domenica 17 aprile 2011

LUDOVICO FELTRINELLI

Parte quarta


Non conobbe mai la durata di quel viaggio, perché quando ebbe fine aveva dimenticato da quanto tempo era incominciato e come. Ma non era curioso di saperlo, per meglio dire, non gliene importava un fico secco.
Lo incuriosiva troppo il posto dove era atterrato e gli odori che adesso gli entravano nel naso, odori liberi, immediati; ecco quello che istintivamente pensò: liberi e immediati erano gli odori in quel posto. S'era subito accorto che gli bastava sfiorare con lo sguardo un oggetto da lontano per gustarne il profumo, senza esserci costretto a metterci il naso sopra. E che oggetti! Fiori, solamente fiori niente alberi, nemmeno uno; e niente montagne, soltanto una pianura in fiore e colline per sfondo. Dove non c'erano fiori la terra era nuda, priva d'erba, ma non aveva il colore della terra che lui conosceva, era di un blu intenso e i fiori rossi come gocce di sangue, schizzi di rosso come fuochi in un mare blu scuro. Il cielo invece era completamente rosa. Non c'era sole, non c'era ombra ma tanta luce e tepore, aria tiepida, gradevole e neanche un alito di vento.
Dopo averlo avvertito dentro il naso sentì quel posto dentro le orecchie: un mormorio basso, lontano, di gente che cantava a bocca chiusa, che si raccontava storie a bassa voce come capita a teatro prima che il direttore d'orchestra raggiunga il suo podio, ché allora tutti ammutoliscono. Qui mancava il maestro, e però mancava anche il pubblico, perché non c'era anima viva a perdita d'occhio, solo fiori rossi e colline blu, ma il mormorio levitava nell'aria, galleggiava sopra i fiori; era la voce di un popolo assente lasciata lì forse per ricordare, per ammonire "bada a come ti comporti, ché presto noi ritorneremo".
E Ludovico allora partì. Si mosse verso le colline blu per vedere se il popolo mormorante fosse raccolto in un'altra vallata dietro alle colline. Badava bene a dove metteva i piedi, perché lì non c'erano strade e lui non voleva calpestare e abbattere quei fiori così belli drizzati verso il cielo.
Il ragazzo sbucò correndo agilmente dal versante opposto della collina più vicina, e sempre correndo gli arrivò a due passi e si fermò. Lo guardava con un mezzo sorriso senza dir nulla. Quel viso Ludovico lo riconobbe all'istante, ma tenne la scoperta per sé: gli sembrava un segreto che era meglio non rivelare, per cui chiese al ragazzo:
"Chi sei? Da dove vieni?"
Il ragazzo si girò di fianco e con una mano gli mostrò la direzione da cui lo aveva visto arrivare.
"Chi c'è di là, la tua famiglia?"
Continuava a sorridergli a mezza bocca senza rispondere.
"Cosa facciamo adesso?"
"Seguimi".
Ludovico lasciò risuonare più volte quella parola dentro la sua mente, finché la memoria gli confermò che non aveva del tutto dimenticato quella voce. Si incamminò quindi dietro al ragazzo senza chiedergli più nulla. Arrivato sulla cresta della collina il ragazzo si era fermato.
"Lui è laggiù", disse.
"Lui, chi è?", chiese Ludovico.
"Il padre".
Guardò nella direzione che il ragazzo gli indicava e vide nella nuova valle che gli si apriva davanti, del tutto identica a quella che si era lasciato alle spalle alcune costruzioni basse, sparpagliate senza ordine apparente, piantate come delle tende in mezzo ai fiori.
"Non c'è nessun ordine prestabilito di costruzione", disse il ragazzo che doveva avergli letto nel pensiero; "ognuno si sceglie il posto dove vuole per costruirsi la casa, accanto agli altri, oppure isolato, come gli pare".
"Dov'è la tua casa?"
"Non qui", rispose il ragazzo; "qui è la casa del padre. La mia è laggiù, oltre quel colle dove andremo adesso", e gli indicò una collina più bassa sulla loro destra.
"Credevo che mi avresti accompagnato dal padre".
"Io devo portarti laggiù", e si incamminò velocemente.
"Chi c'è laggiù?"
"Qualcuno che ti aspetta".
"Una donna, immagino"
"Giusto".
"La madre. Non è così, Chiccò?", chiese scandendo con forza quelle due sillabe.
Il ragazzo non diede segno di stupirsi che lui lo avesse chiamato per nome e tirò dritto senza esitare, ma Ludovico aveva incominciato a capirci qualcosa.

