Esther prese ancora un po' di tempo: si versò da una brocca un bicchiere di acqua fredda e ne bevve due sorsi; sprimacciò i suoi cuscini, vi si adagiò meglio e poi, visto che Verena se ne stava immobile e muta come mummificata nella sua poltrona, riprese a raccontare.
-Durante il mio soggiorno a Harrisburg, mentre lavoravo ancora al primo romanzo, mia madre mi confidò che Allen aveva saputo attraverso canali segretissimi dove mio padre se ne stava nascosto. Era riuscito a mascherare ben bene il suo passato, mi disse; insegnava matematica nella scuola inferiore di un paesetto non molto lontano da Leipzig. Voleva essere lasciato in pace e io fui felice di lasciarcelo. Io feci ritorno a Roma nell'autunno del '59 dopo la pubblicazione dell'ultimo romanzo della trilogia di Auschwitz, e incominciai subito le mie ricerche teologiche. Ero piena di lavoro fino ai capelli e a mio padre non pensai più. Fino all'estate dell'anno successivo quando mi vidi piombare in casa mia madre senza alcun preavviso. Mi annunciò la morte di mio padre. Pensai subito a un misterioso delitto, non so neanche io perché, ma il fatto era invece assai banale. "Gli è venuto un colpo secco mentre vangava l'orto di una vicina, mi disse mia madre scuotendo la testa; quando si è nati per studiare si studia e non si vanga, e non si corre dietro alle vicine", aveva concluso arricciando il naso. Ma si era tolta un gran peso dallo stomaco: insieme a mio padre avevano seppellito tutti i problemi e le ansie di mia madre. Mi ricordai dei segretissimi canali di informazione di Allen e pensai che in quel modo avessero appreso la notizia. "Mi sarebbe bastato telefonarti in questo caso, mi rispose mia madre; non avrei avuto bisogno di venire fin qui".
Aveva ricevuto una lettera da Riesa in Sassonia. A scriverla era stata una certa Katharina Kessler, che dava la notizia dell'avvenuto decesso e indicava il cimitero dove lo avevano seppellito. Diceva di essere in possesso di un pacchetto lasciatole da Isaia Samenberg, destinato alla figlia Esther. Per tutto quel tempo mio padre mi aveva inutilmente cercata: aveva saputo tutto di Edith, del suo nuovo marito, del suo nuovo indirizzo, ma assolutamente nulla di me. "Pensi veramente che io debba andarmi a cacciare in una avventura nella DDR per avere 'sto pacchetto?", chiesi a mia madre, mentre già mi veniva il mal di pancia a quell'idea. "Non dovrai muoverti da Roma, invece: fra poche settimane iniziano i Giochi Olimpici e le due Germanie vi partecipano con un'unica formazione sotto la bandiera del CIO. Katharina Kessler è una delle allenatrici della squadra femminile di nuoto. Con le conoscenze che hai non ti sarà difficile procurarti un pass da giornalista e andare a fare interviste qua e là. Lascia poi che ci pensi lei a come consegnarti il pacchetto". Alcuni amici mi fecero avere una tessera da fotografa de "Il Messaggero", accreditata per i Giochi. Avevo pensato che come fotografa avrei dato meno nell'occhio, sarei potuta entrare da per tutto e avrei avuto a tracolla un borsone con le macchine e i rullini, dove potevo agevolmente nascondere il pacchetto.
Incontrai Katharina quasi subito, una ragazzona scialba, morta di paura. Ci incontrammo ancora un paio di volte, ma lei non si fidava mai a portarsi dietro quel maledetto pacchetto. Non potevo continuare a far foto alle nuotatrici tedesche senza che qualcuno si accorgesse della mia assiduità, e glielo dissi. Mi diede appuntamento per la cerimonia di chiusura, quando tutti gli atleti si sarebbero mischiati tra loro all'interno dello Stadio Olimpico e ci sarebbe stata una gran confusione.
Così l'undici di settembre alle otto di sera mi infilai nella grande ammucchiata con una tuta della nazionale italiana di atletica leggera indosso. La vidi arrivare a grandi salti, guardandosi intorno con occhi atterriti: se fosse stata seguita l'avrebbero individuata in mezzo a un milione di persone per come si comportava. Mi cacciò in mano un pacchettino piatto e minuscolo, e scappò via saltelloni come era arrivata.
Tornai subito a casa e aprii il pacchetto: c'era dentro una foto che non avevo mai vista prima di un uomo giovane e spettinato, con occhialini da professore di liceo accanto a una bellissima donna molto giovane e florida, mia madre, che tenevano in braccio una bambina nata da non molto. Dietro, a penna, una data: "7 aprile 1934; cinquantasettesimo giorno di E.". La mia prima foto, non avevo ancora due mesi. Ripiegata in quattro una lettera per me senza data. Mi chiedeva perdono, pover'uomo, per non avermi mai incontrata; mi spiegava cosa fosse ciò su cui aveva studiato e sperimentato negli anni del nazismo, e mi rivelava di essere arrivato al risultato finale molto tempo prima della fine della guerra, ma di avere tenuto segreta a tutti la sua scoperta. Mi esortava a salvarla per chi in futuro avrebbe potuto utilizzarla al meglio, ma dovevo stare attenta che non cadesse in mani sbagliate. In una busta, piegato in due, un foglio pieno di una quantità di geroglifici strani, freccette, segni incomprensibili e tutta una serie di numeri. Quella era la formula dell'arma micidiale che avrebbe potuto cambiare il corso della storia dell'umanità. Ma a chi appartenevano le mani sbagliate cui alludeva mio padre?
-Ma chi era quella donna? la interruppe Verena; chi era Katharina Kessler e che relazione aveva con suo padre?
