lunedì 29 dicembre 2014

IL SEGRETO INTENDERE


Dormire,

spegnere l'ansia 
di avvilupparsi all'incolore
respiro di ogni giornata,

penetrare in modo lento,
inesorabile,
il segreto intendere
i suoni del tempo
che si allontana:

ora io sono diverso da me
che appassisco;

mi rincorro
nel silenzio dei percorsi stellari

inutilmente stanco.


*****

immaginata il 17 aprile
riscritta il 29 dicembre 2014


*****  

lunedì 22 dicembre 2014

EFELIDI SUL NASO E UN CAPPOTTINO VERDE

Venivo dal Pincio insieme ad un amico, non ricordo chi fosse. Era una sera di marzo, avevo da poco compiuto quattordici anni e frequentavo il quarto ginnasio. Ero bravo, nessuno si lamentava di me, solo mia madre perché una volta messo il naso fuori dalla porta non ritrovavo più la strada di casa.
Insomma venivo dal Pincio e chiacchieravo fitto fitto con questo amico mio e non guardavo la strada. Poi è passato un giovanotto con la vespa e ho tirato su la testa. Allora li ho visti: lui col suo impermeabile nuovo appoggiato alla spalliera del ponte sulla ferrovia Roma-Torino, lei accanto a lui molto più composta. In quel momento lui le ha detto qualcosa e lei si è girata verso di me. Io ho riabbassato la testa. Che cavolo faccio adesso? Ormai mi hanno visto e altre strade non ci sono e lui mi aspetta al varco. 
Forse avevo rallentato perché il mio amico mi fa: "Sbrigati che altrimenti se li sono presi tutti i tavoli da ping-pong". Ah già, doveva essere Enrico, perché con lui facevo sfide interminabili a ping-pong e qualche volta vinceva anche lui, ma quasi sempre io. Così ho allungato il passo spingendo Enrico, io che stavo alla sua destra, verso l'altro lato della strada lontano dalla spalliera dove stavano appoggiati quei due.
Quando gli stavo a pochi metri ho biascicato a quello con l'impermeabile nuovo un ciao sottilissimo, ma lui col suo vocione mi chiama:
-Enzo.
Bloccato sul posto. Mi sono girato verso di lui, ma non gli bastava.
-Vieni qui.
Due passi, tre, gli sto davanti, anche a lei.
-Questo è mio fratello, Lei è Lidia.
Allora l'ho guardata in faccia. Ho visto le efelidi sul naso, non tante, solo sulla punta, poi gli occhi chiari, poi i capelli crespi, sul castano. Poi il colore del cappotto, verde bottiglia e le scarpe col tacco basso. Stavo lì come un salame e non sapevo che fare né cosa dire. Poi lei mi ha teso la mano e mi ha sorriso, denti bianchi regolari bel sorriso come di una che si diverte.
-Finalmente ti vedo di persona; tuo fratello mi ha tanto parlato di te che non vedevo l'ora di conoscere sto fratellino.
E posso immaginare cosa ti avrà detto, allora.
Penso di avergliela stretta la mano, ma non me lo ricordo. E non mi pare di essere rimasto ancora lì, né di avere recitato poesie. Me ne devo essere andato via subito con Enrico, che non parlava più come se avesse perso il fiato. Ero arrabbiatissimo con mio fratello. Io avevo fatto il tifo per Marisa B., la più bella di Civitavecchia, da quando li avevo visti insieme ad una festa. Già me la sognavo quella cognatona lì, con le sue gambe lunghe lunghe lunghe, il suo collo tornito e quelle labbra che la mia generazione sognava ogni notte prima di addormentarsi e si ritrovava davanti agli occhi ad ogni risveglio.
Gente, non c'era la TV e certe immagini ti scandivano le ore della giornata. Frequentava l'ultimo anno del liceo classico e tutte le mattine me la trovavo davanti. Un sorriso, un ciao Enzo in un soffio e la giornata era un trionfo.
Questa Lidia era molto carina, bel sorriso, begli occhi, bei denti, ma mio fratello questo non me lo doveva fare. Era una maestrina appena diplomata, mi disse poi.
Si sposarono un anno dopo. Io oramai mi ero rassegnato, ma non mi sono mai potuto lamentare della scelta del mio fratellone. L'aveva vista giusta lui. Per me lei diventò quella sorella che non avevo mai avuto, che mi era tanto mancata, un po' duretta di carattere, tosta come si dice dalle mie parti, un grande carattere, una grande donna, moglie e madre di due marmocchie e di un marmocchio. 

