giovedì 14 aprile 2016

LETTERA FAMILIARE

PAGINA  PRIMA

Appena il sole ha girato l'angolo della siepe
dell'orto, riaccende il triste faggio
di nuovo verde e la rossa corteccia di nuovo
rosso più duro. Speditamente
scendono siepi da dietro il vecchio
muro del pollaio, l'intonaco azzurro della casa
è quasi bianco. Il vecchio pino di mare, il fosso
delle rane già buio, la ciminiera dei cementi spenta
fin d'allora, mia madre assai giovane e bionda
che ci chiamava nascosti, cogli occhi alla città
che scoloriva il suo giorno nel rosso
schiumare dell'acqua fuori il porto, Freschi di vita
era uno sguardo, il silenzio, già tutto; e le parole
pensate, mai dette. E tu fratello già chinavi il capo
seppellendoti in cuore ogni piega dell'erba
ed ogni sguardo di quell'ultimo giorno.

Quando venne la sera
eravamo ancora uniti noi due.
Poi la notte, zigzagando tra le betulle, venne 
a giacere ai nostri piedi,
e noi parlammo a lungo, senza vederci,
perché tutto di noi sapevamo.
Giunse il momento di parlare di morte e di come
tu avresti voluto andare, guardando il cielo.
Ma niente di nuovo tu mi dicevi, fratello.
Qui, nel mio arido Nord, dove ho trasferito
la mia anima scabra, schiva delle
confortevoli carezze che mani ignude,
amiche, vorrebbero donarle,
qui di antico ho portato le tue parole di sempre,
aperte dentro il mio cuore.
Il colore dei capelli e degli occhi è mutato: 
abbiamo entrambi una mano
sul cuore e la vecchiezza non è più una promessa.

Chiesero a me
come mi vedo, passati tanti anni da allora.
Io, credo,
sono rimasto quello
dagli occhi stanchi,
fissi
fuori dal balcone,
sui tetti grigi, sull'asfalto nudo,
nella sera ascendente dalla piazza.



PAGINA  SECONDA

Il gallo ha cantato ancora tre volte;
era il giorno del pentimento
e nessuno ha chiesto di me,
ma era scarna la mia valle, e il pane e il vino
pietrificati, il sole ignoto
e il vento una palude.
Soltanto a te, tenerissima madre, era rimasto
uno sguardo pietoso per il figlio fuggente,
esule, vagabondo e insicuro
tra i violentati formicai,
timoroso delle erbe e delle pietre.

Aggrappavi i tuoi occhi alla schiena del figlio
fuggitivo, tenerissima madre, senza una croce,
una parola santa, un pane biondo 
nelle tasche,
e il vecchio quaderno lì sul tavolo
della cucina, con la dedica a te
di pochi versi scritti in fretta a matita.

Sulla mia vecchia strada hanno spalmato nuovo asfalto.
Non chiedere di me, madre.
Dovrà cantare ancora mille volte il gallo
perché il vento notturno ti porti
la mia voce mutata. Adesso
il mio silenzio dà germogli di sale
alla tua porta; cresce di notte il granoturco
nel tuo giovane campo in fretta, ti taglia l'aria
dell'alba il fischio
del marinaio che va all'imbarco.



PAGINA  TERZA

Soffia bruma e lacrime notturne
il vento di levante sui nostri scogli marciti;
tu lo ricordi, padre, io e te soli tra il fischio cieco
del vento, nel fremito dei lampioni arancione
le nostre ombre giganti, una manciata di salsedine sul
collo e il petto ignudi, gli occhi pieni di spazio.

E si sentiva
modulato
il colloquio dei morti,
un lamento per chi non sapeva:
per me, per te un'attesa, o meglio
un vaticinio, 
e tu coglievi di spuma in spuma lo sbalzo di quelle
alternanze di silenzi e di voci.

Un antico messaggio sta sospeso nell'aria,
è una piuma incolore
e tu già ridi:
è il paradigma segreto della nostra vita in comune
che costudiamo in cuore. 
È quando tornasti dalla guerra:
in disperato silenzio
stringevi al petto mia madre, ma era me che cercavi
nascosto nell'ombra della stanza.
Eri risorto
e a me scioglievi dal seno
frammenti di lacrime, a lei l'ultimo
lembo della sua giovinezza. 

