domenica 29 luglio 2012

UNA RAGAZZA DI NOME GIOVANNA

In nessun posto del mondo i pomeriggi d'estate sono così allucinanti come nel quartiere del "Ghetto" a Civitavecchia. Le mura scrostate delle case si spellano sotto il sole a picco e si mangiano l'ombra, che si fa stretta come una riga di tinta scura; gli alberi si prosciugano addosso al proprio scheletro; la luce rimbalza sul selciato polveroso e secco schizzando in mille forme aguzze, che ti spaccano gli occhi, e l'aria ti dà l'idea di essere una tela trasparente, tirata dalla terra verso il cielo con tale forza che tra poco si scollerà e tu creperai per mancanza di ossigeno.
Ininterrotto il canto malinconico delle cicale. Il resto dei viventi, animali o cristiani, se ne rimane in silenzio, rintanato in qualche buco dove non passa il sole.

Quel giorno c'ero soltanto io, al centro di una piazzetta, a lasciarmi trafiggere dal sole. Ritornavo nella mia città dopo sette anni di astinenza dai parenti più stretti, dagli amici, dalle cose che meglio conoscevo e dall'odore del mare. Ero partito una settimana dopo il mio esame di maturità, senza nemmeno aspettarne l'esito, tanto era andato tutto liscio, anzi in modo piuttosto brillante. Lo scopo dichiarato era di rimettermi un po' dopo le fatiche di quell'esame e conoscere qualche terra straniera.
Un viaggetto di un paio di mesi, dissi a Dario e a Paolo, due dei quattro inseparabili.
"Salutatemi Adolfo, quando torna da Cagliari".
Adolfo era il terzo inseparabile; il quarto ero io.
Di due mesi in due mesi s'erano fatti sette anni: il mondo lo avevo girato, ma non mi sentivo molto migliore. Adesso ritornavo per rimanere, almeno era quello che credevo.

"Per una rimpatriata solenne occorre una festa solenne, esclamò Adolfo pieno di entusiasmo: Occorrono ragazze, whisky, soda e un complessino rock di Viterbo che è uno sballo".
A Viterbo da sballo c'erano solo un paio di ragazze, ricordavo io, ma mi fidavo del mio miglior amico e del suo fiuto; poi lui conosceva le mie preferenze meglio di ogni altro.
"Sei capitato un po' in anticipo, però, aggiunse Dario; quest'oggi è il primo giovedì del mese, non so se ricordi, ma questa notte è la nottata della pesca".
E come se me lo ricordavo! Nottate tremende trascorse tra gli scogli dell'antemurale del porto, con gli inseparabili ai quattro punti cardinali per tirar su dall'acqua a volte solo qualche pescetto striminzito, dopo aver tirato giù un mare di bestemmie.
"Chi veniva la posto mio?".
"Roberto Ti, il figlio dell'orefice, te lo ricordi?". Mi fa Paolo.
"Quello che aveva quella sorella tutta una curva?" Chiesi mimando lo scultoreo corpo di una bonona. "E perché proprio lui? È sempre sbronzo".
"Per via della sorella, si capisce".
"Andate con lui stasera?"
"Devi venire anche tu, saltò su Adolfo. Ci mancherebbe che adesso che sei qui non venissi. Si va in cinque, punto e basta".

Dovetti convincere mia madre che dopo quella ci sarebbero state tante serate, che avrei potuto dedicarle per raccontare quello che avevo fatto in quei sette anni, e anche quello che non avevo fatto, si capisce. Non era molto felice, ma le bastava aver di nuovo il figlio sotto lo stesso tetto. Fu mio padre a tirar giù un bel carico da undici: "Ma lascialo andare! Chissà quante belle cose hanno da raccontarsi lui e i suoi amici". E quante porcate, pensai io.

Andai sparato su in soffitta a tirar fuori tutta la mia attrezzatura da pesca. Dio solo sapeva cosa era successo alla mia roba in quegli anni, pensai. Ma era tutto lì, bello impaccato come lo avevo lasciato io: e che mai avrebbe dovuto succedere se in soffitta metteva piede solamente mia madre, che conservava le mie cose come reliquie.
Controllai e vidi che mancava il filo di nylon del 50 per le imboccature e anche una serie di ami. Pensai di fare immediatamente un salto dal mio fornitore in Piazza del Mercato, e di farmi consigliare da lui sul tipo di ami da acquistare.
Sulla porta di casa incrociai Adolfo, che aveva pensato potessi aver bisogno del suo aiuto. Sempre pronto lui e altruista; non era peggiorato col passare del tempo.
"Vado da Remo per ami e filo del 50", gli dissi.
"Non andiamo più da Remo, ci abbiamo litigato. C'è un negozio nuovo a Santa Marinella. Il proprietario si chiama Piero. Ha tutti gli ultimi urli della tecnica, e ti prepara tutte le imboccature che vuoi con nodi speciali che si inventa lui. Dopo devi solo attaccarle. Ti fa vedere Piero come si fa".
Pensai che ne avevo proprio bisogno, dato che in tutto quel tempo avevo dimenticato le tecniche dei nodi. Chissà che disastro avrei potuto combinare di notte alla luce di una pila elettrica.
Adolfo mi accompagnò con la sua macchina. Facemmo la nostra spesa e tornammo velocemente a casa mia.
"Passo a prenderti alle nove". E scappò via.

Preparai alcuni panini col formaggio e col salame, presi pure un paio di bottiglie di acqua minerale. Bevo sempre molto di notte se non dormo. Misi tutto in uno scomparto del mio vecchio zaino; il resto era pieno di tutta l'attrezzatura e di ciò di cui pensavo avrei avuto bisogno durante la notte, sufficiente per una pesca miracolosa. Scelsi la mia antica canna di resina in quattro pezzi avvitabili, per una lunghezza complessiva di sei metri; una buona lampada tascabile, alcune pile di riserva e incominciai ad aspettare Adolfo.
Arrivò spaccando il minuto, come sempre ricordavo io dei suoi appuntamenti.
"Paolo e Dario sono già in postazione, mi avvertì. Per Roberto dovremo aspettare qualche minuto, perché viene a piedi, facendo stradine solitarie".
"Scaramantico?"
"Teme che qualcuno lo veda e gli auguri buona pesca. In quel caso fa dietrofront e torna a casa".
"Ha ragione: se qualcuno te lo augura la serata è fottuta. Ma come fanno ad accorgersi che lui va a pescare? Non ce l'ha una macchina?"
"Non ci passano dentro le sue canne: ha una bestia da otto metri e una da dodici".
"Vuole tirare su balene?"
"Macché! Sono due mesi che non prende mai niente".
Mi misi a ridere.
"Se lo ricordo bene, sai che bestemmie!"
"Ne inventa sempre nuove. Questa sera ti farai una cultura".

Lasciata la macchina dovemmo marciare per un paio di chilometri, l'ultimo tratto saltabeccando tra scoglio e scoglio per raggiungere Paolo e Dario, che ci facevano segnali con la torcia elettrica. Paolo aveva portato un cestino di terra pieno di lombrichi; Dario aveva preparato il "pastone", un impasto di mollica di pane e cacio pecorino grattugiato. Le armi le avevamo, le munizioni pure, non restava che tirar su pesci. Ma dovevamo attendere che arrivasse Roberto Ti, perché si potesse fare il rito propiziatorio: i componenti della squadra dovevano lanciare in acqua le loro lenze contemporaneamente e non uno dopo l'altro, altrimenti si sarebbe potuto subito sbaraccare e tornarcene a casa.
Roberto Ti arrivò poco prima delle undici. Paolo si era addormentato con la testa sul suo cestino di lombrichi. Dario ci aveva nel frattempo aggiornato sulle abitudini sessuali della sua nuova vittima, io mi ero pappato due panini al formaggio e un uovo sodo fregato dalla sacca di Adolfo, che nemmeno se n'era accorto attentissimo com'era al rapporto di Dario.
Insomma ci stavamo ben bene rompendo i coglioni.
Quello stronzo di Roberto Ti non ci salutò neppure.
Dopo un po' comunque effettuammo insieme il primo lancio.
L'ora era forse la più propizia, quella in cui i pesci vanno in cerca di cibo; una splendida luna di tre quarti illuminava la superficie del mare solo leggermente increspata permettendoci di tenere d'occhio il vibrare dei nostri sugheretti: se un pesciolino avesse incominciato a sbocconcellare le nostre esche ce ne saremmo immediatamente accorti.
Dopo un po' riuscivo a seguire le evoluzioni del mio sugheretto sulla cresta delle onde con gli occhi che si incrociavano e incominciavano a lacrimare. Pensavo fosse la desuetudine, ma si lamentavano anche gli altri.
Alle due di notte arrivarono i  primi vaffanculo confezionati in vario modo. Mezzora dopo avevamo sprecato la metà del pastone di Dario e cominciavamo ad affidarci alla forza adescatrice dei lombrichi di Paolo.
"Dove hanno già mangiato 'sti figlia di puttana?" 
Proruppe Adolfo.
In effetti non mi era mai capitato di vedere che cinque lenze a quell'ora non subissero nemmeno una strattonata di un pesce vagabondo.
Dopo pochi minuti Roberto incagliò il suo amo in uno scoglio e dovette tagliare il filo, condendo la manovra con una cascata di bestemmie. 
Fu allora che mia accorsi di non avere più niente da mangiare né da bere.
"Ci sono i due fiaschi di vino che ha portato Roberto", disse Paolo.
Quando arrivai vicino alla sua sacca Roberto mi guardò torvo.
"Solo un goccio e fila via", sibilò.
Uno dei due fiaschi era vuoto, l'altro conteneva forse un paio di sorsate.
"Quale goccio devo bere, ché ti sei già scolato tutto?"
"Il vino è mio e me lo bevo io, stronzo!"
"Stronzo sarai tu e tutti i tuoi morti!" Gli risposi infuriato.
Non mi era mai stato simpatico: era un cafone sempre pieno di vino e di scoregge puzzolenti, che ammorbavano l'aria. Ne mollò una pestifera. Perfino Dario, che stava a più di venti metri dovette allontanarsi.
Cominciavo ad avere i coglioni pieni di quella nottata. Il cielo si andava schiarendo. Guardai l'ora: mancava poco alle cinque, una quindicina di minuti all'alba.
"Non sono più in forma. La pianto qui per questa volta, dissi ad Adolfo. Tu che fai?"
"Provo ancora per un po'. Aspettami, ché debbo riaccompagnarti a casa".
"Credevi che me ne fossi dimenticato".
Cominciai a svitare i pezzi della mia canna.
"Vado fino alla stazione a prendermi un caffè".

Li piantai lì ricominciando mestamente a saltellare di scoglio in scoglio. Ne avevo per più di due chilometri prima di arrivare in stazione, quasi la metà sul dorso di scogli umidi e scivolosi per la salsedine.
Non sarebbe stato facile reinserirmi nella vecchia vita, pensavo mentre appoggiavo i piedi con cautela; loro non conoscono i miei problemi, come io non conosco i loro.
Finalmente la scogliera terminava e io potei camminare più in fretta sulla terra ferma.

