giovedì 24 marzo 2011

I BAFFI DI MILOS KRASIC

L'assassino sedeva nell'erba del campo e aspettava. Teneva d'occhio due finestre del terzo piano della prima casa al di là della strada, le due finestre sotto il tetto; una era illuminata.
L'assassino aspettava e si sentiva sicuro che tra poco anche quell'ultima luce nella casa si sarebbe spenta.
"Allora verrà fuori e passerà di qui".
L'assassino pregustava il momento dell'assalto.
L'assassino. Questo sostantivo se lo era scelto come un attributo, un appellativo, un aggettivo qualificativo, anche se non aveva ancora ammazzato nessuno, perché pensare che tra poco lo avrebbe fatto lo faceva star meglio.
Perché in fondo l'uomo seduto sull'erba si sentiva un assassino; era assassino nell'anima, nel cuore e nella mente, assassino in una trasposizione onirica della realtà. Non nei muscoli, non nei nervi e nel sangue, non ancora.
Pensava però che un uomo diventa vittima e comincia a morire nella testa di colui che sarà il suo uccisore, dove costui una, dieci, mille volte lo aggredisce, lo decapita, lo distrugge in mille pezzi. Allora la vittima continua a pensare, a parlare, a ridere, a camminare ma è già morto senza saperlo.
L'uomo seduto nell'erba, che aspirava a diventare assassino, aveva una mano nella tasca del giaccone carezzando il coltello che vi teneva nascosto: lasciava scorrere un dito sulla lama affilatissima, incidendone la pelle, facendone scaturire una goccia di sangue.
Mise il dito tra le labbra e succhiò quel sangue: aveva un sapore dolciastro e acre, il sapore della morte annunciata, desiderata, inferta.
Da quanto tempo voleva inferire morte a qualcuno? Forse dalla prima sera, dalla prima ora di panico, quando Esther non era tornata a casa dalla scuola privata di danza.
Orribili ore di telefonate, di corse in macchina a casa di amiche, di battute notturne nelle strade e nei campi alla periferia del paese.
L'uomo seduto nell'erba era certo che già in quelle prime ore di angoscia avrebbe voluto uccidere, schiantare, distruggere chi aveva osato toccare la sua creatura. Esther, sua figlia, una bambina di 14 anni appena sbocciata alla vita.
Il mondo era esploso intorno alla loro famiglia, intorno alla loro casa: Procura, Polizia, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Protezione Civile tutti insieme li avevano accerchiati e braccati. Avevano violentato il loro piccolo mondo, vivisezionato ogni pagina della loro storia comune alla ricerca di qualcosa, di qualunque cosa.
Ma di che cosa?
Da cercare, da ritrovare era una bambina di 14 anni, ancora troppo ingenua.
E poi la loro casa circondata da giornalisti, da telecamere, da fotografi. Tutti ponevano domande, nessuno dava risposte.
Non avevano più letto giornali; non potevano più guardare la TV: ogni programma era invaso da notizie e talk show su Esther, da illazioni, approfondimenti chiacchiere inutili di chi aveva la pretesa di conoscere la soluzione del rebus.
Rapita da un maniaco sessuale; da una banda internazionale di sequestratori professionisti; da questo, da quello, da quell'altro. Si trova in Svizzera, in Francia, in Romania, nell'America latina.
"Non ce la faccio più" aveva gridato sua moglie, la madre infelice.
"Stacca la spina della TV, Agata"
"E se chiedessimo il silenzio stampa?"

Forse era stato un errore, ma adesso l'uomo che sedeva sull'erba era certo che in quelle tre settimane di sottovuoto spinto era maturato in lui l'istinto omicida iniziale, diventando bisogno assoluto, forza ignota che tutto travolge senza dare più requie, con insistenza crescente. Uccidi, uccidi, uccidi! Una voce imperiosa che sale dalle visceri, che rimbomba nel cervello.