Ora che lentamente hai disceso la strada 
del tuo colle, quale
dei miei messaggi porti via con te, ripiegato
tra vecchie foto ingiallite?
Quali dei nostri giorni passati insieme?
Quali parole e quali gesti e quali immutabili dolori?

Cosa sai tu ora di me?

Mi saluti alla voce da lontano, e il gesto stanco del
tuo braccio levato che ridiscende al fianco
mi ricorda
quando lasciavi scorrere la mano tra i miei capelli,
bambino sporco, che scarta la stagnola
del tuo dono del giorno.

Io, che me ne resto qui
nella patria degli altri
naufrago nella mia pigra indolente paura,
non posso dirti niente.

A cavallo di un muro ai margini della tua collina
ormai ti vedo, e non hai ali,
né uccelli migratori né rami freschi
in viso.



PAGINA  QUARTA

Dal sole e dall'aria,
da una parete vuota pende
il mio silenzio vecchio.

Devastate le aree del mio pensiero
in ricerca d'oro e di memorie,
di acque lacustri e di biade; evaso
dai sedimenti più bassi dello zolfo, dei carbonati,
scivolando in umide cantine
simili a cimiteri deserti, saltellando come un bimbo
che ha marinato la scuola, tra concimi,
tegole di marmo, specchi rotti, auto usate,
pianti di orfane e sonno di portieri dei formicai,
ho veduto la strada grigio-oro da dove son venuto.
Ho ritrovato le mie orme parallele come pietre mummificate
da me scolpite nel pianto e nella pioggia:
adesso che sono solo
le mie mani sono aperte sotto le nuvole,
larghe come vele cariche di vento.

Un sapore di occhi e di palpebre di terra
lambito dall'asfalto; un rumore di legni spostati, di alte
testate di letti duri, di quadri abbattuti, di formiche
crepitanti al sole sulle finestre al mattino. Un vuoto
di gatti bastardi accosciati sui tetti, di asciugamani puliti,
e scarpe rotte allineate nei comodini, e pezzi di candela
nel cassetto del tavolino della cucina verde sempre vecchia.

Il grano e il riso,
impasto acido nell'ora della sera
sul fumo antico, tra muro e muro;
e me, viandante solitario e astratto, nelle mani
di chi già sapendo da tempo, ecco il segreto,
riuniva il fango all'acqua, l'aria alla notte,
le foglie alle radici della mia vita.

Per un tempo lungo quanto una morte autunnale
ho vissuto in vita di fiume scorrendo tra le mie rive verdi.
Dentro di me s'abbeveravano i canneti,
e i miei paesi mutavano dall'intestino della notte
gialle capre morte in vive colombe dai ventri candidi,
e il vento rendeva liquidi i vetri e i fumi
sulle vie della luna.
Così ogni notte, così ogni giorno.

Per un tempo lungo quanto una morte autunnale
la mia anima-ruscello ha dragato il fondo piatto
del ventre della terra, senza aprire pozzi né strade,
senza agitare il suo vento sulle madri in attesa,
limitandosi a scorrere sui seni d'argilla delle donne in fiore,
sotto i miei verdi paesi, sotto i miei teneri morti.
Così ogni giorno, così ogni notte.
Ora la mia anima-fiume
(anima-terra, anima-vento)
vive sospesa per necessità e si tramanda di campo in campo
mentre io l'inseguo ogni notte.

Il linguaggio del vento e del fiume non è mutato per questo:
l'urlo del gabbiano annuncia la nuova estate,
e i passi paralleli del tempo si schiacciano sui vetri
delle risaie, sui tetti dei concimi, sul sangue
degli ultimi germogli scoppiati.
Sul mio petto adesso
grava una nera pietra di dolore, ora che la mia gente
abbandona il mio vestibolo: io vivo infatti
nella dimora di gesso dipinto che l'inverno ha costruito
sotto un tetto. Ha vesti assai succinte.
Ma per giungere sotto questo
scomodo riparo ho corso intere notti mangiando fango
e pianto di colombe.

No, non mi lascerò morire all'inizio
della nuova estate sui prati dei formicai.