Mi è venuto in mente questo primo episodio della nostra vita stamattina quando ho saputo che Lidia era stata ricoverata in ospedale. Da alcuni mesi le hanno diagnosticato una leucemia acuta e se finora se l'è cavata a buon mercato ciò è dovuto al fatto che è assolutamente integra e che ha oramai 85 anni. A quell'età tutto va piano anche la leucemia.
Io so che lei ha un carattere da combattente. Non la darà vinta tanto facilmente alla sua malattia. La famiglia ha fatto quadrato intorno a lei, che è regina e re da quando tredici anni or sono mio fratello se n'é andato a passeggiare sui prati del paradiso. Sicuramente la sta aspettando in un bel posticino all'ombra con tanta luce e acqua vicino, ma questa volta lei gli farà allungare il collo per un bel po'. È quello che mi auguro anche io. Ormai è certo: il mio fratellone s'è beccato la medaglia d'oro, lei si prenderà quella d'argento e poi ci sono io. La medaglia di bronzo è già stata coniata, ma se la possono tenere sul cuscino insieme al mazzo dei fiori ed anche quella d'argento, nun è vero cognà? Fameli diventà scemi sti angeli custodi, fameli core, fameje venì er fiatone. Se la devono da guadambià la pagnotta stavorta. Daje cognà, daje Lidia, sei tutti noi.

mercoledì 17 dicembre 2014

DALL' ALTRA ESTREMITÀ DEL GUINZAGLIO

La dottoressa più carina e più gentile di tutte venne di primo mattino ad avvisarmi che nel pomeriggio mi avrebbero messo in uscita.
-Ha qualcuno che può venirla a prendere, signora Govi? Altrimenti le faccio prenotare un taxi.
-Lei è troppo cara, ma penso che mia sorella non si tirerà indietro.
Già, mia sorella. A conti fatti non mi era rimasto nessun altro. Ero abituata troppo male con mio marito, faceva tutto lui e gli altri erano d'accordo, tutti gli altri, i cosiddetti parenti e i cosiddetti amici. "Chiama Carlo, ci pensa lui. Sembra così felice di farti tutto per bene". E così si lavavano le mani. Ma adesso Carlo non sarebbe venuto. Quindi mia sorella Gianna. Se non altro sarebbe venuta per farmi due scatole così di tutti i suoi guai famigliari: con suo marito per cominciare, "Mica tutti sono come Carlo; mica ho la tua fortuna io, figurati"; coi suoi due figli, un maschio il primo e la femmina a ruota dopo appena un anno, "Non ti rendi nemmeno conto della fortuna che hai avuto e non avere figli,  sai quante preoccupazioni di meno che hai?"; forse, ma intanto adesso un figlio o una figlia mi avrebbero tirato fuori dalla melma dove sono precipitata.

