra si vede un albero quasi nero stagliarsi nel cielo scurissimo della notte.
Quindi la trama per me conta in modo assai relativo. La storia narrata nel romanzo si sviluppa un po' per volta, come la vita, che si svolge di giorno in giorno: per anni non succede mai niente a modificare una routine da agonia, poi all'improvviso tutto esplode e tutto cambia.

Ben diverso è il discorso sui personaggi. Quelli li ho già chiari e precisi nella mente prima di iniziare a scrivere. Cerco di farli emergere dal nulla della pagina bianca con pochi tocchi, qua e là. Chi ha letto il libro o qualche altro racconto si deve essere accorto che io non faccio descrizioni dettagliate, né di ambiente né degli attori che vi compaiono, cioé i personaggi della storia. Preferisco lasciare al lettore la scelta dei caratteri fisici, del tono della voce, del modo di muoversi di ogni personaggio. Permetto al lettore di scegliere in chi immedesimarsi. Parlo da lettore, non da scrittore adesso: quando leggo un libro non riesco ad entrare nella storia se non nei panni di uno dei personaggi, che non è detto sia quello principale e neanche che sia un uomo. Quando questo avviene mi godo la storia fino in fondo e qualche volta me la rileggo immediatamente.
Ci tengo a lasciare ai miei lettori lo stesso privilegio.

Detto per inciso, e per concludere, ciò che per me sta sul più alto gradino del podio è il ritmo narrativo. Ne parleremo un altro giorno.

venerdì 10 luglio 2009

Oggi ho il morale giusto per parlare di Christine

Sì! Ho il morale jo-jo: con un salto se ne va in mezzo alle stelle; dieci minuti dopo sbracamento e me lo ritrovo dentro le mutande.
Non chiedetemi perché: non lo so nemmeno io. Non lo so.
Ottimo per concentrarmi su uno dei personaggi più ricchi del romanzo.
Christine Schwarz è una tedesca di bellissimo aspetto, che il protagonista incontra per caso casaccio in un locale crucco che più crucco non si può, una birreria, dove se si vuole si danza (non si balla, si danza, capita la differenza? La musica moderna e il rock sono banditi), e se si ha voglia si incontra la ragazza per il fine settimana. Così la pensa lui, che nemmeno conosce dieci parole di quella lingua ingrata, perché a senso non ti lascia capire niente. Ma Christine s'è immediatamente presa la cotta per quello spilungone. Se lo porta in giro per tutta Sachsenhausen (il quartiere dei gozzovigliamenti di Francoforte, con più di tremila locali ininterrottamente aperti dal giovedì sera alle sei del lunedì mattina successivo). Lei si trascina il suo pezzo d'uomo di locale in locale; gli si strofina addosso come una gatta, lo fa ingrifare come un porcospino ingrifato lasciandogli scolare dentro il gargarozzo una buona quantità di pils, così, tanto perché impari come si fa a non bagnarsi il gozzo bevendone una con una sola sorsata; alla fine, quando lo vede bello maturo e pronto, gli infila sul pisellone un preservativo di ottima marca tedesca (quindi sicurissimo) e fa all'amore con lui sulla riva del Meno, sotto le stelle.
Nata così per caso, una relazione di poche ore si trasformerà per via degli eventi successivi in un grande amore, che finirà solo con la morte di lei. Dalla produzione di coppia nascerà un figlio.
Per agevolare la vita del suo uomo e per legarlo ancora di più a sé lei ritorna al paese natio, nella Renania Palatinato, dove ha una bellissima casa, nella cui soffitta lascerà che suo marito allestisca un'atelier di pittura.

Christine è un controsenso vivente, secondo me, piena di impeti e di entusiasmi, ma anche frenata da una specie di saggezza contadina, che è nel suo DNA. Non cercherà mai di interferire nell'attività artistica del marito, pur apprezzandone i valori, e si guarderà bene dall'aiutarlo nella ricerca di gallerie disposte ad esporre i suoi quadri.
"Ti dovevi sposare una russa, gli dice alludendo alla moglie di De Chirico, ma tu hai sposato una tedesca e le donne tedesche quando capiscono che il proprio uomo è un genio si tirano da parte".
Alla fine per cercare, proprio lei, un'alternativa all'attività di pittore e dare così uno scossone a un rapporto di coppia che stava intorpidendosi, combina un pasticciaccio brutto mettendo il marito in una situazione indifendibile.
Lui va in galera per un anno e mezzo, e lì incomincia la fine imprevedibile della loro storia.