Ubicati sulle mie pareti più grige e incoltivate
vacillano ragni e mordono la polvere
i miei soli consunti, le mie speranze isquallidite
e gialle.
Ombre filtrano dai teschi abbandonati nei prati
dei formicai e balzano in avanti.
Le cornici vengono deposte,
e i nuovi stucchi fusi ai vecchi intonaci:
furono altari di reliquie, di escrementi di insetti,
furono ossa e carne della mia vita distrutta sulla strada
del vecchio campo;
e la rovina bassa, a zigzagare
tra gli stinchi degli impuri e i monumenti eretti
a ricordo di ambasce.
Qui si mescola vino e pietra pomice,
s'impastano case lignee e cadaveri giovani di donne,
e mestizia e tenebre sedute nello spazio.

Sangue rattrappito dai tetti dei miei occhi
si raggruma su strade secche e butterate;
butto la mia anima-ricovero alle finestre sospese,
al gruppo di donne ulcerate in calzamaglia nera,
allo sterco dei passeri, ai nuovi pollini che s'annodano ai venti.
Bevo vino e disperazione, gocce di sale e di sabbia,
mordo la rossa cancrena che unifica acqua e sale
ai manifesti murali della mia vita diroccata e priva d'ombra,
e vado tra i vagiti e i rantoli di fiori inesplosi
e di uve acerbe; ma vado.

Quando mi scoppiarono le estati dei rossi limoni accesi
e il corpo del cielo mi prese forma dall'acqua
sgorgò il mio vagito di pioggia, di vino, di calcestruzzo,
il mio gemito ligneo,
e l'anima mi si dondolò sui prati
tra fiumi e fanghi incensurata.
Da allora, di giorno in giorno,
io mi tramando verso silenzi impalpabili,
silenzi illiberabili dai segreti dell'anima meno toccati,
incolti, come notti cupe e senza sonno.
Silenzi inviolabili
e ne trapelano a volte parole scandite
da megafoni all'orizzonte,
significati muti
che sfumano appena coniati, sofferenze dei sensi
nel tempo incolmabile.

Lentamente, liquefatte le pietre di ogni morte,
tra volute di fumi e rami acerbi, alla ricerca sempre
di vita e di sfondi, abbandonai la riva
e solo un'eco di pianto mi rimase in cuore; ignoro ancora
chi pianse sul mio abbandono d'acque e di vigneti,
sul mio pendio deserto di sassi e crepe,
di immaturabili frumenti.

Qui, nell'incolore città calcificata, non guizza l'umido
sangue della terra tra le rotaie dei tram
e gli umori morti dei cementi.
Sui torpedoni marciano i viventi
incolonnati verso i cimiteri. Fango di piombo
fuso e di verdure marce le loro vite si abbarbicano
al fusto dei lampioni.
La scelta è nell'orario dei treni,
nei films dei locali del centro, la televisione nel bar,
la marca di una birra,
una donna per una carta da cento.
Oppure accettare il silenzio più nero nell'urlo
dei motori e dei ferri e dei cementi in corsa,
e gettare la spugna nel mezzo del quadrato,
così, tanto per vivere.

Qui le vite si susseguono. I misteri bevono i misteri
e si annullano. L'inchiesta si protrae in un monotono suono
di albe bagnate di grigio, senza silenzi appaganti,
duraturi. Ah, poter passare di vita in vita scalciando lontano
scorie di pelle consumata e d'anima! Vedere sempre
più triste il nido del sole, e l'anima del fiume
farsi di latte e di pianto tra terra e terra, e smuoversi
i sepolcri sulla crosta dei monti,
discendere tra gli alberi
e dormire aperti alle piogge, ai suoni di campana
pomeridiani.

Dominano di lontano luci che piovono dal ventre
ripieno della terra, e in mezzo vi navigano paesi:
e l'odor di cucine nel muschio della notte è concime
di speranze che già soccombono vinte.
Il rumore della pioggia
è lontano e non ha nulla del ritmo pulsante
dei treni e delle mille botteghe
di fabbro che picchiano cupe.

Ma adesso potremmo fermarci un istante,
potremmo adesso metterci una mano sul cuore,
e senza più rinviare
porre tutte le nostre domande con ferma insistenza
e lasciare agli eredi una sillaba
anche impietosa come risposta.

E si potrebbe allora anche morire.

