venerdì 29 aprile 2011

LUDOVICO FELTRINELLI

Parte quinta e ultima


L'uomo non variò la sua posizione neanche quando i suoi visitatori si fermarono a due passi di distanza. Squadrò Ludovico dall'alto in basso apparentemente assai compiaciuto di quel che vedeva.
"Ben arrivato, Chiccò", esclamò poi con un gran sorriso gioioso.
Ludovico sentì un brivido corrergli da per tutto, perché dalla morte di sua madre nessuno più lo aveva chiamato con quel vezzeggiativo, e perché un lampo gli attraversò la mente: quel bambino che ancora gli teneva la manina nella sua era Chiccò a quattro anni, era lui stesso di allora, lo aveva finalmente riconosciuto. Ma come era possibile, si chiese, che fosse vivo in carne e ossa? E il ragazzo allora? Quello era Ludovico a quindici anni, l'ultima volta di Chiccò gli veniva da dire. Neanche il ragazzo era una visione, bensì in carne e ossa pure lui: loro due non si erano toccati, però aveva visto i fiori piegarsi sotto i suoi piedi, aveva udito lo scalpiccio dei suoi passi mentre gli camminava innanzi, e appena gli era apparso, mentre gli si avvicinava correndogli incontro, aveva avvertito un leggero tremito del suolo, lo poteva giurare. Ma era tutto così confuso adesso nella sua mente.
"È normale che tu sia confuso, figlio mio", gli disse il padre; "ti stanno accadendo cose che mai avresti immaginato".
"Perché lui è rimasto così piccolo?" gli chiese. "Perché l'altro ha ancora quindici anni e non può venire in questa valle? Perché tu sei come in quella fotografia, e perché mia madre mi si è mostrata velata?"
"Se vuoi capire devi pensare diversamente da come sei abituato, e accettare quello che ti dirò senza tanto rifletterci sopra. Siediti e ascolta".
Sedette anche il piccolo Chiccò, che non gli aveva mai lasciato la mano.
"Quando io sono arrivato in questa valle", iniziò a dire il padre,"mi sono portato dietro tutto il mio mondo: te come eri allora", disse indicandogli il bambino, "tua madre e i tuoi fratelli", e indicò dietro alle sue spalle.
Ludovico si volse e li vide, seduti in semicerchio a una decina di metri da lui, due ragazzi e tre ragazze e in mezzo a loro in piedi una donna che si tirava uno scialle davanti al viso.
"Vedi come la mamma si copre il viso? Perché lo fa? Non vuole che io la veda oppure è lei che non vuole vedere me?"
"Se mi lasci parlare capirai", rispose il padre paziente.
Sedette di fronte a lui. Gli era così vicino che Ludovico avrebbe potuto toccarlo, ma non ne aveva il coraggio. Inconsciamente si ritrasse stringendo a sé il bambino.
"Ti ho detto che ho portato qui il mio mondo, figlio mio. Ho portato te come eri e loro come erano e come rimarranno, perché per me il tempo si è fermato in quel momento. Tua madre ha fatto lo stesso quando è morta: Chiccò quindicenne appartiene al suo mondo, non al mio, per questo ti ha condotto da lei, e là tu hai incontrato i tuoi fratelli e le tue sorelle senza nemmeno accorgertene. Per quanto riguarda questo mio abbigliamento ti risponderò che mi hai riconosciuto subito perché tu ricordavi solamente l'uomo della fotografia come tuo padre. Sei tu che mi vedi così, io sono diverso, ma tu non potresti vedermi come sono. Hai capito?"
"Vuoi dire che ognuno di voi è la proiezione del ricordo degli altri? Siete come delle vecchie fotografie di parenti che la gente si tiene nel portafogli o dentro una cornice dorata sopra il comò?"
"Esisteremmo anche se non avessimo nessuno a ricordarsi di noi, tu mi hai frainteso. È come quando stai davanti allo specchio: quello che ci vedi riflesso dentro sei tu, ma l'immagine non è reale, è rovesciata".
"Per questo si parla di immagine speculare".
"Giusto. Qui però tu stai dentro allo specchio e quella che vedi è l'immagine reale. Sei tu l'immagine speculare. Mi hai capito?"
"No, non ci capisco più niente; mi hai completamente fuorviato".
"Non è così importante che tu capisca adesso. La volta che arriverai qui per rimanerci capirai tutto e scoprirai il mondo, come ha fatto lui" e gli indicò il bambino.
"Dimmi almeno perché la mamma non si lascia guardare in viso da me".
"Per non spaventarti".
"Perché dovrei?"
"Perché non vedresti nulla, né i lineamenti di una donna né la fisionomia di tua madre; vedresti un volto bianco e senza forma come un pezzo di marmo non ancora scolpito".
"Ma perché?"
"Quante volte hai pensato a tua madre da quando è morta?"
Ludovico abbassò gli occhi al suolo.
"Rispondimi".
"Mai".
"Potresti immaginarti il suo viso come era in quel suo ultimo giorno?"
"Mi ricordo tutto di lei, come era e come parlava, quando io ero piccolo come lui e tu eri ancora vivo".
"Non mi hai risposto".
"No, non ricordo niente di quel giorno".
"Allora l'hai perduta per sempre: tu non potrai più vederla e lei non vorrà più vedere te".
Ancora una sconfitta con una donna, pensò Ludovico, ma questa era la più dolorosa di tutte. Sentì diventargli la bocca amarissima; non poteva più trattenere le parole che da un pezzo avrebbe voluto gridare.
"Io devo confessare un delitto, papà"
"Lo conosco: stavi per rinunciare a vivere; hai addirittura chiesto una morte indolore, come se fosse possibile morire senza sofferenza".
"Non intendevo questo. Io ho ucciso un bambino".
"E lui già ti aspetta nella valle che sarà la tua. Dovrai prenderti cura di quel bambino, perché lui oramai appartiene a te e al tuo mondo".
Ludovico scosse la testa con forza.
"Ti sto dicendo che io quel bambino l'ho travolto, l'ho ucciso e l'ho abbandonato, e tu rimani indifferente?"
"Qui da noi non si giudica il comportamento degli altri; non si è più avvezzi a discutere sulle intenzioni come eravamo abituati a fare prima di arrivare nelle nostre vallate. Tutto quel che succede da voi è un insieme di atti di vita quotidiana: noi registriamo il riflesso di ogni vostro atto con estrema tranquillità e imparzialità. Non c'è applauso né biasimo".