Che Christine mi sia subito piaciuta lo indica anche la scelta del nome: mia nipote si chiama Cristina, un'altra nipote acquisita pure.
Christine si chiamava la prima ragazza che ho conosciuto arrivando a Francoforte: era la figlia del proprietario dell'officina automobilistica, con annesso distributore di benzina, dove io ho lavorato per quasi un anno, il mio primo lavoro in Germany; insomma era la mia "sceffina", come dicono tutti gli italiani che lavorano qui alludendo alla moglie o alla figlia del principale, dello Chef.
Mi ha aiutato a trovare un alloggio, mi ha preparato tutti i documenti che mi occorrevano, ha fatto da garante per l'acquisto della mia prima macchina, un VW maggiolino color crema; mi ha insegnato i rudimenti della sua lingua e mi ha convinto a frequentare una scuola per impararla a dovere. Non siamo mai stati a letto insieme, né abbiamo flirtato mai. È stata una vera amica. Era alta quanto me e assai ben fatta; portava spesso i capelli, che aveva lunghissimi e scuri, raccolti in una crocchia nella parte sinistra della testa, una cosa buffa, ma a lei stavano bene.
La mia Christine, quella del romanzo, fisicamente l'ho copiata da lei di sana pianta. Il carattere mi è venuto fuori dalla penna paginetta dopo paginetta, e mi è piaciuto assai.
Credo di avere creato un personaggio positivo nel bene e nel male, che i lettori, maschi e femmine, per motivi contrapposti possano apprezzare. Non cambierei una virgola di quello che ho scritto su di lei, di ciò che le ho fatto fare, di quel che le ho fatto dire. Christine mi piace anche quando sbaglia, anche quando fa fesserie, e ne fa un paio.

Anche lei doveva morire, come Marò, perché il mio libro potesse esistere così come è.
La verità è che il protagonista e narratore in prima persona della storia ed il suo amico Terenzio Mauteri erano nei miei intenti iniziali l'uno l'alter ego dell'altro, per cui le loro storie dovevano avere una sorta di parallelismo, almeno nel dolore e nella sfortuna.
Questo era nelle mie intenzioni, ma poi mi sono lasciato trascinare dal mio stesso entusiasmo e dalle mie emozioni entrando calzato e vestito dentro la mia storia, e non mi sono più curato di certi parallelismi. Per fortuna, perché odio i romanzi a tesi. Non avevo niente da dimostrare: è la vita nella sua crudezza ad esporre i suoi teoremi e a dimostrarli.
Così è e così deve essere.

giovedì 9 luglio 2009

Figure femminili di "Martedì"

Stanno arrivando a me e a Baku Editore mail di lettori e di lettrici, che chiedono chiarimenti su alcune figure femminili del romanzo. Ce ne sono alcuni assai importanti: Ima, la madre del protagonista e Christine, sua moglie. Altri meno importanti: "La signorina bella e carina"; la cugina Adriana; Angela, una sua collega-amante; Billa Zandicò, una slava mezzo zingara e mezzo matta.
Escludendo naturalmente Marò, perché ne ho già parlato.

Parliamo quindi un po' di Ima, abbreviativo di Immacolata. È sicuramente una madre durissima, tutta presa a seguire la sua carriera e i suoi successi nelle aule dei tribunali. Spietata con suo marito, il tanto amato papà del protagonista, cui non lascia passare nessun errore e che tratta a volte come uno straccio sporco; insofferente anche col figlio, che le appare come una mezza seghetta. Non lo ama, quindi? Ma no! Certo che lo ama, a modo suo, soprattutto perché è tutto quello che è stata capace di mettere al mondo. Tra un successo in tribunale e una lite col marito o con la odiata suocera, trova il tempo, di tanto in tanto, di gettare un'occhiata su quel pupazzetto, che piano piano sta venendo su.
Occhiata assai superficiale, perché non si accorge che dopo la morte del padre il ragazzo è profondamente cambiato, e che l'uomo che sta diventando si allontana ogni giorno da lei. Soprattutto non conosce il motivo profondo di questo cambiamento. Il chiarimento arriverà per lei alla fine, e sarà la mazzata che il figlio darà a sua madre ormai vecchia e prossima a morire. Senza pietà, brutalmente.