Dopo 49 giorni la notizia più atroce, più temuta, più attesa oramai: Esther è morta da allora, dalle prime ore della sera della sua scomparsa ed è rimasta sempre là dove è stata trovata, nella sterpaia di un campo abbandonato da tutti, dagli uomini e da Dio.
Aveva dovuto riconoscere lui i resti della sua bambina. Agata non ce l'avrebbe mai fatta.
"Sì, è lei".
Tre parole per distruggere tre vite: quella di Esther, quella di Agata, la sua.
L'uomo seduto nell'erba riprese a carezzare l'affilatissimo coltello, lasciando scorrere i ricordi.

"Voglio vedere dove l'avete trovata", aveva chiesto in Procura.
Ce l'avevano accompagnato i Carabinieri.
Con il cuore stretto in un pugno aveva guardato a lungo l'impronta sul terreno lasciata dal corpicino di Esther. Si era accosciato e aveva appoggiato il palmo di una mano sul suolo.
Qualcosa sotto le dita.
Aveva stretto quel qualcosa nella mano perché i due militi non lo vedessero; lo aveva tenuto stretto fino a quando lo avevano riportato a casa. Non aveva fatto vedere il reperto nemmeno a sua moglie. Si era chiuso in bagno.
Col cuore in tumulto aveva aperto il pugno e osservato quel che aveva portato via dal campo della morte. Un cartoncino rettangolare colorato.
Ripulito il fango raggrumato era venuta alla luce una figurina Panini: un giocatore della Juventus, Milos Krasic.
Qualcuno gli aveva scarabocchiato con la biro un paio di baffetti sghembi.
L'uomo aveva sentito il sangue nelle vene diventare freddo. Ricordava la scena, avvenuta a casa sua qualche mese prima.
"Chi è questo qui?", aveva chiesto Esther.
"Il nuovo della Juve. È un grande campione", aveva risposto il ragazzo.
Esther gli aveva strappata la figurina dalle mani e scarabocchiato due baffi.
"Così sta meglio", e rideva a piena gola.
"Tu sei matta", aveva detto il ragazzo.

"Così adesso so chi sei", disse l'uomo seduto sull'erba a voce alta.
"Verrò qui tutte le notti, finché ti deciderai ad uscire dal tuo covo"
Per andare al parcheggio dove teneva la sua macchina doveva passare di lì, dove stava seduto lui, dove lui lo avrebbe ammazzato.
L'uomo si scosse: l'alba del nuovo giorno era arrivata e intorno a lui ricominciava la vita. La luce nella stanza sotto il tetto si spense.
L'uomo si rialzò. Era il momento di andarsene. Sarebbe ritornato dopo cena, a notte fonda.
Non c'era fretta.

8 commenti:

  1. Grandi, i genitori della piccola Yara, che sono andati in tivù solo una volta, per quell'appello inutile e disperato, e poi hanno chiesto il silenzio stampa.
    Hanno dato una lezione di dignità a coloro che pensano che tutto, perfino il dolore più atroce, possa essere messo in mostra-vendita. Non provo nessun rispetto per un genitore che, avendo un figlio in pericolo, starnazza davanti ai microfoni.

    Immedesimarmi nei genitori di Yara mi è però impossibile.
    Forse il dolore è così devastante da non lasciare posto a nessun altro sentimento, compresa la vendetta.

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  2. Il dolore compostissimo dei Gambirasi mi ha ispirato questo pezzetto quasi blasfemo.
    Mi sono per un attimo messo al posto di un padre disgraziato, cui viene strappata una figlia.
    Ho -essendone al di fuori e per fortuna armato solo della mia fantasia- provato ad immaginare il desiderio di vendetta, che credo sia umano e comprensibile, ed ho immaginato la figurina scarabocchiata e il resto.
    Scusami, ma io come non concepisco i genitori che soggiornano davanti a una telecamera, a cento telecamere, altrettanto non sono in grado di capire il vecchio padre, marito e nonno di Erba, che "immediatamente dopo" perdona chi gli ha massacrato la famiglia.
    È bigottismo puro, sparato fuori in eccesso.
    Non ti ritornano indietro se uccidi per vendetta né se perdoni per...per che cosa?
    Per perbenismo? Per metterti in mostra? Per coglionaggine?
    Non mi si venga a parlare di valori cristiani: siamo uomini, peccatori e caduchi, non santi né martiri.

