giovedì 29 maggio 2014

PRATO CANORO



Un prato canoro
mi risveglia al mattino prima
che sorga il sole:

durante tutta la notte
vi han palpitato,
zigzagando tra steli e foglie,
i miei sogni più semplici

purificati
come una brezza leggiadra.





martedì 27 maggio 2014

SABATO 27 MAGGIO 1933 E LA CORSA DI VLADIMIRO

Tutta colpa della Compagnia Elettrica che aveva provocato un black out su tutto l'Alto Lazio durato fino a notte. I miei futuri genitori non erano usciti perché mamma aveva paura del buio. La radio naturalmente non funzionava e mio fratello Ippolito quel sabato era al campo premilitare dei Balilla e ci sarebbe rimasto fino al lunedì; per di più in casa avevano solo una candela. 
Così Maria e Amleto erano andati a letto con le galline, poca voglia di dormire e tanta di giocare. Anche perché mia mamma aveva la fissa di una figlia. Voleva una femmina da quando Roberta era morta, bimba di otto mesi, per una meningite purulenta. Ma la bambina non arrivava e nemmeno un bambino: non ce la faceva a rimanere incinta.
Quella notte, però, dalle parti di mio padre c'era un piccolo spermatozoo dispettoso e rompiballe che aveva finito per irritare tutte le spermatozoe, quelle che portavano la doppia X, mentre Vladimiro, così si chiamava lo scassapalle, portava la Y e quindi era maschio.
Quella sera le XX si erano proprio stufate di Vladimiro. Si rimboccarono le maniche e gli saltarono addosso per dargliele di santa ragione. Ma Vladimiro schizzava da una parte all'altra e non si faceva agguantare. Ebbe pure la fortuna di entrare in un tunnel lungo e diritto. Vi si precipitò dimenando la sua coda a tutta birra inseguito da tutto il gruppo delle doppia X, che gli urlavano dietro imprecazioni.
"Fermati, matto"
"Lasciati prendere, farabutto"
"Non correre così che tu hai la Y e lei vuole una bambina. Lasciaci passare"
Ma più strillavano più Vladimiro pistava come un campione del mondo, finché giunse alla fine del tunnel e piantò la sua Y su quel territorio rosa liscio e tondo come un alpinista infila la sua piccozza sulla vetta che ha appena conquistato. E con quel gesto di vittoria Vladimiro mise in moto la reazione a catena che avrebbe generato me.
Mia mamma si accorse ben presto che qualcosa fosse cambiato in lei e cominciò a preparare corredini, tutti in rosa. La cosa non passò inosservata a mio fratello.
"Aspettiamo un bambino?" Chiese speranzoso.
"Sì" confessò mia madre un pochino impacciata.
"Perché tutto sto rosa?"
"Perché spero che sia una bambina"
Guardò gli occhi sgranati di Ippolito e la sua bocca aperta.
"Non la vuoi un'altra sorellina?"
Il ragazzo girò sui tacchi e si avviò alla porta con passo deciso. Si voltò di scatto, la mano sulla maniglia.
"Io voglio un fratellino, non una pisciona" e uscì sbattendo la porta.
Non poteva sapere che Vladimiro aveva fatto tutto il lavoro sporco e che io stavo arrivando.


lunedì 26 maggio 2014

CIOTTOLI MARINI


Ciottoli marini edificanti
cambi di corrente,

gomene, attrezzi per la pesca,
onde notturne
livellate
dal disordinato moto sottomarino,

membrane di sortilegi
sfogliate come un libro di preghiere
da rileggere alla fine di ogni
giorno, tutto è predisposto
per un quieto riposo 
sul fresco della battigia.

L'ora è tarda e il sonno incombente
disegna ghirigori dorati
attraverso i grigi morbidi  di strati

di una stanca sofferenza.



Scritta il 5 maggio di questo anno.


sabato 24 maggio 2014

COME SI COSTRUISCE UN PERSONAGGIO

Nel costruire un personaggio di una commedia o di un romanzo io sono dell'avviso che non ci si debba discostare mai troppo da persone comuni, che cioè si possano realmente incontrare nella vita. Odio l'eccessiva teatralità o nebulosità di un personaggio, per cui preferisco volare basso.
Oggi voglio proporvi alcune pagine di un romanzo inedito, Rimasti a Suarez, dove il protagonista rivela a sua figlia la trama di una commedia che sta scrivendo per lei e il personaggio femminile che lei appunto dovrà interpretare.