La stazione era deserta e il bar chiuso fino alle sei. Ancora mezzora prima di bere un cappuccino. M'incamminai lungo un binario. La luce gialla dei lampioni notturni ancora accesi, mescolandosi a quella del giorno incipiente, rivestiva le grige pietre dei marciapiedi di un velo spettrale. Il segnale acustico, che avverte dell'arrivo di un treno, entrò in funzione.
Per chi diavolo suona 'sta campana? Non c'è nessuno che parta, pensai. Nemmeno un manovratore tra i binari. In quel momento dalla grande curva spuntò un treno e come d'incanto si materializzò sotto la pensilina un tizio allampanato vestito di nero con un berretto rosso con visiera. L'altoparlante annunciò l'arrivo del direttissimo Torino-Roma sul secondo binario. Lo annunciò al tizio con visiera e a me.
Il treno fermò con enorme stridore di freni. Nessuno doveva salire. Nessuno scese. Finestrini tutti appannati, scompartimenti al buio. 
Là dentro la gente dorme ancora a fondo, pensai.
D'un tratto uno di quei finestrini fu abbassato. Comparve nel riquadro una esile figura di donna, molto giovane. Mi avvicinai fino ad arrivarle sotto. Un viso meraviglioso, un ovale perfetto. Occhi azzurrissimi che mi guardavano intensamente, come la stavo guardando io.
"Come ti chiami?" Le chiesi.
"Giovanna". Rispose.
Continuammo a guardarci, poi lei mi sorrise. Fu un attimo. Il capostazione emise un fischio breve e lacerante e subito il treno si mosse. Feci due passi verso il vagone. Lei mi sorrise di nuovo e alzò una mano in un lieve saluto. Mi fermai. Il treno acquistava velocità. Il direttissimo Torino-Roma si portava via per sempre la donna di cui mi ero perdutamente innamorato.

Nelle cento contrade in cui la vita mi ha trascinato ho spesso incontrato donne esili e fragili con occhi azzurri e volto perfetto. Ogni volta ho sussultato. Invano: quel grande amore era andato perduto per sempre.
Alcuni mesi fa, in una libreria di Firenze per la presentazione del nuovo libro di un mio amico, si parlava di amori giovanili.
"Lei ricorda il suo primo amore?" Mi chiese un'elegante signora.
"Certamente, le ho risposto. Si chiamava Giovanna; veniva da Torino".

venerdì 27 luglio 2012

INTERVISTA A UN UOMO DI SANTA ROMANA CHIESA

-Permette Monsignore? Mi chiamo Arakim, inviato speciale del "Gazzettino di Belzebù". Vorrei proporle un'intervista.
-Vuole intervistare me? Io sono un umile, umilissimo Vescovo di Santa Romana Chiesa, non capisco perché proprio io.
-Lei è diventato assai popolare giù da noi in questi ultimi tempi.
-Ho capito. Mi scusi sa, ma dimenticavo di essere uno dei massimi mallevadori dell'esorcismo.
-Ma no, quella sua attività non è interessante, ci si sono cimentati in tanti da così tanto tempo.
-Ma voi tornate sempre a invadere le creature di Dio.
-Siamo anche noi creature del suo Dio e torniamo assai piacevolmente nel nostro comune territorio; ma restiamo a noi, Monsignore. Vedo che lei non si rende conto del perché di tanta popolarità nei più profondi strati degli Inferi.
-Me lo dica lei, signor...? Come era il nome?
-Arakim, Monsignore.
-Ah, sì Arakim. Bel nome, vetusto.
-Ho quattro triglioni di anni.
-Portati bene, vedo.
-Non mi lamento.
-Lei è un diavolo importante, credo, se lo hanno fatto inviato speciale sulla terra.
-Di seconda schiera, ma ho fatto strada: all'inizio ero di quindicesima.
-Ben, bene. Allora mi dica, mi informi. Perché sono così popolare giù da voi?
-Per quel suo bell'intervento di cui tutti parlano, dove lei ha, come dire, sproloquiato un po'.
-Sproloquiato? Dove? Quando? Non rimanga sul vago, non faccia come tutti i suoi fratelli, che sono sempre ambigui. Eh. io vi conosco bene bricconi.
-Si tratta di quella sua predica, in cui lei ha narrato di un esorcista che si è trovato di fronte un bambino indemoniato, trasformandosi in un erculeo lottatore.
-Sì, certo, ricordo. Ma non dovrebbe essere niente di nuovo per voi, anzi direi che potremmo classificare il fatto come cronaca quotidiana, per rimanere nel linguaggio giornalistico.
-Però lei ha parlato indirettamente dei down. Siamo molto interessati ai down, Monsignore.
-Lo credo bene: stanno tutti giù da voi dopo morti.
-Nemmeno uno, Monsignore, nemmeno uno. Per questo ci interessano.
-Mi stupisce e mi sorprende.Sì, sono sbalordito. Non è che lei si sta facendo gioco di me?
-Ma si figuri! Le dico la pura verità. Da noi non ne capita mai nessuno: appena morti volano in Paradiso a velocità ultrasonica.
-Perbacco! Sono evidentemente amati da Nostro Signore. Ma se è così sono al di fuori della portata dei vostri artigli, perché venite a intervistare un umile Vescovo?
-Perché lei ha detto cose che contraddicono le cognizioni che noi abbiamo dei down.
-Cosa ho detto?
-Vede Monsignore, fino ad oggi -oramai da millenni- noi avevamo accumulato dati e notizie sui down. Sapevamo che erano esseri semplici, sensibilissimi, puri insomma. Per questo rimanevano al di fuori della portata dei nostri artigli, per citarla. Invece lei, Monsignore, che certo ha conoscenze e informazioni che a noi sono sfuggite, ha parlato dei down come di esseri inferiori. Lei ha detto che il bambino posseduto da uno dei nostri faceva gesti inconsulti come quelli che fanno i down. A noi non risulta che facciano gesti inconsulti, tutt'altro.
-Ma sì che li fanno. Sono dei sottosviluppati, poco assai poco intelligenti, che si muovono a scatti, che non hanno principi sani, validi, che...
-Aspetti, aspetti, Monsignore. Ha dati scientifici in riguardo?
-Ma lo sanno tutti; è sotto gli occhi di tutti, che bisogno di dati ci sarebbe per definire questi miseri esseri per quello che sono: errori della natura, peccati viventi.
-Errori di Dio?
-No, no! Non mi vorrà far bestemmiare. Dio non sbaglia mai. Avrà un suo divino imperscrutabile scopo, che non sta a noi giudicare e nemmeno a voi, creature del male.
-Noi non giudichiamo. È lei che lo fa classificando i down come...aspetti che leggo cosa ho scritto..."sottosviluppati, poco assai poco intelligenti, che si muovono a scatti, che non hanno principi sani, validi". Sembra conoscerli a fondo.
-Sicuro, sicuro: sono così.
-È come pensavo.
-Cosa pensava?
-L'ho detto al mio capo redattore, Belfagor, un principe, uno dei beniamini di Satana, che fa interviste ai Pontefici.
-Lo conosco di fama: un osso durissimo da debellare. Che cosa ha detto lei a costui?
-Che lei, Monsignore, non ci capiva un fico secco coi down. Lo ho dedotto dalla sua confusione.
-Come si permette?
-Aspetti, non si inalberi. Le spiego subito. Lei, volendo sempre parlare del bambino posseduto da uno dei nostri ha detto pressappoco così: "faceva gesti inconsulti come quei disabili, quei psicolabili, come si chiamano, ah sì, i down". Lì ho capito che lei non ne sapeva nulla.
-È bravo lei, per essere un diavolo di seconda schiera.
-Ma sarebbe stato chiaro anche per uno di quinta schiera. Lei ha mescolato disabili, psicolabili e down. Sarebbe come se io mescolassi un marziano, un terrestre e uno dei nostri ragazzi.
-Ma che differenza ci trova lei? Sono disabili e sono anche psicolabili, basta guardarli in faccia per vedere e capire.
-Per vedere cosa? Cosa vede lei nello sguardo di un down? Io ci vedo solo un'estrema purezza d'animo. Non sono capaci di pensare il male, per questo appena morti volano in Paradiso.
-Ma no, insisto! Che purezza d'animo va trovando in quei cosi. Sono affetti da disabilità, e sono anche psicolabili.
-Lei non conosce le parole che usa, Monsignore. La disabilità è la condizione di chi, in seguito a una o più menomazioni, ha una ridotta capacità di interazione con l'ambiente sociale rispetto a ciò che voi sulla terra considerate norma. Pertanto il soggetto disabile è meno autonomo e in una posizione di svantaggio.
-Ha studiato la lezioncina a memoria.
-Poteva farlo anche lei, ma mi lasci finire, Monsignore. Psicolabile è colui che presenta instabilità psicologica, quindi non necessariamente un mongoloide che ha una psiche stabile.
-E down, che vuol dire allora, signor mio?
-È una sindrome provocata da un cromosoma in più, 21 al posto di 20, detta anche TRISOMA 21. In tutte le cellule di questi individui ci sono 47 cromosomi e non 46.
-E da che dipende?
-Da un qualcosa di sbagliato che avviene nella madre al momento dell'inizio della mitosi e dipende dall'età della madre.
Lei ha fatto un bel casino, Monsignore, mi creda.
-Rimango della mia idea e nella mia posizione.
-Certo, Monsignore, ne ha tutto il diritto.
-Che fa? Se ne va adesso?
-Non c'è più niente che ci possa interessare. Dirò a Belfagor che lei non è in possesso di nessuna valenza scientifica, ma è solamente un poveraccio, ignorante e incapace.
-Vorrei mandarla all'Inferno, ma credo che sia inutile, sicuramente è diretto laggiù.
-Ovvio. Rientro a casa. Porterò i suoi saluti ai suoi tanti colleghi che stanno da noi.
-Cosa sta dicendo?
-La verità: down nemmeno uno, preti un esercito, vescovi e cardinali in quantità, perfino papi.
-Cosa si sta inventando?
-Ben 164 papi sono nostri clienti da secoli, perfino l'ultimo. Lo ha accompagnato Belfagor in persona.
-Ma quello è un santo e sarà proclamato santo.
Sì, un santo che ha protetto e mai condannato la pedofilia di preti e Vescovi negli U.S.A. e qui in Europa.
-Lei sta bestemmiando, Arakim, sia maledetto!
-Arrivederci, Monsignore. Verrò io a prenderla fra qualche anno. Le abbiamo riservato un bel posticino al calduccio.
-Vade retro, Satana!
-A presto, Monsignore.


mercoledì 25 luglio 2012

LABYRINTH

La luce nel bagno era di nuovo rimasta accesa tutta la notte e l'ultimo ad uscirne era stato lui, come sempre. Una fortuna che Norma dormiva ancora, così poteva chiudere la finestra, ché s'era cambiata abbastanza aria a quell'ora.
La pendola nel corridoio segnava le cinque e tre quarti. Per farsi la doccia gli conveniva aspettare che sua moglie e sua figlia fossero già sveglie, non ci teneva proprio ad ascoltare i soliti piagnistei sullo scroscio dell'acqua che rovinava il sonno.
Si mise davanti allo specchio e guardò la sua faccia.
"Tu hai un nuovo problema, amico -si disse- veramente grosso stavolta".
Tastò con la punta di un dito un minuscolo foruncolo sotto il mento; tese la pelle del collo per vedere se ce ne fossero altri. Stava facendosi le boccacce quando sentì la porta del bagno aprirsi e vide Norma che entrava. Dalla faccia capì che aveva la luna storta.
"C'era bisogno di accendere tutte le luci per guardarti allo specchio? -fu la risposta della donna al suo saluto-. Sbrigati a farti la doccia e a uscire da sto bagno: deve entrarci tua figlia, che è già in ritardo.
"Certo" -le rispose, e aprì i rubinetti della doccia, ma continuò a pensare al suo nuovo problema, i cinque giorni che aveva davanti.