Gianna rispose al secondo squillo, come se stesse aspettando la mia chiamata.
-Già ti fanno uscire? Quando? Oggi? Dopo pranzo? Si capisce che vengo, certo certo, faccio un salto dalla parrucchiera e sono da te. Ho una testa che fa schifo.
Io ci avrei sbattuto sopra un foulard, ma Gianna è così.
-A che ora vieni? Sai non vorrei stare nel corridoio troppo tempo.
-Come nel corridoio, non hai più la tua stanza? Ti sbattono fuori dalla tua stanza?
-Hanno bisogno di posti letto liberi, è un ospedale non un albergo a cinque stelle.
-Sì, vabbè, ma almeno potrebbero...vengo alle tre...dalle tre alle quattro...alle quattro, è più sicuro. 
Arrivò alle cinque, come avevo previsto.
Mezzora dopo eravamo nella sua macchina e io avevo solo bisogno di respirare. A parlare pensava Gianna, faceva le domande e si dava le risposte; poneva i quesiti e faceva i commenti, tutto un puro stile giannese, come diceva sempre Carlo. 
Dio mio, sono passati dieci giorni e mi manchi da morire. Come farò a tirare avanti?
Chiudo gli occhi e lo rivedo accanto a me nella sua auto, ma sono io al volante, dai fammela guidare la tua stupenda Audi sport, ho la patente da anni e guido pur sempre una Corrado, mica vai piano con quella nemmeno se vuoi, e oggi il tempo è buono, non piove. Sì, ma tu metti il Quattro ugualmente. Che roba è il Quattro? La trazione totale, così ti aiuta a non sbandare. Ecco se chiudo gli occhi mi rivedo così, al volante della Audi sport Quattro di Carlo; da dieci giorni tengo gli occhi chiusi con quel bel volante fra le mani e lui accanto che ride.
Intanto Gianna mi ha chiesto qualcosa; mi chiede qualcosa, insiste.
-Non me lo ricordo, dico a casaccio, ma già ha cambiato argomento e chiacchiera e china la testa verso il mio viso per vedere se tengo gli occhi aperti e devo tenerli aperti altrimenti mi chiederà mille volte se sono stanca e quanto sono stanca.
Così sgrano gli occhi e lei continua a guidare e a protendere la faccia verso di me, sempre più spesso, perché si è accorta che sto pensando e immagina quello che sto pensando e non vuole farmelo pensare, tutto molto sororico, tutto molto giannico, altra espressione di Carlo. Dio mio ho in testa solo espressioni di Carlo, penso come Carlo, forse ho sempre pensato così solo che non me ne accorgevo prima, ma adesso comincio a sospettare di avere chiuso con me stessa da quindici anni, il tempo passato insieme a lui.
-Mi senti? Cristina mi senti? Sto parlando con te ma tu dove sei?
Mi tiene gli occhi fissi addosso mentre la macchina sfreccia veloce.
-Guarda la strada per favore...guarda dove stai andando....
C'è una curva là in fondo e Gianna tiene gli occhi su di me.
-La curva...guarda davanti...
Grido come una pazza. È andata dritta, quasi dritta, se ne è accorta in tempo, è riuscita a tenere la macchina in strada, ma io ho visto quello che non volevo vedere, che non volevo più vedere.
-Fermati Gianna, voglio scendere.
Ma oramai ci sto dentro fino al collo: la curva mi veniva in faccia proprio come dieci giorni fa, tu che ridendo mi dicevi che ero troppo veloce, poi non ridevi più tanto, hai detto qualcosa, hai gridato qualcosa e io mi sono girata a guardarti perché non avevo capito se fosse uno dei tuoi soliti scherzi, ma la tua faccia mi ha fatto intendere che qualcosa stava andando storta e non guardavi me ma davanti a te, cosa stavi guardando? Ho girato la faccia un attimo prima che la macchina cadesse nel fossato, si ribaltasse non lo so quante volte, perché tutto girava là dentro e tu non gridavi né parlavi più e alla fine si è fermata sta maledetta macchina su un fianco, dalla tua parte e io stavo distesa sopra di te e avevo un male assassino al braccio sinistro e tu eri muto come un pesce e non ti muovevi. Poi ho visto il sangue, poco sangue, qualche goccia che scivolava fuori dalla tua bocca e non lo so quello che è successo, ma devo essere svenuta. Quando sono rinvenuta c'erano quei due uomini vestiti di una tuta arancione e stavamo dentro una macchina con tantissima luce, che correva con una sirena che suonava, ed era l'ambulanza. Quando ho chiesto di te non mi hanno risposto, Solo il giorno dopo un signore attempato della Polizia è venuto a dirmi quello che era successo e che tu non c'eri più e voleva che gli spiegassi cosa fosse successo e chi guidava l'auto perché non si capiva, ma di certo guidava suo marito, signora. Credo di avergli detto di sì, ma non so perché e adesso soltanto mi chiedo perché io me la sia cavata con un polso rotto e tre dita della mano sinistra rotte mentre tu sei già stato tumulato e io nemmeno ero presente.
-Devi vomitare Cristina?