Sofia arrivò di buon mattino, posò cappotto e borsetta e sedette su una poltroncina.
-Sono dispiaciuto di non poterti dare la buona notizia che aspetti, cominciò Jacopo scegliendo le parole, ma l'operazione mi ha molto affaticato, e poi tua madre mi ha portato soltanto il libretto dalla copertina rossa, come vedi. Gli appunti per la commedia sono nel mio armadio. Deve esserselo dimenticato.
-Non devi averglielo detto per niente invece, gli rispose lei indispettita.
-Come puoi pensarlo? Certo che glielo devo aver detto, almeno credo. Comunque la tua commedia è sempre stata in cima ai miei pensieri.
-Perché mi dici bugie, papà? Te lo sento ripetere da almeno sei mesi e comincio a pensare che non vuoi farne niente. Se avessi incominciato a lavorarci quando hai preso l'impegno con noi avresti finito di scrivere la commedia prima del tuo incidente, e adesso potremmo già iniziare la lettura col regista.
-Eh no, bella mia! Un testo teatrale dal contenuto drammatico come quello che ho in mente di scrivere per voi non si butta giù in un paio di mesi. Devo riflettere prima e dopo ogni battuta, pesarle col bilancino perché tu sai che io odio cadere nel melenso, nel ridicolo e qui il rischio è grosso. Devo comporre bene la scaletta in modo che la situazione in scena sia sempre tesa al massimo e il pezzo non perda ritmo e drammaticità. Non è lavoro da poco. 
-Ma è solo una commediola in due atti, papà. Manfred mi ha detto che non dovrò faticare molto per entrare nel mio personaggio. Situazione tesa al massimo? Ritmo e drammaticità? Ma che dici? La nostra è una filodrammatica, papà, e io sono una buona attrice dilettante ma niente di più. Non vorrai complicarmi il personaggio in modo che poi non ci capisco più niente?
-Cosa ti ha detto Manfred? A tuo marito avevo appena accennato l'argomento, voglio sentire cosa ti ha raccontato.
Sofia si accomodò sulla poltrocina, sbuffò e rispose con molto sussiego.
-Una coppia di sposi ancora abbastanza giovani, senza figli, una coppia che è un po' stanca del matrimonio come tante, tira avanti alla meno peggio il ménage quotidiano finché succede qualcosa, un incidente a lui, no a lei mi pare. Allora tutto cambia e i due si ritrovano di nuovo.
-Happy end, insomma.
-Happy end, certo. È una commedia, no?
-E così vissero infelici e scontenti, esclamò Jacopo facendo l'atto di applaudire con entusiasmo. Quel testone di tuo marito non ha capito un accidente, aggiunse buio in volto.
-Vuoi dire che non c'è lieto fine?
-No. C'è un finale molto triste invece, molto doloroso.
-Un dramma vero e proprio insomma, col morto, disse Sofia protendendosi verso il padre.
-Macché morto! È un dramma psicologico di due esistenze sconfitte dalla vita, che si annullano, diventano piatte, vuote, lo zero assoluto.
-Raccontami la trama, è meglio, risolse Sofia incrociando le braccia in attesa.
-Sei matta? Sai bene che porta male: non si racconta mai la trama di una commedia finché non si è finito di scriverla.
-Non puoi piantarmi in asso in mezzo a una strada proprio adesso. Non potrei tornare a casa come se niente fosse successo, tu mi conosci.
-Neanche per sogno! Non insistere, Sofia. Ti ho già detto che porta male.
-Non mi muovo di qui se non me la racconti. Resto qui anche stanotte.
Jacopo guardò desolato la ragazza, leggendole l'ostinazione negli occhi.Sapeva di non avere scelta, doveva iniziare la narrazione prima che Sofia si mettesse a piangere.
-Stai calma, ragazzina.
-Tu comincia a raccontare, allora.
-Va bene, ma tu stai calma e non mi interrompere.
Prese fiato e rifletté un attimo. Dal momento che non aveva ancora scritto niente temeva di pasticciare un po'.
-Se avrai domande da fare le farai alla fine, d'accordo? Altrimenti neanche incomincio.
-D'accordo, però prima voglio conoscere il titolo e sapere quanti personaggi ci sono.
-I personaggi sono solo due: un marito e una moglie.
-Hai già trovato i nomi?
-Per lui ho immaginato G.O., proprio così, Gi maiuscolo puntato O maiuscolo puntato. Per lei ho pensato a W., doppio vu puntato come Woman. Non ha nessuna importanza, tanto non si chiamano mai per nome in scena.
-W. potrebbe andare, per lui preferisco Giò a G.O.
-Neanche parlarne. Sa di John, detesto i nomi americani, John, Steve, Nick. Per carità!
-Giò come Giovanni abbreviato. Come Giò Pomodoro. Non sei un suo ammiratore, papà?
-No. Preferisco suo fratello Arnaldo. Comunque va bene G.O.Ti ho detto che non è importante, tanto non si chiamano mai per nome.
-Questo lo hai già deciso?
-Già deciso. Lasciandoli chiamare per nome significherebbe personificarli, definirli e chiarirli; questi invece devono calcare la scena del tutto impersonificati: non sono Maria e Carlo che parlano dei fatti loro, ma l'Uomo e la Donna che tirano fuori i fatti di tutti.
-Adesso fuori il titolo, per favore.
-Penso che alla fine opterò per "ritratto d'ignoto in bianco e nero".
-Perché in bianco e nero? E perché non "di ignota"?
-Eravamo rimasti d'accordo che non avresti fatto domande fino alla fine. Devo ancora iniziare e ne hai fatte cento.
-Vorrei più spazio per la protagonista, anche nel titolo.
-Se mi permetti di raccontarti la trama capirai perché è un ritratto d'ignoto e non di ignota, perché è in bianco e nero e non in technicolor.
-Ho solamente espresso un'opinione.
-Adesso però fai silenzio.
Jacopo bevve un bicchier d'acqua e si sistemò sul letto meglio che potè. Tenne brevemente gli occhi socchiusi raccogliendo le idee.