Uscì dal parcheggio sotterraneo del suo palazzo. Usando le marce più basse trotterellò per circa un chilometro, poi si inserì nell'autostrada. Rimase sulla corsia interna, perché alla prima uscita doveva lasciare l'autostrada. Riuscì a mettersi in fila e si immise nel traffico assai intenso al mattino di una delle arterie cittadine. Dopo un po' percorreva a passo d'uomo la Erbertstrasse. Lesse l'ora sul cruscotto: le 6,45. Per un paio di chilometri quella sarebbe stata l'andatura. Calcolò che poteva arrivare qualche minuto prima delle sette nel quartiere della Europahalle dove era l'edificio della sua Compagnia di assicurazioni. Da quasi ventun anni lavorava nell'archivio del reparto liquidazione sinistri, ma non sarebbe salito in ufficio, perché quello era il primo di cinque giorni di un seminario di aggiornamento organizzato per certi reparti dell'azienda, tra cui il suo.
"Saremo in tutto cinquanta o sessanta persone -gli aveva comunicato il suo capoufficio-; ci trasportano con un paio di autobus in qualche buon albergo nel Taunus, in mezzo ai boschi". In fondo avrebbe dovuto essere contento, ma non si era sentito mai tanto infelice come in quella mattina.
Entrò nel parcheggio sotterraneo della Compagnia e si avviò al suo box. Aveva visto fuori dell'ingresso principale che molti dei suoi colleghi erano già arrivati, tutti vestiti a festa.
Spense il motore, tirò in basso lo schienale del sedile e si mise a contemplare il soffitto della sua Opel. Subito i soliti tristi pensieri lo assalirono e cominciarono a tormentarlo. Stava di nuovo totalmente immerso in quello che oramai era il suo grave problema quotidiano, che stava per trasformarsi in dramma in occasione di quel maledetto seminario. 
Da circa due anni gli era franata addosso una pestilenza che non avrebbe augurato al peggior nemico. Il suo intestino, da sempre perfetto come un cronometro, lo aveva piantato in asso e non funzionava più. Dapprima una stitichezza durata alcuni mesi, che lo aveva costretto a cure e rimedi angosciosi e al cambio di alimentazione. Una tortura per lui, abituato a sedersi ogni mattina alle sei sulla tazza e definire le sue cose in pochi minuti, stare qualche volta più di mezzora per produrre, dopo sforzi debilitanti, un paio di miserabili stronzucoli duri come pietre. 
Ma il peggio arrivò quando la stitichezza di colpo si risolse in una serie di scariche diarroiche, che lo costrinsero a darsi ammalato per più di due settimane.
Per lui non era tanto orribile la serie di rumori osceni che produceva, quanto il fetore insopportabile che sembrava penetrare nelle pareti del cesso, e di lì dappertutto, tanto è vero che dopo un po' si aggirava per la casa annusando l'aria con le narici spalancate, come fa un cane da caccia che ha percepito la presenza della preda.
Era stato a consulto da tutti gli specialisti di malattie intestinali, tornando a casa col morale sempre più a terra. Le diagnosi non variavano di molto: infiammazione del colon ascendente, del trasverso oppure del discendente. L'ultimo che lo aveva visitato, un professore dell'Università di Heidelberg, gli aveva dato il colpo decisivo.
"È colite cronica; se la porterà addosso finché campa".
La sua vita era cambiata da così a così. Era diventato tetro e schivo; s'era incupito e chiuso nella sua immensa sfortuna, ragionando solo in dimensione fecale.
Aveva acquistato un nuovo orologio da polso, con applicato un meccanismo di sveglia che dava una leggera scossa al polso. Ogni notte che Dio aveva creato, alle due in punto, quando Norma e Giulia dormivano sodo, si alzava in punta di piedi, si chiudeva nel cesso ed espandeva in libertà il suo putridume, finalmente tranquillo.
Lo sciacquone era escluso, faceva troppo rumore a quell'ora di notte. Ricorreva a tre secchi d'acqua preparati la sera prima dentro la vasca da bagno: li versava uno dopo l'altro nella tazza e finalmente il putridume scompariva. Rimaneva il gran puzzo. Spalancava allora la finestra, che restava aperta tutta la notte con qualsiasi tempo. Al mattino era sempre il primo ad alzarsi per correre a richiuderla.
Aveva eliminato le ferie e qualsiasi altro viaggio perché era ormai legato alla tazza del cesso casalingo. La moglie e la figlia se ne andavano in vacanza da sole ben contente, e lui rimaneva rintanato in casa, ma non cambiava l'usanza delle due di notte per non guastare il ritmo del suo intestino.
Aveva tentato di farsi escludere dal seminario, ma qualcuno della direzione del personale gli aveva fatto intendere chiaro e tondo che chi non partecipava poteva anche perdere il posto, ché c'era tanta gente pronta a saltarci sopra.
"Cerca di stare tranquillo -aveva cercato di rassicurarlo Norma- negli alberghi moderni tutti i gabinetti sono forniti di potenti aspiratori, e poi alle due di notte la gente dorme".
"Puoi sempre andare in un bosco se hai paura di svegliarli coi tuoi botti" -aveva aggiunto Giulia mezzo strozzandosi dal ridere.
Ma il rischio era tremendo. Agitandosi dentro l'abitacolo della sua Opel Dario si chiedeva come avrebbe potuto continuare a vivere come niente fosse se degli estranei avessero conosciuto il suo segreto, come avrebbe ancora potuto guardarli in faccia se quella gente avesse annusato l'orrendo puzzo che diffondeva tutto intorno.
Si rese conto che stava per soccombere a un attacco di panico. Afferrò il trolley e l'impermeabile e saltò fuori dalla macchina correndo verso l'ascensore. Molto più tardi si ricordò di non avere nemmeno chiuso le portiere.

Salutò tutti quelli che incontrò con un cenno della testa. Si curava poco degli altri e ben pochi si curavano di lui. Per molti era solamente l'italiano della stanza 312, e non sapevano nemmeno che diavolo facesse lì dentro. Da parte sua, all'infuori del ragionier Mellini, e della Frau König, non aveva stretto relazioni con nessuno.
Erano arrivati tre grandi autobus e la maggior parte dei colleghi era già dentro. Rimase a guardare indeciso, non sapendo su quale salire.
"Contini! Dario! Hallo!"
Dal secondo autobus Frau König lo stava chiamando.
"Le ho tenuto un posto libero vicino a me; di fronte c'è anche il ragionier Mellini".
Dopo alcuni minuti i tre autobus marciavano in colonna sull'autostrada. Dario chiuse gli occhi, si allungò sul sedile, congiunse le mani sulla pancia e provò a dormire. Per un po' di tempo doveva esserci riuscito, dato che tutti i rumori del traffico e il vociare dei viaggiatori gli si erano fusi dentro le orecchie in un monotono muggito, basso e calmo.
Si scosse dal torpore per una frenata piuttosto brusca: stavano uscendo dall'autostrada e l'autista era impegnato in un curvone dal raggio assai stretto. Finita la curva imboccarono una breve salita e dopo la strada si distese diritta e piana davanti a loro.
Viaggiavano in mezzo a una foresta di alberi molto alti, olmi gli sembravano, ma anche acacie e querce. Più avanti vide venirgli incontro un intero bosco di pini marittimi, alberi che adorava.
Guardò il suo orologio: le nove e tre quarti. Aveva quindi dormito più di due ore. Di fronte a lui Mellini dormiva con la bocca aperta e le gambe divaricate. Anche la König dormiva, ma in modo molto più composto.
L'autobus rallentò la corsa; girarono a sinistra iniziando a salire lungo il fianco di una collina. Quasi in cima un ampio piazzale si apriva di fronte alla facciata di legno di un albergo a tre piani, con grandi balconi pieni di fiori. A destra della facciata un enorme cartello luminoso con la scritta in neon rosso "Willkommen" accoglieva i nuovi arrivati. Scesero tutti facendo un gran chiasso. L'aria era piuttosto rigida.
" A che altezza saremo?" -chiese Dario.
"Circa ottocento metri -gli rispose Frau König-. Andiamo, ché distribuiscono le camere"- aggiunse prendendolo sottobraccio.
Dario ricevette la chiave col numero 211.
"Io e lei siamo proprio di fronte -disse la König- ho la 212".
"A me è toccato il 218 -disse Mellini-. Per lo meno siamo sullo stesso corridoio".
Nella sua stanza Dario si guardò intorno. C'era un letto abbastanza grande, un armadio a tre ante con cassetti interni, un lavandino con un grande specchio e una doccia a porta scorrevole, come quella di casa sua.
Svuotò immediatamente il suo trolley, disponendo la sua roba nell'armadio meglio che poteva, poi uscì, chiudendosi dietro la porta a chiave. C'era da fare l'operazione più importante: il sopralluogo dei gabinetti.
Andò subito in fondo al corridoio e li vide: quattro gabinetti allineati sul lato sinistro e di fronte tre stanze da bagno. Immaginò che dalla parte opposta del corridoio fosse uguale ed entrò nell'ultimo gabinetto, quello più lontano dalle camere. Come aveva sperato c'era tutto l'occorrente, compreso l'aspiratore che entrava in funzione accendendo la luce. La finestra si apriva spingendo verso l'alto. Urinò, si lavò le mani e tirò lo sciacquone. Grazie a Dio aveva un getto potente e lungo, non come in certi alberghi dove lo tengono bloccato al minimo perché il troppo rumore non disturbi gli ospiti.
Uscito percorse l'intero corridoio, passando davanti ai due ascensori e ad una porta a vetri che immetteva nelle scale. Si recò fino in fondo al braccio opposto, dove trovò l'identica disposizione: quattro gabinetti e tre bagni posti di fronte.
Pensò che fosse assolutamente perfetto: poteva usare tutte e due le zone gabinetti, a turno, così si sarebbero confusi eventuali sospetti.
Si sentiva sollevato. Rientrò nella sua stanza, si tolse giacca e scarpe e si buttò sul letto. Dopo un minuto dormiva profondamente.