Qualcuno si è chiesto se si tratti di diretta esperienza dell'autore.
No. Mia madre era tanto tenera quanto Ima è dura, tanto amabile quanto Ima è sprezzante e strafottente. Ho preso spunto da alcune matrone, amiche di mia madre, che ho conosciuto da vicino, ma in fondo me la sono inventata, così implacabile e sicura di sé.
E mi piace così: Ima mi piace.
A me piacciono le donne sicure di sé, impavide, che marciano come carri armati, ma sempre con estrema femminilità e Ima ne ha da vendere. Mi piacciono da matti le donne che si sanno offrire a chi vogliono loro, negandosi a tutti gli altri.

È stata una donna così, che mi ha detto parole che non ho più dimenticato, parole importantissime, che forse le sono sfuggite di bocca: "Voi uomini siete convinti di scegliere, mentre invece è la donna che si lascia scegliere, dopo avere scelto lei per prima".
Era molto intelligente, al punto di sapere che "una donna intelligente non deve mai mostrare per intero la sua intelligenza al suo uomo, altrimenti lo mette in soggezione". Ho costruito Ima così intelligente come piaceva a me: io adoro infatti le donne intelligenti, mi mandano in delirio.
Eppure, amici miei maschietti, anche noi abbiamo chance con donne simili. Io ho mandato KO quella mia amante di cui sopra, quella che sceglieva e si lasciava scegliere, con parole semplicissime, pronunciate nel momento opportuno -sempre scegliere con cura il momento, gente- .
Le dissi: "Credo che invecchiare accanto a te sia la cosa più bella che possa capitarmi".
Andò in delirio lei e per un paio di notti fu un trionfo.
Forse c'è un pochetto anche di questa mia ex dentro Ima. La mia ex era strabella, era stratutto lei. Come Ima.

Mi devo dare una calmata

È ciò che pensa Giulia Fabbri, la mia editrice, dicendomi che a me sta friggendo troppo in fretta il sedere. Il libro vende bene, anche se all'inizio si è mosso con lentezza. Lei è soddisfatta. Il guaio è che io già pensavo di vederlo navigare sull'onda della testa della classifica dei bestseller. Ma, si sa, gli autori sono impazienti e io in modo particolare. Come quando vado allo stadio e appena l'arbitro ha fischiato il calcio d'inizio guardo l'orologio per vedere quanto manca.

In questi giorni poi in Germania è arrivato autunno inoltrato: pioggia e freddo. Questa mattina sulla mia loggia erano 14°! Sarà per questo che mi girano tanto i marroni. Via i calzoncini corti, via le magliette senza maniche. Di notte il termometro scende sotto i 10°: tira di nuovo fuori le coperte e le giacche e le scarpe invernali. Ma che schifo 'st'estate!

Sto scrivendo un altro libro (ma guarda!). È una storia di nuovo conio per me (leggi: argomento mai affrontato prima) e necessita di pause di riflessione. Qui il blog casca a pennello. Mi serve a non mordermi le budella per qualche idea che mi esce storta e che non riesco a raddrizzare.
Ma non vi parlerò del nuovo, porta sfiga parlarne prima che sia finito, si corre il rischio di non finirlo mai.
Adesso faccio colazione (robbetta: caffè, due fette tostate, burro e marmellata), poi riprendo a parlare di "Martedì", dei personaggi femminili di "Martedì". Ce ne sono di interessanti. Vi racconterò come li ho pensati, elaborati e scritti. Non mi piace dire: come li ho creati. Di questi tempi mai atteggiarsi a creatore. "Mala tempora currunt". Oggi meno si parla delle donne che si è conosciute, meglio è.
Taci, il nemico ti ascolta.
E ti frega.

mercoledì 8 luglio 2009

Una breve pausa di freschezza: Fabio

Fabio è mio nipote; ha una sorella gemella, Alessia, ma lei non entra in questa cosa.
Ieri eravamo in piscina e mi sono accorto che Fabio guarda le ragazzine di dodici o tredici anni, e ride. Non le guarda in viso, no, ma guarda le coscette e soprattutto lui guarda "il culetto", e ride beato.
Vabbè, è un maschietto e guarda le femminucce, tutto OK!
Ma lui guarda le pupe di dodici anni.
Allora? Non è che lui sia tanto grande.
Ma guarda i culetti.
E allora? Tutti i maschietti che si rispettino guardano i culetti delle femmine.
Però non so, non so proprio.
Ma insomma cos'è che ti turba e ti stupisce tanto?
Ahò! Ma-che-stai-addì! Fabio ha 21 mesi!
Ben arrivato nella famiglia dei pomicioni, Fabio.