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  3. Racconto riuscitissimo, perfetto, al tempo stesso intelligente e agghiacciante.

    E sulla PORNOGRAFIA del perdono dispensata dai nostri giornalistucoli (perché sono sempre loro a metterlo come prima stucchevole domandina obbligatoria e cretina) la penso come te! Il Perdono vero è una cosa sofferta e seria, non una filastrocca per pappagalli mentre il corpo della vittima è ancora caldo!

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  4. PORNOGRAFIA del perdono. Bella proprio la definizione: è qualcosa sbattuta in faccia ai più eccitabili, ai meno protetti intellettualmente, ai gonzi.
    Sapevo che saresti stato d'accordo con me; ti sento molto vicino in simili situazioni.
    Il raccontino mi è scoppiato dentro anche assistendo in ogni trasmissione televisiva a questa dissacrante dietrologia dei tanti saputoni, contrapposta alla conclamata incapacità di una Procura non già di risolvere un caso, ma di evitare figure meschine, tipo quella rimediata nell'intervista del Procuratore Generale.
    Un vero capocomico vecchia maniera di una compagnia di avanspettacolo.

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  5. Mi hai letto nel pensiero, Iacoponi. Quando ho lasciato il mio primo commento il mio pensiero è andato anche al sig. Castagna, e al suo -per me- incomprensibile atto di perdono.
    Non l'ho accennato nel commento perchè non ho le idee chiare, su questa persona. Ma tu l'hai tirato in ballo e allora ti dico che io non lo metto sullo stesso piano dei genitori in stile "dolore in mostra-vendita".
    Mentre questi ultimi mi suscitano un istintivo disprezzo, davanti al sig. Castagna rimango muta, quasi attonita. Non lo capisco, ma non mi sento di tacciarlo di bigottismo o coglionaggine.
    Forse perchè ho esposto i tuoi stessi dubbi a gente che l'ha incontrato di persona, forse perchè ho incrociato per caso il suo sguardo, una volta, forse perchè ha portato i giochi del nipotino all'istituto dove lavoro ...
    Perchè dobbiamo per forza escludere che esistano delle persone speciali, in questo mondo di schifo?

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  6. Non lo so, sono molto confuso.
    Da un lato non me la sento di giudicare un mio simile partendo dal mio metro -fallibile- di giudizio. Chi sono io? Sono incolpevole forse? Sono innocente forse?
    Non me la sento nemmeno di escludere a priori la possibilità che "esistano persone speciali in questo mondo di schifo". Il mio punto di vista è sicuramente partigiano e incompleto sempre per le ragioni sopra addette.
    D'altro canto non me la sento di ammettere che la Bontà trionfi in questo mondo dove nulla, dico e ripeto, nulla sa di bontà, di altruismo, di azioni fatte senza uno scopo preciso e recondito.
    Non ci credo, non ci posso credere.
    Per me si tratta di fariseismo, di "pornografia del perdono" come dice il mio amico Nicola Pezzoli.
    Ma tu sei donna, hai 11 neuroni in più, come mi rinfaccia continuamente Anna Maria, sei più brillante, più lucida e intelligente in quanto donna -sempre citando AM- può darsi che tu abbia ragione e io torto.
    Rimango in dubbio.

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  7. A parte gli undici neuroni (chi li ha contati?) di cui non so niente, credo che a certe domande non corrispondano necessariamente risposte giuste o sbagliate, ma solo altre domande, come una catena di sant'antonio.
    Penso che il tema del perdono sia troppo vasto per relegarlo in un commento, quindi ho raccolto i miei pensieri in libertà -giusti o sbagliati che siano- in un post.

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  8. L'ho letto e l'ho trovato interessante dal tuo punto di vista, come studio dell'anima.
    Ma nel commento che ho lasciato credo di avere spiegato i motivi per cui -almeno io- non sarei mai disposto a perdonare una offesa enorme come quella subita dal Castagna di Erba.
    Impossibile sarebbe stato per me perdonare i massacratori della mia gente. È non si tratta di filosofia spicciola, ma di realtà spicciola, lo spicciolo quotidiano.

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