-Si tratta di questo: una giovane donna in seguito a un incidente, causato dall'imperizia del marito nella guida, ha perduto una gamba e con essa la gioia di vivere. Si chiude in se stessa fino a rinunciare a vivere una vita normale. Si ritira in una soffitta dove trascorre il giorno e la notte. La scena infatti va divisa in due piani: al piano inferiore la camera da letto matrimoniale dove dorme da solo il marito. Al piano superiore c'è la soffitta collegata con la camera da letto da una scala di legno retrattile. Nella soffitta ci sarà solo un letto, un tavolo, una poltroncina e un armadio. Lì dentro vive la donna che è occupata tutto il tempo a inventariare e classificare.
Fece una breve pausa e fermò con un cenno secco Sofia che già apriva bocca per formulare domande.
-A proposito della scala retrattile ho pensato che se non fosse possibile o pericoloso per te arrampicarti e scendere per una scala ripida tenendo una gamba rigida a simulare una protesi si potrebbe ripiegare su una normale scala di legno di quattro i cinque gradini.
Comunque tu stai in questa soffitta e fai l'inventario di tutte le parole che lui ti dice, catalogando tutte le ripetizioni. A ogni parola aggiungi sempre la corrispondente col significato contrario e registri tutto su piccole schede. Ti faccio un esempio: lui ti dice che sei ostinata e tu scrivi, ostinata =tenace, risoluta; poi scrivi il contrario di ostinata e cioè remissiva = docile, sottomessa; poi passi le parole dentro i diversi classificatori.
Dimenticavo di dirti che i dialoghi avverranno tra te che stai in soffitta e lui che sta ai piedi della scala. Potrà salire i gradini ed appoggiare un orecchio alla tua porta per ascoltare le tue risposte, che saranno sempre a bassa voce.
Dunque tutto l'interesse nella vita di W. sembra essersi ridotto a ricercare la monotonia delle ripetizioni e i significati opposti alle parole del marito. Ma aggiungendo sempre i contrari di ogni parola e quindi di ogni concetto, la luce-le tenebre, la vita-il nulla e così via, giunge alla negazione di tutto e al non riconoscere più niente, perché tutto le diventerà ignoto: il marito, il mondo esterno, il genere umano, la vita e infine se stessa. Capisci il titolo adesso? Non è ritratto "di ignoto", intendendo suo marito, bensì "ritratto d'ignoto" per alludere a tutto, se stessa compresa che W. non capisce né riconosce più. Naturalmente "in bianco e nero" non significa grigio, non avendo niente a che vedere coi colori, ma appunto positivo e negativo.
In questo testo alcune situazioni mi sono chiare altre le devo ancora studiare. Sto pensando di creare come una terza dimensione sospesa tra camera da letto e soffitta: lassù c'è l'assoluta incapacità di vivere di W., sotto l'assoluta impossibilità di vivere di G.O., giacché anche lui cade in una fase di disperazione dovuta al senso di colpa, esasperata dal mutismo di lei che non gli rivolge quasi più una parola. Ho immaginato un vecchio trucco di teatro: una specie di schermo trasparente tirato per tutta la scena sul quale, oscurando il resto della scena, far riflettere una serie di immagini relative al passato gioioso della coppia. Così, di tanto in tanto. Poi ho pensato a una serie di brevi monologhi, così lei da ogni parola che cataloga tirerà fuori un concetto una frase riguardante il suo stato di sciancata e di reclusa volontaria, mentre lui potrebbe stare costantemente con la radio accesa sui notiziari adattando la notizie di volta in volta al suo stato di marito abbandonato da moglie mutilata per causa sua.
Il difficile è creare una dimensione utopica di due vite-non vite vissute in parallelo ma separatamente da due esseri-non esseri.
-Ma allora la commedia si conclude così con due esistenze che si annullano? Non c'è un finale?
-Il finale c'è inaspettato ma conforme all'intera storia. Tanto per chiarire G.O. se ne starà tutto il tempo seduto in poltrona ad ascoltare notiziari e recitare i suoi monologhi. Ogni tanto abbandonata la poltrona salirà gli scalini, appoggiando un orecchio alla porta della soffitta, dove lei starà a bassissima voce catalogando le ripetizioni di lui e i suoi contrari. Questo gioco si ripeterà fino ad infastidire il pubblico a significare la monotonia, la noia, la routine della vita di ogni giorno.
La conclusione arriva quando W. si rende conto dell'assurdità della nuova dimensione umana che lei stessa si è creata. Qui dovrò essere molto attento perché il cambio di rotta si dovrà avvertire lentamente attraverso la scelta dei temi che lei sceglie e che si racconta nei suoi monologhi, che diventeranno sempre meno surreali e sempre più normali. Passerà per gradi dalle iperboli alle banalità, dimenticando di classificare i contrari e smettendo infine di inventariare. G.O. invece continuerà a dire sciocchezze in poltrona, perché non sa quello che avviene in soffitta oppure non è in grado di cambiare, sotterrato dalla noia quotidiana.
W. quindi, che ha capito l'inutilità dell'annullamento della propria vita e di quella del marito, apre la porta della soffitta e ne esce. Scende a saltelli la scala, si spoglia e si infila nel letto matrimoniale mentre G.O. è in bagno. Rientrando nella normalità annulla la sua nuova identità di classificatrice di parole e appiattisce tutto nel quotidiano.
Ma quando G.O. rientra si rivolge verso la soffitta pensando che lei sia sempre lassù e mentre si spoglia le chiede stancamente, molto stancamente, strascicando le parole come ormai fa sempre, di scendere e non si accorge che lei è già nel letto. Si introduce sotto le lenzuola, si gira sull'altro fianco e dopo un po' si sente che dorme.
W. allora esce pian piano dal letto, si riveste e torna di nuovo nella soffitta. Prende una scheda e scrive. Poi legge ad alta voce la parola che ha scritto: respiro = vita = tutto; e il suo contrario: non respiro = assenza di vita = niente.
E qui cala il sipario.