Di nuovo si fermarono sulla vetta e di nuovo si aprì ai loro piedi una radura, in fondo alla quale sorgevano tantissime costruzioni ben allineate questa volta, le une di fronte alle altre, come si usa fare in un campeggio. Saliva dalle case una folla che veniva incontro a loro. Il mormorio aumentava man mano che si avvicinavano, ma non era affatto un frastuono, piuttosto una monotona melodia per niente sgradevole.
I primi arrivati salutarono Ludovico con un inchino, altri gli diedero la mano, altri ancora una pacca sulle spalle, ma nessuno parlava: tutti sorridevano, non dicevano una parola e il mormorio sembrava sospeso sopra le loro teste come uno sciame invisibile di calabroni.
Gli ultimi del gruppo lo abbracciarono tutti, uno dopo l'altro; parecchi lo baciarono sulle guance e qualche donna gli accarezzò i capelli. Quella gente Ludovico non l'aveva mai vista prima di quel momento. L'ultima, una donna alta e bellissima, lo prese per mano e lo condusse in basso, verso le case da dove tutti erano venuti, seguendo il ragazzo che precedeva l'intero corteo.
Percorsero una sorta di strada passando tra le sequenze di case. Adesso che le vedeva da vicino si accorse che avevano pareti di carta finissima bianca e di tela leggerissima, sostenute da telai di legno, disposte in modo da formare dei cubi o dei prismi, ma non vide tetti: quelle case avevano soltanto pareti trasparenti ma erano prive di copertura, e la gente le abitava standosene sotto il cielo rosa, a quel che pareva.
Arrivarono fino all'ultimo di quei cubi di carta e di tela. La sua accompagnatrice si fermò, il ragazzo si fece di lato e sedette per terra. Da dietro la casa uscì fuori una donna: indossava una lunga tunica candida e uno scialle le copriva la testa e la faccia, bianco anch'esso. Tutti indietreggiarono di un passo lasciando Ludovico solo. La donna velata gli si avvicinò, gli girò intorno e subito si ritrasse. Tornò verso la casa, si rigirò per guardarlo, emise un breve singhiozzo e scomparve dietro la casa.
Il ragazzo si era rialzato e gli volgeva le spalle.
"Sai dirmi cosa vuol significare tutto questo, Chiccò?"
"Non vorrà più vederti", gli rispose e subito iniziò a correre scomparendo ben presto dalla sua vista.
Ludovico si voltò allora verso il gruppo di gente che lo aveva accompagnato fin lì per chiedere una spiegazione, ma erano andati via tutti.
Attraversò di corsa il villaggio guardando dentro le case, una per una: erano proprio tutti scomparsi. Rimaneva nell'aria il sommesso mormorio, che ora gli sembrava un rimprovero collettivo, un mesto "ooohhh!" di delusione. Arrivato alle ultime case si voltò a guardare e gli parve di vedere un accampamento abbandonato da un esercito in fuga, disperso. Volgendo gli occhi intorno a sé vide le colline tutte uguali come ondate successive di un'alta marea; non gli sarebbe stato facile ritrovare la valle dov'era la casa del padre ora che il ragazzo era andato via.
Qualcuno gli stava toccando la mano destra: un tocco delicato di una piccola mano sinistra che si introduceva dentro la sua e si lasciava stringere. Ludovico sorrise al bambino che aveva incontrato nel vortice e fu felice che fosse ritornato.
"Io conosco la strada", disse il bambino.
Ludovico osservò a lungo quel piccolo viso smunto, la tristezza di quegli occhi.
"Dove ti ho già visto prima di incontrarti nel vortice? Puoi dirmelo?"
"Andiamo via di qui".
"Dimmi almeno come ti chiami".
"Non ha importanza adesso; andiamocene via, qui tu sei indesiderato".
Ludovico si rese allora conto che il mormorio era aumentato di uno o due decibel e il tono era diventato aspro, come un rimbrotto, quasi minaccioso. Non indugiò oltre e si lasciò guidare lontano da quel posto.
"Non devi chiedermi come mi chiamo", gli disse il bambino dopo un po'; "devi avere pazienza".
"Dove mi conduci?"
"Dal padre".
"Abiti insieme a lui?"
"Non nella sua stessa casa, ma sto nel suo villaggio".
"Perché tu e tuo fratello non abitate insieme?", azzardò.
"Chiccò non è mio fratello".
La risposta del bambino mandò Ludovico in confusione. Pensò che non aveva capito niente, e che era meglio non fare domande a trabocchetto a un bambino, se poi nella trappola cadeva lui.
Quando giunsero sulla cresta della collina più alta il bambino si fermò. Ludovico lo guardò per capire, ma il piccolo era intento a girare lo sguardo tutto intorno, non come uno che cerca qualcosa, piuttosto come chi entrando in un ambiente a lui familiare controlla che ogni cosa sia al suo posto.
"Quando sono arrivato qui ho scoperto il mondo", disse il bambino.
"Pensi che possa farcela anch'io?"
Il bambino alzò il visetto verso di lui con sguardo intenso, come se riflettesse.
"Non lo so", disse alla fine. "È difficile, ma se qualcuno ti aiuta potrai riuscirci".
"Vuoi aiutarmi tu?"
"Io non posso; devi chiedere al padre".
Si rimise in cammino tirandoselo dietro per la mano e dirigendosi in modo deciso verso un lato della valle, dove un gruppo di costruzioni prismatiche messe a semicerchio formava nel mezzo una specie di piazzale.
Da una di quelle case veniva loro incontro un giovanotto alto e snello, che si fermò al centro del piazzale. Ludovico fece caso che era vestito in modo bizzarro e un po' démodé. Man mano che gli si appressavano distingueva i dettagli del suo abbigliamento: il berretto da marinaio blu con visiera rigida che copriva a malapena i folti capelli ricciuti e scurissimi; il maglione bianco con collo alla ciclista a mezze maniche; il paio di calzettoni di lana anche quelli bianchi che gli arrivavano alle ginocchia, scomparendo sotto gli ampi pantaloni alla zuava di velluto a coste blu notte. Si appoggiava con aria annoiata a un bastone da passeggio, e incrociando le gambe aveva fatto passare la sinistra davanti alla destra, piegando il ginocchio e lasciando poggiare a terra appena la punta del piede, in modo identico a una vecchia posa per un ritratto fotografico.
Ludovico non avrebbe mai potuto dimenticare quella fotografia, vista per anni e anni, incorniciata in oro nel suo formato 24 x 18, poggiata al centro sul piano di marmo del comò della madre nella sua stanza da letto vedovile. Alla morte di sua madre, Maria Teresa e le altre sorelle più giovani si erano divise tutte le vecchie fotografie e venduto i mobili di quella stanza. Ludovico aveva fatto appena in tempo a prendere quella foto, liberata dal vetro e dalla cornice. L'aveva girata, riconosciuto la calligrafia minuta e angolosa di suo padre e letto la dedica: "Alla mia piccola Lidia, mia unica grande gioia, con infinito amore". Firmato e datato.
Suo padre aveva venticinque anni, sua madre venti; i due erano nella fase del preludio al loro amore, non ancora fidanzati.