"E non è cinismo tutto questo?"
"Niente affatto, è pura constatazione della realtà. Pensa piuttosto a quanta ipocrisia c'è da voi, dove un peccatore viene giudicato colpevole da altri peccatori. Credimi, figlio mio, il tuo delitto è stato rifiutare la vita, non l'aver ucciso un bambino. Questo è avvenuto per un accidente, ma il rifiuto è avvenuto per una tua scelta cosciente".
Si alzò da terra e gli tese una mano.
"Viene, ti mostrerò qualcosa che ti darà pace".
Ludovico lo seguì, stringendo forte la manina di Chiccò nella sua. Gli venne da ridere: tutti e tre in fila indiana, il padre avanti che lo teneva per mano e lui che tirava Chiccò dietro di sé, gli rammentò l'arte di camminare in fila degli elefanti nel circo, che si tengono con la proboscide alla coda del compagno che li precede.
Suo padre proruppe in una risata.
"È successo la prima volta che ti ho portato al circo, avevi due anni, Chiccò. Tutti quegli elefanti uno dietro l'altro non li hai più dimenticati a quel che pare".
Rise di nuovo, e rise anche Ludovico, dapprima a mezza bocca poi sonoramente, ché era da tempo che non rideva così di cuore. Si voltò a guardare il bambino che rideva a crepapelle: certamente per lui il ricordo era ancora più vivido.
Salirono l'erta di una collina blu completamente senza fiori e ridiscesero nella valle sottostante. C'erano soltanto tre case distanziate le une dalle altre. Il padre guidò il gruppetto verso l'ultima e senza attendere fuori vi entrò.
Un giovanotto teneva abbracciato un uomo più anziano stringendone al petto con forza la schiena come per proteggerlo, per consolarlo. L'uomo anziano teneva sulle braccia abbandonato il corpo insanguinato di un bambino. Guardava quel corpicino martoriato senza emettere un lamento, senza una lacrima.
Ludovico liberò le mani da quella di suo padre e di Chiccò e si avvicinò, per osservare il bambino da sopra le spalle dell'uomo più anziano.
"È il mio bambino!" esclamò rivolto al padre rimasto fermo sull'entrata della casa. "È il bambino che ho ucciso io".
"Ti sbagli", gli rispose il padre senza esitazioni. "Il tuo bambino è già in un'altra valle qui vicina che attende il momento in cui tu lo raggiungerai".
"Ma è questo qui, ti dico! Lo riconosco. Non sono ancora riuscito a togliermi dagli occhi quel visetto minuto e pallido, quelle mani diafane spalancate come per aggrapparsi al cielo. Non posso sbagliarmi: è lui, è proprio lui, ti dico".
"No, quello sono io", insistette suo padre avvicinandosi. "Sono io mezzo morto dopo un incidente gravissimo quando non avevo ancora sette anni; e quello che mi tiene fra le braccia e mi contempla è mio padre, tuo nonno".
"Mamma mi raccontava di questo incidente nel quale quasi perdesti la vita e che ti lasciò sempre un po' zoppicante: mi diceva che cadesti dall'alto di un fontanile di marmo e che battesti violentemente la faccia sul selciato. Un amico di tuo padre ti ricondusse a casa e tuo padre non riusciva a riconoscerti tanto la tua testa era gonfia e il viso deformato".
"Il giovanotto che vedi abbracciare mio padre è quell'amico di allora. Chiedi conferma a lui, se vuoi sapere chi è quel bambino ferito".
"Lo so benissimo che quello è il mio bambino, ma voglio farti contento".
Toccò con una mano la spalla del giovanotto che si girò a guardarlo. Il volto che Ludovico vide lo atterrì, perché quello era il suo volto di quando aveva ventidue anni ed era uscito per sempre dalla vecchia casa paterna, abbandonando madre fratelli e sorelle senza più farsi vivo. Rimase un attimo a guardarlo a bocca aperta mentre l'altro lo fissava con astio.
Ludovico si volse allora verso suo padre per una spiegazione, ma suo padre ormai gli volgeva le spalle. Solo Chiccò ricambiava il suo sguardo senza fiatare, ma con una enorme tristezza dentro gli occhi.
Ebbe un fulmineo presagio e si abbassò per vedere in viso da vicino suo nonno: appena il vecchio alzò la testa Ludovico ne fissò il volto e vide il proprio come in uno specchio, o forse era vero che stava lui dentro allo specchio a riflettere quella faccia. Gettò un'ultima occhiata al bambino insanguinato e raggiunse suo padre, che ostinatamente gli volgeva le spalle.
"Dunque è così che è andata? Ho travolto te, ho ucciso te? Il cerchio della mia esistenza si chiude qui, non è così? Rispondimi, ti scongiuro! Aiutami a liberarmi di questo tourbillon di verità, di misteri e di angosce che adesso mi aggredisce. Fammi capire papà, non lasciarmi sprofondare".
Il padre si girò lentamente, gli prese le mani nelle sue e le strinse con forza.
"Ascolta, figlio mio: tu adesso chiudi gli occhi e io ti riconduco nella mia vallata, da cui ripartirai per tornartene indietro da dove sei arrivato. Non pensare più a quello che hai veduto qui da noi. Dimenticalo. Non cercare di capire, figlio mio".
"Ma io voglio capire. Io devo capire tutto. Non potrei andare avanti ormai senza aver capito".
"Se capisci tutto dovrai rimanere qui per sempre, non tornerai più indietro. Dammi retta, Chiccò: continua la tua esistenza nella totalità del suo mistero".
E poiché vide che Ludovico tentennava il padre aggiunse scandendo le parole:
"Tu adesso puoi scegliere tra la conoscenza e la vita".
Si volse e si incamminò verso la sua vallata, portandosi via per mano il piccolo Chiccò.
Ludovico rifletté appena un attimo mentre guardava il padre allontanarsi col bambino che gli trotterellava al fianco.
"Allora io resto" gli gridò.
Diede un'occhiata intorno e proprio in quel momento vide i fiori diventare bianchi e le colline diventare color rosa, come se il cielo avesse ingoiato tutto il blu e prosciugato il rosso dei fiori.

