martedì 1 marzo 2011

CHE COSA PENSANO LE GIOVANI TIGRI ECCETERA

Terza parte

A Marco costò non poca fatica tenere a freno l'entusiasmo di Dagmar dopo il loro primo incontro. Lei era esigente, cocciuta e capricciosa come una ragazzetta al primo amore. Marco non poteva permettersi di allontanarsi per più di un'ora; doveva sempre transitare nei paraggi della sua gabbia perché lei lo vedesse e potesse trasmettergli i suoi messaggi. Guai se tardava: lei riempiva di minacciosi ruggiti lo Zoo intero e faceva scappare i visitatori. Ormai tutto il personale aveva capito il feeling che esisteva tra il giovanotto e la giovane femmina di tigre, e Marco non provò più nemmeno a negarlo, lasciando che i suoi colleghi si divertissero un po' alle sue spalle, purché a nessuno venisse in mente di controllare dove passava le sue serate una volta terminato il servizio. Lui non dava nell'occhio: usciva insieme agli altri buono buono, andava a casa, si preparava qualcosa da mangiare e dopo le ventuno, ora dell'ultimo controllo alle stalle da parte dei guardiani notturni, entrava da un ingresso secondario dello Zoo usando il suo pass-par-tout, andava alle stalle e si infilava in quella di Dagmar. Ormai si fidava, lasciava che lei gli leccasse le braccia, le mani, il collo; giocavano insieme e chiacchieravano come fanno due innamorati qualsiasi.
Marco non pensava che ad innamorarsi di una tigre si dovessero affrontare certi problemi. Quali problemi? Oramai se ne era innamorato e basta, e proprio il fatto che si trattava di una tigre gli dava una sensazione di potenza e di beatitudine, ancor più di quanto gli sarebbe capitato se avesse conquistato e fatto innamorare di sé la più bella donna del mondo. Ma come sarebbe andata avanti? Sarebbe andata avanti in qualche modo, in qualsiasi modo, chi se ne importava; adesso andava bene così, adesso Marco era felice e innamorato, al diavolo tutto il resto.
Quando se ne andava, quasi sempre dopo la mezzanotte, aveva l'impressione che alcuni animali, come la pantera per esempio, provassero invidia per la loro relazione.
Non è che andassero sempre proprio d'amore e d'accordo, qualche volta litigavano come due fidanzatini capricciosi e Marco se ne andava sbattendo il cancello, mentre Dagmar guardava ostentatamente dalla parte opposta mostrandogli il sedere. Ma durava poco: l'indomani mattina lei gli chiedeva di fare di nuovo la pace.
Una volta però avevano litigato di brutto per via di un povero uccellino che lei aveva fatto fuori. Marco stava riassettando la siepe intorno alla fossa di sicurezza che circondava la gabbia di Dagmar. Aveva visto con la coda dell'occhio l'uccellino in bilico sul muso della tigre protendere il collo nelle sue fauci per strappare gli avanzi di cibo rimasto tra i suoi denti, instaurando un tipico rapporto simbiotico. Marco si era distratto per raccogliere qualcosa da terra e un attimo dopo l'aveva vista masticare: l'uccellino era sparito ma per terra giaceva una penna della coda e qualche gocciolina di sangue. Marco aveva immediatamente chiamato Dagmar col pensiero una, due volte, ma lei aveva fatto finta di niente andandosi a sdraiare sonnacchiosa nella parte più lontana della gabbia. Quella sera non c'erano state né carezze, né leccate perché lui l'aveva attaccata subito con cattiveria.
-Sei proprio un animale senza anima! Hai divorato quell'uccellino che ti stava pulendo i denti.
"Ma non è stata colpa mia, te lo giuro. Io ho solo sbadigliato e quel cretino si è infilato tra le mie mascelle. Quando ho richiuso la bocca lui stava ancora lì. Scalogna per lui. Mi è dispiaciuto così tanto"
-Ti è dispiaciuto così tanto che te lo sei subito pappato. Volevi fare il delitto perfetto?
"Che vuol dire delitto perfetto?"
-Lo ammazzi e lo fai sparire, così nessuno ha visto e nessuno sa. Ma il delitto perfetto non esiste, impara.
"Ormai era morto, tanto valeva inghiottirlo. E poi non volevo che vedessi tu e che pensassi quello che hai pensato, che sono un'assassina e un'ingrata"
-Però hai dimenticato di leccare bene le due gocce di sangue per terra e di far sparire quella penna della coda.
"Il delitto perfetto non esiste. Lo hai detto tu"
-Mi prendi anche in giro, adesso?
"Ma cosa dovevo fare secondo te, mettermi a urlare per il dolore?"
-Sei cattiva, sei una belva cattiva, dovevo saperlo. Non hai cuore, solamente stomaco.
"Tu sei cattivo a dirmi queste cose. Adesso vattene, ché voglio dormire"
Non s'erano detti più nulla per tre giorni. Marco aveva evitato di passare nei paraggi della gabbia della tigre, e lei faceva sempre finta di dormire. Ma alla terza sera, mentre Marco tornava negli spogliatoi ed era a più di cinquanta metri dalla sua gabbia gli era arrivata la voce di Dagmar debole come un sospiro:
"Vieni da me stanotte, non riesco a stare senza vederti"
E lui era andato, malgrado si fosse ripromesso di non farlo.
"Non dobbiamo litigare più", gli disse Dagmar. "Tu sei il mio amore, non farò più niente che ti dia fastidio"
E così era stato da quella volta.