Jacopo si versò un altro bicchiere di acqua minerale e lo bevve. Guardò Sofia che se ne stava muta e preoccupata, sprofondata nella sua poltroncina.
-Non mi sembra che ti sia piaciuta molto.
























venerdì 23 maggio 2014

PASSAGGIO NELL' INFINITO

Questa notte, dalle due e quaranta alle tre e cinque minuti, credo di essere morto, anzi ne sono sicuro, e poi di essere ritornato da una passeggiata in un infinitesimo di Infinito.
Mi ero alzato perché avevo sete. Al buio trovavo la maniglia della porta mentre il respiro calmo di Anna Maria dondolava nell'aria. Richiudevo la porta e me ne andavo in cucina a prendere la mia acqua.
Un attimo dopo aver bevuto, tornato in salotto avvertivo come un pugno violentissimo in mezzo al petto. Un dolore furioso che in un attimo sbriciolava le mie ossa lasciandomi in ginocchio dove ero caduto, privo di forze. Mentre il dolore rapidamente svaniva fino a cessare del tutto io tornavo in piedi con una sensazione di totale sollievo e levità.
Guardavo il mio corpo rannicchiato e immobile a terra, come se fosse la cosa più normale: nessuno stupore, nessun dispetto, nessuna imprecazione né rassegnazione. Semplicemente constatavo con distacco che quello era il mio involucro. Niente di più. Libero. Ecco, mi sentivo libero, senza ansia, senza aspettative, senza curiosità, senza pretese.
Poi mi allontanavo da quel luogo e da quel corpo alzandomi senza sforzo e passando attraverso il tetto mi trovavo fuori, tanto fuori, tantissimo fuori, in un posto dove di sicuro non ero ancora stato, ma che mi appariva come un luogo famigliare, già abitato da me.
Non era notte, non era giorno; non era freddo, non era caldo e non facevo alcuno sforzo a muovermi. Colori caldi ma pallidi, celeste non azzurro; rosa non rosso; ocra chiarissimo non giallo. Calpestavo un suolo soffice, dove mi poggiavo leggero senza lasciare orme; non udivo rumori eppure era un tumulto di tutti i suoni possibili; non sentivo odori eppure era un effluvio di tutti i profumi immaginabili. E non ero solo, anche se nessuno si curava di me della moltitudine che si estendeva all'infinito e i miei occhi distinguevano volti distanti da me forse centinaia di miglia.
E poi finalmente l'ho visto. Mi veniva incontro col suo fantastico sorriso. Era lui, Ippolito, mio fratello come quando aveva venti anni. Mi rideva ma mi faceva segno di arrestarmi incrociando le braccia sul petto e poi allargandole verso l'esterno.
In un attimo mi stava davanti. Mi parlava e diceva qualcosa in una lingua che allora capivo perfettamente, ma che adesso ho dimenticato. Mi diceva di tornare indietro. Poi, chinato a terra, raccoglieva un sasso e me lo metteva dentro una mano, stringendomela poi tra le sue e la mia mano era quella di un bambino.
Tornavo indietro rapido come ero arrivato mentre tutto si affievoliva fino a sparire. Mi muovevo e mi rialzavo da terra, dove ero rimasto rannicchiato, con ancora un debole dolore in mezzo al petto.
"Ho sognato", pensavo.
La mia mano sinistra era chiusa a pugno. La aprivo con un certo sforzo. Dentro non c'era nulla, ma sul palmo stampata l'impronta di quel sasso che le mani di Ippolito vi avevano stretto. La carne era dolente e quell'impronta c'era ancora stamattina alle otto: un sasso triangolare con due punte aguzze quasi penetrate dentro la pelle.
No, non è stato un sogno.

