venerdì 14 maggio 2010

LA PAZIENZA DEI GATTI

L'inverno 1943, il primo di sfollamento da una città bombardata e semidistrutta, è stato un inverno durissimo per chi, come noi, non era avvezzo a temperature montane, a neve, a ghiaccio e ad appartamenti sotto il tetto. La nostra bella casa con vista mare, in pieno sole tutto il giorno e spruzzata d'aria che sapeva di salmastro, lontana purtroppo e presente solo nella nostalgia di ogni giorno, nei sogni di ogni notte.
Per me, bamboccio di nove anni, cittadino raffinato e con la puzza sotto il naso, era insopportabile la rozzezza dei compagni di classe campagnoli e sboccati, insopportabile il loro dialetto, insopportabili gli scarponi con le bollette sotto la suola, che usavano e che purtroppo ero costretto a usare anche io. Mai calzata quella roba pesante prima di allora, mai avute vesciche sotto la pianta dei piedi e alle caviglie, dove il collo dello scarpone stringeva e piagava.
E poi la puzza nelle strade, dove tutti buttavano di tutto; strade dove non dovevi mai camminare di notte se non avevi una lanterna (la luce -una misera lampadina da poche candele- solo ai crocicchi) per evitare la merda delle vacche e dei somari che in quel paese cagavano da dio.
Strade che ti fregavano anche di giorno, quando non c'era la neve e potevi vedere dove stavi mettendo i piedi, perché la sporcizia e la merda non la levava nessuno, così sembrava secca, invece se ci passavi sopra con le bollette ti ci rimaneva attaccata come gomma americana, che allora non esisteva, ma tanto noi avevamo la merda autarchica dei bovini e dei ciuchi nostrani.
E poi i topi, cioè a dire i sorci, le pantegane, i ratti di fogna, che invece di starsene appunto nelle fogne correvano all'aperto muro muro una galoppata infinita: infrociavano l'uno contro l'altro, si incazzavano e litigavano tranquillamente tra di loro tanto nessuno gli faceva niente.
E chi si sarebbe azzardato a toccare bestioni di oltre mezzo metro dalla punta dei baffi alla punta della coda?
I gatti se ne stavano alla larga. Marpioni e strateghi lasciavano ai sorci l'uso delle strade nella pianura giù in basso; se ne erano saliti in montagna il più in alto possibile.
I gatti si erano impossessati dei tetti; da lassù, accovacciati e al sicuro, osservavano la corsa quotidiana dei sorci.
Aspettavano. Aspettavano con pazienza infinita che uno di quei sorci -qualche volte anche due o tre- ferito e stremato dalle battaglie coi suoi simili, si allontanasse traballando in cerca di un posticino dove riposarsi e leccarsi le ferite. Allora scendevano dai tetti, con quei brevi e agili saltelli che sanno fare solo i gatti, quando sembrano di gomma piuma, quando sembrano nemmeno sfiorare il suolo.
Scendevano in massa, sette. otto o nove di loro, e seguivano il ferito finché non lo vedevano bello isolato: gli saltavano addosso e in poche battute il sorcio da ferito diventava morto, e da morto diventava salsicce e cotolette. A pasto ultimato restavano sul luogo del delitto la coda, le zampe, pezzi della pelle e qualche costoletta spolpata.
Non passava mezza giornata che una bella, calda e soffice merda di vacca dava ai resti una degna copertura, fino alle prossime bollette di scarponi di passaggio che sparpagliavano il tutto.
Tutti i gatti erano pazienti, meno il mio. Arrivato a tre mesi di vita a casa nostra, gradito regalo di una zia di mia madre, per ripulirci dai topini casalinghi -robetta da 10 centimetri al massimo- che infestavano ogni stanza (te li trovavi dentro le scarpe al mattino quando ti alzavi per la prima lotta quotidiana -fuori di qui che devo entrarci io- e mia madre che ogni volta quasi moriva dallo schifo), beh! Il nostro piccoletto ne aveva fatto una strage in meno di una settimana.
Era cresciuto il mio gatto -mio per mia decisione suprema e perché dormiva sul mio letto e qualche volta dentro, insomma mio perché lo volevo io- ; era diventato grosso il mio gatto, ma non era paziente.
Era già disceso una volta giù nella strada a fare lo slalom tra le merde secche e no, e se n'era tornato velocissimo, inseguito da un paio di toponi enormi. Papà diceva che non aveva mai visto sta roba: un gatto messo in fuga dai sorci, ma quelli erano vaporetti, non topi.
Forse l'onta di quella fuga gli era rimasta dentro come un incubo; forse gli piacevano gli sport estremi, non so, ma un giorno, né bello né brutto, un giorno pessimo insomma, il mio gatto scese dal tetto e si fermò sull'ultimo gradino del portone, bello in vista, leccandosi e lisciandosi il pelo delle zampe, leziosamente come fanno i gatti.
Da un vicolo spuntò quasi subito un bullaccio, che senza pensarci troppo su puntò dritto sul mio gatto. Questi fece un salto indietro e si fermò nel buio dell'androne seguito dal bullaccio, che accettata la sfida era saltato dentro: soli così, da uomo a uomo, pardon da gatto a sorcio.
Una zuffa tremenda di un paio di minuti in cui il mio gatto distrusse il suo nemico ma ne fu distrutto. Riuscì solo a trascinare il cadavere del sorcio, come prova della vittoria -lui non lo aveva fatto per fame, era ben satollo: l'aveva fatto per orgoglio di gatto calpestato- e poi rientrò barcollante e mezzo morto nel portone.
Nemmeno un applauso dai colleghi da sopra i tetti; forse solo sguardi di commiserazione.
Lo curammo per parecchie settimane: buttava sangue da per tutto. Alla fine era di nuovo un gatto, con mezzo orecchio di meno, un pezzetto di naso asportato e chissà quanti guasti sotto il pelo qua e là.
"Lui non era paziente -mi disse papà- aveva preso di te: era un carro armato".
Aveva ragione il mio papà: un carro armato come me, anche se preferisco l'espressione "caterpillar" affibbiatami recentemente da una mia amica.