Da qualche giorno uno strano individuo con un blocco da disegno nelle mani se ne andava passeggiando ogni pomeriggio tra le gabbie disegnando animali: uccelli, lupi, orsi, leopardi. Disegnava tutti gli animali, ma soprattutto disegnava la tigre, sempre più spesso, ogni volta sostando più a lungo davanti alla sua gabbia, e dopo un po' Marco era certo che ormai avesse Dagmar come unico soggetto per i suoi schizzi.
Era un uomo alto e magro, con una folta barba nera; indossava un caffettano scuro su larghi pantaloni più chiari e un ampio turbante di seta azzurra sulla testa. Tutto il personale lo chiamava rispettosamente Mister Kaleb, oppure Doktor Kaleb perché era un ingegnere informatico indiano. Era stato ingaggiato dall'Amministrazione dello Zoo per installare e programmare un nuovo sistema digitale computerizzato. Una volta terminato il suo lavoro tutto sarebbe stato pianificato e attivato da un'unica centrale operativa, mentre ogni addetto ai servizi avrebbe ricevuto un cartellino plastificato e magnetizzato con inserito un chip contenente i propri dati personali e quelli relativi alla zona di pertinenza, per aprire e chiudere porte, cancelli e portoncini di gabbie e stalle, e per il passaggio attraverso ingressi secondari e uscite di emergenza. A Marco fu consegnato un cartellino giallognolo riguardante solamente il reparto dei felini, che per fortuna era proprio quello che a lui serviva.
Lo infastidiva però l'assiduità con cui l'indiano frequentava la gabbia di Dagmar. Quando c'era lui nei dintorni Marco non riusciva nemmeno a comunicare con la tigre, come se un'interferenza gli recasse disturbo e gli impedisse di sintonizzarsi sulla frequenza mentale della sua amata. Dagmar non se la prendeva più di tanto.
"Sta lì che mi gira intorno e mi ritrae" lo rassicurava alla sera; "mi sorride sempre, ma tu lascialo stare. Che male vuoi che mi faccia? Lui può solamente arrivare vicino alla gabbia e alla vetrata come tanta altra gente. Lascialo stare, tanto qui dentro vieni solo tu"
Il brutto giorno arrivò all'improvviso una mattina assai presto. Mentre Marco si preparava ad annaffiare un prato, vide sullo sfondo Dagmar che si agitava rabbiosamente nella sua gabbia. Il vento soffiava in senso contrario e lei non poteva percepirlo nell'aria, per cui Marco si spostò in avanti nel vialetto per una decina di metri in modo che lei lo vedesse, e proprio allora si accorse della presenza dell'ingegnere indiano, immobile davanti alla gabbia. Aveva anticipato la sua visita quotidiana di diverse ore, ma non stava ritraendola: era lì impalato con le braccia lungo i fianchi e sembrava non perdere d'occhio un solo movimento della tigre. Ma quello che più preoccupava Marco era l'insolito nervosismo di Dagmar.
"Che cosa c'è?" le trasmise. "Di che cosa hai paura? Che cosa fa lì quel tipo?"
Percepì come un fluido turbinoso nel cervello, poi gli arrivò la voce di lei molto agitata, rotta, come di chi è in preda al terrore.
"Vai via di qui! Non ti avvicinare! Non cercare di parlare con me!"
In quel momento l'indiano si voltò verso di lui e lo fissò a lungo, finché Marco non reagì alle ultime parole di Dagmar.
"Fai come ti ho detto. Ti prego, fai come ti ho detto"
Marco se ne andò di umore pessimo. Che poteva significare tutto questo? Quell'indiano era in grado di intercettare i loro colloqui? Era dunque possibile che qualcun altro potesse parlare con una tigre? Che stupido sono stato, pensò Marco, a credere di essere il privilegiato, l'unico al mondo capace di farlo. Ma forse non è così, cercò di convincersi; forse quell'indiano emette un fluido malvagio, come un incantatore di serpenti, per questo Dagmar ha così paura. Ma subito ricordò che lei gli aveva proibito di parlarle, e che l'indiano si era girato a guardarlo appena loro due avevano iniziato a comunicare. Marco non aveva fatto nessun richiamo a voce e l'indiano non poteva aver sentito il rumore dei suoi passi perché erano distanti l'uno dall'altro quasi quaranta metri. Era forse riuscito a intercettare il suo pensiero? Il pensiero di Dagmar o piuttosto quello di entrambi?
Per sua fortuna quel giorno gli vennero affidati incarichi per lavori tutti lontani dalla gabbia di Dagmar, così non gli toccò vederla; ma il mal di testa che gli era venuto alla mattina aumentò durante la giornata fino a diventare insopportabile sul tardi della sera, quando con estrema cautela rientrò nello Zoo dalla solita porta di servizio e scivolò silenziosamente nelle stalle.
"È un mago!"
Dagmar se ne stava acquattata nell'angolo più scuro e lontano della sua stalla e non gli fece effusioni quando Marco si accosciò accanto a lei. Fissava continuamente attraverso il cancello il corridoio male illuminato delle stalle come una bambina impaurita.
-Come ti sei accorta che è un mago? Le chiese, carezzandole la testa.