mercoledì 21 maggio 2014

IL NOSTRO ALBERO



Il nostro albero è più nudo adesso,
riluttante avalla d'ombra
il suo percorso giornaliero;

là dove più turbati noi sedemmo
crepitano incontinenti nuovi
formicai, secche zolle rapprese,
disanimati oscillanti
ricordi, sonore riprese di melodie
appena immaginate.

La nostra giovinezza
non è appassita ancora, non richiede
di essere rivissuta:

pullula di fresche nottate.


Finita di scrivere la notte del 7 maggio 2014




lunedì 19 maggio 2014

AD OGNI AURORA



Un sentiero di alghe s'imporpora
ad ogni aurora;

nei gemiti dell'onda che fluttua
tra gli scogli io mi risveglio.

È un risuonar di nomi
di vecchi amici, suoni di gioiose
mattine quando il tempo
levigava appena la pelle
del viso e delle braccia:

non più ricordi,
miti però
e dolorosi rimpianti,

sentimento dell'ignoto per tutto quanto
dell'orizzonte marittimo
abbracciano i miei occhi.


(scritta il 29 aprile 2014)





sabato 17 maggio 2014

LA STORIA DELLA MIA ARTE

Fa un certo effetto vedere un post con una poesia privo di commenti, con solo 16 visite, in confronto alla media delle oltre solite 60. Potrebbe essere una coincidenza. Fortuita? Dopo sei anni di blog dove mai accadde? Sorge come minimo un dubbio: qualcuno ha diffuso la voce che io sia uno stolker, un droll dice qualcun altro, e si sa che a nessuno piace questa genia di individui. Ma se butti un sasso in uno stagno d'acqua non puoi evitare che l'onda arrivi a terra, per cerchi concentrici.
Io di queste chiacchiere non mi curo. Preferisco guardarmi negli occhi allo specchio e chiedermi cosa ho fatto di buono nella vita, oltre che mettere al mondo quattro figli.
Ho dipinto più di 1500 quadri, tra tele, cartoni e carta preparata.
Ho cominciato nel mese di aprile del 1936. Avevo due anni e usavo un calamaio, una penna a cannello con grande pennino e un foglio di carta commerciale, quindi a righe sottili con due barriere laterali, che usava mia madre per scrivere le sue comparse di difesa in Tribunale. Disegnavo elefanti. Il primo disegno fu una straordinaria prospettiva di elefanti in marcia da sotto il tendone fino al centro della pista, come me li ero visti arrivare quel pomeriggio al circo col mio papà. Che un bamboccio di due anni fosse capace di ottenere di istinto una prospettiva che normalmente richiede mesi di studio in una Accademia d'Arte avrebbe dovuto far capire a mia madre quale fosse la mia strada. Certamente lo capì, ma fortissimamente la osteggiò, convinta com'era che i pittori fossero tutti dei gran morti di fame.
Povera mamma, che idea bislacca aveva dell'arte. E fu così che mi fu impedito di mettere piede in un liceo artistico e quindi in un'Accademia di belle Arti. Per questo sono sempre rimasto ai margini del grande mondo dell'Arte, dove l'essere accademico è un viatico fondamentale per accedere ai grandi traguardi, alle grandi gallerie internazionali di Amsterdam, di Parigi, di Londra, di New York.