Nello stesso istante, in un lettino del reparto di rianimazione dell'ospedale dove lo avevano ricoverato, un uomo di trentadue anni, vittima di un misterioso incidente stradale, uscì per un attimo dal coma profondo in cui era sprofondato, distese i muscoli della faccia in un largo sorriso come se fosse immensamente felice, e morì.




4 commenti:

  1. Be', ero curioso di leggere l'ultima parte, ma non mi aspettavo un simile capolavoro. Davvero magistrale, sia per capacità descrittiva che per forza immaginifica. Un'infinità di emozioni e di spunti di riflessione... Chapeau!

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  2. Mi sono persa in mezzo ai morti che muoiono due volte, i fratelli e le sorelle, le madri velate, ... non ho capito niente, come Ludovico con la storia degli specchi. Che vuoi, sono babbea come il tuo protagonista.
    In verità avevo già cominciato a perdermi nella quarta puntata.
    E' troppo complesso per me, troppo simbolico, troppo di testa.
    Per me era perfetto se finiva alla prima puntata.
    ... l'unica cosa che mi ha incuriosita sono gli elefanti, che mi riportano all'incipit di martedì: a quanto pare questi animali ti piacciono assai.

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  3. *Nik, io ero ansioso di leggere come avresti trovato la conclusione di un racconto, che mi è costato fatica, perché è facile derapare in curva e trovarsi in brache di tela quando si cerca di dare emozioni, nel campo della fantasia dove tutto è lecito ma niente è scontato e permesso.
    Grazie del tuo contributo.

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  4. *Silvia, sapevo che ti saresti messa a contare morti e vivi e ti saresti incartata.
    È il tuo difetto: non lasci libera di volare la fantasia, la tieni sempre stretta per la coda e lei non decolla.
    Hai scritto che è troppo di testa, e qui sbagli, perché è di cuore non di capa.
    Sugli elefanti ci hai azzeccato, però.
    Più avanti in Martedì c'è un pezzetto dove si parla di Ima che ha conservato il disegnino del figlio, mettendoci la data da cui si evince che il bambino aveva due anni.
    Sì, adoro gli elefanti: se fosse possibile una reincarnazione vorrei che avvenisse in uno di questi bestioni, magari una femmina, così faccio la badante dei piccoli da giovane e la madre da grande.
    Grazie per il tuo intervento.

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