6 commenti:

  1. Sempre al 'servizio' di una sana lettura del maestro Enzo. :)

    Grande. :D

    Ciau.

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  2. Quel brusìo di sottofondo somiglia, nelle nostre teste di lettori, a quell'interminabile ooooooooooo che si sente venir su negli stadi a volte prima che venga battuta una punizione da cui molto ci si aspetta (e chiedo scusa per aver evocato lo stadio, visto che qui siamo in maggioranza nerazzurri... :D)
    Adesso aspettiamo i fuochi d'artificio finali...

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  3. Grazie Lenny, consoliamoci con le sane letture. Ne sentiamo il bisogno noi, orfanelli nerazzurri.
    Ciau. :)

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  4. Nik, lo sai che stavo pensando proprio ad un brusio da stadio mentre lo trascrivevo?
    A quell'ooooooo che si fa stando tutti in piedi con le braccia protese in avanti e muovendo le mani come foglie al vento, aspettando -l'esecuzione di una punizione di Shejider, pensi tu- oppure lo speaker che annuncia il nome del capitano.
    Non è un caso che due incalliti interisti leggendo o trascrivendo un testo, fa lo stesso, abbiano pensato al dio Pallone?
    Ciao, grande Zio!

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  5. Buona Pasqua caro Enzo. :)))

    Ciau ciau: :D

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