-Questo non l'ho mai scoperto. Glielo avevo chiesto appena l'avevo incontrata, ma non mi aveva risposto. Sembrava le avessero cucito la bocca e che tenesse perfino paura dei propri pensieri. Katharina emerse dal nulla, scomparì nel nulla e più nulla ho saputo di lei. Chiunque fosse godeva della assoluta fiducia di mio padre, al punto che lui lasciò nelle sue mani il suo prezioso materiale. Ci ho pensato su tanto di quel tempo, Verena: Katharina dimostrava qualche anno meno dei miei, avrebbe potuto essere un'altra figlia di mio padre, una mia sorellastra. Quando il Muro di Berlino cadde e la Repubblica Democratica Tedesca si sciolse come neve al sole feci sue ricerche; incaricai perfino una famosa agenzia investigativa privata inglese, ma l'unica Katharina Kessler che rintracciarono fu una donna nata nel '39 a Berlino, figlia di Elisabeth Kessler e di persona innominata, morta a Riesa nel '63 e sepolta in un piccolo cimitero, lo stesso dove tre anni prima avevano tumulato Isaia Samenberg.
Passati alcuni anni mi recai a visitare la tomba di mio padre. Era sotto un muro, in mezzo ad altre due: a destra la tomba di Katharina, a sinistra quella di sua madre Elisabeth. Una vera coincidenza, non trova?
Si versò ancora un bicchiere di acqua fredda e lo bevve avidamente. L'arsura indicava la presenza della febbre: Esther si stava inesorabilmente spegnendo.
-Tanta curiosità per quella donna e nessuna per la scoperta di mio padre; lei mi delude, Verena.
Non le rispose. Non mi hai fatto venire qui per dirmelo? pensò. Non vedi che me ne sto buona buona ad aspettare i tuoi comodi? Incrociò le braccia e accavallò le gambe con ostentazione. Come se avesse letto nei suoi pensieri, la signora Samenberg le fece un lieve cenno di mano.
-È vero, me lo ha già chiesto, mi scusi. Mi ha chiesto perché svelavo a lei i miei segreti e proprio adesso. Glielo dirò, Verena, stia tranquilla, ma prima debbo confessarle una bugia un po' sciocca.
Prese in mano la scatoletta per dischetti per PC aprendola.
-Le ho fatto credere che non avrei mai messo un dito sulla tastiera del suo computer, ché tanto non ci capivo nulla. Era una bugia. So usare solamente il Word, ma so usarlo bene. Mi sono aiutata con un manualetto e le ho rubato il mestiere con gli occhi mentre lei lavorava: so aprire un documento, so come conservarlo e nasconderlo nella memoria del computer, so scaricarlo in un dischetto, insomma so quanto basta e qui dentro ho il risultato.
Sparpagliò una decina di dischetti sul letto.
-Qui ci sono i file in cui ho schedato tutti gli appunti per una nuova storia, per un nuovo grande romanzo. Ci sono anni di studio e di lavoro; ci sono tutti i miei convincimenti, le mie deduzioni e le scoperte che ho fatto appena sono andata a fondo in questa storia, e il fondo, mi creda, è un abisso che mette paura. Per questo ho imparato a usare il computer: volevo raccogliere tutto in questi quadratini neri e non lasciare foglie foglietti a svolazzare in giro. La storia ormai è completa, ha un inizio e anche un finale, presumo; forse lavorando sodo anche di notte potrei farcela a scriverla tutta prima di piombare nello stato cachettico che preluderà alla mia morte. Ma temo di non avere più le forze già adesso per tentare questa impresa, e poi quale editore pubblicherebbe il libro di una vecchia oramai in fin di vita che fa il verso allo stile di una scrittrice morta da dieci anni? Nessuno, glielo dico io. Per questo consegno a lei tutti i dischetti: la pubblicherà lei la mia storia, col suo nome, a modo suo e con il suo stile.
-Dovrò convincerlo anch'io un editore, e non so come fare: io ho pubblicato finora solo storie ambientate nel medio evo.
-Questa comincia molto prima del medio evo, lo attraversa tutto e finisce, chi lo sa, forse nel futuro.
-Non credo sia pane per i miei denti, signora Samenberg.
-Si procuri una dentiera, allora. Ma di che cosa ha paura? Qui è bell'e pronta una storia completa, non deve arrovellarsi il cervello, ma solo comporre insieme le varie parti staccate e darle continuità. Un lavoretto leggero per una con la sua esperienza. Per evitare discussioni con il suo editore le consiglio un facile escamotage, un vecchio trucco letterario che funziona sempre: dichiari prima dell'inizio del romanzo, in un capitoletto di apertura, di avere ricevuto un manoscritto, come il libro dovuto alla penna dell'abate Vallet, che fu messo nelle mani dell'autore de "Il nome della rosa" a Praga, nell'agosto del 1968, pochi giorni prima dell'invasione delle truppe sovietiche. Quel piemontese grassottello ci ha imbastito un bestseller mica poi tanto male. Lei dia credito al suo manoscritto mettendoci date, nomi e luoghi precisi, nomi di morti, si capisce, di gente che non possa contraddire. Gliene suggerisco uno io, Theodolinde Pöchner, la segretaria privata di mia madre, così potrà inserire tra virgolette direttamente qualcosa di quel che ho scritto nei dischetti, contrabbandandola come citazione originale dell'illustre scrittrice Edith L.S.Upward.
La lascio libera di fare quel che vuole, Verena; le proibisco soltanto di fare cenno dell'ultimo falso Picasso, le proibisco di rivelare dove si trovi e che segreto sia legato ad esso. Questo me lo deve giurare adesso, prima che io le consegni i dischetti.
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