Gianna ha fermato la BMW sul ciglio della strada. Devo avere una faccia da far spavento ai morti. Riesco appena ad aprire la portiera e a mettere un piede a terra. Aria fresca sul viso. La respiro a pieni polmoni per un paio di minuti.
-Dai Cristina, vomita che poi ti senti meglio.
-No. Andiamo a casa, ma tu va piano per piacere e guarda la strada.
-Stiamo andando a casa mia, replica Gianna.
-E perché?
-Abbiamo pensato Marco e io, che sia meglio così per un paio di giorni, intanto che ti riprendi un po'.
-E i tuoi figli?
-Paolo è a Londra coi suoi amici e Silvia sarà felice di averti tra i piedi. E poi c'è Ala che ti sta aspettando.
Ala? Mi ero dimenticata di lei. Ala, la meravigliosa setter irlandese, di pelo fulvo e lungo, quattro anni, ancora signorina. Che farà adesso che il suo amato padrone non c'è più? Perché Carlo era un cacciatore. Ho il garage pieno dei suoi fucili e delle sue munizioni. 
-Dovrò mettere ordine in quel casino che c'è nel garage.
-Adesso non pensarci. Andiamo a casa.
Stavolta Gianna guida lentamente, quasi troppo. Un camionista imbestialito ci lampeggia e ci suona dietro. Usciamo alla prima a destra. Dieci minuti dopo siamo a casa.
Mi vengono incontro mio cognato Marco che mi abbraccia e si impossessa del mio borsone. Silvia mi sbaciucchia su entrambe le guance. Sento le lacrime sul suo musetto. È la mia nipote preferita ed è parecchio sensibile. Già dalle scale sento Ala che abbaia. Mi butta le zampe anteriori sulle spalle e mi infradicia la faccia di vigorose linguate. Mi gira continuamente intorno mulinando la coda. Penso che si stia domandando dove possa essersi nascosto Carlo. Lo cerca sotto la mia gonna. Mi viene un groppo alla gola e a stento ricaccio indietro le lacrime, non mi piace piangere in casa d'altri.
Due giorni dopo Gianna mi ha riaccompagnato a casa mia. In macchina insieme a noi due Silvia, che si era rifiutata energicamente di andare a scuola quella mattina e Ala.
-Vuoi portare anche lei? ho chiesto a Gianna vedendola col guinzaglio di Ala in mano. Pensavo che volessi averla tu.
-L'ho tenuta finché sei stata in ospedale, ma lei appartiene a te. Ti farà compagnia.
Non ne ero proprio convinta. Ogni momento mi avrebbe riportato lui davanti agli occhi, ma d'altra parte ogni centimetro cubo di quell'appartamento era piano di Carlo. Non replicai a mia sorella, ma di sicuro accettai la nuova situazione molto a malincuore.
Così quel giorno stesso, appena Gianna e sua figlia se ne furono andate, iniziò la mia vita insieme ad Ala. Impiegò diversi giorni prima di rendersi conto che in nessuna stanza stava nascosto il suo amato padrone, ma continuò nel tempo a cercarlo, anche se non con la stessa intensità. Non credo che lo dimenticasse mai. Argo attese Ulisse per venti anni, Ala attenderà Carlo per tutta la sua vita.
Contrariamente a ciò che avevo immaginato portare Ala fuori perché facesse i suoi bisogni di primo mattino e alla sera, diveniva di giorno in giorno un tormento per me. Non so spiegarmi il perché, forse il percorrere i soliti luoghi di campagna dove la portava mio marito non era stata un'idea brillante, così presi l'abitudine di caricare Ala sulla Corrado e di andarmene ogni volta in posti diversi, dove tra l'altro sembrava che lei prendesse ispirazione per cercare qualcosa o qualcuno. Chi? Sempre Carlo, immagino. 
In uno di questi giri mattutini incontrai Franco, un avvocato amico di Carlo, che mi aveva visitato in ospedale. Era un cacciatore anche lui, aveva un Pointer stupendo dalla carrozzeria asciutta e flessuosa. Appena Ala li vide saltò letteralmente addosso a Franco uggiolando festosa. Solo un'annusata reciproca col Pointer, dimenando la coda, ma era Franco che Ala voleva festeggiare e da lui tornò velocissima. Sembrava gli chiedesse se sapeva nulla di Carlo. Di nuovo mi sentii le lacrime agli occhi. Mi scossi per quel che mi stava dicendo Franco.
-Mamma mia quanto è grassa sta cagna; le dai di sicuro troppo da mangiare e non la fai mai allenare.
Allenare? Come sarebbe a dire?
-Significa che la devi portare in giro per boschi e per valli facendola correre e sfogare per diversi chilometri, almeno dieci al giorno.
-E se scappa?
-Non credo che lo farebbe, però guarda che un cane da caccia deve essere allenato a cacciare per il suo padrone. Carlo era un perfetto addestratore e tu devi fare come faceva lui. Guarda dentro casa e magari pure nel garage e troverai un collare con attaccata una corda di venticinque metri. Arrivata sul posto prima di farla scendere dalla macchina le metti il collare e tieni la fune stretta con una mano. Lei non tenterà mai di scappare, stanne certa.