Si svegliò perché qualcuno bussava alla sua porta con insistenza.
"Contini! Dario! Si svegli!"
Era la voce della König. Le aprì solamente uno spiraglio.
"Abbiamo un'oretta libera fino al pranzo, e avevamo pensato di fare una passeggiata nel bosco per respirare un po' di aria pura".
"Ma che ora si è fatta?"
"Sono passate da poco le undici. Una mezzoretta nel bosco ci farà proprio bene in vista di tutte le ore di chiacchiere che ci aspettano. Ci incontriamo nell'atrio tra un quarto d'ora".
Si lavò in fretta il viso e le mani. Indossò una camicia fresca e un pullover di lana. Niente giacca, solo l'impermeabile. E scese.
Passeggiando per viottoli e sentieri in mezzo agli alberi si erano spinti un po' oltre, perché i viottoli erano finiti e incominciava un fitto sottobosco.
"Che cavolo! -esclamò Mellini- Non siamo nemmeno a mezzo chilometro dall'albergo e già non ci sono più strade".
Dario si volse a guardare da dove erano venuti e vide il tetto dell'albergo, giù in basso non certo distante.
"La zona è tutta in costruzione -disse la König- la dovranno ancora fare la strada".
Decisero di ritornare perché si era fatto tardi, e si incamminarono di buon passo. Prima, però, Dario diede una lunga occhiata circolare a quel sottobosco, che gli sembrava intonso. Un buon posto per le mie faccende, pensò, se questa notte dovesse andare buca coi cessi in corridoio.

Dopo pranzato i seminaristi rimasero per cinque lunghissime ore col culo incollato a una sedia coi braccioli e piano per scrivere, che qualcuno doveva aver studiato apposta per far stare scomoda la gente, ad ascoltare chiacchiere e a riempire un formulario, dove tutte le domande avevano lo scopo evidente di chiarire a qualcuno della direzione che cosa cavolo facesse ognuno di loro durante le ore lavorative, oltre che andare al cesso a fumare una sigaretta ogni tanto.
Dopo un po' Dario aveva avvertito dei comici dolorini al basso ventre, che non erano forti, ma sufficienti a tenergli tutti i sensi all'erta. Per quello a cena ingoiò poche cucchiaiate di una minestra di verdure, sbocconcellando un mezzo panino, mentre gli altri ci davano sotto di brutto come fosse il loro ultimo pasto, bevendoci sopra un paio di bicchieroni di buona birra.
Solo la Frau König fu parca come lui: una omelette, molta insalata e niente birra, solo acqua minerale non gasata.
Dario pensò che Mellini avrebbe dormito sodo, pieno com'era. Della König non si preoccupava, aveva già raccontato che era solita prendere una camomilla con dei sedativi e che si addormentava prestissimo.
"Ho bisogno di molte ore di sonno", aveva aggiunto.
Rimanevano soltanto una sessantina di seminaristi, tutti col buzzo bello gonfio; ma di questi i più importanti erano la ventina che occupavano il suo piano, quelli che avrebbe potuto incontrare nel corridoio insomma. Ma sperava che l'alcool facesse il suo effetto prima delle due di notte.
Si recò nella sua stanza, accompagnato da Elisabeth König, che doveva già avere inghiottito le sue compresse per la quiete notturna. Fu infatti insolitamente veloce nell'accomiatarsi.
Dario si sdraiò sul letto vestito e attese che arrivasse il sonno. Di solito doveva aspettare un paio di minuti. Ma quella notte qualcosa non funzionava: forse l'ambiente estraneo alle sue abitudini, oppure la tensione nervosa. E poi i rumori che provenivano dal corridoio: chiacchiericci, risatine, sospiri come se invece di andarsene a dormire gli inquilini del piano avessero programmato una riunione speciale, o un party.
Tirò avanti in un affannato dormiveglia, girandosi e rigirandosi sul letto, finendo per aumentare la sua agitazione. Poco dopo l'una di notte buttò le gambe giù dal letto. Si avvicinò alla porta, accostandoci un orecchio e gli parve di sentire uno scalpiccio. Aprì cautamente uno spiraglio e vide in fondo al corridoio, proprio davanti ai gabinetti, due o tre colleghi in conversazione serrata. Chissà cosa avevano di tanto importante da discutere a quell'ora.
Proprio in quel momento il suo orologio cominciò a vibrare.
"Le due! E questi non se ne vanno!" -bofonchiò tra i denti.
Ma quella era la sua ora, da più di due anni e già sentiva aumentare gli stimoli del suo intestino intasato. Non poteva rimandare, pena chissà quale disastro.
"Userò i gabinetti dell'altra ala del corridoio" -si disse e si infilò le scarpe.
Ma non fece in tempo ad uscire la sua stanza che li vide: erano in cinque, proprio là in fondo, uno stava con le spalle appoggiate alla porta dell'ultimo gabinetto. Ogni strada era sbarrata. Capì che doveva decidere in fretta, prima che succedesse l'irreparabile: quella gente là fuori non aveva nessuna voglia di dormire, non gli rimaneva che il bosco.
Indossò l'impermeabile, uscì e chiuse la porta a chiave. Non usò l'ascensore. Nell'atrio non c'era anima viva. Più rapidamente che poté sgattaiolò all'aperto.
"Le conviene portare un ombrello -disse una voce alla sua sinistra- ha smesso di piovere, ma temo che dia ancora una buona lavata"
Il portiere di notte stava fumando una sigaretta al buio. Solo allora Dario si accorse che i viali erano tutti bagnati.
"Sto poco -rispose- sto pochissimo. Ho bisogno di prendere una boccata d'aria e di sgranchirmi le gambe".
"Io lo porterei lo stesso. Se vuole le do il mio, a me non serve".
"Grazie, ma sto veramente assai poco".
Si allontanò rapidamente. Dopo alcuni metri diminuì la velocità: aveva detto al portiere che voleva fare due passi, non una corsa; non doveva farlo insospettire. Appena fu abbastanza lontano riprese il suo passo veloce. Doveva camminare fino alla fine del sentiero, dove era arrivato la mattina insieme a Mellini e alla König. Proprio lì aveva visto la possibilità di fare i suoi bisogni indisturbato.
Ci giunse in una manciata di minuti, quando la pancia oramai gli muggiva con disperazione.
Entrò nel sottobosco con decisione e gli sembrò di scivolare. Forse c'era del fango, ma non poteva stare lì a sofisticare. Era arrivato accanto al tronco di un grosso albero: sollevò i lembi dell'impermeabile fino alle ascelle, slacciò freneticamente la cinghia dei pantaloni, che lasciò cadere in basso insieme agli slip e si accosciò giusto in tempo per non riempire i suoi calzoni.
Avvenne quello che già conosceva: un orrendo boato, seguito da un crepitio stizzoso come i mortaretti nei giorni di festa grande a Napoli, accompagnò la super abbondante uscita di feci e di orribile puzza, che si diffuse immediatamente nell'aria quasi togliendogli il respiro.
Quando fu di nuovo libero cercò qualcosa per pulirsi. Aveva nelle tasche dei pantaloni dei fazzolettini, ma non erano sufficienti. Aveva qualcosa nelle tasche dell'impermeabile, una specie di lunga nota spese che Norma gli aveva dato tempo prima. La usò.
Si rivestì, cercando di non sporcare i pantaloni nelle sue feci; tirò giù l'impermeabile riassettandolo al meglio e si allontanò facendo lunghi passi. Si accorse che le scarpe affondavano nel terreno e si augurò che non si fossero troppo infangate.
Batté i piedi con forza quando fu nuovamente sul viottolo di terra battuta e ghiaia; continuò a battere per alcuni metri, poi prese un'andatura normale. Si sentiva stanchissimo, come se avesse scaricato da solo un vagone pieno di merce.
Salutò con un bel sorriso il portiere di notte, che lo guardava in modo strano. Alzò gli occhi sull'orologio nell'atrio e vide che segnava un quarto alle quattro.
Se ne stupì molto. Non gli pareva che fosse passato così tanto tempo.
Solo quando fu nella sua stanza si accorse del disastro sulle sue scarpe e sui pantaloni: erano pieni di fango, che aveva lasciato schizzi perfino sulla fodera dell'impermeabile. Ripensando alla sua posizione sul terreno la cosa gli sembrò addirittura logica. Ma dove stava tutto quel fango? Non se ne era assolutamente reso conto.
Durò un'ora abbondante prima di riuscire a togliere dalle scarpe, sopra e sotto, e dall'orlo dei pantaloni quella schifezza che ci stava attaccata. Erano ormai quasi le cinque quando si spogliò, indossò il pigiama e si distese sotto le coperte.
Cadde immediatamente in un sonno letargico.

Dei colpi sonori e insistenti picchiati sulla porta lo fecero svegliare di soprassalto, ansimante e sudaticcio. Guardò l'ora: le sette e un quarto passate da una manciata di secondi. Cosa diavolo vorrà Mellini all'alba? I colpi si reiterarono fortissimi.
"Arrivo, perdio! Arrivo, basta!"
Appena girata la chiave e tirata a sé la maniglia, una manata dall'altra parte della porta la spalancò mandandogliela quasi a sbattere sulla faccia.
"Ma che razza di modi...", pensò di dirlo, ma gli rimase in gola: tre, quattro, cinque...sei individui mai visti prima erano dentro la sua stanza e altri tre ne vedeva fuori, questi in divisa da poliziotti, mentre quelli dentro, che già rovistavano dappertutto, erano in borghese.
Dario spalancò le braccia a bocca spalancata, perché non trovava parole, mentre uno dei tipi aveva richiuso la porta e ci stava appoggiato con la schiena.
"Mi chiamo Bernard Werner -disse quello più anziano- e sono Commissario della Polizia Criminale di Wiesbaden".
La Kripo? Pensò Dario. Che vogliono costoro da me? Che ho fatto?
Uno dei poliziotti aveva in mano le sue scarpe. Dopo essersele rigirate in mano ben bene le porse in visione al Commissario indicando alcune macchie; non era evidentemente riuscito a cancellare tutte le tracce del maledetto fango che ci si era accumulato.
"Indossava queste scarpe stanotte quando è uscito dall'albergo?" -gli chiese il Commissario
Quel portiere aveva la lingua lunga. Si era accorto che le sue scarpe erano piene di fango e gli avrebbero rovinato i tappeti. Ma la Kripo non si muove per queste stupidaggini. Pensieri rapidissimi in successione nella testa di Dario ancora non del tutto sveglio.
"Le ho fatto una domanda,vuole rispondere?"
"Sì, certo. Indossavo quelle scarpe".
"Cosa doveva fare di tanto urgente?"
"Volevo prendere un po' d'aria e fare due passi per sgranchirmi le gambe".
"Alle due e mezza della notte?"
"Non riuscivo a prendere sonno".
"E ha passeggiato nel bosco per oltre un'ora e mezza?"
"Sì, credo di si".
"E dove ha raccolto tutto quel fango? Lungo la strada e lungo i viottoli era bagnato, ma niente fango".
"Sono entrato nel sottobosco per qualche metro".
"Per fare che cosa?"
Non mollava l'osso lo sbirro.
"Ho orinato".
"Ma guarda! E per pisciare lei si è riempito i risvolti dei pantaloni di fango, ma non solo -e gli mostrò i poveri calzoni, che un altro agente reggeva in mano- anche la cinghia, lo vede? Addirittura la fodera del suo impermeabile, qui, qui e qui. Lo vede?"
Vedeva adesso che non si era accorto di quelle macchie quando era tornato, ma era stanchissimo.
"Da quando in qua è proibito andare a zonzo nei boschi e magari inzaccherarsi di fango?"
Il Commissario Bernard Werner fece un mezzo sorrisetto, poi diede un'occhiata alla stanza.
"Evelyn Blumenkohl"
Pronunciò solamente quel nome, continuando a guardarsi intorno. E poiché Dario lo fissava perplesso, ripeté:
"Evelyn Blumenkohl"
"Chi è? -chiese Dario spazientito.
"La conosce?" -questa volta lo fissava diritto negli occhi.
"Mai sentito questo nome".
"Si vesta. Deve venire via con noi" -e lasciò la stanza incurante delle proteste di Dario.