Tanto a noi poco importa credere in qualcosa
purché la vita si trascini come adesso:
una serpe nutrita ogni giorno con molta cura
da mani piene di crimini.

Per quel che mi riguarda,
da quando io ho disceso la mia scala
ho camminato tra genti barbare che si coprono la testa al sole,
che non si segnano al suono di campane; ho bestemmiato
e calpestato le fosse dei miei morti che ancora parlano
e sentono la mia voce.

È stato allora che ho scritto col dito nella polvere:
lasciate pure che di me facciano strade,
e fontane in mezzo alle piazze,
e giardini sotto il sole,
e balconi
umidi di umidi tramonti.



Scritta in luoghi ed in epoche diverse.
Riassemblata, rigenerata e completata
in Maximiliansau
nei mesi di marzo e aprile 2016

*** 














17 commenti:

  1. questa è la tua vita, con tutte le tue emozioni, i ricordi di un infanzia in un mondo duro,
    di passi fatti e di brutture sopportate...la vita intensa di un uomo, che emoziona.
    Tu si nu babbà Vinenzo, e due lacrimucce per quel padre muto, per un fratello complice ed una madre che ti carezzava i capelli... Si potrebbe anche morire, dici, ma tu sei testimone, per noi che non sappiamo come è stato rialzarsi e rimboccarsi le maniche, e devi ancora insegnare ai tuoi nipoti il bello dei tramonti, sotto a qualunque cielo.
    Tu sei troppo in gamba.

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    1. "Tu si nu babbà". Marò, tu non lo sai ma mi hai riportato indietro di 58 anni. Me lo diceva Adriana, pensa nu poche.
      Le quattro pagine in cui è diviso il componimento sono i quattro punti cardinali della mia vita: mio fratello, mia madre, mio padre e me stesso, il filtro di tutte le vicissitudini. Manca AnnaMaria, ma lei arriva quando qualcosa nella mia vita si è già stabilizzato e per lei ho scritto ben altro.
      Mi piace quel tuo decretarmi testimone per gli altri, per voi che non lo sapete, di cosa significhi rialzarsi dopo essere precipitato in un burrone buio.
      Grazie del credito.

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  2. Descrivi le stagioni della vita usando un bulino che scorteccia l'anima. Ognuno ci si può ritrovare , in un tormento un emozione un ricordo simili, ognuno può far sue queste parole.
    Cristiana

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    1. Accidenti Cris: ho usato "un bulino che scorteccia l'anima". Sono orgoglioso che leggendo una mia poesia ti sia scaturita fuori un'espressione così bella. Avrei voluta scriverla io, cavolozzo fritto, ma sono felice che siano venuti su pensieri così elevati proprio a te.
      Vero anche naturalmente quel che affermi poi. A cosa servono i poeti? A rimuovere coltri di vecchie vernici e di polveri antiche depositate su ricordi dolci e amari e farne uscir fuori quello che Ungaretti chiamava "sentimento del tempo".

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  3. Tra le righe si mischiano ricordi ed emozioni, tra le righe la vita si svela poco a poco, tra le righe c'è il bambino, il ragazzo e l'uomo, tra le righe c'è una vita intera, la vita di un uomo che conosce il vero significato della vita!
    È davvero un onore essere tuo amico.
    Un abbraccio :)

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    1. È una fortuna avere un amico come te. Sento che questi miei versi suscitano le sensazioni giuste, quelle che io ho avuto dalla vita. Non mi sono fatto mancare quasi niente. Ho rispettato ed ho ricevuto rispetto, ho amato e ricevuto amore, ho considerato sacra l'amicizia ed ho avuto la sorte di incontrare gente che la riteneva sacra quanto me. Ho vissuto e sto vivendo con entusiasmo ogni giorno ed ogni notte. Di più non riesco a fare.
      Un grande abbraccio Xavier.

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  4. Vincenzì, tu sai che sono laconica e, quindi, mi risulta difficile esprimere in poche parole le mie sensazioni dopo la lettura di questi versi vissuti e straordinari. Solo questo: essi hanno la capacità di trascinarti fuori dal tempo e dallo spazio, in un mondo che appartiene a tutti e in cui tutti, per un verso o per l'altro, possono riconoscersi. Hai mai pensato di pubblicarli? Statte 'bbuono, fenomeno!