-Ma perché proprio venticinque metri? Non potrei usare il guinzaglio normale?
-La corda serve a farle capire la distanza che deve mantenere da te, cioè dal cacciatore. Se un cane caccia troppo lontano le prede che alza sono fuori tiro della tua doppietta. Venticinque metri sono la distanza ideale.
-Ma io non vado a caccia.
-Fatti il porto d'armi e poi la licenza di caccia.
-Non mi hai capito: io non andrò mai a caccia.
-Ma la tua cagna è nata per cacciare e soffrirebbe se non lo potesse più fare.
Non mi aveva convinto, ma avevo capito il senso del suo discorso. Anche gli allenamenti di Ala adesso. Però poteva distrarmi, chissà. Avevo bisogno di recuperare me stessa.
-E dove la porto? Voglio dire, dove vado ad allenarla?
-Sui monti tra Tolfa e Allumiere, oppure nel bosco di Bracciano. Sono posti che Ala conosce a memoria, ci andava due volte alla settimana con Carlo.
Ci ho dovuto pensare su per più di una settimana, con Ala che seduta sul posteriore sembrava osservare la mimica della mia faccia. Forse ero io a dare a questa creatura pelosa più intelligenza e sensibilità di quella che in effetti possedesse, ma mi piaceva pensare che potesse intuire quello che mi passava per la testa e dentro il cuore. Quando mi vedeva triste, intendo più triste del solito perché oramai la mia vita era priva di sole e di calore, lei mi veniva vicino e mi metteva il suo bel muso in grembo. Gli occhi che sollevava dentro i miei sembravano pieni di dolore. Ci guardavamo come due disperate: entrambe avevamo perduto la persona più importante della nostra vita.
Quando finalmente mi decisi a portarla al suo allenamento, prima ancora che mi vedesse in mano quel lungo guinzaglio i suoi occhi esprimevano tutta la sua gioia, e mi sembrò che il suo manto fulvo brillasse di luce. Per tutto il viaggio tenne la corda che avevo arrotolata stretta fra i denti: credo che volesse essere sicura che gliel'avrei messa finalmente al collo. Non so spiegare il perché ma mi sentivo meglio anche io a vederla nello specchietto retrovisore con quella corda in bocca. 
Diede solo all'inizio un paio di strattoni. Si voltò a guardare la mia reazione e ne fu sorpresa. Si aspettava gli improperi che immaginavo le avrebbe tirato addosso Carlo, ma a venticinque metri c'ero io già col fiato grosso perché Ala tirava da matti e facevo una gran fatica a starle dietro. Andava in tutti i canaloni, si infilava in tutti i varchi e io dovevo starle dietro al suo passo, che era a tratti troppo rapido per me. Fortunatamente ero equipaggiata come una vecchia cacciatrice di razza: stivaletti di cuoio, jeans, una camicia a scacchi bianchi e blu, che mi stava decisamente larga perché appartenuta a Carlo, una giacca leggera, una bisaccia contenente qualcosa da mettere sotto i denti io e anche Ala, che a un certo momento avrebbe avuto fame, e naturalmente una borraccia piena d'acqua. 
Non mi sono annoiata e non mi sono divertita; non mi sono esaltata e non mi sono depressa; non so se ad allenarsi fosse Ala condotta da me oppure io condotta da Ala, certo è che dopo un'ora circa in cui ho avuto l'impressione di avere la situazione sotto controllo le altre due ore di trottata ho solo tentato di seguire la mia meravigliosa cagna, che trascinava me ansimante di cespuglio in cespuglio, di fossato in fossato, senza mai voltarsi indietro, senza mai fermarsi per i suoi bisogni naturali. Sembrava sapesse che stava facendo un allenamento pesante e non aveva bisogno di chiedere nulla a me. Probabilmente Carlo l'avrebbe saputa trattenere e forse indirizzare dove lui avesse creduto più opportuno che andasse, ma io ero già più che soddisfatta di stare ancora in piedi e non lunga per terra trascinata da Ala.
Ad un certo punto la boscaglia terminava e dopo una breve scollinata si intravedevano tetti di case. Credetti che si fermasse e tornasse indietro; visto che continuava cercai di tirarla e di farle capire che la giostra si era fermata, ma lei sembrò aumentare il passo e fui costretta a cominciare a correre per starle dietro. Puntò diritta verso una della case che aveva un ampio cortile. Attaccati ai loro guinzagli una decina di cani da caccia, bracchi, spinoni, setter, pointer, si alzarono tutti sulle quattro zampe nel vederci arrivare. Sapevo che questi cani sono tutti giulivi e festosi anche con gli sconosciuti, ma ebbi l'impressione che rivedessero una vecchia conoscenza: dimenavano tutti freneticamente le loro code mentre Ala tirava dritto quasi senza degnarli di attenzione. Entrò nella casa, che era un'osteria come seppi dall'odore di cibi e vino che era nell'aria. Fu riconosciuta da tutti. Fece feste a tutti i suoi vecchi amici cacciatori, che erano anche gli amici di Carlo. Fu facile per tutti capire che quella femmina sudata, trafelata e inzaccherata di polvere, appesa alla corda di venticinque metri non poteva che essere la vedova del loro amico.