"Evelyn Blumenkohl"
Ripetuto per la terza volta quel nome mise Dario in orgasmo. 
Si trovava negli uffici del Polizei Presidium di Wiesbaden, in una stanza nuda con tre finestre rettangolari e strette, poste una accanto alle altre lungo la parete più corta, proprio a ridosso del soffitto. Sembrava volessero impedire di dare uno sguardo sul mondo, lasciandone solo immaginare l'esistenza.
Sedeva davanti a un tavolo metallico; sulla parete di fronte a lui uno specchio molto grande.
La solita trovata, pensò. È sicuramente lì dietro che mi osserva questa Evelina del cavolfiore. Beh, adesso si accorgerà che non mi ha mai incontrato in vita sua.
Il Commissario Werner si era tolto la giacca e aveva rimboccato le maniche. Non portava la fondina a tracolla con la pistola dentro, come si vedeva in quasi tutti i film e nemmeno aveva un aspetto truce. Teneva i gomiti appoggiati al piano del tavolo e aveva aperto una cartella gialla che gli aveva messo davanti al naso un poliziotto in divisa, che subito si era allontanato. C'era un numero stampato in grande, aveva fatto in tempo a leggerlo: 1221. Ora la cartella era aperta, ma conteneva solo qualche foglio scritto e un paio di foto.
"Ha mai sentito quel nome?" -chiese paziente il Commissario.
"No, mai -rispose Dario ormai rinfrancato- e nemmeno vista. Se non mi crede lo chieda a lei" -e indicò lo specchio alle spalle del Commissario.
Lo guardò un attimo da sopra le lenti, che teneva quasi sulla punta del naso.
"Non c'è nessuno là dietro, e lei non faccia il furbo".
Tirò fuori dalla cartella le prime due foto: il ritratto a colori di una ragazza bionda, decisamente molto bella, occhi azzurri e un sorriso da conquistatrice del mondo.
"Evelyn Blumenkohl, 21 anni -disse Werner- cubista in un locale qui a Wiesbaden, il Trocadero".
L'altra foto la ritraeva in due pezzi, sempre col solito sorriso.
"Ride sempre allo stesso modo -osservò Dario- deve essere il suo marchio di fabbrica".
"Era. Su questa non ride più".
Gli mise davanti l'ultima foto. Un corpo di donna seminudo, disteso in mezzo al fango con graffi sanguinanti in mezzo alle cosce, i pantaloni abbassati fino alle caviglie e il collo piegato di lato in una posizione assai poco normale.
"Prima stuprata, poi strangolata, signor Contini".
Inutile chiedere dove l'avevano trovata e quando, anche un idiota era capace di fare due più due uguale a quattro. Ma non poteva essere così sfigato, no perdio, non era giusto.
Mise entrambe le mani davanti, scuotendo la testa con forza.
"Io con questa storia non c'entro...non posso essere stato io".
"E perché no?"
"Perché...perché..."
Ma non poteva andare avanti, non poteva dire quello che aveva fatto; certe dichiarazioni finiscono sui giornali. Cosa sarebbe diventata dopo la sua vita se si fosse diffusa la notizia della pestilenza che si portava dentro. Lui non era stato e non potevano infilargli dentro le scarpe quel delitto. Prima o poi lo avrebbero trovato il colpevole, bastava scavare nella vita della ragazza e sarebbe saltato fuori. Cosa era venuta a fare nel bosco a quell'ora? Quell'idea lo folgorò.
"Che ci faceva la ragazza nel bosco? -chiese saltando in piedi- Come c'era arrivata? Chi ce l'aveva portata? Io no di certo, sono stato in albergo tutto il giorno, ci sono decine di testimoni".
"Sieda, Contini, sieda".
"Ho gente che è stata con me da ieri mattina presto ogni minuto, il ragionier Bruno Mellini e Frau Elisabeth König".
"Potrebbe trattarsi di una sua vecchia conoscenza, che lei ha cercato col suo telefonino".
"Lo avete voi; controllate le telefonate che ho fatto e quelle che ho ricevuto".
"Lo stanno facendo, stia tranquillo".
Werner lo guardò un momento, come se cercasse le parole.
"Se lei non è l'assassino non ha niente da temere, i poliziotti non sono tanto stupidi come la gente pensa. Devo dirle però che lei non è molto collaborativo. Io non credo che lei stesse facendo una passeggiata. Comunque sia andata aveva ben altre ragioni per uscire questa notte dall'albergo, e io le scoprirò"
Se ne andò lasciandolo solo a macerarsi al pensiero che quel vecchio poliziotto riuscisse a scoprire il suo segreto.
Ma dove diavolo è stata ammazzata questa qui? Quanto sarà distante il luogo del delitto dalla mia postazione di questa notte? 
Questa era la sua unica preoccupazione: che cioè trovassero il monte di merda che aveva lasciato sotto un albero. Che gli potessero accollare un delitto da trenta anni di galera non gli passava nemmeno per la testa.

Nell'istituto di pena dove fu trasportato lo registrarono, poi lo portarono in infermeria, dove un medico prelevò campioni del suo sangue e di saliva per il controllo del DNA e il confronto con quello sulle tracce trovate sul corpo della ragazza uccisa.
Benissimo, pensò Dario, tra un paio d'ore sarò libero. Ma il medico lo disilluse immediatamente. Tutti gli esami venivano fatti a Francoforte e occorrevano non meno di ventiquattro ore, se tutto andava alla grande.
Mi toccherà pernottare qui, pensò.
Per fortuna, dato che era sotto inchiesta, fu assegnato ad una cella singola. Appena entrato vide in un angolo della angusta cella una tazza metallica inchiavardata al suolo con una maniglia a muro per tirare l'acqua. In pratica quella stanza era un cesso, anche le misure erano da cesso, tre metri per due per tre di altezza: diciotto metri cubi che, se fosse stato costretto a usare quella specie di bugliolo, avrebbe intasato di micidiale puzza che poteva asfissiare lui per primo e poi tutti gli altri ospiti del braccio.
Pertanto doveva mangiare poco o niente e sperare di farcela a trattenere il suo intestino. Mangiò pochissimo, giusto per non morir di fame e appena arrivata la notte sprofondò in un sonno pesante, svegliandosi soltanto al mattino.
Per la prima volta dopo più di due anni aveva saltato la cacata delle due di notte, e si sentiva orgoglioso del successo.
Si mise in attesa della imminente scarcerazione. Ma le ore passavano inesorabile e nessuno veniva a portargli la buona notizia. 
Il secondino, dopo una delle sue solite domande, gli rispose:
"Nessuna nuova, buona nuova per chi sta sotto inchiesta. Di norma li portano via ogni giorno per interrogarli, ma di te sembra si siano dimenticati".
"Devo stare allegro, insomma?"
"Se non interrogano te, interrogano qualcun altro".
Che non faceva una grinza.
Intanto però s'era fatto di nuovo buio e stava per cominciare la seconda nottata in galera. Questa volta temeva di non farcela a resistere alla pressione dei suoi intestini. Aveva ragione. Strinse i denti, spasimando fin oltre le tre, poi dovette sedere su quell'imbuto di acciaio. Iniziò espellendo lentissimamente la prima ondata, con leggeri rumori, nel silenzio quasi irreale del braccio.  Gli sembrava che tutti trattenessero il fiato per ascoltare l'imminente strombettata. Al massimo se ne sveglierà qualcuno dal sonno più leggero, si augurò: è quel che sarebbe seguito che lo angustiava.
La seconda ondata fu feroce e i rumori rimbombavano fortissimo in quella specie di cassa armonica che aveva sotto.
Quando sentì arrivare la biglia infuocata, capì che non avrebbe potuto trattenerla: si trattava dello stronzo regale che preludeva al gran finale. Mollò i muscoli dell'ano. Che la sorte abbia il suo corso, pensò, e amen.
Esplose nella tazza e svegliò tutti.
Urla, lazzi, pernacchie e risate.
"Che gli avete dato da mangiare, tritolo?"
"Ma chi cazz'è?"
"Quello della tre"
"Quello che ha ammazzato la cubista"
"E come l'ha ammazzata?"
"Con una scarica di scoregge"
E giù risate e fischi e pernacchie.
Ma quando ormai avevano esaurite le battutacce e si accingevano a dormire iniziò a propagarsi il gas ammorbante. Dario aveva cacciato la faccia dentro il cuscino e respirava pianissimo, ma gli altri non erano esperti di questa tecnica e pochi minuti dopo l'intero braccio era in rivolta.
"Uuuuuhhh, che schifo!"
"Mamma mia, che puzzona!"
"Cacciatelo via!"
"Cacciate fuori il cacone, fuori di qui!"
Dopo un po' gridavano tutti in coro:
"Fuori...fuori...fuori"
Le guardie correvano per i corridoi, picchiando sulle porte coi pugni e urlando imprecazioni.
Durò un paio d'ore, ma Dario era sicuro che non avrebbe più dimenticato quella insurrezione.