Mi sono ricordato queste cose guardando dalla finestra del mio studio il gatto dei vicini immobile nell'erba del prato davanti a casa mia, in attesa che da un bucolino esca fuori un sorcetto. È lì da stamattina e se ne andrà stasera col buio. Quel povero sorcetto oggi non mangia, ma nemmeno sarà mangiato.
Dovrà cercarsi il cibo stanotte, perché domani torna il gatto a montargli la guardia. Niente caterpillar lui, un certosino.
Dovrò imparare io, se ci riesco ancora, ad essere così paziente.

8 commenti:

  1. Credo esistano una macropazienza e una micropazienza. Io sono bravo nella macro: ho aspettato di esordire come scrittore a 41 anni senza mai disperare, sapevo che prima o poi il momento doveva arrivare. Più carente invece nella micro: a volte basta un nonnulla per farmi incazzare. Filosofo, asceta, saggio nelle grandi cose. Quasi nevrastenico nelle piccole.

    Credo anche che i gatti siano animali meravigliosi. (al momento ne ho uno con un caratterino che mette a dura prova la mia micropazienza, ma il mio amore per i Gatti non vacilla e non si sposta di un millimetro)

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  2. Allora io ho la macropazienza di un mammuth! Ho aspettato fino a 75 anni per farmi pubblicare un romanzo, che ruminavo dentro da più di quaranta anni. Ma non potevo scriverlo prima. Non avrei potuto mai scriverlo così: mancava il nocciolo della storia.
    A volte aspettare conviene. Forse io ho esagerato un pochettino.

    A proposito di gatti il genere umano si divide in due: chi li ama appassionatamente e chi li detesta. Io sono un felide e amo profondamente e capisco intensamente i gatti, che sono creature meravigliose, come dici tu. Amo pure le tigri e le pantere, i giaguari e i gattopardi e le leonesse, un po' meno i leoni, che non fanno mai un cazzo.
    Ho scoperto che le persone che odiano i gatti sono, per lo più, gente da non fidarsene troppo. Sono false.
    L'ho detto, mi dispiace, ma ormai l'ho detto.
    Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.

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  3. Automaticamente fuori, odio i gatti.

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  4. Simba, sei automaticamente fuori se ti ci chiami da sola; per me ogni regola ha le sue eccezioni.
    Se leggi attentamente vedrai che io ho scritto un "per lo più", che forse non hai notato.