Non ne conoscevo nemmeno uno, ma loro sapevano tutti il mio nome; nessuno mi chiamò signora, ma ognuno si rivolse a me dandomi del tu. Ci mancava che mi dessero pacche sulle spalle, per il resto fui trattata come una vecchia camerata. Deve trattarsi di una tradizione del Corpo benemerito dei cacciatori: non si sono mai visti, si incontrano e si danno subito del tu e subito parlano dei loro cani, dei loro fucili e delle loro cartucce.
Mi diedero subito tutti i consigli possibili su come addestrare Ala.
-Carlo l'ha lavorata bene, non ti sarà difficile, ma tu falle capire quel che vuoi. Lei aspetta solo questo.
-Questo bosco è l'ideale coi suoi saliscendi, ma anche a Bracciano c'è un terreno molto buono.
-Puoi andare anche verso il mare, magari tra Cerveteri e Ladispoli, ma non portarla ad allenarsi sulla sabbia, che le fa male alle zampe e poi si distrae e fa solo confusione.
Mi offrirono il cibo che l'oste aveva preparato per loro e il vino rosso, che quando lo ingollavi ti mollava un cazzotto nello stomaco. La mia roba rimase nello zaino.
-Ho portato qualcosa per il cane, dissi e tirai fuori un fagottino mentre tutti allungavano il naso per vedere di che si trattasse.
-Nooooooo!
Fu un solo urlo.
-Carne di gallina no, sei matta!
-Cosa ha la carne di galletto che non va? chiesi esterrefatta.
-Se mangia quella carne dopo non ti riporta più le prede, se le pappa lei.
Questa non me la immaginavo proprio.
-Allora niente carne?
-Carne di vaccina puoi dargliela, ma niente volatili o carne di coniglio, perché la tua è una cacciatrice di lepri e la ciccia del coniglio ha il gusto e l'odore di quella della lepre.
Avevo imparato qualcosa di veramente importante. Anche se non pensavo di cacciare mai non potevo rovinare l'istinto di una bestia meravigliosa cui Carlo aveva insegnato certamente tutto e nel modo più giusto. Lo dovevo a lui se non altro.
Quando due ore dopo mi rimisi in cammino avevo imparato un sacco di piccole grandi cose e Ala sembrava consapevole che adesso era collegata tramite una corda di venticinque metri non più ad un'apprendista zuccona, ma ad una prossima maestra: trotterellava tranquilla qualche metro davanti a me e non mi strattonò più finché arrivammo alla macchina.
Da quel primo giorno tre volte alla settimana me ne sono andata in giro per boschi e per vallate inseguendo un setter irlandese da Allumiere a Tolfa, da Rota a Bracciano e Anguillara, da Cerveteri a Santa Severa fino a Ladispoli. Conosco oramai quella zona come la conosce Ala, che immagino ne sia consapevole, infatti reagisce immediatamente fermandosi quando tiro la corda, perché anche io devo riposare ogni tanto. Si siede sulle zampe posteriori e aspetta il mio segnale. Siamo diventate una squadra perfettamente affiatata.
Lo dicono anche gli altri, tutti i cacciatori della zona, perché oramai conosco tutte le osterie dove si riuniscono nelle pause dei loro allenamenti. Conosco il vino di ogni osteria e non faccio preferenze tra rosso e bianco. Mi sono venuti bei muscoli sodi sulle cosce e sui polpacci e non mi viene più il fiato grosso, anche se qualche volta azzardo camminate di oltre quindici chilometri abbondanti. E soprattutto ho ripreso gusto a stare in mezzo alla gente, a parlare con la gente di tutto, a vivere con gli altri. Il merito è tutto di questa stupenda femmina di setter irlandese che mi ha reinserito nel mondo attaccata all'altra estremità del guinzaglio.
Dimenticavo una cosa importante: ho fatto la domanda per il porto d'armi per una doppietta a canne sovrapposte e un fucile a ripetizione, il Franchi di Carlo; ho fatto anche la domanda per la licenza di caccia. Al Comune erano tutti amici di Carlo e mi hanno assicurato che i documenti arriveranno al più presto. Intanto su in casa ho portato l'apparecchiatura per farmi le cartucce da sola, come faceva Carlo, come fanno i migliori. Franco mi ha insegnato ad usare l'apparecchiatura, mi ha segnato i pesi della polvere e dei piombini e la differenza tra i vari calibri e adesso appena ho un'ora libera preparo cartucce. Ce ne ho quasi trecento, ma devo arrivare a cinquecento per il giorno dell'apertura della caccia. Mentre lavoro Ala controlla che tutto sia fatto con ordine, come faceva il suo padrone, il primo, perché adesso lei e io andiamo sempre insieme, anche a spasso, ma con un guinzaglio normale, si capisce.