Cominciamo col parlare di Marò

Ebbene sì, lo ammetto, non vedevo l'ora di arrivarci: Maria Rosaria Gangi mi ha preso il cuore. È stato un amore alla prima frase, al primo aggettivo, alla prima riga, insomma immediato.
Volevo narrare la storia di una ragazza un po' particolare, che rendesse il passato di Terenzio Mauteri ancora più simile e parallelo a quello del protagonista, ma dopo poche frasi mi sono trovato fra le mani un personaggio femminile di grande spessore, che ho cominciato a dosare in punta di penna. Insomma Marò mi è uscita di getto dalla penna così com'è nel libro: non ho dovuto più aggiungere né togliere una parola (né l'ha fatto la correttrice di bozze. Grazie Giulia).
Sento già arrivare una domanda: rassomiglia a qualcuna che hai conosciuto, che magari ti ha lasciato in asso?
Assolutamente no. Me la sono inventata io dalla cima dei capelli alla pianta dei piedi.

Marò è la mia donna ideale, e rassomiglia alla donna ideale di ogni uomo, la donna che esiste solo nei sogni, che più la cerchi più ti accorgi che non c'è. Marò è la donna madre e la donna amante, la donna sorella e la donna amica.
Nel libro è una donna giovane, bella e intelligente, capace quando serve di rimbrottare e di spellare vivo Terenzio, il suo uomo, e di metterlo in ginocchio davanti a lei; ma anche capace di amarlo al punto di sacrificare per lui le due cose più preziose che ha: la sua dignità e la sua vita. E questo dopo avergli dato la gioia di sentirsi padre, anche se in fieri.

Mentre la storia di Marò mi usciva fuori dall'anima e si materializzava su alcuni fogli di carta, sentivo crescermi dentro il magone, perché capivo che la fine che avevo deciso di farle fare era ingiusta. Marò doveva morire per via dell'economia del romanzo: Terenzio non poteva che rimanere solo, e non magari sposato con un paio di figli, perché sarebbe diventata un'altra storia, assai diversa da quella che oramai avevo tracciato.
L'economia letteraria ha i suoi diritti, OK! Ma il cuore?
Ricordo che era un sabato sera, faceva un freddo schifoso ed io ero arrivato alla fuga finale di Marò, Terenzio e Nunzio Sciuto, soli contro il mondo.
Quando ho incominciato a scrivere della Giulietta in fuga sulle pendici dell'Etna braccata dai mafiosi mi sono fermato: ho posato la penna, ho appoggiato la schiena allo schienale della poltrona e mi sono sentito dire a voce alta "SALVALA!".
Sono rimasto un attimo col fiato sospeso. "Sì -ho continuato a dirmi- salvala, perdio! Devi salvarla, non farla morire lì, sola come una cagna col suo minuscolo bambino in grembo. Magari più tardi -sempre per via della stramaledetta economia letteraria- non so, falla affogare in mare, falla morire di parto in una casupola sperduta del "continente". Insomma che non muoia adesso, in questa maledetta serata gelida".

Allora ho tirato indietro il filo e rifatto il gomitolo; di nuovo l'ho lanciato sperando che mi portasse lontano dalla notte dell'Etna. Invece sempre lì mi riportava. Ho pensato di andarmene a letto e di dormirci sopra, ma non potevo abbandonarla lì, in mezzo alla strada. Mi sono dopo un estenuante esitare convinto che la fine più bella perché proseguisse il romanzo era la morte di Marò sulle falde del vulcano, col ventre squarciato da uno spuntone di roccia.
Quando ho concluso il capitolo, vi giuro gente, avevo gli occhi pieni di lacrime.
Ancora oggi, quando lo rileggo, mi emoziono.