"Me lo ha detto lui stesso. Sente quello che penso, e mi impone di sentire quello che pensa lui, anche se io non voglio. Ha ascoltato tutto quel che ci siamo detti io e te, sa tutto dei nostri incontri clandestini e ha detto che potrebbe farti cacciare via"
-Lo farà? Chiese Marco ansiosamente.
Lei non gli rispose.
-Dagmar, lo farà?
"Ha detto di no"
-Cosa vuole in cambio da te?
"Ma niente...non so...non mi ha chiesto niente in cambio". D'improvviso era diventata riluttante.
-Stammi a sentire, Dagmar: quello è un uomo cattivo e tu non ne hai mai incontrati, non li conosci; io sì, purtroppo, e ti dico che quella gente vuole sempre qualcosa in cambio, non fa mai niente per niente.
"Non mi ha chiesto nulla. Stai tranquillo, amore mio, non mi ha chiesto proprio nulla"
-In che consiste questa sua magia?
"Non lo so. Lui mi ha detto che può fare miracoli, e che nessuno al mondo è bravo quanto lui. Mi ha detto che questa notte verrà e mi farà vedere di che cosa è capace"
-Questa notte? Allora mi nasconderò qui dentro e assisterò al suo spettacolo.
"Te ne dovrai andare invece. Lui sa e vede tutto; non farà niente se tu sarai nei pressi, anzi diventerà cattivissimo e farà del male a me e agli altri animali delle stalle"
-Te lo ha detto lui?
"Sì. Voleva che tu lo sapessi e che fossi io a dirtelo"
-E tu? Non vuoi che io resti?
"Questa volta no: voglio vedere che cosa farà il mago"
Marco non provò nemmeno a farle cambiare idea; si era da tempo reso conto di quanto Dagmar fosse cocciuta e ostinata e che era impossibile smuoverla quando si era fatta venire qualcosa in testa. Tornò a casa ma non chiuse occhio per tutta la notte.
Il mattino seguente, percorrendo i viali dello Zoo, Marco non vide traccia di Mister Kaleb. Nessuno dei colleghi lo aveva incontrato o visto e solo più tardi Maria gli disse che l'ingegnere indiano si era preso un giorno libero.
Era intanto esploso un violento temporale e pioveva a dirotto con tuoni e fulmini. I felini non erano stati fatti uscire nelle gabbie, ma lasciati chiusi nelle stanze delle vetrate. A quell'ora non c'erano visitatori nello Zoo e la galleria era deserta.
-Sentono il tempo cattivo anche loro, osservò Maria guardando le belve dietro i vetri.
Stavano tutte insolitamente acquattate pancia a terra lontano dai vetri, e sembravano in attesa di chissà quale evento; perfino il leone aveva drizzato la testa e se ne stava rannicchiato vicino al cancelletto, come se volesse infilare di gran carriera il corridoio che portava alla sua stalla.
Della pantera, incastrata tra muro e mangiatoia, spuntava fuori soltanto un pezzetto della coda.
-Hanno paura dei tuoni, disse Maria.
Marco aveva letto però negli occhi sbarrati di Dagmar una paura diversa, molto più intensa. Gli penetrò nei sensi un'ondata del terrore dell'animale prima che gliene arrivasse la voce:
"Non andartene via. Ti prego, ti prego resta qui vicino a me"
Se non avesse saputo che si trattava della voce di una tigre siberiana Marco avrebbe pensato che fosse quella di un bambino che stava piangendo.
-Rimango qui per lavare bene queste vetrate, disse a Maria sperando che lo lasciasse da solo.
-Se hai bisogno di me sono all'acquario, gli rispose la donna.
-Che cosa è successo stanotte? Chiese subito a Dagmar.
"Apri quella porta, entra dentro e vieni vicino a me"
-Non possiamo: è giorno adesso, potrebbe arrivare qualcuno da un momento all'altro. Dimmi cosa ha fatto il mago questa notte e perché avete tutti tanta paura.
Dagmar si avvicinò alla vetrata strisciando sul ventre.
"Ha minacciato di trasformarmi in una gallina", gli mormorò a voce bassissima.
-E tu gli credi?
"Certo che gli credo, perché lui può farlo"
-Sei matta? Tu sei una tigre siberiana di duecento chili. Hai mai visto quanto è piccola una gallina?
"E tu hai mai visto quanto è piccolo un topo? Questa notte il mago ha trasformato la pantera nera in un topo, lasciandole la coda lunga che le si impigliava da per tutto appena lei fuggiva perché non riusciva più a tenerla sotto controllo. Poi il mago l'ha afferrata per la coda, l'ha sollevata e tenendola a testa in giù ha minacciato di lasciarla cadere in mezzo ai pitoni che se la sarebbero pappata in un lampo. Vedi un po' adesso se ti riesce di farla venire fuori dal suo nascondiglio la povera pantera"
Marco guardò la tigre esterrefatto.
-Non riesco a crederci.
"Vai a guardare come sono terrorizzate le giraffe. Il mago ha trasformato il vecchio maschio in una rana: quel poveraccio gracidava impazzito dalla paura; spiccava salti altissimi ai quali non era abituato e ritornava a terra sempre a pancia all'aria. Deve sentirsi tutto a pezzi oggi"
Marco continuava a dubitare, ma la pantera non si fece vedere per tutto il giorno e non uscì dal suo nascondiglio nemmeno per mangiare.