Il mio amico Filippo M. italiano quanto me, residente in Germany quanto me, con un atelier a Köln, Colonia nome latino, che conobbi a Kassel durante "Documenta 10", biennale almeno altrettanto importante come quelle di Venezia e di San Paolo del Brasile, dove lui scultore già famoso esponeva in un padiglione tutto suo dodici sculture in ferro, me lo ha ripetuto all'infinito: "Guagliò, fatte du anni d'accademia dove che vuoi tu e poi mi dici co sti quadri che fai dove che arrivi e la grana che prendi". Parlava con la cadenza del suo accento caprese, stimolante come una musica, ma a me sta musica non entrava nella cabeza. Non ho fatto l'Accademia e questa storia mi ha nuociuto più della malaria e del tifo messi insieme. Perché nel mondo dell'Arte è peggio che nel mondo dell'Editoria. In questo se sei un cretino, meglio una cretina, che ha sollevato qualche scandalo non importa se tu sappia o meno scrivere due righe tanto ci pensa il tuo editor a scrivere il tuo bel libro, di tuo ci va il tuo riverito nome in testa alla copertina perché ci saranno un sacco di imbecilli pronti a comprarselo per leggere i casini che hai combinato tu.
Nel mondo dell'Arte -e questo me lo ha spiegato Frau Professorin Hannelhore Frölisch, curatrice di una delle Gallerie più importanti europee, la P4 di Mannheim- nel mondo dell'Arte, dicevo, conta se sei un accademico, con un timbro DOC sulla chiappa destra, che testimonia che tu hai diritto ad albergare tra gli eletti. Allora puoi dipingere qualsiasi cagata di vacca, magari legando un pennello alla coda del tuo cane (non è una barzelletta perché c'è chi lo ha fatto) e facendogliela dimenare davanti ad una tela nuda, perché quella porcheria te la compreranno di sicuro. Se invece non sei accademico puoi dipingere come un dio ma non ti compera niente nessuno.
"Vede questi quadri? Mi chiese Frau Frölisch nel mio atelier a Francoforte, io li potrei vendere per trenta o quaranta mila marchi l'uno se lei fosse un accademico. Così invece non li comprerebbero nemmeno per duemila.". Questo avveniva nel 1978. Ne avevo di tempo disponibile e l'età ancora giovane avrebbe accompagnato la mia sicura sicurissima ascesa. Ma io ho un limite: la mia cocciutaggine. Quando mi metto una cosa dentro sta maledetta capoccia non me la schioda via più nessuno.
Ho piantato tutto lì e sono venuto a Karlsruhe a lavorare in un teatro come pittore di scena.
Stessa sinfonia, stessa solfa. Sono tornato a scrivere poesie, racconti e romanzi. Così pensavo mi illustrerò i miei romanzi, come fece Buzzati col suo Orfeo e Euridice, ma non ne ho avuto il tempo e -diciamolo chiaro- la voglia. Non avevo più il mio atelier di 250 metri quadrati, avevo una cantina, ampia ma sempre una cantina, dove potevo dipingere un quadro grande alla volta.
Poi è arrivato il tubo dell'acqua che si è improvvisamente rotto durante una notte al piano di sopra e ventisei mila litri d'acqua sono precipitati di sotto. Abbiamo dovuto abbandonare quell'appartamento dopo 34 anni ed ora siamo in questa bella casa dove c'è posto per due e basta.
Non c'è posto per la mia arte qui. 
Posso soltanto scrivere poesie, ma se nemmeno quelle sono più gradite allora forse sarà meglio che chiuda questo mio blog e mi convinca che il treno è passato.
Fa un po' tristezza, non lo nego.








venerdì 16 maggio 2014

SOFFIO D'OMBRA




Un soffio d'ombra si depone
su dolori e gioie,
il tempo di comprendere che la stagione
delle danze finisce in palpitanti suoni
che scoloriscono appena
consumati.

Non c'è impeto né voglia di procedere
solo monotona abitudine, tracima
in noia, succoso percorso
di ripetute pose; geniale marchingegno
penetra luminosamente dove

tutto è immobile e c'è chi si volge di lato
nascondendo la faccia.

Dimentico il mio nome e quello
di mia madre:
in espiazione silente mi prendo
la testa fra le mani
e lascio che scivoli l'onda del giorno
sotto la mia pelle.