***
Cristiana, l'ispirazione per questo racconto me l'hai data tu con quella meravigliosa frase, che tu certamente ricordi. Lo dedico a te, si capisce.




lunedì 8 dicembre 2014

LE VECCHIE ROTAIE


Le vecchie rotaie si arrampicano ancora
lungo il costato della montagna,
parallele e arrugginite
dove le avevo lasciate avvinghiate al suolo
lucide e vibranti. Ogni traversina un minuto
delle mie giornate di lavoro,
un pensiero, una preghiera.

Transfuga ogni ricordo adesso
come calce sbiadita al sole.

Prendevo un treno ogni mattina e tu restavi
in silenzio ad aspettarmi al ritorno
nella giovane casa da sposa
già in attesa di un bimbo.
Nostra figlia era già viva dentro me,
insieme a me sgambettava
su quelle rotaie e io ridevo con lei
a occhi chiusi.

Ora che nostra figlia rischia
di diventare nonna ogni momento,
quel treno non viaggia più nemmeno
nelle mie immaginazioni.

Tu aspetti ancora;

io mi trastullo con le mie fantasie,
felicemente appagato nei miei sforzi visto
che ho impiegato una vita per essere
quello che sono e respirare
e ridere e piangere come un bambino.

Maximiliansau, dicembre 2014

martedì 2 dicembre 2014

IL TRIONFO DES GRAUEN STARS


Che sono in pensione da quindici anni si vede dall'insofferenza ad alzarmi di mattina all'alba, quando cioè l'unica luce visibile fuori dalla finestra è quella del lampione di fronte a casa nostra. Smoccoli, sbraiti, ma se si deve fare lo fai e basta. Si tratta di percorrere una ventina di chilometri, infilandosi nell'imbuto del traffico mattutino sul ponte sul Reno, tappo malefico che non si smentisce mai, si tratta di infilarsi nel secondo imbuto all'ingresso del centro di Karlsruhe, tappo ancora più cospicuo del primo e di arrivare poi a Durlach, la frazione cittadina più lontana, dove nel mezzo di un centro caotico in cui non trovi un buco per posteggiare nemmeno se ti tagli le vene sorge la Clinica Oculistica più ricercata e funzionale dell'intera zona, Clinica che ha un nome fatidico, ARGUS, come il cane di Ulisse, che attese il suo padrone per venti anni, divenne decrepito e cieco e lo riconobbe a fiuto, morendo di gioia subito dopo. Bellissimo, commovente, ma metteteci qualche parcheggio privato per gli ospiti giornalieri, porcaccia vacca.
Basta, dopo aver girato per stradette e viuzze per cercare di mollare la macchina nel primo spazio che trovavo, non avendolo trovato si ricomincia la giostra da capo. Al terzo tentativo, dopo aver setacciato ogni angolino, finalmente qualcuno si è levato dai piedi lasciando un buchetto libero a metà tra strada e marciapiedi, una decina di metri da un semaforo. Per fortuna siamo a un centinaio di passi dall'ingresso della Clinica, la mia signora non dovrà fare molta strada a piedi. È provata da una notte quasi insonne e tesa come una corda del violino di Ughi per l'ansia dell'imminente operazione. Anna Maria soffre di una Grauer Star, come chiamano i crucchi la cataratta. Io ho fatto le due operazioni una decina di anni fa e mi sono sgolato da oltre tre mesi, da quando cioè le hanno fatto l'appuntamento per estrarle il primo cristallino malato sostituendolo con uno di materiale acrilico modernissimo, per farle intendere che si trattava dell'intervento operativo più facile ed innocuo, e che sarebbe andata così e cosà, e che sarebbe successo questo e quest'altro, e che lei nemmeno si sarebbe accorta di niente. Ma la fifa di Anna Maria era più consistente di quella che aveva di volare. "Ecco, le dicevo, ti capiterà come per il tuo primo volo; avrai il cuore in gola fino a che l'aereo non toccherà terra, ma dopo non vedrai l'ora di volare di nuovo. Così per questa operazione. Per il secondo occhio entrerai dentro fischiettando". Credo che nemmeno mi desse ascolto, concentrata com'era a contare i battiti velocissimi del suo cuore.
Così abbiamo percorso sottobraccio quelle decine di metri che ci separavano dal traguardo fatidico. Gente è una soddisfazione non da poco dopo cinquantun anni di vita coniugale sentire che la fanciulla del tuo cuore si aggrappa a te come un naufrago a un tronco marcio che la faccia galleggiare. Provare per credere, ma dà un senso alla vita se la tua donna ancora crede nella tua protezione mezzo secolo dopo.
