lunedì 19 dicembre 2011

ARRIVA IL NATALE, PURTROPPO

È alle porte, come ogni anno. Maledizione, mi verrebbe da dire; perché ogni volta, da parecchi anni in qua, mi prende la malinconia. No, non sono tirchio, non si tratta di tutti i soldi che se ne vanno per regali e regalucci che chissà se poi saranno graditi o apprezzati. Non è questo, ma succede proprio a causa di quell'aria pesante che mi cala sulla groppa e che mi fa sentire ogni volta più vecchio, più triste, più malconcio.
Così farei carte false purché fosse già, che so, il 10 gennaio o il 12 febbraio, così si inghiotte anche il mio compleanno e non se ne parla più.
Il Natale è una cosa bella e gradita solo per i bambini, che gioiscono per tutte quelle luci e quei dolciumi e quei regalini. È una cosa bella per tutti gli sfaccendati che non hanno mai niente di buono da fare tutto l'anno e che adesso finalmente si impegnano in qualche cosa, che loro giudicano chissà quanto utile e umanitaria. Li vedi fermarsi davanti a ogni vetrina col naso in aria a consultare angioletti forse, e poi entrare a comperare qualcosa, o almeno a toccare tutte le merci in esposizione.
Io, come detto, non vedo l'ora che sia tutto finito.
Mi rimarrà comunque l'amaro in bocca, anche a corsa finita, come quando arrivi al traguardo che i primi già hanno fatto la doccia.
Non è un bel pensare, certamente, ma chi ha detto oppure scritto che in un blog si debba anche ben pensare, anzi eliminiamo il ben, chi ha detto o scritto che in un blog si debba pensare?
Visto che gli incipit ultimamente non godono di tanta fortuna questa volta vi offro la mia ultima poesia, anche questa generata di notte, come tutte le altre d'altronde. Vorrà pur dire qualcosa, ma non è questa la sede per elucubrazioni letterarie.

IL  PERCORSO  DELLO  SFIGATO  ACHILLE

Avevo scelto il percorso di Achille
quando ero ancora un bambino,
ma al bivio qualcuno
aveva invertito i cartelli indicatori.

Non è vero: avrei voluto
scegliere quel percorso breve e glorioso,
ma non sapevo a chi chiedere,
nessuno me lo ha proposto
e comunque di sicuro mi sarebbe venuta
paura di scegliere,
e anche se avessi superato la paura
all'inizio del bosco sarei inciampato
e non avrei più trovato la strada.


Beh, risente della cappa malinconica del Natale, di questo Natale.
A proposito, se non dovessi tornare a scrivere su questo mio blog prima, ve li faccio adesso i miei migliori auguri, per chi lo ama, per chi ci crede, per chi lo desidera, per chi se lo coccola, per chi alla fine sarà triste che la festa sia finita.
Io li compiango, ma sono in tanti e quindi, che dire, beati loro.
A tutti, amici e nemici, squattrinati e milionari, credenti e miscredenti un sonoro, chiaro, pacificatore BUON  NATALE a voi e pure ai vostri cari da parte di uno scrittore immusonito, di un poeta incazzato che non riesce a farsi una allegra risata.
Fatevela voi per me.
Ciao, amici miei.

martedì 13 dicembre 2011

ANCORA DUE INCIPIT

Un buon Incipit è sempre un bel passo in avanti, è un po' come per l'attaccante famoso che segna sempre gol entrare in area di rigore dopo aver caracollato a metà campo e scartato con una finta del corpo gli ultimi due difensori centrali; è insomma "un ber comincio" come si dice a Roma.
Allora ve ne propongo due, che saranno all'inizio dei miei due prossimi romanzi. Ne ignoro attualmente l'ordine cronologico.

Primo Incipit: per il romanzo "FEDERICA CAMBIA PELLE", titolo forse definitivo, forse no.

Tutto per colpa di un maledetto quotidiano sportivo. I quindici giorni di vacanza finivano alle dieci di quel sabato mattina; le due macchine erano ormai cariche a dovere di valige e pacchi assortiti, quella di Federica in pole position davanti al cancello, quando suo padre aveva deciso di andare a comperare il suo giornalaccio color rosa.
Un minuto e torno.
Era sparito veloce dietro l'angolo del bar più vicino: l'edicola era proprio di fronte. Federica aveva allargato le braccia, fissando sua madre già seduta all'interno della seconda macchina, accanto al posto di guida vuoto.
Uno stridore di freni e di ruote che si aggrappavano all'asfalto, un botto e un silenzio innaturale. Poi tutti che accorrevano, certamente per curiosare.
S'era mossa anche Federica per portarsi via suo padre che di sicuro stava in prima fila.
In primissima: si poteva dire al centro della scena, disteso in terra in modo scomposto a ginocchia incrociate. Quello aveva visto Federica: un mucchio di facce sgomente e suo padre distrutto, con la faccia contro un marciapiedi di travertino.