-È questo che vuole da te in cambio del suo silenzio sulla nostra relazione, non è vero? Le chiese alla sera quando furono soli nella stalla. Vuole che tu ti presti per i suoi esperimenti.
"No. Vuole che io fugga insieme a lui" gli rispose Dagmar.
-Trasformata in gallina?
"In un uccellino, dentro una gabbietta, ha detto"
-E chi mette al tuo posto dentro la gabbia?
Dagmar non gli rispose.
-Prende un topo nel parco? Oppure afferra un passero mentre gli vola sulla testa?
"Non ci scherzare tanto sopra" lo interruppe Dagmar. "Lui mi ha detto che trasformerà te in una tigre"
Marco rimase senza fiato e deglutì un paio di volte prima di poter articolare una parola.
-Quel maledetto indiano è un mostro! Dovrò ammazzarlo, altrimenti ci distruggerà.
"Tu non farai proprio niente. Non dimenticare che lui è un mago e tu non hai alcun potere. Ci penserò io.
-Cosa vorresti fare tu, ucciderlo? Non potresti inghiottirlo come hai fatto con quell'uccellino, questo è troppo grosso e ne resterebbe comunque qualche traccia.
"Il delitto perfetto non esiste", citò Dagmar.
-Appunto. Verrebbe la polizia, poi verrebbe un veterinario e ti inietterebbe un veleno mortale. Moriresti, Dagmar.
"Ma perché?"
-Perché saresti una belva che ha ucciso un uomo. Dovresti essere eliminata: questo vuole la legge degli uomini, ma io non permetterò che tu muoia, Dagmar.
"Adesso cerca di calmarti e lascia fare a me: io ho un piano"
-Che piano?
"Meglio non rivelarti niente, ma io ho un'idea e sono convinta che funzionerà. Tu devi avere fiducia in me e andartene a casa subito, perché il mago stasera ritornerà"
-Viene per fare nuovi esperimenti? Per terrorizzarvi ancora un po'?
"Viene per avere la mia risposta"
Marco la guardò allibito.
-Succede tutto così in fretta, lui ha già deciso?
"Il suo lavoro è quasi finito, mi ha detto; fra pochi giorni se ne andrà via"
-Con un bel passerotto in una gabbietta e un povero disgraziato nella gabbia della tigre. Ha deciso così Mister Kaleb?
"Lui pensa che andrà così"
-Ma tu hai un piano.
"Io ho un piano"
-Mentre io non devo far niente, devo fidarmi di te,
"Sì, ciecamente"
-Vuoi dirmi perché?
"Perché io ti amo e non ti lascerò mai dentro una gabbia, e poi perché solamente io posso risolvere la situazione senza combinare danni irreparabili, tu invece ti metteresti in guai grossi"