La notte successiva Dario Contini concesse il bis. Ormai non aveva più nulla da perdere. Aveva rifiutato l'uscita per l'aria, perché temeva che magari stessero tutti ad aspettarlo per suonargliele.
Pertanto sedette sulla tazza come se si fosse trattato di un trono e scaricò tutta la Santabarbara sforzandosi più che poteva. Per lasciare un ricordo indelebile, si disse, in un coro wagneriano di urla e di bestemmie.
Al mattino una delegazione di carcerati del braccio si mise a rapporto dal Direttore della casa di pena.
Dario non seppe mai cosa aveva deciso di fare il Direttore perché, prima che la delegazione fosse rientrata nelle celle, aprirono la sua porta e lo condussero negli uffici dell'accettazione, dove due poliziotti lo stavano aspettando.
Lo condussero a sirene spiegate al Polizei Presidium e lo  lasciarono ad aspettare nella sala dello specchio. Nessuno gli aveva tolto le manette e questo gli faceva venire i crampi allo stomaco per la paura.
"Toglietegli le manette" -ordinò il Commissario Werner appena entrò nella stanza.
Sedette senza togliersi la giacca. Aveva di nuovo la cartella gialla col numero 1221 stampigliato sopra. 
"Sua moglie è stata molto più collaborativa di lei, e anche sua figlia Giulia. Bella ragazza e molto intelligente. Lei è un uomo fortunato Contini, lo sa?"
Dove diavolo vuole andare a parare, pensò Dario sulla difensiva. 
"Perché non ci ha detto subito del suo problemino? Si sarebbe risparmiato molte sofferenze, mi creda"
Dario pensò alle sue ultime nottate sul bugliolo e alla tempesta di urla e parolacce che lo aveva investito.
"Mi vergogno -disse a bassa voce- mi vergogno tanto, come se fosse una colpa infamante, un delitto, così non ne parlo mai".
"Con la polizia è come col prete in confessione: bisogna dire la verità quando si è innocenti"
Benissimo, adesso lo ha detto, che aspetta a mandarmi via? Si chiese Dario.
"Ci stavamo arrivando da soli: le tracce di DNA non corrispondevano, ma sua figlia ci ha detto del suo problema intestinale e di averla consigliata di evacuare all'aria aperta. Abbiamo allargato l'area di ricerca e, a circa mezzo chilometro, trovato le sue tracce. Corrispondeva tutto: il calco delle suole delle sue scarpe, la quantità di feci e il pessimo odore; pure la lista della spesa che le aveva fatto sua moglie. La prova calligrafica l'ha confermata"
Fece una pausa e lo guardò negli occhi.
"Adesso siamo felici e contenti -continuò con tono allegro- perché un innocente è in libertà; abbiamo trovato il colpevole del delitto, che ha già confessato e quei poveri cristi in carcere questa notte potranno di nuovo dormire tranquilli"
Si alzò e gli tese la mano.

Una macchina della polizia lo riportò al suo albergo, dove tutto il personale si congratulò con lui. I suoi colleghi erano già ripartiti per Karlsruhe, purtroppo, lo informarono.
Purtroppo certamente no, pensò Dario. Era felicissimo che non ci fosse nessuno a fargli domande; li avrebbe rivisti il prossimo lunedì e aveva tutto il tempo per inventarsi una storia sufficientemente credibile, posto che già non sapessero tutto.
Preparò la sua roba in tutta fretta e salì sul taxi, che era prontamente arrivato.
Una buona storia da raccontare doveva trovare. 
"Mi farò aiutare da Giulia, che ha tanta fantasia -si disse- lo ha detto quello sbirro: sono un uomo fortunato.




domenica 22 luglio 2012

CAMILLERI FRATELLI & Co. dal 1922

Erano da poco passate le 9 quando Rudilain entrò nell'ufficio di Tarcisio Camilleri con in mano la sua brava lettera di raccomandazione.
Lo Chef la lesse, annuì e disse alla sua segretaria:
-Porti il ragazzo da Pazz O Too, che gli trovi un'occupazione adatta a lui.
Rudilain andò buono buono insieme a Pazz O Too negli spogliatoi. Infilò una tuta blu, scarpe di sicurezza rinforzate, calcò in testa un elmetto di alluminio e seguì abbastanza impacciato il capo reparto all'interno di una grande hall piena di macchinari, di operai e di rumori assordanti. 
-Prendi quel carrello, gli gridò Pazz O Too per sovrastare la cagnara; raccogli tutto il materiale che trovi per terra e poi lo porti oltre quel grande portone là in fondo. Scarichi il carrello e torni di corsa qui, perché c'è sempre nuovo materiale che si ammucchia per terra.
Fece una breve pausa.
-Lavoro in questa fonderia da una vita; sono capo reparto da dieci anni e mi basta mezza giornata per giudicare il nuovo personale, per cui datti da fare.
Lo piantò lì in mezzo.
Rudilain prese il carrello e cominciò a trottare, mentre Pazz O Too senza darlo a vedere non si perdeva una sua mossa. Era la prima volta che osservava un down al lavoro.
Dopo un paio d'ore andò dallo Chef.
-Vorrei provare a insegnargli qualcosa di più concreto. Mi sembra sprecato a raccogliere scarti.
Così in poco più di due mesi Rudilain si trovò a lavorare come assistente all'addetto al tornio nella produzione di rondelle micro. Visto poi il suo successo la ditta assunse altri due down, Sergio ed Elisa, con ottimi risultati.
All'inizio della nuova stagione un giornalista del Corriere regionale andò a intervistare Tarcisio Camilleri su quei tre disabili, perché si era sparsa la voce e al giornale arrivavano lettere e mail di lettori che volevano essere informati.
-Sono i miei migliori operai, rispose lo Chef. I primi ad arrivare e gli ultimi ad uscire. Mai un giorno di malattia, mai una stravaganza, e mai un infortunio: il capo reparto li ha informati dettagliatamente su tutti i rischi e loro si tengono lontano dai pericoli, concentrati sul lavoro.
-Eccezionale! Chi l'avrebbe mai detto.
-Amano il loro lavoro, continuò lo Chef; li fa sentire uguali agli altri. Venga a vedere cosa hanno fatto.
Condusse il giornalista nella sala mensa dove ad una parete stava attaccato un calendario.
-Guardi qui: hanno cancellato tutti i sabati e le domeniche, giorni in cui non lavoriamo. Ha capito che roba? Quelli festivi per loro sono giorni tristi perché devono rimanere nel loro istituto.
Ma Rudilain, anche se era un alacre lavoratore, aveva un grande cuore, che da un pezzo stava battendo solo per Elisa. Si decise a dirlo a Sergio, che era suo amico fin dai primi anni di istituto.
-Amo Elisa, ma non sono capace di dirle niente.
Ci pensò Sergio, che non amava la ragazza, ma quando lei gli chiese di baciarla lui lo fece immediatamente.
-La ami anche tu? Gli chiese Rudilain.
-No, ma io sono tuo amico e non volevo scontentare la tua ragazza.
Così formarono un trio perfetto dove ognuno amava gli altri due senza alcuna remora.
Poi venne la gravissima crisi internazionale, il governo tecnico, le enormi tasse, la recessione e tutti gli operai persero il posto, perché la "Camilleri fratelli & Co. dal 1922" chiuse i battenti.
Tutti gli operai, anche Rudilain, Elisa e Sergio.
Scomparvero una sera, dopo l'ultimo giorno di lavoro, dopo avere salutato tutti i colleghi, lo Chef e Pazz O Too.
Non rientrarono all'istituto e nessuno seppe più niente di loro.
Subito cominciò a circolare in paese la leggenda di loro tre che camminavano di giorno e di notte mano nella mano, sfiorando coi piedi nudi l'erba di un prato infinito.

P.S. Idea ispiratami liberamente da un post di Silvia Fumagalli: "L'essenziale è invisibile" del 19 luglio.

martedì 17 luglio 2012

PER COLPA DI UN FIORE

Amleto aveva diciannove anni quando scoppiò
la Grande Guerra, ma lui non ci pensava;
se ne andava in giro con la sua macchina 
fotografica a soffietto tutto il tempo libero, 
scattando foto al mare, ai fiori, ai tramonti, che
in bianco e in nero venivano più misteriosi.
E intanto cantava con la sua
bella voce da tenore di grazia.

Maria aveva quindici anni e le piaceva
quel ragazzo sempre allegro con gli occhi
che ridevano felici, così si mise sul balcone
mentre che lui passava e si lasciò
fare una foto. Il giorno dopo aspettò sempre
sul balcone che lui passasse di nuovo.
"L'hai sviluppata la foto?". "Domani te la porto;
è molto bella, ma devi venire giù a prenderla".
Così, con la scusa della foto, si toccarono con le punte
delle dita e da quel giorno, nel tempo libero
di lui e quando la madre di lei non era
in casa, se ne andavano a spasso mano
nella mano, e lui le cantava canzoni
e brani di operetta. Nemmeno un bacio,
nemmeno una carezza, solo dita intrecciate. 

Poi Amleto fu trasformato in fante e partì
con un treno pieno di ragazzi che puzzavano
di naftalina per via delle divise ancora nuove
e di sudore per via della paura. 
Maria gli portò un fiore e mentre andava
gli passò una mano su una guancia, leggermente
come una piuma; nemmeno un bacio,
solo una lacrima sulle gote rosse di lei,
sulla barba mal rasata di lui.

La guerra finì e Amleto ritornò con uno sgarro
in una coscia, per colpa di una scheggia di mortaio.
Maria se n'era andata. "È diventata baronessa
e vive in un castello assai lontano da qui".
A lui restò quel fiore, che lei gli aveva donato
tre anni prima e che non buttò mai.

Un giorno la incontrò di nuovo: era una donna
e aveva un figlio piccolo. Aveva piantato
il barone nel suo castello ed era diventata una moglie
separata, una preda impossibile per gli altri
ma non per lui, che teneva il suo fiore.
Per colpa di quel fiore lei ritornò a passeggiare
insieme a lui, che le cantava le canzoni 
nuove e non sapeva ancora che avrebbe passato
con Maria tutta la vita insieme. Per colpa di quel fiore
sono nato io in una notte fredda di febbraio.