La sera della presentazione della casa editrice Baku a Milano, il 26 gennaio di quest'anno, un bravo attore ha incominciato a leggere proprio un brano di Marò. Ho tanto sperato che si fermasse in tempo e non andasse alla fine. Qualcuno si sarebbe potuto stupire nel vedere l'autore con le lacrime agli occhi, e avrebbe potuto fraintendere e dedurne che Marò fosse stato il mio grande amore andato in qualche modo perduto.
Ma in un certo senso è così, come ho già detto prima: anche se frutto della mia fantasia questa donna ideale continua a vivere e a morire dentro di me.
Il mio desiderio più grande è che coloro i quali hanno letto il mio libro abbiano provato un po' di questa emozione, e altrettanto accada a quelli che lo leggeranno.

martedì 7 luglio 2009

Come ho scritto il mio libro

A me ha sempre interessato sapere come i miei scrittori preferiti scrivessero i loro libri; penso che altri possano essere interessati a come ho scritto "Martedì".
Allora, come l'ho scritto?
In italiano, una parola dopo l'altra, che non è un modo di dire per prendere per il culo il prossimo, ma un modo di fare: la cosa che so fare meglio è scrivere; scrivo meglio di come dipingo, perché non ho frequentato i corsi di una Accademia di belle arti, e non padroneggio la tecnica degli acrilici, per citarne una.
Per scrivere invece non ho bisogno di pensare per trovare aggettivi, avverbi e sostantivi adeguati, e non mi devo macerare l'anima per controllare le forme verbali (i congiuntivi, ahinoi): mi metto davanti al PC e pesto sui tasti, oppure tolgo il cappuccio della mia Parker, controllo se il serbatoio è pieno e riempio i fogli che ho davanti. Poi rileggo: combinazione il periodo è buono e non devo fare correzioni, se non la punteggiatura, che quando la rivedi te la trovi davanti sempre un po' ballerina. Per me è come guidare la macchina. Ecco, forse guidare un'auto è la seconda cosa che mi riesce senza sforzo alcuno, uguale se guido in una città come Milano, Roma o Amburgo oppure in autostrada. Anzi, quando ho qualche problema da risolvere, monto in macchina e guido, e mentre guido penso ai fatti miei e parlo con me stesso, perché la guida viene automatica, senza che io debba pensare a quel che devo fare, come quando scrivo, dove devo solo pensare a quel che sto scrivendo, non a come scriverlo.

Il segreto è la mia "cartella dei miracoli", come l'ho chiamata, in cui raccolgo alla rinfusa tutte le idee che mi passano per la testa, anche le più matte, e le lascio così come vengono, senza mettere un po' d'ordine; pertanto ogni volta sono costretto a rileggermi tutto dall'inizio per trovare quello che cerco, se poi lo trovo. Così mi rinfresco le ide e me ne vengono sempre di nuove. Scelta l'idea da portare avanti per cominciare a scrivere qualcosa, costruisco una traccia -non ho detto trama- su cui basarmi, e comincio con lo scrivere l'incipit.
Do molta importanza agli incipit, del libro e dei capitoli, per coinvolgere me stesso nella storia che vado a incominciare. Se non mi coinvolgo con essa non riesco a scriverla.
Se l'incipit è buono entro piano piano nella storia con un gomitolo di filo in mano. Lancio il gomitolo avanti a me, tenendo il bandolo della matassa fra le dita perché il filo si srotoli e trovi una strada. Gli vado dietro dietro, insomma lo inseguo e a volte il filo mi porta su una strada percorribile buona buona, ma capita che mi porti in un pantano o in un merdaio, insomma su una strada sbagliata. Allora tiro indietro lo spago e riconfeziono il gomitolo per tirarlo di nuovo e di nuovo segtuirlo.
Emozionante, no? Devo stare sempre all'erta per vedere dove sono finito, anche se grosso modo la traccia viene sempre rispettata, ma a volte me ne vado così lontano che sono costretto a cambiare anche la traccia.

Quando ho iniziato "Martedì" avevo in mente solo un furto in una grossa banca di Francoforte per mano di due vecchietti sgangherati, che poi tornavano a casa col malloppo, ma la sfiga era in agguato e li costringeva a rimollare tutto indietro. Però il gomitolo mi si è srotolato in un campo che non conoscevo e mi è scappata fuori una frase, che sicuramente stava nascosta nel mio cervello da chissà quanto tempo e che mi ha costretto a cambiare itinerario.
Così è la vita, gente, vacci a capire.

È nata così tutta la storia come sta adesso in un libro di 391 pagine fitte fitte.
C'è qualcosa di autobiografico, non lo nego, ma ogni autore è, suo malgrado, autobiografico: basta che faccia muovere uno dei suoi personaggi in una casa, in una strada dove lui stesso è vissuto, o che descriva un posto dove è stato e la frittata è fatta, ha scritto qualcosa di autobiografico.
E poi ogni autore mette nei suoi libri le sue convinzioni religiose, morali, politiche e filosofiche, che ha maturato negli anni e negli avvenimenti della sua vita. Allora ogni libro in questo senso è autobiografico. Non ce se ne deve vergognare, non è mica rogna.
Quindi qualcosa in "Martedì" è autobiografico, ma tanto tantissimo è pura fantasia, e meno male che le cose stanno così, altrimenti qualcuno leggendolo potrebbe pensare che ho ammazzato mia moglie travolgendola sotto una Mercedes nuova di zecca. Mia moglie sta di là che guarda la TV e io non ho mai posseduto una Mercedes, preferisco le BMW.