Anche questa volta Marco dovette andarsene incazzatissimo e col sangue in tumulto. Passò tutta la notte seduto sul letto con la testa tra le mani, fradicio di sudore.
Il giorno dopo evitò ostinatamente di avvicinarsi alla gabbia di Dagmar. Intendeva punirla per avergli fatto passare una nottataccia, e soprattutto perché non gli aveva confidato le sue intenzioni lasciandolo all'oscuro su cose che riguardavano ormai il suo destino: se quel mago poteva fare quel che Dagmar gli aveva riferito non sarebbe certo stato allegro il suo futuro nel corpo di una tigre. La cosa più saggia sarebbe stata piantare tutto lì e fuggire lontanissimo col primo treno, ma non avrebbe mai abbandonato Dagmar nelle mani di quel lestofante in caffettano.
Se ne andava svolgendo il suo lavoro di malavoglia tormentato da pensieri angosciosi, quando gli arrivò alle orecchie fievole come un bisbiglio il richiamo di Dagmar.
"Vieni da me, Marco! Vieni subito. È importante quello che ho da dirti"
Si fermò con un rastrello in mano a una trentina di metri dalla gabbia. Non voleva dargliela del tutto vinta, non ancora.
"Cosa c'è di tanto importante?"
"Quando vieni questa sera porta con te un paio di pantaloni e una giacca"
"Per farne che?"
"Servono a me"
"A te?"
"Li indosserò quando il mago mi avrà trasformata in una donna"
"E io dovrei aiutarti a scappare con lui?"
"Non scapperò con lui, sciocco; verrò con te"
"Dagmar, che pasticcio hai combinato?"
"Ho fatto un patto con lui"
"Un'alleanza?"
"No, solamente un patto. Gli ho chiesto di trasformarmi in una donna per fare all'amore con te, prima di andare via insieme a lui"
"Kaleb ha acconsentito?"
"Ha acconsentito"
"Ma dopo di essere stata insieme a me dovrai andare via insieme a lui, vero? E io rimanere nella gabbia al tuo posto? È questo il patto?"
"Questo è quel che mi ha fatto giurare; ma scapperemo io e te e quando il mago se ne accorgerà noi due saremo lontani, al sicuro da lui"
"Tu credi che Kaleb non lo abbia capito?"
"Sono stata bravissima e convincente: non ho nemmeno per un istante pensato a cose diverse da quelle che gli dicevo. Non mi sono lasciata sfuggire nemmeno un pensierino piccolo piccolo. Mi dici come potrebbe aver capito?"
"Quello è più furbo di te e di me, non cadrà in un tranello tanto ingenuo"
"Allora scatterà la seconda parte del mio piano"
"E sarebbe?"
"Questo non te lo dico, ma sarà una sorpresa per te e per lui, vedrai, soprattutto per lui. Tu portami i vestiti stasera"
"Dagmar, io ho una gran paura"
"Andrà tutto bene, amore mio"