L'ultima volta che li ho visti insieme, due
vecchietti sotto braccio, lui teneva a tracolla la sua Leika 
a soffietto, che gli avevano regalato a Berlino.
Passeggiavano al sole tenendosi stretti ma non
pel freddo, e lui cantava a lei in falsetto le canzoni
nuove che avevano appena trasmesso a San Remo.

sabato 14 luglio 2012

L'ISOLA DEL TRENO VERDE

-Posso avere un orario di partenza e un programma di viaggio?
-Non ce ne sono. Parte tutti i lunedì alle 8,31 in punto da uno dei binari centrali.
-Mai lo stesso?
-No, ma non si può sbagliare: locomotore e vagoni sono di un bel verde smeraldo. C'è solo quel treno colorato così.
Mentre torno alla macchina mi vibra il cellulare nella tasca dei pantaloni. È Gustavo. Vuole sapere se ho preso i biglietti.
-Li ho, ma non c'è un programma.
-Non fa niente. Mi ha raccontato tutto Gianni che c'è stato due settimane fa. Ha detto che è una cosa allucinante.
Perché non fanno un po' di pubblicità? Nessun annuncio sui giornali, nessuna notizia per radio o per TV, solo un passaparola quasi sottovoce. Non capisco poi tutte quelle storie alla biglietteria: mi hanno chiesto il passaporto e hanno computerizzato i miei dati; ho dovuto dare nome e indirizzo di Gustavo. Tutto scritto sul PC.
"Si tratta soltanto di una scampagnata", gli ho detto.
"Dobbiamo registrare i dati anagrafici di tutti i viaggiatori; ordine del ministero della sicurezza".
Di questi tempi meglio non replicare, non dare nell'occhio se non si vuole finire nei libri neri. Però mi è venuto il mal di pancia e sono dovuto correre al cesso appena a casa.
Ancora due giorni di tempo prima della partenza, che passo togliendo erbacce nel giardino di mia madre e cercando di dare una ripulita nella mia soffitta, che fa schifo tante sono le tele di ragno. Una pittrice tedesca ha realizzato collage stupendi incollando tele di ragno su cartone. Fosse venuta nella mia soffitta avrebbe messo su un'intera esposizione.
Tutto questo lavoro sporco per non pensare al viaggio, e nemmeno una telefonata o un SMS a Gustavo, né lui a me, sempre allo scopo di non fare danni. Ma la notte della domenica non chiudo occhio, continuando a ribaltarmi dentro le lenzuola fino all'alba, e quattro volte alzarmi per pisciare dolorosamente goccia a goccia come un vecchio. Per colazione una tazza di caffè nero senza zucchero.
Inutile tentare di nasconderlo: ho una tensione fortissima e un'ansia che se fossi più coraggioso chiamerei paura.
Alle 7 una chiamata di Gustavo.
-Lascia la macchina in garage, vai col tram.
-E tu?
-Io vengo in bicicletta.
Così scendo di corsa giù per le scale. Tre chilometri da casa mia alla stazione me li faccio a piedi.
C'è già Gustavo, che incatena la sua bici a un palo della luce. Gli do il suo biglietto perché lo annulli all'ingresso e lo mostri al poliziotto che ci controlla uno per uno.
Il treno verde è sul quarto binario; i nostri posti sono il 61 e il 62. Gustavo mi cede quello vicino al finestrino nella direzione di marcia. Lui siede davanti a me. 
Mancano tre minuti alle 8 e ci sono più della metà dei posti non occupati. Non arriveranno tutti adesso, sarebbero troppi anche per un calcolo della probabilità molto ottimistico.
Sul marciapiedi solo il personale di servizio. Alle 8 arriva il capostazione per dare la partenza. Nessun altro viaggiatore. Siamo al completo così. Senza la pubblicità non fai il pieno, non fai più niente ai giorni d'oggi.
Cominciano subito a camminare su e giù per il corridoio da un vagone all'altro: personale di servizio, controllori, polizia ferroviaria e tre o quattro individui in borghese che mettono gli occhi dappertutto.
Chiederei volentieri qualcosa a Gustavo, ma lui appiccica il naso al finestrino e guarda fuori i pali della linea elettrica che vanno via veloci. Un chiaro invito a tenere il becco chiuso fatto da chi ha il vizio di chiacchierare anche a bocca piena di cibo, forse anche mentre dorme.
Mi si ingobbisce il naso a tenerlo attaccato al finestrino, ma quei tizi in borghese non la piantano di fare su e giù per tutto il corridoio.
Due ore dopo ho gli occhi storti per colpa dei pali che corrono via, ma finalmente, di botto, non ci sono più pali dell'elettricità dal nostro lato, ma una distesa d'acqua di un grande lago. Il treno corre lungo la sponda e adesso rallenta, va a passo d'uomo perché stiamo sopra un lungo ponte molto stretto. Non mi alzo per controllare dall'altro lato, ma scommetto che ci sia un unico binario, perché c'è solo il nostro treno sia all'andata che al ritorno.
Non dura tanto che vediamo l'isola.
Sbuca dal niente. Guardiamo l'acqua, vediamo un'ombra e invece è l'isola come non te l'aspetti: gli alberi li puoi contare sulle dita tanto sono pochi e striminziti, la vegetazione è quasi inesistente e un muro sta nel mezzo per tutta la lunghezza dell'isola, anzi una muraglia, perché mi somiglia subito a quella cinese: infatti si tratta di una strada sollevata dal suolo, interamente distesa su un terrapieno murato sui due lati, come quello che salvava la Cina dalle invasioni mongole.
Il treno si ferma senza far rumore, come scorrendo su cuscinetti a sfera gommati, in una stazione bianca, bassa e lunga. All'uscita una squadra di poliziotti controlla dei fogli che ogni viaggiatore tiene in mano. Io non ho niente e mi sento all'improvviso molto a disagio. Mi volto verso Gustavo. Mi sorride. Ha le mani piene di fogli stampati.
-Questi sono i tuoi.
C'è il mio nome, i miei dati, il numero del mio passaporto, il mio indirizzo, telefono fisso e cellulare.
-Che roba è?
-Il permesso di accesso all'isola, mi spiega Gustavo. L'ho chiesto due mesi fa via internet.
-Perché non mi hai detto niente?
-Certe cose non devi dirle e nemmeno pensarle a bassa voce mentre sei seduto sul cesso.
Passato il controllo siamo fuori dalla stazione, ai piedi di una scalinata che immette alla muraglia.
Siamo in fila come soldati; nessuno parla, non sembra regni tanto entusiasmo; mi dà l'aria di un pellegrinaggio di anziani, non dico di un funerale ma ci siamo quasi.
-Mi sento triste, Gus.
-Taci. Guarda là.
Seguo con lo sguardo la direzione che mi indica con un cenno del capo e vedo bella in alto una telecamera mobile che osserva e filma tutto quello che avviene a 360°.
Anche dalla parte dell'acqua? Mi sembra un errore, poi rifletto: è piuttosto una precauzione o un timore esagerato di qualcosa, qualunque cosa che non sia l'ordine di questa marcia silenziosa in fila indiana.
La scalinata è finita abbastanza presto. Gustavo è dietro di me, ne sento il respiro pesante ma non mi volto a guardarlo in faccia. Adesso sono sulla muraglia, larga circa due metri, e posso guardare su entrambi i lati allungando il collo ora qua ora là; per ora niente altro da notare se non le telecamere mobili poste a distanze regolari e l'acqua del lago, in fondo a destra e in fondo a sinistra. Non lo vedo, ma di sicuro anche in fondo davanti a me e in fondo dietro di me. Non mi giro per controllare o per dare un'occhiata, insomma non mi giro affatto, l'ho già detto, e nemmeno mi alzo in punta di piedi per vedere oltre i primi della fila. Non lo faccio certamente per via delle telecamere, non c'è dubbio per quieto vivere. Non vedo altra ragione.
Eppure non c'è niente di strano o di anormale da vedere e mi chiedo il perché di tanti controlli, di tutto quel silenzio. Vado avanti per inerzia. Anzi no: perché se mi fermo sicuramente la telecamera si bloccherà su di me. Dico la verità: vorrei non essere mai salito su quel treno; ho le budella ristrette in uno spazio la metà della mia pancia.
Un passo dietro l'altro e dietro gli altri e non c'è niente da guardare.
E all'improvviso sia a sinistra che a destra li vedo.
Operai che spalmano cemento liquido sul bitume secco di una strada, anzi di due, una alla destra, l'altra alla sinistra della muraglia dove marciamo tutti in fila. Sono più o meno alla stessa altezza le due squadre, e vanno entrambe nella direzione di marcia inversa rispetto alla nostra. Alla fine noi saremo in un'estremità dell'isola, loro in quella opposta, nei paraggi della stazione.
Questa gente sembra disinteressarsi di noi, come se non esistessimo, come se non ci fosse nemmeno la muraglia. Lavorano lenti ma con metodo: una coppia spalma cemento tenendosi ai due lati della strada, uno di fronte all'altro; poi si fermano e restano accucciati. Fanno qualcosa che ancora non riesco a vedere. Intanto altri due procedono per un paio di metri. Con calma mollano palate di cemento, che poi spalmano con della cazzuole piatte. Anche questi rimangono accucciati sul posto, accudendo a qualche lavoro misterioso. Mi sembra che vadano con le mani sul cemento, ma sono ancora lontani per poter distinguere cosa facciano.
E già un'altra coppia si fa sotto, mentre altri operai avanzano in fila da entrambi i lati in attesa del loro turno. Adesso che mi avvicino vedo che anche più indietro c'è gente accucciata che armeggia col cemento fresco. Ma vedo pure che in testa alla nostra colonna  i primi si agitano, perché sono ormai sopra agli operai e riescono a vedere quello che stanno facendo. Nessuno parla, ma si guardano l'un l'altro con facce strane. 
Una voce imperiosa, proveniente da uno o più altoparlanti postati chissà dove, ci ordina di fermarci. Eseguiamo all'istante.
"Questi che vedete in basso sono la feccia del nostro popolo laborioso e onesto. Costoro hanno creduto di poter ingannare il regime e voi tutti; lo hanno fatto per anni, nascosti nelle fogne come topi. Hanno imparato a scrivere, hanno imparato a leggere, hanno professato queste ignobili arti per offendere voi e il governo del nostro popolo, sperando di aggredire le istituzioni e di ribaltare il sistema più utile e onesto nella storia della nostra nazione. Non lasceranno mai l'isola. Questo serva di monito per tutti coloro che volessero tramare contro il nostro popolo".
La voce tace. L'altoparlante finisce di gracchiare e rimane solo il rumore degli operai giù in basso che spalmano il cemento.
Riprendiamo la marcia. Ho lo stomaco chiuso in un pugno.
Adesso riesco a vedere cosa fanno mentre sono accosciati: scrivono con un dito nel cemento. In un primo istante avevo pensato che ci facessero dei disegni, ma adesso mi è chiaro e vedo che tutti sopra la muraglia hanno capito. 
Scrivono. Non hanno carta, non hanno penne, ma scrivono sul cemento appena spalmato, cosicché la scrittura rimanga sulla strada una volta rassodato il cemento. Nessuno dei visitatori può leggere perché tanti non sanno cosa sia, non lo hanno mai imparato; altri invece che lo avevano imparato sono col disuso tornati all'analfabetismo. Costoro fanno facce strane, schifate. Qualcuno azzarda a dire qualcosa. Sono frasi di sdegno peggio che se avessero visto appestati in un lazzaretto. Altri si coprono gli occhi e tirano dritto senza guardare più gli spalmatori, gli scrittori, la feccia del nostro popolo.
Arriviamo fino alla fine della muraglia, alla fine dell'isola. Non guardo più da un pezzo, da quando mi sono accorto di essere il solo a guardare in basso, e ho sentito la telecamera puntata su di me.
Torno indietro insieme agli altri guardando il suolo sotto le mie scarpe. Prima di scendere per la breve scalinata mi volto e lancio un'occhiata indietro: gli operai continuano a spalmare, ad accosciarsi, a scrivere con le dita sul cemento fresco.
Questo è il posto dove Gustavo ed io e gli altri pochi amici fidati rimasti finiremo se scopriranno il covo, dove teniamo i pochi libri che abbiamo salvati e le riserve di carta,le penne, le matite, insomma quello che occorre per scrivere ancora.
L'altra notte siamo rimasti inchiodati al muro nel buio pieni di paura: c'era qualcuno fuori che cercava una porta, che batteva sul muro per provocare un rimbombo che svelasse il vuoto di un ambiente. Eravamo certi di essere arrivati alla fine di tutto.
Ma se ne sono andati.

domenica 8 luglio 2012

ENNESIMA PAUSA DI POESIA

Per non perdere il vizio e per ricordare a me stesso che devo andarci piano coi trattati pseudo filosofici, tanto alla fine ognuno continua a pensarla a modo suo, e questo è in fondo in fondo tutto il bello del mondo.
Fatta la rima, entrato in sintonia con l'argomento poetico del giorno.
Alcune sono antiche, un paio di anni, altre nuove nuove.