Un paio dei miei personaggi li ho effettivamente incontrati nel corso della vita. Altri sono totalmente inventati e Marò è la donna dei miei sogni.
Ma di lei parlerò più tardi forse, oppure un'altro giorno.
Per adesso stacco la spina.

lunedì 6 luglio 2009

Martedì dopo l'autunno

Ho creato questo blog perché ho scritto un romanzo, il titolo è quello di questo pezzo: "Martedì dopo l'autunno". Me lo ha pubblicato una casa editrice nuova di zecca, la Baku Editore di Giulia Fabbri, di Milano. Dal mese di gennaio di quest'anno il libro sta vendendo molto bene. Giulia F. è soddisfatta. Anche io.
Il romanzo si vende in città dove non conosco nessuno, non sono gli acquisti dei soliti amici, perché io a Firenze, a Torino, a Bari ed Alghero, tanto per fare dei nomi, non conosco veramente nessuno. A Bari ed Alghero non ho mai messo piede.
Recentemente è uscita una bella recensione su "Il Mangialibri" in rete.

Clicca http//www.mangialibri.com/node/4407

Eccellente! L'avessi scritta io non avrei potuto farla migliore.
Da qualche tempo la Baku Editore mi invia mail di lettori e lettrici che pongono domande interessanti sul libro e sui personaggi. Per questo ho deciso di creare il blog, dove scriverò del libro e di me, certo anche di me, perché se parli di un figlio devi parlare anche di suo padre, pur se sono piuttosto schivo nel chiacchierare di me stesso.

Allora parliamo del libro.
Perché quel titolo? Perché è stato finito di scrivere la sera del primo martedì dell'inverno 2000. Avevo altri titoli, ma mi piaceva quello.
Come mi è venuto in mente?
Avevo in testa l'idea di scrivere un "noir", mandando due vecchietti mezzo sgangherati, ex detenuti, a svuotare la cassaforte di una delle banche più importanti di Francoforte. Mi rigiravo questa idea in testa quando ho buttato giù un paio di righe, che sono L'incipit del romanzo. Eccole.

"Tutto quel che riuscivo a vedere di lui, il grasso sedere bianco, mi arrivava giusto davanti alla faccia.
Dormiva sulla branda superiore del letto a castello, a testa in giù e culo per aria. Da un pezzo mi avevano chiuso la porta dietro alla schiena, e da allora stavo lì impalato a tenergli d'occhio il deretano, reggendo sugli avambracci l'occorrente per il mio soggiorno: un cuscino, due lenzuola, due coperte e sopra, in bilico, una tazza, due piatti e cento altre cianfrusaglie.
Il grasso sedere fece un brusco movimento ed ebbi paura che mi precipitasse addosso.
Mi spostai di un passo e tazza, piatti e cianfrusaglie rovinarono a terra.
Dal letto scaturì una fragorosa cascata di bestemmie che si correvano dietro l'una con l'altra, alcune nuove di conio e di eccellente concetto. Fu il mio primo apprezzamento su di lui. Positivo, visto che da sempre suddivido gli uomini in due categorie: da una parte quelli che bestemmiano subito, da un'altra quelli che invece contano almeno fino a cinque prima di cominciare a bestemmiare. Io appartengo al primo gruppo, e anche lui stava dalla parte giusta".

Subito ho incominciato a scrivere, e la matassa si è srotolata. Mi è bastato correrle dietro, perché a volte le idee per un romanzo le devi cercare, altre volte ti cascano addosso. Nel caso di "Martedì" parecchie idee le ho cercate e trovate, altre mi sono cadute addosso, alcune, però, le avevo dentro da chissà quanto tempo e nemmeno me ne ero accorto. Vedi un po tu!

Per questa sera può bastare; domani chiarirò qualcosaltro, sempre che riesca a riconnettermi col mio blog, e non sarà facile, visto che uso il computer come una vacca svizzera appena munta.