Marco passò l'intera giornata con la tremarella addosso. A pranzo toccò appena il cibo. Tornato a casa bevve un bicchiere d'acqua e si sdraiò vestito sul letto, guardando l'orologio ogni cinque minuti. Poco prima delle ventuno si fece la doccia perché era zuppo di sudore; indossò jeans e un maglione a girocollo, prese dall'armadio un paio di pantaloni semi nuovi, una camicia e una giacca. Mise tutto in una busta di plastica che gettò su uno dei sedili posteriori della sua auto, e partì. Trovò un parcheggio libero vicino al suo ingresso preferito; introdusse il suo cartoncino plastificato nell'apposita fessura del portoncino ed entrò. Arrivò in un baleno alle stalle, ne percorse tutto il corridoio principale e introdusse il suo cartoncino giallo nella fessura luminosa del cancello di Dagmar.
Lei era al centro della stalla, immobile.
-Buonasera.
Mister Kaleb emerse da un angolo buio.
-Come ha fatto a entrare qui dentro? Gli chiese Marco, ma istintivamente guardò il cartoncino magnetico che aveva ancora in mano e gli fu tutto chiaro prima che l'indiano rispondesse.
-Il mio non apre soltanto un reparto, bensì tutti, caro amico: apre tutte le porte e le richiude tutte.
Un chiaro avvertimento, pensò Marco ma subito si morse un labbro: non doveva pensare a niente in presenza di quell'uomo che intendeva anche il pensiero. Guardò un attimo Dagmar e gli sembrò minuta, quell'enorme animale gli sembrò fragile: teneva gli occhi fissi sul mago e Marco sentì dentro di sé vibrare i battiti veloci del cuore della tigre. Dagmar aveva paura, una paura folle, ma era pronta a sfidare il mago.
-Brava! Così si comporta una vera tigre nella giungla, disse Kaleb.
Aveva capito tutto, naturalmente.
-Più la tigre ha paura, aggiunse, e più è pronta a battersi; più è in preda al terrore e più la tigre è pericolosa, come te in questo momento, vero Dagmar?
Si avvicinò alla tigre. Marco vide un guizzo negli occhi gialli.
-Vorresti uccidermi, non è così? Sibilò Kaleb. Ma non lo farai, altrimenti non conoscerai mai l'ebbrezza di stringere tra le tue braccia il tuo amore. No, tu non lo farai. Avete tutta la notte per voi, poi tornerete qui, concluse il mago rivolgendosi a Marco. Io vi aspetterò qui dentro.
Kaleb si avvicinò a Dagmar e le sfiorò la testa con le mani protese. Dagmar si allontanò velocemente da lui rannicchiandosi in un angolo: tremava in tutto il corpo emettendo un rantolo sordo, sembrava preda di forti dolori. Durò poco, poi si distese immobile, come spossata. Nelle semioscurità dell'angolo dove si era rifugiata sembrò a Marco che qualcosa si muovesse, più piccola di una tigre. Quando quel qualcosa si eresse e venne verso il centro meglio illuminato della stalla Marco a bocca spalancata vide che era una giovane donna, nuda e bellissima, bella come mai ne aveva viste. La tigre era scomparsa e Dagmar era lì davanti a lui in carne e ossa.
-Ti piace? Gli chiese Kaleb, e rise. Da una stupenda tigre una stupenda femmina.
Marco le pose la borsa e Dagmar incominciò a vestirsi, con un certo impaccio.
-Questa magia non è eterna, dura solamente sei ore, disse Kaleb; dopo ritornerai a essere una tigre, dovunque tu ti trovassi, ed esplose in una fragorosa risata.
-Ritorneremo entro le sei ore, gli rispose Marco aprendo il cancello.
-Ci ha fregato, Dagmar, le disse quando furono in macchina.
-È convinto di averci fregato, rispose lei; ma adesso voglio pensare solamente a noi due, a lui penserò dopo.