Finita di scrivere il 4 maggio 2014 alle ore 00,58






giovedì 8 maggio 2014

RANEM E IL FRIGORIFERO

Ranem sedeva su due sedie abilmente accoppiate e contemplava il frigorifero bianco smaltato chiuso in alto col maniglione a scatto. Per lunghi minuti. Poi come poteva si spingeva in avanti, afferrava il maniglione e tirava a sé. Il frigorifero si apriva e Ranem poteva contemplare tutto il cibo contenuto in coloratissime buste di plastica. Solo un paio di minuti di contemplazione. Poi Ranem richiudeva il portellone del frigorifero e rimaneva a lungo a rimirarlo chiuso. Andava avanti così per delle ore, ogni giorno, anche di festa e qualche volte tirava fino a fare le ore piccole della notte. Aprire e chiudere e mai toccare il cibo, mai infilare mani rapaci in quel glorioso tabernacolo.
Perché Ranem non poteva. Ranem era orribilmente obeso. un individuo di 188 chilogrammi in 162 centimetri di altezza, che per sedere aveva bisogno di due ampie sedie rinforzate e accoppiate, una per natica. Era così dalla nascita: 62 centimetri di marmocchio per 11 chili di lardo, estratto con parto cesareo altrimenti avrebbe fatto esplodere le ossa pelviche di sua madre. Adesso a trentun anni era una immane palla di grasso che appena riusciva a grattarsi la testa, e che aveva bisogno di aiuto per potersi fare il bidè.
Ma un professore inglese lo aveva operato e gli aveva tolto i cinque sesti dello stomaco, lasciandogli quello di un bimbo di cinque anni. Niente mangiare, solo bere, come un cammello prima della traversata di un deserto.
Rimase in contemplazione del suo Kelvinator per due anni, schiacciando le chiappe sulle due sedie, mentre la massa adiposa diluiva nell'acqua che beveva in continuazione.
Quando provò ad alzarsi dovettero sorreggerlo perché le gambe erano diventate debolissime. Lo trasportarono con la doppia sedia e lo posero sulla stadera a ponte dove i doganieri pesavano merci e tara. Aveva perduto quasi cinquanta chili, ma c'era un enorme mucchio di pelli che penzolavano come misere bandiere ammainate dalla pancia, dalle natiche, dalle braccia e dalle cosce.
"Queste pellacchie con grasso attaccato pesano almeno altri 30 chili, gli disse l'esimio professore inglese; lei si sentirà leggero come una vispa ballerina mister Eznad El Ranem dopo che io gliele avrò asportate".
Occorsero tre interventi. Alla fine Ranem pesava appena 103 chili e mezzo.
Volle guardarsi allo specchio. Dovettero portarcelo perché proprio non si reggeva in piedi, ma non emise un lamento. Allora lo lasciarono solo nella stanza davanti allo specchio perché godesse dello spettacolo.
Per il poco che aveva camminato durante la sua vita di obeso Ranem era abituato a spostarsi tutto indietro con la schiena per bilanciare l'enorme massa delle sue triple e quadruple trippe. Appena tentò di ergersi di fronte allo specchio precipitò all'indietro come un sacco vuoto, batté la nuca e morì sul colpo senza aver potuto godere dello spettacolo del suo corpo privo di strati di ciccia.
Una vera jella, diciamolo, povero Eznad El Ranem.






martedì 6 maggio 2014

LA MIA ULTIMA TELA



Tessuta da una impudica Aracne
la mia ultima tela
attende il tocco di una liquida tintura

trasversale.

Un incolore manto disteso la nasconde.

Abbrevia il suo respiro
e il mio
in trasparenti palpiti d'ozio
la turbolenta noia
mai paga.

Adesso prova
pose arroganti davanti a uno specchio.



domenica 4 maggio 2014

PERCHÉ SOLO POESIE ?