Secondo Incipit: per il romanzo "E DI DONNA CHE NON VUOLE ESSERE NOMINATA", titolo niente male anche se non definitivo.
Mi piace restare sospeso nel dubbio sui titoli; è come l'ultima settimana prima che tua moglie si sgravi del vostro ultimo figlio: l'attesa, la speranza, le mille illusioni. Poi nasce e ti mettono in braccio quel pupazzetto rosso spelacchiato. Tutto lì.

In nessun posto del mondo i pomeriggi d'estate sono così allucinanti come nel quartiere "der ghetto" a Civitavecchia.
Le mura scrostate delle case si spellano sotto il sole a picco e si mangiano l'ombra che si fa stretta come una riga di tinta scura; gli alberi si prosciugano addosso al proprio scheletro; la luce rimbalza sul selciato polveroso e secco, schizzando in mille forme aguzze che ti spaccano gli occhi, e l'aria ti dà l'idea di essere una tela trasparente tirata dalla terra verso il cielo con tale forza che tra poco si scollerà e tu creperai per mancanza di ossigeno.
Ininterrotto il canto malinconico delle cicale. Il resto dei viventi, animali o cristiani, se ne rimane in silenzio rintanato in qualche buco dove non passa il sole.

martedì 6 dicembre 2011

INTERMEZZO CON INCIPIT E DUE POESIE

Questo è l'incipit del mio nuovo romanzo, il mio secondogenito, nato a Roma il 2 dicembre scorso. Così inizia "Francoforte sul Meno andata e ritorno".

Sapeva di sognare. Tentava di svegliarsi senza mai riuscirci. Quel sogno era il suo tormento sin da quando era giovane: c'era qualcuno che lo inseguiva, lo sentiva ansimare sempre più da presso, ma non riusciva a vederlo. Le gambe gli diventavano pesanti e poteva muoverle molto lentamente, come se fossero impantanate nella mota.
Ogni volta gli sembrava di ripetere la stessa scena al rallentatore: sentiva l'inseguitore ormai vicinissimo, ma per quanti sforzi disperati facesse non riusciva a muovere le gambe velocemente. Alla fine crollava esausto a terra e la bocca gli si riempiva di terriccio e di qualcosa d'altro che cercava di strappare subito fuori, senza riuscirci: erano capelli, oppure erba o crini di cavallo. Più ne tirava fuori più la bocca ne era di nuovo piena. Dovevano essere proprio crini di cavallo, perché da piccolo lo facevano sempre dormire sopra un materasso di crini di cavallo per via della sua schiena, che era allora un po' debole, e ogni tanto se ne trovava un paio in bocca, duri come quelli del suo sogno.
Tentava di svegliarsi, ma nella bocca sentiva quella terra e quei crini moltiplicarsi. Cercava di aprire gli occhi, di tirar fuori le gambe dal letto, di buttare via le coperte, ma l'inseguitore era ormai su di lui. Oltre a quello dei suoi passi sentiva adesso anche un altro rumore, monotono, continuo, sempre più distinto.
Aprì gli occhi di colpo, zuppo di sudore. Un attimo dopo riprese coscienza della realtà: il rumore monotono del treno, che lo aveva aiutato ad addormentarsi, gli aveva anche permesso di uscir fuori dal suo incubo.


Adesso due poesie: l'ultima prima che nascesse il secondogenito e la prima subito dopo.

FACCIAMO CHE IO SIA DIO

Esplodevo dalla terra come fuoco
e perforavo il cielo come luce.
Io sono Dio, mi dicevo, io sono Dio.
Forse era sogno, o forse no
facciamo allora che io ero Dio
solo per poco
e tutto vedevo farsi piccolo e lontano:
la Madonna e Cristo sulla croce
e voi bestemmiatori a farvi scudo con un braccio
per proteggervi gli occhi
e per nascondervi.
Non ci sono più segreti ormai,
io li ho svelati a me
tutti dal primo all'ultimo;
torno sulla terra a viver come un cane
in mezzo agli altri,
a latrare come tutti
ora che non c'è nulla che io debba sapere.


QUANDO ERO PICCOLO

Quando ero piccolo sognavo
le cose che avrei fatto da grande:
l'aviatore, per esempio, il pompiere, il corridore
ciclista, il comandante di una divisione
di bambini tutti maschi, solo maschi,
da me guidati in una guerra senza quartiere
contro un esercito di bambine.
E poi noi vincevamo la guerra
e le bambine legate a testa in giù.
Sognavo a occhi aperti
ogni giorno, sempre, qualche volta anche di notte,
protetto da tutti nella mia famiglia,
al coperto da ogni intemperie,
al sicuro come in un ventre di vacca.
Quando mio padre mi ha lasciato pensavo:
sono ancora un figlio, ho mia madre,
sono il suo eterno ultimo bambino
e ho navigato sicuro altri diciotto anni.
Quando anche mia madre mi ha lasciato ho visto l'orizzonte
arrivarmi davanti ai piedi in un colpo.
Da allora giro in tondo sopra una mattonella
con figli e figlie e nipotini a lambirmi
come ondate su una spiaggia,
adesso che dovrei essere io
colui che protegge.