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  5. Ho avuto paura che lo facevi morire il micio…
    Cosa sono le bollette di cui scrivi,bollette bollette? Del gas della luce..sono ignorante e curiosa e..felide,di mici ne ho 6,e anche un cane,di più non posso, non ci starebbero in macchina quando mi sposto e anche in casa ,qui in città,non potrei tenerne altri;li amo profondamente non immagino la mia vita senza loro,un mondo senza felini assortiti.Circa la distanza che prendo dagli altri anche io come te tendo ad allontanarmi dalle persone a cui non piacciono,niente di personale, spesso sono ottime persone ma,ma.
    Ancora una cosa,io mi chiamo in blogger Fizzi,non Frizzi,il mio nome è Francesca se preferisci.
    Buona notte,ciao
    Mi è piaciuto questo tuo racconto di topi e gatti e ragazzini viziati ma sfollati

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  6. Francesca, nome stupendo: mi fai pensare alla mia editrice che ha la fortuna di chiamarsi Giulia Francesca, ma ha eliminato il Francesca adducendo la scusante della eccessiva lunghezza.
    "Io avrei eliminato Giulia, quasi quasi" le ho detto.
    "Ma mi ci chiamavano da piccola..." e vabbè!
    Fizzi o Frizzi sei felina anche tu. In casa nostra, quando ero piccolo ce ne erano sempre almeno tre, mescolanze di madri che diventavano mogli e così via.
    Quindi puoi pensare se avrei mai fatto morire il mio gatto.
    Pensa che io nel 1944 a quello stesso micio ho salvato la vita due volte, a rischio della mia: la prima volta da una squadra di tedeschi ubriachi come cammelli che gli sparavano col loro fucile Mauser. Io attraversai come una furia la linea di tiro e recuperai il mio gatto appeso a un ramo di una quercia (non so ancora adesso come ci sono arrivato fin lassù). Sono tornato giù col gatto appeso al mio petto, con gli unghioni conficcati nella mia carne. I tedeschi, per fortuna, erano solo ubriachi e non assassini e non spararono su un ragazzino.
    La seconda volta un caccia americano a bassa quota cercava gente da ammazzare. Io, mia madre e il gatto ci eravamo rifugiati in una specie di grotta, ma quel bastardo del pilota aveva visto qualcosa muoversi e, virato, tornò a cercarci.
    Non ci poteva vedere, ma in quel momento il mio gatto saltò fuori per andare verso quella quercia di cui sopra ho raccontato.
    Io saltai immediatamente fuori per recuperarlo e mia madre per recuperare me. Eravamo allo scoperto in un cortile abbastanza ampio per esserci ammazzati proprio mentre il caccia stava a poche centinaia di metri.
    Ci sparò due raffiche il farabutto, e -ti giuro- quando ci penso sento ancora il sibilo lacerante delle pallottole intorno alle orecchie.
    Seppi poi che erano pallottole calibro 12,5, antiaereo anticose non antiuomo. Insomma una basta a spaccarti in due pezzi.
    Le bollette erano dei chiodi con la testa piatta e il corpo corto che il ciabattino batteva (inchiodava) su tutta la superficie delle suole e dei tacchi perché durassero più a lungo.
    I più ricchi ed equipaggiati avevano anche i salvapunta e salvatacchi, specie di mezze lune metalliche che venivano appunto inchiodate in punta e sui tacchi.
    Sai come sono i ragazzini? Danno calci a tutto, e allora non avevamo palloni, ma sassi e palle di straccio legate con un sasso dentro per darle peso. Ogni volta quando si tornava a casa dovevi mettere in conto i fugoni per le scale inseguiti da madre inferocita col battipanni alzato. Uno spasso, che oggi purtroppo è andato perduto.
    Effetto della globalizzazione, forse.

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  7. Grazie per la risposta/racconto ..le bollette sono praticamente borchie,chiodi ,eravate dei punk!!
    Ho ordinato il tuo libro ,fammi capire hai detto di aver aspettato 75 anni prima di pubblicare?AAAARGH!

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  8. Grazie e buon divertimento -spero.
    Sì. ho aspettato 75 anni col mio manoscritto in un cassetto. Sono passati quasi due anni e lo avevo scritto che avevo 30 anni.
    Adesso ne ho 107 e, come vedi, sto ancora a posto col cervello.
    Ma è solamente la mia seconda reincarnazione in 500 anni. Giuro che con la prossima migliorerò e sarò quasi vicino (proprio vicino vicino)alla perfezione.

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