La sala di ricezione e d'attesa della clinica era piena come quella della stazione Centrale di Milano nei giorni prossimi alle feste. La mia prima impressione. La seconda fu che mancava il brusio festoso della stazione Centrale di Milano nei giorni prossimi alle feste. Imperava il silenzio attonito di chi è in attesa di un evento, anzi dell'Evento; gli occhi sgranati, i volti tesi in una unica direzione, quella da cui di volta in volta compariva personale medico di sala operativa -tute azzurro forte, cuffia di plastica verde a coprire i capelli, mascherine bianche elastiche a nascondere la bocca e il naso-, oppure personale paramedico di sala -tute bianche, tutte e solo donne-, oppure infermiere addette alla ricezione, vestite con normalissimo grembiule bianco, efficienti, gentilissime e rigorosamente sorridenti.
Osservando meglio gli astanti in attesa si vedeva un minimo comun denominatore: la calvizie negli uomini e le rughe sui volti delle donne, le cui chiome erano tutte sotto regolare tintura. Ma le rughe non si possono tinteggiare, solamente stirare e a carissimo prezzo. Insomma non si trattava di un raduno di reduci della seconda guerra mondiale, ma un'esposizione di vecchietti più o meno scassati e tutti inequivocabilmente bisognosi di rapido intervento per meglio potersi ammirare nello specchio del bagno. Insomma cecati.
Improvvisamente è iniziata la chiama, a due a due, come una volta in caserma dopo il rancio, quando venivano affidati gli incarichi per la giornata: ce n'era per tutti e nessuno la faceva franca. Così qui: primo paziente a destra, secondo a sinistra; seduti su sedie girevoli, testa alta, gocce nell'occhio sul quale intervenire e cartellino fissato sul petto a destra col proprio nome e un RA, cioè rechtes Auge, occhio destro; sul petto a sinistra col proprio nome e un LA, cioè linkes Auge, occhio sinistro. Tornare ai propri posti, avanti i prossimi due. Tutto assolutamente marziale e non perfettibile. Non era ancora finita la punzonatura dei candidati della giornata, che già i primi due venivano accompagnati da personale paramedico di sala oltre la nostra visuale in quella che certamente era la sala di Betäubung e di Vorbereitung, cioè di anestesia e di preparazione del paziente, certamente l'anticamera delle OP, sale di operazione. Nessuna lamentela, nessuna resistenza. Tutto liscio come l'olio. Un'ora dopo circa i primi due tornavano in sala d'attesa accompagnati da personale paramedico sorridente e mormorante raccomandazioni, e venivano portati ai tavoli ovunque ci fosse un posto libero e immediatamente rifocillati con caffè o the e Bretzel molto fresche. Rimanevano circa mezzora, subivano un accurato controllo post operatorio, poi garbatamente venivano congedati. Una perfetta catena di montaggio.
"Come al mattatoio con le vacche" esclama Anna Maria, che comunque l'ha presa bene, tanto bene direi perché se ne sta tranquilla col suo cartoncino giallo sul lato sinistro del petto.
Alle 11,20 tocca a lei oltrepassare le prime due soglie e arrivederci mia bella signora.
Da quel momento sto a capo eretto a fissare il soffitto. Leggiucchio una rivista dove si parla di qualcosa di certo interessante, ma che non mi tocca per niente; evito con una certa dolce violenza di rispondere al settantenne accompagnatore di una signora piuttosto in ciccia che è entrata subito dopo mia moglie, che vorrebbe con una conversazione esorcizzare la sua paura, ma io mi devo curare della mia e del pensiero che mi folgora trasversalmente la cabeza "speriamo che resti calma, speriamo che resti calma, Gesù se ci sei falla restare calma", perché l'intervento dura un quarto d'ora ma è la preparazione che potrebbe essere non tollerabile dal mio Cuor di Leone, meglio dire dal mio Angsthase, coniglio pauroso, perché è nell'attesa che si sublimano gli eroi e si cagano addosso i fifacchioni.
Alle 12,30 penso che salterò su e correrò in quella sala se in cinque minuti non ne viene fuori. Fortuna per loro che neanche due minuti dopo esce fuori la compagna della mia vita con un vistoso cerottone che le copre l'intera orbita sinistra.
Stessa solfa degli altri. Condotta per mano da un'infermiera fino al più prossimo tavolo libero, foraggiata di caffè molto buono a suo dire e un grosso Bretzel.
È finalmente calma. Mi fa un mezzo sorriso. "Non ho sentito niente". Molto bene. "Avevi ragione tu, era una cosa facile. Per il prossimo occhio dormirò tranquilla la sera prima".
Fa piacere sentirsi dare ragione di tanto in tanto. Apprezzo molto e ringrazio, e visto che sto proprio benissimo azzardo un complimento.
"Ti sta bene la benda, sie passt zu deinem Gesicht".
Sì, sta proprio bene sulla sua faccia.
Me la riporto a casa e sono proprio orgoglioso di lei e del suo coraggio.


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