LA  VECCHIA  FARFALLA  DI  IERI


Questa mattina già presto
ricomincia
a girare intorno al pioppo
la vecchia farfalla di ieri
che oggi
non vive più, è solo un sogno.

Tu guardi e guardi
e non capisci un corno.
Con la bocca
mezza piena di un panino,
la marmellata
che ti sporca il mento,
con la mano
scacci una mosca che
non c'è.
Ripeti come
in una cantilena da bambina:
"Questa notte era bello,
questa notte era
proprio tanto bello,
questa notte hai fatto all'amore con me".

"Vedi se ce la fai
a passarmi quel barattolo
di miele,
e quella fetta di pane,
e piantala di cantare
che sennò non riesco
a leggermi il giornale".

Se quelle nuvole nere
arrivano qua sopra
ci toccherà scappare,  pensi tu.
"Spicciati e bevi il tuo caffè
ché fra un po' piove", dico io.

Ricominci a cantare
la strofetta d'amore
che t'inventi
ogni giorno.

Bevo il caffè, mi alzo.
"Faccio un paio di telefonate
e poi chissà,
se ti va andiamo via in macchina".
"Wohin?"
"Irgendwohin. Fa lo stesso".

Rientro in casa;
mi pulisco le scarpe strofinandomele
sui pantaloni,
all'altezza dei polpacci;
prendo il telefono,
apro la mia agenda e cerco un numero;
lo faccio,
e mentre aspetto che qualcuno
risponda
guardo quello che fai.
Ha cominciato a piovere sulla veranda,
ma tu non te ne accorgi:
sei tutta intenta a seguire
i voli
della farfalla di ieri
che oggi non
c'è più.



IL  MIO  SILENZIO  VECCHIO


Appeso a una parete vuota pende
il mio silenzio vecchio.
Ora che sono solo
le mie mani stanno aperte sotto le nuvole, il mio
cuore è largo come una vela scarica
in attesa di vento,
sconcerto e disperazione
restano attaccati
ai manifesti murali della mia vita
diroccata e priva d'ombra.
Ora che sono solo
io vado tra fiori inesplosi
e uve acerbe;
ma vado.



RICERCA  DI  SPAZIO


Vento.

Silenzio
di altura priva d'erba.

Solitudine,
ricerca di spazio,
di felicità.

Il gatto
che vidi agonizzava nel suo
vuoto.

Il gatto
agonizzava
sotto lo scalino:
vicino,
uno straccio unto
di petrolio.

Io mi fermai
a guardarlo.



TRISTEZZA


Tristezza è
voglia di uccidere cani non randagi.

Dolore è
distillare gocce dal fumo di una sigaretta.

Accovacciato
mi racconto la fine del tempo.



QUANTE  ANIME  HA  UN  UOMO


Quante anime ha un uomo?
Quante ne ho io? Quella del tempo
passato, che mi divora, mi ruba
il tempo presente e futuro,
e io evaporo all'infinito
senza ritorno.

venerdì 6 luglio 2012

APOLOGIA DEL DISORDINE OVVERO DISORDINE COME MASSIMO SISTEMA

Avevo scritto un testo sulle profonde disquisizioni che avvenivano nell'affollato reparto "Pluricasini e affinità incasinanti" del mio cervello, quando, per un evento straordinario, una parte del testo è andata alla deriva planando sul post "Io sto col toro tutta la vita".
Una nota di commento da parte di Silvia mi ha dato la sveglia e il coraggio di rincorrere, agguantare, mordere quei concetti che svolazzavano in libertà mescolandosi a bovini e altri animali, per riportarli nell'originario scaffale del mio cervello.
Ho ricucito lo strappo in virtù delle mie doti di divino quacchero della penna e ora vi propongo il testo originale.


Io vivo nel disordine psicofisico e pratico, amo il disordine, lo costruisco, mi ci ficco, mi ci crogiolo, mi ci esalto. È la mia religione e la mia scrivania il suo altare: come benedizioni piovute dal cielo vi si ammucchiano, vi si depositano, vi si stratificano ondate di fogli e foglietti, mezzi tovagliolini, ritagli di giornali, mozziconi di vecchie matite a colori, una parola scritta là, un indirizzo mail lì, un elemento di un disegno sotto, un incipit di una poesia sopra; e poi astucci colorati, pagine sparse di immortali sudoku brillantemente risolti, eccetera, etcetera, et cetera, et caetera.
Chi vi racconta che l'Altissimo alloggia nei cieli vi prende in giro spudoratamente. Chiedetelo a me, che gli fornisco la dimora nel punto più nascosto della mia scrivania. Qui "Egli È" e "Io Sono". Qui Egli ritrova il suo soffio primario e la sua iniziale concretezza.
Tutto è successo un attimo dopo il Big Bang, quando l'immenso corpaccio informe della divinità è imploso in miliardi di miliardi di pezzettini, intorno a ciascuno dei quali si è aggregata materia in cerca di una meta: pianeti, soli, satelliti, cieli stellati, notti senza luna e tutto quello che si può vedere dei nostri universi paralleli divennero parti staccate del dio casinista originale, buono a nulla, amorfo e arruffone.
Pertanto io sono Dio. Per cui traballando alla cieca nel mio divino disordine, nel mio sovrano pasticciare quotidiano io traggo dal gran casino le forze e la cognizione dell'essere; non cambio mai nulla nel disordine ormai bell'e pronto e impacchettato, mi adeguo ad esso, ne divento parte, sono io il disordine primario, io disordine di me, Big Bang di me, divinità di me, perla e porco di me, diamante e pezzo di merda di me, tutto e niente di me.
Se questa evoluzione è avvenuta così rapidamente nel mio pensiero e mi ha portato a identificarmi col mio disordine -io disordine di me- ciò significa che dopo il Big Bang il corso evolutivo di tutto il baraccone che ne è seguito ha potuto aver luogo soltanto nel disordine e perché solo il disordine esisteva e si propagava all'infinito.
Se infatti tutto fosse stato ordine non ci sarebbe stato più movimento, né spinta ad occupare spazi di vuoto: tutto sarebbe stato già al suo posto fermo e mobile nella sua immobilità, come il meccanismo di un orologio da polso che si muove dentro la cassa dell'orologio, mentre fuori di essa autonomamente mai, unicamente se si muove il polso cui sta avvinto.
Pertanto tutto il sistema e l'insieme dei massimi sistemi ha avuto vita dal disordine, e siccome è provato che i nostri universi sono in continua espansione e quindi in movimento, se ne deduce che tutto è disordine e che solo nel disordine è il benessere, il malessere, insomma l'essere che sta bene e che sta male, cioè la vita.
E visto che per vivere abbiamo bisogno di respirare, l'aria è disordine; abbiamo bisogno di mangiare, il cibo è disordine; abbiamo bisogno di defecare, la merda è disordine; abbiamo bisogno di bere, l'acqua è disordine; abbiamo bisogno di pisciare, il piscio è disordine; per riprodurci abbiamo bisogno di scopare, ogni scopata è disordine; l'orgasmo è disordine; la gioia è disordine; il dolore è disordine; il giorno è disordine; la notte è disordine.
Ma se tutto è disordine, allora dov'è l'ordine? Non esiste? Ma se non esistesse l'ordine non esisterebbe nemmeno il disordine e sarebbe il nulla.
Vero il contrario: esistono entrambi, legati insieme indissolubilmente da una minaccia di eliminazione totale, cioè di morte, di fine e di annullamento del tutto. Il disordine, va detto in chiaro, non è l'antagonista e il nemico dell'ordine, al contrario ne è il primo coordinatore e unico collaboratore. Non ci sarebbe ordine senza il disordine, che ci sarebbe da mettere in ordine altrimenti?
Faccio un paio di esempi.
Come potrebbe una madre rompiballe -la rompimadre- dire al figliolo casinista: "Non lasciare le mutande sporche per terra, quante volte te lo devo dire, e metti a posto i tuoi libri, e poi questo e poi quello e poi quell'altro"? Eliminando il disordine si sarebbe tolto alla rompimadre il suo pane quotidiano, le si sarebbe levato per così dire il boccone di bocca.
Come potrebbe una moglie rompicoglioni -la rompimoglie- rovinare la giornata al marito imbranato con la solita lagna: "Non lasciare le calze usate dentro le scarpe, ma tirale fuori che prendano aria; e quando togli la camicia non rimetterla di corsa nell'armadio insieme a quelle stirate; e spegni la luce quando esci da una stanza, e non venire in cucina che ho appena lavato per terra"? Eliminando il casino si toglierebbe alla rompimoglie la possibilità di escalation quotidiana; e poi si dà il caso che la rompimoglie sia anche la rompimadre, cioè la donna di casa, la regina del focolare, e quindi si può postulare che la rompidonnadicasareginadelfocolare solo così, nel totale disordine, salga in quota mitragliando e bombardando chi trova sotto di lei, naturalmente in grande assenza di ordine, ed esprima la pienezza del suo essere.
Insomma disordine e ordine come bene e male, come amore e odio: legate a doppia mandata queste tre coppie vanno a braccetto a spasso per l'universo.
L'amore finisce dopo un po', mentre l'odio è immortale.
Il bene viene a noia, il male è più divertente, quello fatto agli altri si capisce, con l'eccezione dei masochisti che godono nel subirlo.
Allo stesso modo l'ordine fine a se stesso finisce col guastarsi e diventare disordine. Se in una stanza appena pulita lasci tutto al suo posto, chiudi la finestra, spegni la luce, serri l'uscio e te ne vai altrove per un anno, al tuo ritorno nella stanza sarà puzzo di chiuso, polvere e disordine, quasi per autosuggestione.
Si torna sempre sul luogo del delitto, cioè dove si è nati e quindi tutto tende verso l'attimo primario del Big Bang, verso il caos primitivo, il grande minestrone, il dio informe e bolso originale. Qui si giungerà col profondo convincimento che è il disordine che crea, mentre l'ordine distrugge, appiattendo le forme e i volumi; che il disordine è divino, l'ordine umano quindi povera cosa, caduca e mortale; e che infine bisognerebbe codificare questo in trattati  da trascrivere in testi, che però prevedendo un certo ordine di scrittura sarebbero in contrasto con l'assunto, rendendo quindi impossibile scriverli e forse è meglio così.