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    1. La laconicità è un grande pregio, Silvana, credi a me.
      Hai detto cose bellissime, laconicamente.
      Ho pubblicato una raccolta alcuni anni fa, presso la GDS, titolo "Te ne andrai domani", ma questa non c'era e poi tutte le altre che ho scritto in questi anni.
      No, sono diventato nu pocorillo pigro, mannaggia ammè.
      Comunque, grazie assai.

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  5. La parabola della tua vita. I quarti importanti, anche se manca qualcuno, e si sente.E mentre ti scarnifichi cercando una riposta al tuo dolore per la mancanza, che non arriverà, io sento che non c'è stato nulla di vano nel tuo cammino.
    Ogni passo, ogni colpo di vento, ogni caduta, ogni sorriso ricevuto o perso, ogni carezza sentita o mancata, ti hanno reso esattamente quello che sei.
    Difettoso, dubbioso, iroso, umano.
    Che le tue parole siano un sussurro o un urlo, arrivano al centro. E lì restano.
    Ciao.

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    1. "Difettoso (sic), dubbioso, iroso, umano". Ecco come mi vede chi mi conosce bene, ma proprio bene: come sono. Hai percepito il messaggio. Ognuno di voi che avete commentato lo ha percepito, a suo modo. Questo è appagante per me. Riuscire a scavare dentro gente che non si conosce visivamente ma solo per contatto cosiddetto "virtuale", che però conta quanto una carezza o uno spintone reale, e riuscire a tirarne fuori sentimenti che si manifestano in espressioni eloquenti, questo è appagante, perché dimostra che la poesia non muore mai e che da sola smuove montagne di indifferenza.
      Non manca nessuno, Mariella. Quando ho scritto questi versi la mia famiglia privatissima si stava formando di ora in ora. Non ho voluto mescolare le vope con le sarde, come si dice dalle mie parti, lasciando che il fiume scorresse come fino allora aveva fatto. Ci sarà un seguito, ci sto lavorando già. Il telone non è ancora disceso a coprire le mie scene.

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  6. Risposte
    1. Sono onorato, e complimenti per la tua laconicità: con tre parole esprimi tutto il tuo apprezzamento.

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    2. perché quando le cose sono nette e precise non servono tante parole. io scelgo la qualità mai la quantità:)

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    3. E questa è una delle "qualità" che più apprezzo in te, Annika:))

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  7. Ho provato una grande tenerezza leggendo questo tuo poema ,ricordi della tua vita ,parole che mi emozionano,quando parli di tuo padre,lui che ti scompiglia i capelli.
    Poi il ricordo di tua madre...visioni che non spariranno mai dalla mente, tu gli hai descritti così bene che semprano successi ieri..vivi come allora .
    Molto bella Enzo,ogni tua pagina regala al lettore sensazioni diverse , pensieri d'amore , un pò tristi, ma anche di grande forza nel proseguire il cammino nei momenti difficili che la vita ci porta,
    Grazie per questo tuo "Canto",entra nel quore e fa riflettere.

    Mein lieber Freund ,dein Poem hat mich tief berührt, danke ,diese sind feinfühligen Momente.
    Ich wünsche Dir einen wunderschönen Abend.
    Umarmung für dich ...

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    1. Hiermit möchte ich mich entschuldigen dass ich so spät antworte, ma avevo scritto un successivo post e non ho più guardato ai commenti su questo. Hai ragione, è come lo hai letto tu, sono emozioni che mi trascino dietro da anni. Avrei dovuto scrivere che sono le emozioni che trascinano me, sarei stato più realista. Il fatto è che le emozioni nascono dentro di noi dall'humus profondo che coltiviamo appassionatamente ogni giorno; esse sono quelle che ci fanno sentire vivi, che si manifestano sotto varie forme, dalla nostalgia al rimpianto e possono portare chi è artista al compimento di opere che, se non straripano negli incoltivati terreni dello sdolcinamento fine a se stesso potrebbero allora anche diventare cose buone da leggere e da vedere.
      Grazie per le tue parole, Bianca.
      Bis bald. Tschüss.

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  8. Grazie a te Enzo per le tue parole ...sono sempre piccoli poemi ...Dolcissima serata per te ...un abbraccio ...

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