*





4 commenti:

  1. Sempre più appassionante e originale, caro Enzo.
    Dovendo proprio trovare un difetto, forse certe parti, specie quelle dialogate, sono un po' tirate per le lunghe (ma c'entra anche la fatica di leggere a schermo: forse dovevo stampare, forse dovevi tu spezzare ulteriormente questa parte in altre due...) Dipenderà anche dai miei gusti: io amo i romanzi o i racconti molto brevi, mentre la misura di mezzo tende facilmente a stancarmi: ma questa si salva lo stesso, per il semplice motivo che è scritta assai bene!

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  2. Nik, il tuo rilievo è giustissimo. Mi sono ritrovato tra le mani questo racconto e l'ho voluto lasciare così com'era. Un po' di affetto non guasta, tu lo sai che noi ci innamoriamo di certi soggetti, di certi personaggi e ci dispiace cambiarne i connotati.
    Forse un eccesso di amore, o di sonnolenza, vallo a sapere.
    Anche a me piacciono i racconti di breve respiro, ma qualche volta proprio non ti vengono e allora rimango col naso per aria a pensare se sia il caso di continuare o di smettere.
    Come succede adesso a me con un romanzo, di cui ho interrotto la prima stesura dall'estate scorsa. Ancora non riesco a rimetterci mano, perché mi sorgono di continuo dubbi, tipo: vado avanti? Butto via tutto? Ma l'idea resta ed è maledettamente buona. Sono io scarso.

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  3. Scarso non direi proprio. Spesso gli scritti, dopo l'esplosione dell'abbrivio, devono starsene lì da soli a lievitare, a fermentare, a macerare, in attesa delle idee giuste. Vedrai che verrà il momento ideale per finire quel nuovo romanzo! Magari la prossima estate...

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  4. Grazie dell'augurio, Nik.
    Spero comunque di riuscire a metterci mano un po' prima di questa estate.
    Giusta comunque la tua osservazione riguardo quel che avviene dopo "l'esplosione dell'abbrivio" -bella questa espressione, amico mio!- Succede infatti quasi sempre così: c'è, credo, l'attimo più o meno lungo della riflessione.
    Sono le continue riflessioni, i quotidiani ripensamenti che ti fanno finire un romanzo. E pensare che c'è gente che ancora ti chiede lumi sull'ispirazione, come se costoro si immaginino che poeti e scrittori siano una genia di persone deambulanti col naso costantemente rivolto al cielo per averne "l'ispirazione", e non una cacata di uccello sulla testa.

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