Alcuni giorni fa, in margine al mio ennesimo brano poetico, Mia Euridice mi ha chiesto: -Perché solo poesie?-
Oh bella, mi sono detto, ecco la domanda da un milione di dollari. Però è bastata per farmi fare una riflessione facile facile: da un po' di tempo scrivo solamente poesie, o presunte tali, non mi arzigogolo più in camminamenti tortuosi di creazioni più complesse come un racconto o uno stralcio di romanzo, un incipit baldanzoso ad esempio, oppure un finale in crescendo rossiniano, ovvero, per restare in tema musicale, una dolce e lenta chiusura tipo le ultime note de "la patetica" del mio autore preferito Tchjaikowsky. Niente di tutto questo: io scrivo brevi poesie, facili, troppo facili forse. Qui mi è sorto il dubbio atroce: non penseranno per caso i miei venti lettori che questo avvenga per scarsezza di idee, per lentezza senile di neuroni affaticati e svogliati, che scelgono argomenti modesti, piattini di frittura mista, per l'incapacità di affrontare argomenti assai più pesanti, ottenuti elaborando preziosi intingoli e variando ingredienti e cottura in modo da realizzare una ricetta da sballo di un'insalatona russa nuova nuova?
Qui la mente mi torna -scusate i salti poco pindarici ma decisamente molto iacoponici- al periodo piuttosto lungo delle mie esposizioni di quadri. Una delle domande più frequenti era: "È un quadro a olio?", perché quasi tutti sono convinti che un olio sia di più difficile fattura di una tempera e di un acrilico, per non parlare di un acquarello, robetta per dilettanti di poco talento. 
Vero esattamente il contrario. Chiunque è in grado di dipingere un olio, che ha tempi di essiccamento lunghissimi e che consente ripensamenti e correzioni anche dopo giorni. Puoi usare molto olio e quindi allungare i tempi di essiccamento. Io sono riuscito a correggere quadri dopo un paio di settimane che li avevo battezzati finiti. Basta usare acqua ragia o benzina o trementina: la si passa sulla tela là dove vuoi cambiare, aspetti che evapori dalla tela e poi ridipingi da capo, tutto qui.
Assai diverso quello che avviene con gli acrilici, laddove anche se adoperi un medium ritardante di sicuro effetto non hai più di tre quarti d'ora di tempo; dopo di che il colore si asciuga definitivamente e inesorabilmente. O sei bravo e veloce o alla fine hai una vera schifezza.
Lo stesso vale per la tempera, per non parlare dell'acquarello, che è la tecnica più difficile che esista in pittura: si può lavare, ma attenzione al dopo lavaggio, restano macchie orripilanti che non vanno più via. In pratica ti conviene distruggerlo per non doverlo nemmeno più guardare.
Qualcuno sento che si chiede: va bene, ma che ci azzecca con la poesia e con la prosa? Il paragone si stava sviluppando nella mia testa, gente. D'accordo che è la mia e non una testa in comune, ma adesso chiarisco, calma. Si tratta per l'appunto di un paragone. Secondo me scrivere una poesia è come dipingere un acquarello. Sembra facile ma è tremendamente difficile. Molto più facile scrivere un racconto, basta mettere una parola dopo l'altra e tirare avanti diritto. Insomma basta avere un'ideuzza e svilupparla frase dopo frase. La si rilegge, la si ricompone, la si riscrive e cambia sempre qualcosa, magari la storia prende un altro sentiero. S'ingolfa in una salita? Si torna indietro e si riparte per un'altra direzione e alla fine si tirano le somme. Essenziale che la storia abbia un senso logico. Chiunque può scrivere un racconto. Ma una poesia è un'altra cosa, un altro par di brache.
La poesia è a volte una parola ascoltata nel buio della propria anima, sedimentata e poi ruminata quando meno te lo aspetti, ma è la punta dell'iceberg, un piccolo iceberg che però ha una sua storia che si esaurisce in poche righe o versi che dir si vogliano. La poesia è uno stato d'animo, una scheggia della propria vita interiore, un murmure nascosto, un ombra misteriosa che appare e poi scompare: hai pochissimo tempo per fermare quell'attimo fuggente ché già è via. Porto sempre con me un taccuino e una biro per trascrivere idee, il più delle volte, ma anche questi lampi accecanti e velocissimi.
Ancora oggi rimpiango di non avere avuto in tasca il taccuino una sera di tanti anni fa, almeno trenta, dove ho avuto tre o quattro folgoranti parole -un verso- di una poesia. Non avevo né biro né taccuino. Ho provato a ripetermi quelle parole dieci, cento volte, ma stavo guidando nel traffico intenso e le ho inesorabilmente perdute. Ricordo solo che era un pensiero bellissimo e folgorante. Finito, perduto per sempre.
Fosse stato un racconto, o una parte di un romanzo, non mi avrebbe fatto né caldo né freddo, avrei rifatto il pezzo rimediando con calce nuova impastata sull'intonaco vecchio. Una poesia non la si può impasticciare da capo: è quella e nessun'altra più.
Adesso di notte mi vengono solamente queste brevi esplosioni e io le trascrivo. Poi mi rimetto a dormire e al mattino, curioso, vado a rileggere e la poesia è lì, quasi sempre finita, da non limare, da non cambiare, perché come ho detto è un momento, solo un momento, che io sono riuscito a fermare e questo mi dà grande soddisfazione.




  

giovedì 1 maggio 2014

UNA PAGINA BIANCA



Una pagina bianca aperta
davanti ai miei occhi;

una strada di pagine 
bianche, una storia mai scritta
che è già un ricordo;

qualcosa mai successo
che non si può dimenticare;

una scala senza gradini
da salire o da scendere, nessuno
lo sa, un bicchiere di vino rosso
mai colmo, mai vuoto;

qualcuno che muore senza mai
essere nato, qualcun altro che vive
senza nemmeno accorgersene:

dacci oggi il nostro
pane quotidiano, oh Signore.